La politica è scienza teoretica? In che senso e in che modo deve essere intesa la scienza politica? La scienza politica è una scienza come tutte le altre, oppure essa possiede qualcosa di specifico che la rende diversa e “altra” dalle comuni discipline scientifiche? Se per scienza o conoscenza si intende entrare in possesso di alcuni aspetti e alcuni princìpi dell’oggetto osservato all’interno di un determinato campo di indagine, allora anche la scienza politica può essere considerata una scienza al pari di ogni altra, ossia una scienza a tutti gli effetti, un’attività volta a scoprire e a classificare i lati e le caratteristiche del proprio oggetto di studio, ossia, in questo caso, l’arte di governare nel miglior modo possibile. Ma se si indaga più a fondo la natura e la peculiarità della scienza politica si scoprono immediatamente una serie di fattori che fanno di questa scienza una modalità d’indagine assai diversa dalle altre. Innanzitutto, una disciplina scientifica nel senso delle scienze naturali è volta ad indagare e a classificare i suoi oggetti di studio, senza modificarli o alterarli. Per esempio, la botanica conosce le diverse forme di piante e le classifica secondo criteri universali (per l’uomo) e generalizzabili. L’astronomo fa lo stesso con gli oggetti del cielo. Il fisico misura e calcola il moto dei corpi nello spazio scoprendo alcune connessioni e leggi. Ma esistono alcune forme di conoscenza che invece non si limitano a indagare ciò che osservano, e devono compiere un ulteriore passo: l’applicazione pratica e concreta di ciò che hanno scoperto, ossia la modificazione, per l’appunto, di alcuni aspetti e proprietà dell’oggetto di studio osservato, o di una parte di esso, in funzione di un fine empirico o etico. Nell’insieme di queste scienze devono essere incluse tutte quelle discipline che sono più sintetiche e meno analitiche e che, pertanto – come aveva ben compreso Auguste Comte all’inizio dell’Ottocento – devono fare i conti con la relazione parte-tutto. Ciò significa che una parte non può essere correttamente studiata e compresa se non viene ricondotta al tutto al quale la parte appartiene. Tra le scienze che possiedono un maggior grado di sintesi troviamo dunque la chimica, che studia i composti provandone i legami sperimentalmente, la biologia, che osserva gli organi di un corpo in relazione al corpo intero, la medicina, che interviene con la chirurgia modificando una parte disfunzionale per correggerne la stessa disfunzionalità all’interno di un corpo unitario, e così via. Su questa stessa scia di ragionamento Comte, il fondatore del Positivismo, ha giustamente inserito come ultima la sociologia, la scienza più nuova e più complessa di tutte, proprio perché tutto include e proprio perché ha a che fare con lo studio della società, e quindi della politica e del buon governo. Sebbene il Positivismo delle origini – quello di Comte – sia stato superato, questa sua intuizione rimane valida. La scienza politica 1 è innanzitutto una disciplina scientifica di carattere complesso e sintetico e che non può assolutamente conservare la sua forza di legittimazione in mancanza di una visione d’insieme del corpo sociale. Ma la scienza politica possiede anche altri connotati che contribuiscono a renderla epistemologicamente più complessa rispetto alle comuni discipline scientifiche e alle altre forme di conoscenza. Essa non si limita a studiare una parte della realtà empirica, ma studia anche una parte della cultura, ossia i valori (sia generati dall’uomo stesso sia di natura trascendente), la comprensione dei quali è necessaria per meglio capire la sfera entro cui l’uomo, l’umanità e la storia intera si muovono. L’uomo quindi è entrambe le cose: natura e cultura; e tralasciarne una per studiare l’altra costituisce già un errore e una mancanza assai grave. Studiare per esempio la natura umana – come hanno fatto i vitalisti e i filosofi della volontà – trascurando la capacità-volontà dell’uomo di rapportarsi anche ai valori trascendenti, e quindi di superare, almeno entro certi limiti, gli errori e i limiti della natura stessa, è sempre un errore. È un errore in quanto l’indagine dimostra di fare i conti con un solo lato dell’umanità, ignorandone l’altro. E i risultati, nel campo dell’applicazione politica, in questo caso, saranno necessariamente deludenti. Ma anche considerare i princìpi astratti, la trascendenza, il mondo delle idee platoniche, e disconoscere la realtà effettiva entro cui l’uomo oggi si trova rappresenta un altro errore, della stessa gravità anche se di segno opposto. Anche in questo caso la politica pratica e attiva riserverà senza dubbio errori e delusioni. Platone, come è noto, aveva descritto teoreticamente la sua idea di stato etico ideale a partire dal grado di conoscenza dei princìpi trascendenti, ai quali le diverse classi della società dovevano rifarsi. In una sorta di perfetta simmetria tra anima dell’individuo e anima del corpo sociale Platone risolve perfettamente il problema della politica, del bene e della giustizia sociale. Su di un unico piano ontologico egli riunisce conoscenza, giustizia, etica, bene, realizzazione politica del buon governo. Perché allora le cose cambiano dopo di lui? Per Aristotele, infatti, come è noto, avviene una rottura ontologica di livello tra l’aspetto teoretico della riflessione politica e quello pratico-applicativo. La scissione tra scienze teoretiche e scienze pratiche, nel sistema aristotelico, è assai nota. Aristotele sostiene che la riflessione teoretica nel campo della politica costituisce solo un lavoro parziale e incompleto; fatto questo è necessario applicare nella pratica la riflessione teoretica adattandola concretamente alla realtà delle circostanze e delle contingenze. Non solo: ma la soluzione del problema politico, per Aristotele, diventerebbe chiara non prima della sua applicazione pratica, per l’appunto (la quale quindi può dar luogo a soluzioni specifiche diverse, a volte sorprendenti e inaspettate, e comunque nient’affatto generalizzabili). Meno note, per l’appunto, sono le ragioni che hanno condotto a questa scissione, così come assai difficili possono risultare le ragioni che hanno condotto al nebuloso “imperativo categorico kantiano”, molti secoli più tardi, e la cui sostanzialità e significato diventerebbero chiari soltanto, ancora una volta, nell’ applicazione pratica da effettuarsi in ogni singola, specifica e diversa circostanza. In fin dei conti, a chiunque - studenti e adulti - dopo aver conosciuto il dispiegarsi di queste diverse posizioni, può anche sorgere il dubbio, più che legittimo, circa le autentiche e intrinseche ragioni che hanno condotto, nel corso dei secoli, a modificare continuamente il modo di intendere la dottrina politica. Perché Aristotele ha operato una revisione critica al sistema platonico, dando avvio a quella scissione tanto famosa tra scienze teoretiche e scienze pratiche a cui si è accennato più sopra? Perché nel periodo ellenistico si giunse perfino a rifiutare totalmente la dimensione pubblica e la politica attiva e pratica della polis a favore di uno spazio esclusivamente interiore e individuale di ogni singolo cittadino? Perché, poi, lungo i secoli del Medioevo la Scolastica indirizzò la sua attenzione non a una data politica ma - in una sorta di capovolgimento - alla redenzione e alla spiritualità cristiana? Perché infine, con l’Illuminismo, Kant abbandona la riflessione sui princìpi elevati del platonismo – ritenuti da lui troppo astratti e irreali - per porre l’accento sulla morale “pratica”, individuabile di volta in volta a seconda delle diverse situazioni a partire dall’interpretazione che viene data dell’imperativo categorico? La domanda, nient’affatto banale, è ricca di senso e gravida di conseguenze di assoluto primordine. Se si osserva attentamente la direzione assunta dalle diverse modificazioni del modo di intendere la scienza politica a partire da Platone in poi si comprende che ci si muove sempre più verso il basso, verso una continua, progressiva, inesorabile frammentazione e divisione delle diverse istanze teoretiche da un lato, e pratico-applicative dall’altro. Il punto di vista platonico è unitario e non diviso perché l’elevato grado della trascendenza dei suoi princìpi consente di intendere la sorgente della conoscenza ancora ad un livello sufficientemente elevato da collocarli oltre e di là da ogni dualismo e antagonismo. Ma se, in effetti, si scende sempre più, allontanandosi da questa posizione unitaria e non-duale, perdendo di vista questa posizione assolutamente unitaria della trascendenza, allora diventerà sempre più evidente la marcata distinzione tra gli opposti, così come tutte le conseguenze della divisione e della separazione (materialismo, aspetto pratico, contingenze, antagonismi, mutamenti). Dal mondo antico al mondo moderno si è verificato proprio questo “spostamento verso il basso”; e non ci si deve pertanto stupire se, nell’epoca attuale, l’arte del buon governo e l’arte del far politica è diventata quanto mai difficile e di assai ardua applicazione. Né ci si deve attender un 3 sostanziale cambiamento di situazione fino a che non si è disposti a recuperare quei princìpi elevati che erano appannaggio della saggezza greca e che oggi sono andati completamente perduti. Venezia, 18 ottobre 2015 Dario Roman