Rassegna Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità GianLodovico Molaro Pordenone Introduzione Le anemie emolitiche acquisite sono state le prime malattie ad essere riconosciute negli anni 1940-'50 come dipendenti talora da un disordine del sistema immune di un individuo, caratterizzato dalla formazione di anticorpi autoaggressivi verso le proprie emazie1. Da allora, numerosissimi sono stati i contributi apportati alla conoscenza delle anemie immunoemolitiche da parte degli operatori di Medicina Trasfusionale, dapprima con l'impiego delle tradizionali metodiche sierologiche in fase liquida e solida e successivamente, con l'evoluzione delle tecniche di indagine immunoematologica e la disponibilità dei reagenti monoclonali, con l'utilizzazione dei test di immunofluorescenza e di immunochimica basati sull'immunoprecipitazione e l'immunoblotting (Southern). Tutto ciò ha consentito di conoscere sempre più le caratteristiche sierologiche e fisico-chimiche degli anticorpi antiemazie (quali la proprietà di reagire in maniera completa od incompleta e di fissare o meno il complemento, la classe immunoglobulinica di appartenenza, l'optimum termico di reazione e altre) e di chiarire le modalità della distruzione intra- o extravascolare delle emazie ricoperte dagli anticorpi. Si è potuto anche delineare il quadro clinico-sierologico di queste sindromi immuno-mediate e distinguere le situazioni cliniche associate rispettivamente alla formazione di allo- e autoanticorpi. Di pari passo, sono aumentate progressivamente le conoscenze sulla composizione molecolare degli antigeni eritrocitari che costituiscono il target dell'azione specifica degli anticorpi e, grazie al più recente impiego della biologia molecolare, anche quelle sui geni che li codificano2-5. Corrispondenza: Dott.GianLodovico Molaro Via Montereale, 113 33170 Pordenone Le indagini di immunoematologia eritrocitaria sono state in seguito applicate anche alle patologie immuno-mediate riguardanti le piastrine e i granulociti, adattando le tecniche diagnostiche necessarie alla diversa fisiologia funzionale di tali cellule. Così anche per queste cellule si è giunti a delineare le caratteristiche immunologiche dei rispettivi anticorpi e conoscere le situazioni di allo- e autoimmunizzazione6-11. Le indagini immunoematologiche sulle citopenie ematologiche immuno-mediate hanno potuto trarre beneficio dai progressi delle conoscenze di sistema immunitario umano e sulle sue proprietà funzionali che sono stati realizzati nei passati decenni negli studi di immunologia di base e clinica, con l'introduzione di metodiche di ricerca sempre più sofisticate, utilizzando modelli di animali portatori di malattie autoimmuni geneticamente-mediate e di animali transgenici e knockout (carenti delle proteine indispensabili al sistema immune per la risposta agli stimoli antigenici) ed impiegando le tecniche di biologia molecolare basate sull'amplificazione genica, mediante la polymerase chain reaction (PCR)12. Sul piano clinico, la ricaduta più importante dell'evoluzione delle conoscenze di immunologia e di immunoematologia è stata quella di una migliore comprensione del fenomeno dell'autoimmunità in generale e delle malattie autoimmuni in particolare. Scopo di questa rassegna è quello di presentare le forme di citopenie ematologiche immuno-mediate sostenute dalla comparsa di autoanticorpi diretti verso le proprie cellule ematiche: emazie, piastrine e neutrofili. In questa sede, si analizzeranno alcuni aspetti che rivestono un più rilevante interesse dal punto di vista speculativo, partendo da un confronto con le altre forme morbose che oggi sono riunite nel gruppo delle malattie autoimmuni. Le tre forme di citopenia autoimmune ematologica (CAE) LA TRASFUSIONE DEL SANGUE vol. 45 - num. 6 novembre-dicembre 2000 (297-310) 297 GL Molaro saranno trattate congiuntamente dal momento che sono tra loro strettamente legate, nonostante la diversità della loro sintomatologia clinica, della terapia e delle tecniche immunoematologiche di indagine. Una trattazione comune è ampiamente giustificata da tre motivi: 1) la frequente evenienza di una contemporanea comparsa di due, ed anche di tre, citopenie ematologiche in uno stesso paziente; 2) il fatto che esse possono essere scatenate da una stessa causa farmacologica e 3) la dimostrazione che, per quanto riguarda la maggior parte delle immunocitopenie ematologiche farmaco-mediate, i meccanismi di formazione e di azione degli anticorpi responsabili sono simili, come sarà di seguito esposto. Tralasciando di considerare gli aspetti relativi alle metodiche di studio ed alle tecniche di laboratorio impiegate per la diagnosi di questa patologia, che non sono l'oggetto di questa rassegna, si metterà principalmente a fuoco il fenomeno dell'autoimmunità che ne sta alla base, affrontando ed analizzando i seguenti argomenti: · l'immunità e la tolleranza immunologica, · le CAE come esempi significativi di malattie autoimmuni, · la specificità degli autoanticorpi, · i rapporti fra le CAE e le immunocitopenie ematologiche farmaco-indotte, · il ruolo del chimerismo nella genesi dell'autoimmunità, · il mimetismo molecolare (molecular mimicry) e le malattie autoimmuni. Immunità e tolleranza immunologica Il sistema immune umano possiede normalmente una duplice capacità: la prima è riconoscere gli antigeni estranei che penetrano dall'esterno, fra i quali anche gli alloantigeni delle cellule ematiche, e rispondere allo stimolo da essi esercitato, mobilitando l'insieme di cellule che lo costituiscono attraverso la secrezione di una miriade di citochine e di mediatori dell'infiammazione (immunità cellulare) con la successiva produzione di immunoglobuline (Ig) anticorpali rilasciate in circolo (immunità umorale); l'altra capacità, altrettanto importante, è ignorare gli stimoli provenienti dagli antigeni dei tessuti propri (self), minimizzando i danni derivanti dalla risposta che ha o può avere verso sé stesso. Questa seconda capacità, che va sotto il nome di tolleranza immunologica, viene acquisita da ogni individuo attraverso un processo che inizia già nel periodo fetale e continua anche dopo la nascita. Nell'età adulta, tra l'immunità e la tolleranza si stabilisce un equilibrio che in condizioni normali consente di assicurare una robusta risposta immune agli antigeni quando sono presentati da microbi patogeni (virus, batteri 298 e parassiti), ma non agli stimoli antigenici provenienti dai tessuti propri dell'individuo o da antigeni simili. Sia nella risposta immune verso il non-self che nell'acquisizione e mantenimento della tolleranza verso il self, sono coinvolti i cloni di cellule linfocitarie T e B, con il concorso di altre cellule, tra le quali le antigen presenting cells (APC), con la funzione di presentare l'antigene alla cellula T, previa la sua elaborazione in peptidi. Esistono ormai numerose evidenze a dimostrazione che le cellule T e B immature vengono fisicamente eliminate (clonal deletion) negli organi linfoidi centrali: la tolleranza dei linfociti T si stabilisce nel timo e quella dei B nel midollo osseo. A completamento di questa tolleranza cosiddetta centrale interviene un processo che conduce ad uno stato di unresponsiveness, denominato anergia (clonal anergy), che coinvolge le cellule linfatiche ormai mature alla periferia del sistema (tolleranza periferica). C'è anche la possibilità che alcuni antigeni self, per il fatto di essere anatomicamente sequestrati nelle cellule tessutali, non riescano ad indurre una tolleranza né a livello centrale né a livello periferico, realizzandosi così una clonal ignorance. Numerosi sono stati gli studi condotti per comprendere il fenomeno della tolleranza, ma va riconosciuto che non si è ancora riusciti a definire con sicurezza quali e quanti antigeni self inducano una tolleranza centrale oppure periferica e, soprattutto, quali siano i meccanismi patogenetici che entrano in gioco. Tra le ipotesi avanzate vi è quella della mancanza di quei segnali di attivazione che, come è stato dimostrato, sono indispensabili per il riconoscimento dei peptidi antigenici presentati dalle APC, quando il linfocita T viene a contatto nella periferia con i propri antigeni. Un'altra ipotesi è quella di un blocco della cellula T quando viene a contatto con l'antigene self provocandone l'apoptosi13-17. Già da tempo è stata dimostrata l'esistenza negli individui normali di cellule B autoreattive, secretrici di autoanticorpi, cosiddetti naturali, caratterizzati da un ampio spettro di reattività verso antigeni pubblici ben conservati (come quelli delle membrane cellulari) e da una reattività verso il self, senza essere specifici verso il self stesso18. Alla luce di tali osservazioni, si può comprendere l'affermazione secondo la quale un riconoscimento specifico degli antigeni propri sia da considerare come un fenomeno normale. Attualmente, infatti, si tende a ritenere che la chiave per l'acquisizione e il mantenimento della self-tolleranza sia basata su un controllo che viene imposto sui linfociti maturi che vengono a contatto durante la vita con il proprio corredo antigenico. Resta il fatto che non si riesce ancora a comprendere attraverso quali meccanismi si arrivi a rompere il normale Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità equilibrio tra immunità e tolleranza, sbilanciandolo in favore della prima, e come, di conseguenza, possano comparire le diverse malattie autoimmuni. Le CAE come esempi significativi di malattie autoimmuni Le malattie autoimmuni vengono tradizionalmente suddivise in due gruppi: le forme organo-specifiche e quelle non organo-specifiche o sistemiche. È nel secondo gruppo che le CAE sono tradizionalmente inserite, ma più recentemente hanno trovato collocazione in un terzo gruppo che comprende le forme intermedie o citospecifiche, caratterizzate da un'autoimmunizzazione verso antigeni delle membrane delle serie cellulari ematiche o verso le Ig (Ig) sieriche. Witebsky et al.19 hanno per primi enunciato i postulati che devono essere soddisfatti perché una malattia possa essere considerata di origine autoimmune19. Con i progressi delle conoscenze in tema di autoimmunità intervenuti nel corso degli anni, tali postulati sono stati riformulati e completati da Rose et al..20 , che, per la dimostrazione che una malattia abbia una patogenesi autoimme, propongono di disporre di tre tipi di evidenze: diretta, indiretta e circostanziale. Più recentemente, Betterle ha elencato una serie di criteri che dovrebbero essere soddisfatti per un giudizio di autoimmunità, distinguendoli in maggiori e minori21. I primi comprendono: - la presenza di infiltrati linfocitari che, a seconda della malattia, possono essere localizzati nell'organo le cui cellule sono il bersaglio dell'azione autoanticorpale oppure diffusi a livello di diversi organi; - la dimostrazione di autoanticorpi e/o di linfociti autoreattivi circolanti nel siero e/o localizzati a livello delle cellule bersaglio; - l'identificazione e/o l'isolamento degli autoantigeni implicati nella reazione autoimmune; - la possibilità di indurre nell'animale da esperimento la malattia, inoculando in esso estratti cellulari o gli autoantigeni specifici purificati; e la possibilità di trasferire la malattia dall'animale affetto ad un altro sano, mediante il trasporto passivo di siero e/o di linfociti; - l'efficacia della terapia immunosoppressiva. Almeno due dei suddetti criteri maggiori dovrebbero essere soddisfatti per poter considerare come autoimmune una malattia. I criteri di minore importanza, comuni a tutte le malattie autoimmuni, sono: - l'associazione con altre malattie autoimmuni nello stesso individuo o nella famiglia; l'ipergammaglobulinemia; l'associazione statisticamente rilevabile con un particolare aplotipo del sistema maggiore dell'istocompatibilità dell'uomo (HLA); - il sesso femminile. Non in ogni forma morbosa, oggi riunita nel gruppo delle malattie autoimmuni, si osserva il rispetto di tutti i criteri sopraelencati: accanto a quelle che ne soddisfano la maggior parte (esempi tipici: la tiroidite di Hashimoto, la tireotossicosi o morbo di Basedow-Graves ed il lupus eritematoso sistemico), ve ne sono altre in cui solo parte dei criteri è rispettata. Le CAE soddisfano buona parte di essi. Già le tradizionali tecniche sierologiche avevano portato evidenze di tipo diretto a dimostrazione della presenza di anticorpi circolanti che reagivano in maniera specifica con gli antigeni cellulari propri dei pazienti affetti, assieme all'identificazione degli antigeni delle membrane cellulari target dell'azione anticorpale. La conferma della natura autoaggressiva degli anticorpi era acquisita con la dimostrazione della loro presenza nell'eluato ottenuto dalle cellule ematiche che li avevano fissati in vivo e in vitro. L'impiego delle più recenti metodologie di studio di ordine immunochimico e di biologia molecolare, oltre a ribadire i suddetti reperti, consentono anche di ottenere informazioni sulla composizione chimica degli antigeni e di conoscere i geni dai quali essi sono codificati. Per quanto riguarda la possibilità di riprodurre sperimentalmente la malattia attraverso il trasporto passivo di siero e/o di linfociti (considerata un'evidenza di tipo diretto da Rose et al.20 ed il rispetto di uno dei criteri maggiori enunciati da Betterle21), va ricordato che nel caso delle CAE sono state accumulate evidenze non soltanto nell'animale da esperimento, ma anche nell'uomo. Dopo il memorabile esperimento di Harrington22, che nel 1951 si sottopose a trasfusione di plasma di un soggetto affetto da piastrinopenia idiopatica andando incontro ad una grave piastrinopenia con emorragie, vanno ricordate le osservazioni relative al trasferimento transplacentare di autoanticorpi antiemazie o antipiastrine da madri affette da anemia emolitica e, rispettivamente, da piastrinopenia autoimmuni al figlio, con la comparsa della malattia dopo la nascita. È ben noto, ad esempio, che l'incidenza di una trombocitopenia nel neonato riconducibile agli autoanticorpi ricevuti dalla madre è del 30-40%, con il 1015% di figli che presentano un deficit numerico di piastrine grave23. Al riguardo, va segnalato che questo trasferimento una specie di esperimento "in natura" - è stato osservato - 299 GL Molaro anche per alcune malattie autoimmuni non ematologiche, quali la miastenia grave, il morbo di Basedow-Graves e la policondrite 20. Significative sono anche le osservazioni sulla riproduzione durevole di malattie autoimmuni, come la piastrinopenia autoimmune, il diabete mellito insulinodipendente (IDDM) di tipo 1, la miastenia grave e la tiroidite autoimmune, in seguito ad un trapianto di cellule staminali emopoietiche (CSE) da donatore portatore della suddette malattie allo stato latente al ricevente affetto da emopatie (leucemia, aplasia midollare), ma esente dal disordine autoimmune24-27. Gli esperimenti di trasferimento della malattia dall'uomo all'animale (topi neonati), impiegando il siero o le Ig purificate oppure i linfociti T-specifici per gli autoantigeni, non hanno invece fornito risultati significativi sia con gli autoanticorpi (nel pemfigo e nella miastenia grave) sia con i linfociti; ciò anche a causa delle difficoltà incontrate per superare le barriere immunologiche tra specie diverse20. Sono poi numerose le osservazioni relative alla comparsa contemporanea o successiva nello stesso paziente di autoanticorpi con specificità diretta verso differenti antigeni cellulari. L'associazione di autoanticorpi diversi può riguardare solo le serie cellulari ematiche, essendo interessate due o tutte le tre cellule. Esempi significativi sono: la sindrome di Evans, caratterizzata dalla comparsa contemporanea o in successione di autoanticorpi antiemazie e antipiastrine (talvolta anche antineutrofili) nello stesso paziente, ed alcune immunocitopenie ematologiche farmaco-indotte (tipiche quelle associate all'assunzione di chinino e chinidina) che possono provocare un'anemia ed una piastrinopenia da autoanticorpi antiemazie e antipiastrine, con la possibilità di arrivare ad un'insufficienza renale con o senza una coagulopatia da consumo28, 29. Non è neppure del tutto rara l'evenienza di pazienti portatori di un'autoimmunizzazione multipla che riguarda sia gli antigeni di una o più serie cellulari ematiche sia quelli di altre cellule dell'organismo nel contesto di una delle malattie autoimmuni. È verosimile, anzi, ritenere che le segnalazioni di questa associazione consegnate alla letteratura medica siano inferiori alla realtà. Non sempre, infatti, i pazienti con una malattia autoimmune sono sufficientemente studiati o documentati e altri casi ancora passano inosservati. Il prototipo di malattia con produzione di molteplici autoanticorpi è il lupus eritematoso sistemico (LES), caratterizzato dalla produzione di anticorpi antinucleo (nei loro diversi tipi), antiemazie, antipiastrine, antifosfolipidi ed altri. Anche nella sindrome da autoanticorpi antifosfolipidi, sia nella forma primaria che in quella secondaria associata a diverse forme morbose (in particolare 300 il LES), è frequente il riscontro di autoanticorpi anti-cellule ematiche. Si è cercato, in queste situazioni, di verificare se le diverse specificità autoanticorpali presenti nello stesso paziente fossero espressione di una stessa molecola ma, almeno nei pazienti portatori del LES, l'autoanticorpo diretto verso le piastrine è risultato essere diverso da quelli antifosfolipidi, rappresentati dall'anticorpo anticardiolipina e dall'anticoagulante lupico30-32. Anche se queste osservazioni, di una comparsa nello stesso paziente di autoanticorpi con specificità diretta verso differenti antigeni, vengono considerate come un'evidenza solo di tipo circostanziale o come il rispetto di un criterio minore per la diagnosi di malattia autoimmune, esse servono a confermare le evidenze di tipo diretto e costituiscono la prova del profondo disordine dell'equilibrio tra immunità e tolleranza. Le conoscenze sull'eziopatogenesi delle malattie autoimmuni si basano anche sulle osservazioni compiute nello studio dei modelli di animali geneticamente determinati per una di queste malattie. Gli studi più numerosi ed importanti al riguardo sono stati compiuti nei topi NZB (New Zealand Black) che sviluppano un quadro clinico e di laboratorio (ematologico e immunoematologico) del tutto simile a quello dell'anemia emolitica autoimmune ad anticorpi caldi dell'uomo. La malattia può essere riprodotta nei topi sani per inoculazione degli autoanticorpi e, inoltre, compare spontaneamente nei topi transgenici per il gene responsabile della malattia stessa20. Le suddette osservazioni compiute nell'animale richiamano l'attenzione sul possibile ruolo dell'ereditarietà nella patogenesi delle malattie autoimmuni umane. In realtà, l'esistenza di una familiarità è ormai ampiamente dimostrata tra i portatori di una malattia autoimmune, tanto da essere considerata come un rispetto di uno dei criteri minori per la diagnosi di un disordine autoimmune. Nel caso delle CAE, l'importanza dell'ereditarietà e anche quella degli ormoni femminili, dimostrata dalla maggior incidenza delle malattie autoimmuni nelle donne rispetto all'uomo, non sono state confermate (nelle donne l'incidenza delle anemie emolitiche autoimmuni è solo del 55 - 60% del totale di queste citopenie)2. La specificità degli autoanticorpi nelle CAE Come sopra ricordato, la dimostrazione che gli autoanticorpi presenti in un soggetto reagiscono in maniera specifica con gli antigeni delle proprie cellule in vitro, e quindi anche in vivo, è una delle evidenze di tipo diretto per riconoscere la natura autoimmune della malattia. Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità Nelle CAE, per lungo tempo, gli autoanticorpi sono stati considerati come "aspecifici" o "panreattivi", in base alla constatazione che nella comune pratica immunoematologica essi reagivano non soltanto con le cellule del portatore ma anche con quelle di tutti gli altri individui, indipendentemente dal loro fenotipo gruppoematico, dimostrando così di non possedere una ben definita specificità verso gli antigeni noti, come avviene invece per gli alloanticorpi. Nel corso degli anni, dapprima per le emazie e successivamente anche per le piastrine ed i neutrofili, sono state accumulate evidenze sempre più numerose a dimostrazione di una ben definita specificità degli autoanticorpi. Le prime dimostrazioni risalgono già agli anni 1950 quando Weiner et al.33 dimostrarono una specificità anti-e di un autoanticorpo antiemazie e altri Autori nello stesso decennio confermarono l'osservazione con la dimostrazione di una specificità dirette verso altri antigeni del sistema Rh. La disponibilità di emazie con fenotipi rari, ad esempio emazie con una delezione degli antigeni Rh, sia parziale (Rh-partially deleted) che totale (emazie Rhnull) e l'utilizzazione di tecniche di assorbimento degli anticorpi alle emazie test con la successiva loro eluizione, consentirono di stabilire che gli autoanticorpi "aspecifici", riscontrati nella maggior parte dei pazienti con anemia emolitica autoimmune, presentavano anche una specificità diretta verso altri antigeni quali U, LW, Wrb, ed Ena 2, 5. Anche le tecniche immunochimiche di immunoprecipitazione ed immunoblotting, individuando le proteine della membrana eritrocitaria verso le quali erano diretti gli autoanticorpi antiemazie, confermavano l'esistenza di una loro specificità34-36. L'affermazione che gli autoanticorpi antiemazie sono "aspecifici" deriva, quindi, soltanto da osservazioni del passato, basate sull'impiego di metodiche di studio immunoematologico della specificità anticorpale senza avere la disponibilità di cellule test prive degli antigeni dei vari sistemi gruppoematici che hanno una frequenza estremamente elevata nella popolazione, come sono, ad esempio, quelle con i fenotipi sopra ricordati U, LW, Wrb ed Ena. Si tratta, quindi, di un'affermazione concettualmente infondata dal momento che ogni anticorpo, per definizione, presuppone un antigene specifico che lo produce. Il riconoscimento di una specificità non vale soltanto per le emazie, il cui studio ha aperto il capitolo dell'immunematologia, ma anche per le altre cellule ematiche successivamente controllate per la specificità dei rispettivi autoanticorpi. Per quanto riguarda le piastrine, l'impiego delle tecniche sierologiche ha condotto alla scoperta di un mosaico dei antigeni piastrino-specifici (HPA) raccolti in 5 sistemi di antigeni diallelici (da HPA-1 fino a HPA-5), con altri 11 antigeni di bassa frequenza (da HPA-6 a HPA-13, assieme ad altri 3 antigeni.), secondo il più recente aggiornamento sulla nomenclatura degli antigeni HPA37. Gli antigeni piastrinici sinora conosciuti sono risultati associati a 5 glicoproteine (GP) della membrana piastrinica GPIa, GPIbα, GPIbβ, GPIIb e GPIIIa, ciascuna codificata da 5 differenti geni. Nelle piastrinopenie autoimmuni il target antigenico dell'azione degli autoanticorpi è costituito dalle GPIa, IIb/IIIa (nella maggior parte dei casi), Ia, IV e I/IX. La suddetta classificazione degli antigeni piastrinospecifici su base sierologica è stata successivamente integrata da un'altra classificazione fondata sullo studio dei geni che codificano per gli antigeni associati alle GP, in accordo con le linee guida per la nomenclatura del Genoma umano. Dal confronto fra le due classificazioni si può constatare come alla GP IIIa siano associati diversi epitopi antigenici che fanno parte di 7 sistemi sierologici HPA e precisamente HPA-1, HPA-4, HPA-6, HPA-7, HPA-8, HPA10 ed HPA-11. Tali antigeni sono codificati da una serie di geni alleli di un gene "ancestrale" il quale dà origine, attraverso mutazioni puntiformi di un singolo nucleotide, ad altri geni (con conseguente cambiamento di un singolo aminoacido nella molecola dell'antigene prodotto). Il gene "ancestrale" della GP IIIa, denominato GP3A*1, secondo la nomenclatura del Genoma umano, da origine agli alleli GP3A*2, e così via fino al GP3A*8 Il prodotto antigenico del gene "ancestrale" ha una frequenza nella popolazione tra le più alte riscontrate in tutte le etnie studiate, a dimostrazione che anche per gli autoanticorpi antipiastrine esiste una specificità diretta verso antigeni cosiddetti pubblici presenti sulle piastrine di tutti gli individui37,38. Del resto, la specificità degli autoanticorpi dei pazienti con una piastrinopenia autoimmune verso gli antigeni associati alla GPIIb/IIIa era stata già dimostrata con le metodiche sierologiche rilevando la loro mancata reazione con le piastrine dei pazienti affetti dalla piastrinopatia di Bernard-Soulier, caratterizzata dalla carenza ereditaria del suddetto complesso di GP dalla membrana piastrinica. Anche per gli autoanticorpi antineutrofili è possibile oggi riconoscere una loro specificità, pur con le ben note difficoltà esistenti per la loro dimostrazione sierologica. Gli antigeni specifici di queste cellule attualmente conosciuti sono raggruppati nei sistemi NA, NB (ciascuno con due alleli), NC, ND, NE e SAR. Di questi, è l'antigene NA1 quello verso cui sono diretti gli autoanticorpi riscontrati nel 50% dei casi di neutropenia autoimmune del neonato 9,39,40. In definitiva, risulta evidente come gli autoanticorpi dei pazienti con le CAE non differiscano dagli alloanticorpi presenti nelle forme cliniche sostenute da 301 GL Molaro un'alloimmunizzazione (quali le piastrinopenie neonatali da alloimmunizzazione materno-fetale, la porpora posttrasfusionale e la refrattarietà alle trasfusioni piastriniche), per la mancanza di una specificità come si riteneva in passato. Essi sono diretti verso gli antigeni pubblici presenti sulle cellule ematiche di tutte le persone, ad eccezione delle rare o rarissime cellule null che ne sono prive. Nei test sierologici ed immunochimici solo l'impiego di queste particolari cellule consente all'immunoematologo di arrivare a stabilire la vera specificità degli autoanticorpi. Le immunocitopenie ematologiche farmacoindotte Nel corso degli anni è continuamente aumentato il numero di farmaci che i dati clinici e la conferma, ottenuta con le indagini immunoematologiche, hanno dimostrato essere responsabili di un'aggressione di natura immunologica delle emazie, delle piastrine e dei neutrofili nei pazienti in trattamento, dopo aver esclusa l'eventualità di un'azione tossica diretta sulla loro produzione negli organi emopoietici o sulla loro vitalità in circolo. È difficile calcolare l'incidenza di questa complicanza della terapia farmacologica: molti casi passano inosservati, altri non vengono adeguatamente studiati con le necessarie indagini di laboratorio e altri ancora non sono confermati, dopo l'interruzione della terapia farmacologica, dalla scomparsa della sintomatologia morbosa. Lo studio dei meccanismi responsabili delle complicanze immunologiche farmaco-mediate è stato iniziato nel 1949 da Ackroid nelle piastrinopenie associate all'uso di farmaci41. Nei successivi numerosi studi compiuti nei laboratori di immunoematologia è emerso che la patogenesi di tutte le citopenie farmaco-indotte riconosce gli stessi meccanismi d'insorgenza. Tre sono stati i meccanismi di risposta immunologica al farmaco che sono stati individuati e denominati rispettivamente: drug-dependent antibody, drug absorption reaction e autoantibody formation (drugindipendent). Come si evince dalle stesse denominazioni, il terzo dei suddetti meccanismi dell'autoantibody formation (drugindipendent) differisce sostanzialmente dai due precedenti essendo responsabile di una differente modalità di insorgenza e natura dell'anticorpo in causa. La risposta immune, infatti, è quella che conduce alla formazione di un anticorpo che presenta tutte le caratteristiche sierologiche di un vero autoanticorpo, con la capacità di reagire in vitro con le cellule proprie del paziente anche in assenza nei test sierologici del farmaco in causa. Al contrario, gli altri due meccanismi entrano in gioco quando il farmaco, 302 responsabile della comparsa degli anticorpi diretti verso le cellule ematiche, diventa indipensabile per mettere in evidenza sierologicamente l'anticorpo stesso nei test in vitro, a dimostrazione che esso è diretto contro il farmaco adeso alla cellula ematica più o meno labilmente a seconda del farmaco in causa. Quanto sopra esposto consente di distinguere sostanzialmente solo due modalità di patogenesi nelle citopenie immuno-mediate indotte da farmaci. La prima è quella dei farmaci capaci di agire sulla cellula ematica (o sul sistema immune?) provocando in essa la formazione di un drug-indipendent neoantigen, che diventa il bersaglio della risposta autoanticorpale, senza che i farmaci stessi entrino a far parte dell'antigene target specifico dell'anticorpo nelle reazioni in vitro: si tratta, quindi, di veri autoanticorpi (druginduced autoantibody), come è dimostrato dalla loro capacità di reagire nei test sierologici in vitro con le cellule di ogni individuo ed in vivo da un quadro sieroimmunologico del tutto simile a quello di una CAE. L'elenco dei farmaci che agiscono secondo questo meccanismo, per quanto riguarda le emazie, comprende il metildopa, il levodopa, la procainamide, la clorpromazina, la nomifensina, e, stando a rare osservazioni, alcuni farmaci anti-infiammatori non steroidei. Nell'altra modalità di patogenesi di citopenie immunomediate i farmaci agiscono invece attraverso la formazione nelle cellule ematiche di un drug-dependent neoantigen responsabile di un risposta immune che conduce alla formazione di anticorpi che reagiscono con le cellule in vitro e in vivo solo in presenza del farmaco stesso: gli anticorpi sono, pertanto, da considerare come drugdependent antibodies. Esempi tipici di questa modalità d'azione dei farmaci sono le citopenie associate al chinino ed alla chinidina, con la comparsa sia di una piastrinopenia che di un'anemia e le complicanze immunoemolitiche associate alle terapie con penicillina e cefalosporine. Il diverso meccanismo d'azione dei drug-dependent antibodies rispetto agli altri fa sorgere la domanda se, a stretto rigore di termini, non si debba in questi casi parlare di una partial autoimmunoreaction piuttosto che di un vera autoimmunizzazione42-47. È stato anche fatto rilevare che l'impiego dei metaboliti dei farmaci incriminati (ricercati nelle urine del paziente), oppure del siero di volontari o di altri pazienti dopo assunzione del farmaco (i cosiddetti ex vivo antigens) nei test sierologici può diminuire le indubbie e ben comprensibili difficoltà che si incontrano per accertare la responsabilità di un farmaco nell'insorgenza di una citopenia ematologica immuno-mediata48. Anche nelle citopenie ematologiche farmaco-indotte da Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità drug-dependent antibodies è possibile evidenziare una specificità degli anticorpi. Ciò dimostra che tali anticorpi sono diretti verso il coniugato che si forma tra il farmaco ed uno dei tanti antigeni specifici delle cellule ematiche49, così come era stato ipotizzato già in passato da Habibi50. Il chimerismo cellulare e l'autoimmunità Come è noto, nella mitologia greca la Chimera era il mostro con la testa di leone, il corpo di capra e la coda di serpente. In medicina il termine è impiegato per indicare un soggetto che racchiude in sé due popolazioni cellulari geneticamente diverse, derivanti da due distinti zigoti che coesistono nello stesso individuo. Si distinguono due tipi di chimere: le naturali e le artificiali. Le prime si formano tra due gemelli dizigoti riuniti tra loro in utero attraverso anastomosi vascolari tra le rispettive placente con uno scambio di tessuti emopoietici, oppure derivano da un individuo dispermico (two persons in one body, a self-contained twin). Nell'uomo queste chimere sono rarissime, ma oggi sono diventate molto più frequenti quelle artificiali quale effetto di procedure medico-chirurgiche, rappresentate rispettivamente dalle trasfusioni, dal passaggio transplacentare di cellule ematiche e dalle terapie trapiantologiche. La dimostrazione della presenza di cellule nucleate del donatore, nella fattispecie i linfociti, nel circolo di un soggetto trasfuso e della loro persistenza dopo l'evento trasfusionale era già stata ottenuta con le tecniche di analisi citogenetica nei casi di donatore di sesso maschile e donna come ricevente. Il successivo impiego delle tecniche più sensibili e sicure della biologia molecolare, basate sull'amplificazione del DNA, ha confermato il dato, dimostrando nel sangue dei pazienti, trasfusi in occasione di interventi di chirurgia maggiore, la presenza di cellule circolanti del donatore nei primi 2 giorni dalla trasfusione e di un loro aumento transitorio fino ai 5 giorni successivi51. Questo reperto è stato interpretato da alcuni Autori come espressione di una Graft-versus-Host Disease (GvHD) abortiva verso le cellule HLA-incompatibili del ricevente. Gli stessi Autori, in uno studio su pazienti traumatizzati politrasfusi, hanno osservato la persistenza di leucociti del donatore per un periodo da 6 sino ad 18 mesi dalla terapia trasfusionale52. Del resto, la prova più sicura della presenza e vitalità delle cellule allogeniche del donatore, nonché della loro capacità di produrre di anticorpi è data dalle osservazioni della comparsa della malattia da GvHD, che può insorge dopo la trasfusione (TA-GvHD). È una complicanza post- trasfusionale che non si osserva solo in situazioni di incompatibilità del sistema HLA tra donatore e ricevente, laddove sia stata trasfusa un'adeguata quantità di emocomponenti cellulari (ad esempio, in casi di exsanguinotrasfusione in un neonato) e in riceventi immunodepressi, ma, come è ormai noto, anche in riceventi immunocompetenti in particolari situazioni di incompatibilità HLA con il donatore. Da quanto sopra esposto, si comprende il valore e l'importanza della deplezione leucocitaria degli emocomponenti cellulari come importante mezzo di prevenzione delle complicanze immunologiche posttrafusionali (oltre, naturalmente, del rischio infettivo), e, nel caso della TA-GvHD, dell'irradiazione con raggi gamma dei prodotti ematici cellulari53. Anche la gravidanza è stata riconosciuta come un'occasione per un trasferimento di cellule ematiche tra madre e feto attraverso la placenta. Con l'impiego delle tecniche di indagine della biologia molecolare è stato possibile dimostrare come il passaggio transplacentare di cellule ematiche nucleate sia bidirezionale, e come esso si verifichi con una frequenza relativamente elevata con un'uguale incidenza nelle due direzioni dello scambio, cioè quella che va dalla madre al figlio e viceversa54,55. Il passaggio di cellule dalla madre al figlio, anche se meno studiato rispetto all'inverso, è dimostrata dalla presenza di cellule materne nucleate nel sangue del funicolo ombelicale, in quantità che va dal 0,04 al 1% nel 20% dei campioni esaminati, utilizzando la tecnica dell'immunfluorescenza con l'ibridizzazione in situ (FISH)56. L'importanza di tale reperto nasce dalla presenza di cellule staminali progenitrici materne che può essere di ostacolo all'impiego del sangue funicolare a scopo di trapianto per il pericolo di una GvHD nel ricevente. Per inciso va ricordato che la dimostrazione di cellule materne nel circolo fetale è alla base dell'ipotesi che ciò costituisca il possibile meccanismo di insorgenza di una sensibilizzazione delle donne D-negativo verso questo antigene. Le donne Dnegativo nate da madri D-positivo potrebbero sensibilizzarsi all'antigene D delle emazie della madre ricevute nel periodo fetale (la cosiddetta gradmother theory)54. Il passaggio inverso di cellule fetali nel circolo materno è stato dimostrato dagli immunoematologi già utilizzando le metodiche sierologiche per la dimostrazione di emazie o di Ig del feto nel sangue delle donne gravide, allo scopo di valutare l'entità del passaggio transplacentare di emazie fetali (per la prevenzione della malattia emolitica da incompatibilità materno-fetale Rh). Con l'impiego nell'ultimo decennio di tecniche di studio più sensibili e specifiche, come quelle di citogenetica e soprattutto di biologia molecolare con l'amplificazione genica del DNA fetale 303 GL Molaro presente nel cromosoma Y, è stato possibile aumentare le conoscenze sulla trasmissione di cellule fetali nucleate nelle madri. Studiando donne gravide con figli di sesso maschile, sono state dimostrate non solo l'elevata frequenza del passaggio transplacentare di tali cellule, ma anche la loro sopravvivenza nel circolo materno per un tempo che arriva fino a 27 anni dal parto57-59. Considerando che le cellule nucleate fetali passate nella madre contengono gli elementi progenitori delle cellule ematiche, comprese quelle della serie linfopoietica, si è ritenuto verosimile che nella specie umana la gravidanza possa rappresentare l'occasione per lo sviluppo nella donna di uno stato di chimerismo a lungo termine57. Va rilevato che lo studio dello scambio di cellule nucleate tra madre e feto durante la gravidanza riveste importanza non soltanto per le conseguenze derivanti dalla presenza di cellule allogeniche, potenzialmente pericolose a distanza di tempo dalle gravidanze, ma anche per accertare la possibilità di trasmissione verticale dalla madre al figlio di agenti infettivi veicolati dai leucociti (il citomegalovirus e l'HTLV-I/II), e anche per una migliore comprensione della fisiologia dei rapporti immunologici feto-materni e di quali siano i meccanismi che entrano in gioca per spiegare la tolleranza della madre verso il prodotto del concepimento che è, chiaramente, incompatibile con la madre60. La dimostrazione dell'esistenza di un microchimerismo post-gravidico, sia pur di lieve grado, ma certamente persistente nel tempo, ha sollevato alcune importanti questioni. Quale può essere il suo significato clinico? Esistono evidenze a dimostrazione che esso sia responsabile di una GvHD di tipo cronico? Quali rapporti esistono tra le gravidanze responsabili di un microchimerismo duraturo e la comparsa di malattie autoimmuni nelle donne?. Considerando il fatto che le donne risultano affette con maggior frequenza degli uomini da forme morbose reumatologiche e non, comprese nel gruppo delle malattie autoimmuni (il rapporto femmine:maschi per la sclerodermia, il SLE, la sindrome di Sjögren, la tiroidite di Hashimoto e la cirrosi biliare primitiva è superiore a 5:1, tanto che il sesso femminile è considerato uno dei criteri minori da soddisfare per l'inclusione di una forma morbosa tra queste malattie), è stata avanzata la suggestiva ipotesi che le suddette malattie possano trovare una causa, o almeno una concausa, nella presenza e nell'azione di cellule fetali allogeniche chimeriche ed essere, pertanto, l'espressione di una GvHD. L'altra possibile ipotesi di una patogenesi legata agli ormoni sessuali femminili sarebbe da escludere: il picco di tali ormoni durante le vita della donna non coincide, infatti, con l'età nella quale si osserva la maggiore incidenza di alcune delle più importanti malattie autoimmuni, ad esempio l'artrite reumatoide61,62. 304 Una significativa conferma all'ipotesi del chimerismo è stata portata dalle osservazioni compiute in donne affette da sclerodermia con figli maschi: nelle cellule del loro sangue periferico è stato possibile dimostrare la presenza delle sequenze geniche DYZ1 contenute nel DNA del cromosoma Y e, a conferma di tale reperto, le metodiche di immunofluorescenza con ibridizzazione in situ (FISH) hanno dimostrato la presenza di cellule con il cromosoma Y nel tessuto sede delle lesioni sclerodermiche cutanee63. Se a ciò si aggiunge la constatazione che in questa malattia è presente un insieme di lesioni tessutali simili a quelle dei pazienti con una GvHD di tipo cronico, si comprende come Nelson abbia potuto concludere le sue riflessioni sulla sclerodermia ammettendo per essa l'esistenza di una patogenesi legata ad una aggressione del graft ricevuto dal figlio verso l'host materno, non senza, però, porre il seguente interrogativo: qualche malattia autoimmune è auto-alloimmune oppure allo-autoimmune61?. Indubbiamente il caso più importante e significativo di chimerismo umano acquisito è quello che si instaura dopo un trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche (CSE) del midollo osseo o del sangue periferico con la presenza delle cellule del donatore e la contemporanea persistenza di quelle del ricevente, anche se questi è stato sottoposto ad un trattamento mieloablativo prima del trapianto allo scopo di evitare la GvHD64-68. Da numerosi studi, condotti sui pazienti trapiantati per conoscere le caratteristiche di questo chimerismo e per valutare la sua evoluzione nel tempo dopo il trapianto, risulta che esso presenta una stabilità nel tempo. Mentre una completa sostituzione del tessuto midollare del ricevente con le cellule del donatore, cioè il chimerismo totale, è un'evenienza molto rara, il comportamento più frequente è quello di una tendenza ad un graduale aumento delle cellule dell'host 66. Il più importante fattore della persistenza delle cellule del ricevente è costituito dalla preventiva deplezione delle cellule T del trapianto, almeno stando alla maggior parte delle osservazioni67. Si tratta di un chimerismo misto linfoemopoietico, dal momento che le cellule staminali si differenziano anche verso i progenitori degli elementi immunocompetenti della serie linfoide. La componente cellulare del ricevente nel chimerismo misto è costituita da cellule stromali, linfociti B e T e da neutrofili66. È intuitivo che la situazione di incompatibilità immunologica che si realizza tra il donatore ed il ricevente nel trapianto allogenico di CSE possa essere la causa di reazioni immunologiche che compromettono in qualche modo la vitalità delle cellule del trapianto con ripercussioni sia sul ricevente che sulle cellule dell'host. Infatti, oltre al Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità rigetto del trapianto, la più nota e temibile complicanza immunologica è la GvHD acuta e cronica per la sua gravità, per l'alta frequenza e per le difficoltà della sua cura. Accanto a questa, non va però dimenticata l'evenienza relativamente frequente, e talora grave, della comparsa a breve o lunga distanza dal trapianto di una citopenia immuno-mediata che coinvolge tutte le tre serie cellulari ematiche in forma isolata od associata69-75. Va ricordato che quest'ultima non è però una complicanza esclusiva dei trapianti allogenici, ma anche di quelli autologhi e singenici76,77. Né va dimenticato, peraltro, che anche i trapianti di organi (rene, fegato ed intestino) possono accompagnarsi a complicanze immuno-mediate riguardanti le singole cellule ematiche, di solito a breve distanza dal trapianto78. La patogenesi delle citopenie ematologiche immunomediate è diversa a seconda dei casi: nella maggior parte delle anemie e piastrinopenie (più frequentemente studiate dal punto di vista immunoematologico) l'aggressione cellulare è il risultato dell'azione di alloanticorpi contenuti nel tessuto trapiantato o preesistenti nel ricevente. Sono gli alloanticorpi naturali del sistema ABO i responsabili dell'emolisi delle emazie incompatibili quando il trapianto allogenico viene praticato tra soggetti con incompatibilità maggiore, minore oppure bidirezionale, senza adottare le opportune misure di prevenzione (per esempio, il plasmaexchange nel ricevente). In questi casi l'emolisi è immediata, diversamente da quella ad insorgenza più tardiva che compare a distanza di 3 a 6 settimane dal trapianto e può intervenire nei soggetti che ricevono un trapianto con un'incompatibilità minore per il sistema ABO (donatore O/ ricevente di altri gruppi) oppure per altri sistemi come l'Rh (donatore D-negativo/ricevente D-positivo). L'emolisi più tardiva di questi casi è provocata da alloanticorpi antiemazie prodotti dalle cellule immunocompetenti del donatore presenti nel ricevente, che rispondono allo stimolo antigenico esercitato dagli antigeni delle emazie del ricevente stesso73,74. Anche la piastrinopenia e la neutropenia che compaiono a distanza dal trapianto, se non sono causate dalle terapie mieloablative o dai trattamenti condizionanti, possono avere una patogenesi immune da alloanticorpi prodotti dal ricevente contro piastrine originate dalla mielopoiesi del donatore79,80. Una parte minore delle citopenie immuno-mediate posttrapianto ha, invece, una patogenesi autoimmune dimostrata dai reperti delle indagini immunoematologiche che confermano la presenza di anticorpi prodotti dalle cellule immunocompetenti del donatore diretti verso le sue proprie cellule. L'anemia emolitica autoimmune compare entro alcuni mesi da un trapianto allogenico di midollo osseo, anche se praticato previa deplezione dei linfociti T. Questa complicanza è stata osservata nel 3-5% dei pazienti con trapianto allogenico: un'incidenza di gran lunga superiore a quella di tutte le anemie emolitiche autoimmuni riscontrate nella popolazione (0,001%). Se ne deduce, pertanto, che nell'era dei trapianti la causa più frequente dell'anemia emolitica autoimmune è quella, iatrogena, del trapianto allogenico di CSE. Dal punto di vista sierologico, due sono le forme di anemia autoimmune osservate: una più precoce che insorge tra i 2 e gli 8 mesi dal trapianto ed è sostenuta dalla presenza di autoanticorpi freddi della classe IgM; l'altra, ad insorgenza più tardiva, dai 6 agli 18 mesi, ad autoanticorpi caldi della classe IgG. In entrambe le forme, la terapia si è rivelata difficile e scarsamente efficace, nonostante la molteplicità dei trattamenti impiegati (farmaci corticosteroidei, IgG ad alte dosi per via endovenosa, immunosoppressori e perfino la splenectomia). La prognosi di questa complicanza rimane, pertanto, ancora sfavorevole73,74. Anche le piastrinopenie e le pancitopenie ematologiche autoimmuni di comparsa più tardiva dopo trapianto di midollo osseo hanno una prognosi sfavorevole, con l'eccezione della neutropenia che risponde ai cortisonici meglio delle altre citopenie autoimmuni71,72. L'osservazione che le complicanze autoimmuni posttrapianto di CSE possono comparire non soltanto dopo un trapianto allogenico, ma anche dopo quello singenico o autologo76,77, solleva il problema delle patogenesi delle complicanze ematologiche autoimmuni post-trapianto. È un problema che riguarda anche la comparsa di una malattia autoimmune dopo un trapianto di midollo osseo allogenico: i casi segnalati riguardano tireopatie autoimmuni (l'ipotiroidismo e, meno frequentemente, l'ipertiroidismo), miastenia grave e più raramente altre malattie autoimmuni75. Tre sono state le ipotesi patogenetiche avanzate per spiegare l'autoimmunità post-trapianto, escludendo l'evenienza, già precedentemente segnalata, di un trasferimento attraverso il trapianto di una malattia autoimmune di un donatore portatore della malattia allo stato latente. La prima ipotesi riconduce l'autoimmunità che compare in questi pazienti ad anomalie quantitative e qualitative dei linfociti T con secondaria disregolazione delle cellule B e formazione di autoanticorpi. La seconda suggestiva ipotesi interpreta l'insieme delle complicanze autoimmuni come l'espressione di una GvHD di tipo cronico. A suo sostegno, si fa presente come la sua sintomatologia sia caratterizzata dalla presenza di lesioni della cute, del fegato, dei polmoni e del tratto gastrointestinale con la comparsa di un'immunodeficienza e produzione di autoanticorpi circolanti. Sono, appunto, reperti clinici e di laboratorio simili a quelli presenti nelle malattie autoimmuni 305 GL Molaro come il LES, la sindrome di Sjögren e la sclerodermia. La terza ipotesi patogenetica, di una responsabilità del trattamento con la ciclosporina impiegata nel trapiantato, sarebbe invece da escludere dal momento che le complicanze autoimmuni si osservano anche nei pazienti non trattati con questo farmaco75, 81,82. Il mimetismo molecolare e l'autoimmunità Già da tempo gli immunoematologi studiando le CAE avevano avuto modo di constatare come le anemie emolitiche autoimmuni si accompagnano frequentemente a malattie infettive. In particolare, le forme ad autoanticorpi freddi (crioagglutinemia) si associano ad una polmonite atipica da Mycoplasma pneumoniae, o ad una mononucleosi infettiva e, più raramente, ad altre infezioni virali, mentre l'emoglobinuria parossistica a frigore compare nei soggetti con la sifilide nei suoi stadi avanzati (ora non più osservati), ma soprattutto dopo infezioni virali (morbillo, parotite, varicella, mononucleosi infettiva) e vaccinazione antivaiolosa2. Anche le forme acute della porpora trombocitopenica idiopatica od autoimmune, che colpiscono tipicamente l'infanzia, compaiono con una elevata frequenza (fino al 80% dei casi) a distanza di 1-3 settimane dopo un'infezione virale acuta. Queste osservazioni cliniche ed epidemiologiche hanno stimolato gli studi volti a verificare l'esistenza di un rapporto eziopatogenetico tra le due evenienze, nell'ipotesi che la risposta del sistema immune all'infezione sia diretta non soltanto verso gli antigeni dell'agente infettante, ma anche verso quelli propri del soggetto colpito dall'infezione. È l'ipotesi del cosiddetto mimetismo molecolare (dalla parola greca µιµεσισ, corrispondente al termine anglosassone molecular mimicry83), che postula l'esistenza di una somiglianza strutturale tra gli antigeni degli agenti microbici (parassiti, batteri e virus) e quelli propri dei tessuti umani. La risposta cellulare ed umorale del soggetto infettato condurrebbe alla formazione di anticorpi crossreagenti (cross-reactivity), sconvolgendo il normale equilibrio esistente tra immunità e tolleranza e provocando una situazione di autoimmunità che si prolunga nel tempo e si automantiene anche a distanza dalla guarigione dell'infezione. Ovviamente, si presuppone che il soggetto sia colpito da un agente infettivo portatore di antigeni immunologicamente simili ai suoi propri, ma nel contempo sufficientemente differenti per non essere riconosciuti come self, quando sono presentati ai linfociti T del soggetto stesso, tanto da indurre una risposta immune diretta verso 306 i suoi stessi tessuti. Come è noto, il riconoscimento degli antigeni estranei è il compito specifico svolto da queste cellule attraverso il loro recettore (TCR), a cui le APC presentano il peptide antigenico associato alle molecole del complesso maggiore dell'istocompatibilità (HLA). È stato però anche accertato che il riconoscimento degli antigeni da parte dei linfociti T presenta una flessibilità, che conferisce a queste cellule la possibilità di riconoscere anche peptidi antigenici abbastanza simili84. L'esistenza di un mimetismo molecolare è un fatto ormai conosciuto e dimostrato da numerosi studi85, condotti nei laboratori di biochimica molecolare e in modelli animali sperimentali. In quest'ultimi anni, sono state accumulate evidenze che hanno dimostrato come lo stimolo antigenico provocato da microbi può indurre una risposta immune con formazione di anticorpi che possiedono una crossreattività verso gli antigeni infettanti e quelli propri dell'animale86. Inoltre, partendo dall'attuale disponibilità di data base riguardanti le sequenze peptidiche delle proteine, è stato rilevato come esistano delle sequenze che sono condivise sia da microbi che da animali, compreso l'uomo. La disponibilità delle librerie peptidiche ha consentito anche di preparare dei peptidi sintetici che, cimentati in vitro verso cloni di cellule T, ne provocano l'espansione con una loro cross-reattività verso il peptide stimolante e verso quelli self dell'animale dal quale erano state ottenute le cellule T87,88. Tutto ciò potrebbe spiegare la comparsa di una risposta autoimmune in un soggetto colpito da infezioni microbiche quale conseguenza di un mimetismo molecolare, ma non si deve dimenticare che tutte queste osservazioni sono state ottenute in vitro, in condizioni ben diverse da quello che si hanno in vivo. Va anche ricordato che per la valutazione di questa ipotesi sono stati condotti anche studi con l'impiego di modelli sperimentali di animali con malattie autoimmuni (encefalomielite allergica, miastenia grave acuta, artrite collageno- ed adiuvante-indotta, miocardite Coxsakieindotta)89,90. L'insieme di tutte queste osservazioni sul mimetismo molecolare solo difficilmente possono essere considerate come un'evidenza di tipo diretto per sostenere l'ipotesi che esso costituisca il meccanismo per aggirare la tolleranza immunologica e provocare una malattia autoimmune. Le evidenze sinora prodotte rimangono ancora soltanto circostanziali89-91. Tuttavia, l'ipotesi continua ad essere oggetto di attenzione e di studio, e non si è tralasciato di verificare se una malattia autoimmune possa comparire attraverso altri meccanismi patogenetici direttamente od indirettamente Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità Tabella I: malattie autoimmuni nell'uomo e mimetismo molecolare Malattie autimmuni Autoantigene proposto Diabete mellito Tipo I GADS 65 Patogeno od epitopo proposto Coxsakievirus P2-C Artrite reumatoide HLA-DRB1 40 kd HSP Artrite reumatoide HSP 60 Mycobacterium tubercolosis HSP 65 Sclerosi multipla Proteina diversi virus basica mielinica Spondiloartropatie HLA-B27 Malattia di Graves Yersinia Recettore della tireotropina enterocolitica proteine batteri Gram-negativi GADS 65: Glutamate decarbossilasi; HSP: Heat shock protein. Da Albert e Inman, modificata91 legati al fenomeno del mimetismo. Tra le possibilità prese in considerazione vi è quella che epitopi cellulari normalmente nascosti, cosiddetti criptici (criptic self) vengano esposti e presentati ai linfociti T, in modo da provocare una risposta immune diretta verso il self stesso. Così, un'infezione, portando alla ribalta antigeni criptici più o meno simili a quelli dell'agente infettante, potrebbe essere appunto la causa di una risposta autoimmune. Con questo meccanismo potrebbero agire anche lesioni tessutali di varia natura, inducendo la liberazione di determinanti antigenici del citoscheletro e/o della heat shock protein (HSP)85. Tra le altre eventualità prese in considerazione vi sono quella di un'estensione del potere antigenico da alcuni epitopi ad altri provvisti di una somiglianza intra- od intermolecolare (il cosiddetto antigenic spreading) e quella di una cronicizzazione dell'infezione con persistenza degli antigeni microbici dopo la guarigione clinica. Esempi di questa possibilità sono lo sviluppo di un'artrite reattiva nella fase cronica di un'infezione enterica da Yersinia enterocolitica, e l'artrite che compare nei pazienti con la malattia di Lyme ormai cronicizzata, causata dalla persistenza occulta della Borrelia burgdorferi nel soggetto colpito89 . La scoperta dei "superantigeni" microbici, con la loro caratteristica di legare al TCR dei linfociti T le molecole di classe II del sistema HLA espresse su altre cellule senza la necessità di un normale processo di elaborazione dell'antigene92, ha spinto gli studiosi a verificare la loro capacità di stimolazione del sistema immune, provocando a volte l'espansione dei cloni di cellule T, con conseguente autoimmunità ed altre volte, invece, inducendo nell'individuo infettato una unresponsiveness, che si traduce nell'anergia funzionale o nella morte della cellula per apoptosi17, 89. In altri studi, è stato indagato il ruolo dei retrovirus e dell'infezione cronica da citomegalovirus come responsabili di un bypass della tolleranza immunologica, con conseguente insorgenza di un disordine autoimmune attraverso un mimetismo molecolare93. Nella Tabella I sono riportate alcune delle malattie autoimmuni umane nelle quali entrerebbe in gioco un meccanismo patogenetico basato sul fenomeno del mimetismo molecolare associato ad un'infezione microbica. In patologia umana, il reumatismo articolare acuto è stato proposto come un modello di malattia autoimmune che insorge con il suddetto meccanismo patogenetico, basandosi sulla dimostrazione della presenza nel sangue dei pazienti di anticorpi cross-reagenti con la proteina dello streptococco M tipo 5 e con il tessuto del miocardio. Un altro modello è quello della già citata malattia di Lyme. L'artrite resistente alla terapia antibiotica, che talvolta compare nella fase cronica della malattia (nel 10% circa dei casi), potrebbe avere una patogenesi simile, dal momento che il liquido sinoviale dei pazienti presenta una crossreattività con la proteina di superficie A (OspA) della Borrelia burgdorferi e un epitopo associato ai leucociti (LFA-1, CD11a/CD18) del pazienti stessi94. Anche per la gastrite atrofica del fondo dello stomaco è stata avanzata l'ipotesi del mimetismo molecolare, chiamando in causa l'Helicobacter pylori riscontrato nei pazienti affetti da questa malattia. È stato osservato che l'anticorpo della classe IgG prodotto nei pazienti portatori di questo batterio presenta una cross-reattività con gli antigeni del batterio stesso e quelli propri della loro parete gastrica95,96. Caratteristica significativa di queste osservazioni è la dimostrazione che l'antigene target degli anticorpi è costituito da noti antigeni gruppoematici e precisamente Lex, Ley ed H tipo 197. Del tutto recentemente è stato segnalato che i pazienti, portatori dell'Helicobacter pylori e contemporaneamente di una trombocitopenia con presenza di autoanticorpi antipiastrine, presentano un aumento delle piastrine dopo la scomparsa del batterio e, in una parte dei casi, anche degli autoanticorpi antipiastrine dopo un adeguato trattamento antibiotico. Ciò a dimostrazione della possibilità che l'anticorpo diretto verso l'Helicobacter pylory cross-reagisca anche con le piastrine stesse del paziente98. Al riguardo, merita di essere segnalata l'osservazione di un'associazione tra l'infezione dal suddetto batterio e la presenza di una porpora trombocitopenica99. Come già ricordato, le evidenze portate dagli studi sul fenomeno del mimetismo quale modalità di superamento della tolleranza immunologica rimangono ancora di tipo circostanziale o al massimo indiretto. Pur rilevando che le infezioni sono comuni nell'uomo, ma le malattie autoimmuni non lo sono, rimane il fatto che si tratta di un fenomeno ormai accertato e riscontrato in maniera diffusa in natura. 307 GL Molaro Se si considera poi che esiste un alto grado di degenerazione (degeneracy) e di flessibilità della specificità antigenica, si ha, per lo meno, la prova che tale fenomeno può rivestire un ruolo biologico importante. Fino dove esso possa entrare in gioco nella genesi dell'immunità rimane ancora da stabilire con prove di maggiore evidenza, attraverso ulteriori studi la cui importanza appare indubbia se si tiene conto delle implicazioni che possono sorgere in ordine al problema delle vaccinazioni contro le malattie infettive. Conclusioni Da tempo si ritiene che la patogenesi delle malattie autoimmuni sia multifattoriale, riconoscendo tre ordini di fattori; genetici, ormonali e ambientali. I primi sono dimostrati dalla loro ormai accertata familiarità; i secondi dal ruolo degli ormoni, data la prevalenza di tale patologia nel sesso femminile. Sono aumentate le conoscenze sui fattori del terzo gruppo che si sono rivelati capaci di indurre una risposta immune di un soggetto diretta verso il self, sia con la formazione di autoanticorpi con le caratteristiche tradizionalmente considerate come specifiche di questo tipo di immunoglobuline, sia come anticorpi che, per essere formati da cellule allogeniche presenti nell'individuo verso i propri costituenti cellulari, sono da considerare, a stretto rigore di termini, come alloanticorpi. Numerosi farmaci, la trasfusione, la gravidanza e soprattutto le più recenti terapie trapiantologiche possono entrare in gioco nell'insorgenza di una risposta immune verso il self. Da quanto sopra esposto, analizzando gli aspetti di maggior interesse speculativo, ma con evidenti implicazioni pratiche, del problema dell'autoimmunità, risulta chiara l'importanza di ulteriori studi per comprendere meglio i meccanismi attraverso cui, in condizioni normali, si instaura e soprattutto si mantiene la tolleranza verso il self, quale premessa per individuare le cause e le modalità che conducono alla sua perdita. Mentre è più comprensibile che nei pazienti sottoposti a terapie trapiantologiche compaiano complicanze allo- ed autoimmuni, non è facile, invece, capire come in altri soggetti si arrivi a perdere la normale tolleranza verso antigeni self (tra i quali anche gli antigeni gruppoematici cosiddetti pubblici delle tre serie cellulari ematiche) che è presente già alla nascita. Né è facile comprendere come avvenga l'affioramento degli antigeni tessutali criptici. Certamente sorprende ancora il fatto che vi siano farmaci e soprattutto agenti microbici che possano provocare a volte una risposta autoimmune e, altre volte invece, un'alloimmunizzazione. È il caso di chiedersi, come fanno Behar e Porcelli, se non si debba arrivare ad una 308 riclassificazione di certe malattie autoimmuni e/o accettare una definizione dell'autoimmunità più allargata di quella tradizionalmente ammessa. Bibliografia 1) Loutit JF, Mollison PL: Haemolytic icterus (acholuric jaundice) congenital and acquired. J Pathol Bacteriol, 58, 711, 1946 2) Issit PD, Anstee DJ: Applied Blood Group Serology. 4th Ed, Montgomery Scientific Publications, Durham, NC, 1998. 3) Sokol RJ, Hewitt S, Booker DJ et al.: Red cell autoantibodies, multiple immunoglobulin classes, and autoimmune hemolysis. Transfusion, 30, 714,1990. 4) Sokol RJ, Booker DJ, Stamps R: The pathology of autoimmune hemolytic anemia. J Clin Pathol, 45, 1047, 1992. 5) Garratty G. Autoimmune hemolytic anemia. 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