Rassegna
Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità
GianLodovico Molaro
Pordenone
Introduzione
Le anemie emolitiche acquisite sono state le prime
malattie ad essere riconosciute negli anni 1940-'50 come
dipendenti talora da un disordine del sistema immune di un
individuo, caratterizzato dalla formazione di anticorpi
autoaggressivi verso le proprie emazie1.
Da allora, numerosissimi sono stati i contributi apportati
alla conoscenza delle anemie immunoemolitiche da parte
degli operatori di Medicina Trasfusionale, dapprima con
l'impiego delle tradizionali metodiche sierologiche in fase
liquida e solida e successivamente, con l'evoluzione delle
tecniche di indagine immunoematologica e la disponibilità
dei reagenti monoclonali, con l'utilizzazione dei test di
immunofluorescenza e di immunochimica basati
sull'immunoprecipitazione e l'immunoblotting (Southern).
Tutto ciò ha consentito di conoscere sempre più le
caratteristiche sierologiche e fisico-chimiche degli anticorpi
antiemazie (quali la proprietà di reagire in maniera completa
od incompleta e di fissare o meno il complemento, la classe
immunoglobulinica di appartenenza, l'optimum termico di
reazione e altre) e di chiarire le modalità della distruzione
intra- o extravascolare delle emazie ricoperte dagli anticorpi.
Si è potuto anche delineare il quadro clinico-sierologico
di queste sindromi immuno-mediate e distinguere le
situazioni cliniche associate rispettivamente alla formazione
di allo- e autoanticorpi. Di pari passo, sono aumentate
progressivamente le conoscenze sulla composizione
molecolare degli antigeni eritrocitari che costituiscono il
target dell'azione specifica degli anticorpi e, grazie al più
recente impiego della biologia molecolare, anche quelle sui
geni che li codificano2-5.
Corrispondenza:
Dott.GianLodovico Molaro
Via Montereale, 113
33170 Pordenone
Le indagini di immunoematologia eritrocitaria sono state
in seguito applicate anche alle patologie immuno-mediate
riguardanti le piastrine e i granulociti, adattando le tecniche
diagnostiche necessarie alla diversa fisiologia funzionale
di tali cellule. Così anche per queste cellule si è giunti a
delineare le caratteristiche immunologiche dei rispettivi
anticorpi e conoscere le situazioni di allo- e
autoimmunizzazione6-11.
Le indagini immunoematologiche sulle citopenie
ematologiche immuno-mediate hanno potuto trarre
beneficio dai progressi delle conoscenze di sistema
immunitario umano e sulle sue proprietà funzionali che sono
stati realizzati nei passati decenni negli studi di immunologia
di base e clinica, con l'introduzione di metodiche di ricerca
sempre più sofisticate, utilizzando modelli di animali
portatori di malattie autoimmuni geneticamente-mediate e
di animali transgenici e knockout (carenti delle proteine
indispensabili al sistema immune per la risposta agli stimoli
antigenici) ed impiegando le tecniche di biologia molecolare
basate sull'amplificazione genica, mediante la polymerase
chain reaction (PCR)12.
Sul piano clinico, la ricaduta più importante
dell'evoluzione delle conoscenze di immunologia e di
immunoematologia è stata quella di una migliore
comprensione del fenomeno dell'autoimmunità in generale
e delle malattie autoimmuni in particolare.
Scopo di questa rassegna è quello di presentare le forme
di citopenie ematologiche immuno-mediate sostenute dalla
comparsa di autoanticorpi diretti verso le proprie cellule
ematiche: emazie, piastrine e neutrofili.
In questa sede, si analizzeranno alcuni aspetti che
rivestono un più rilevante interesse dal punto di vista
speculativo, partendo da un confronto con le altre forme
morbose che oggi sono riunite nel gruppo delle malattie
autoimmuni.
Le tre forme di citopenia autoimmune ematologica (CAE)
LA TRASFUSIONE DEL SANGUE vol. 45 - num. 6 novembre-dicembre 2000 (297-310)
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GL Molaro
saranno trattate congiuntamente dal momento che sono
tra loro strettamente legate, nonostante la diversità della
loro sintomatologia clinica, della terapia e delle tecniche
immunoematologiche di indagine. Una trattazione comune
è ampiamente giustificata da tre motivi: 1) la frequente
evenienza di una contemporanea comparsa di due, ed anche
di tre, citopenie ematologiche in uno stesso paziente; 2) il
fatto che esse possono essere scatenate da una stessa
causa farmacologica e 3) la dimostrazione che, per quanto
riguarda la maggior parte delle immunocitopenie
ematologiche farmaco-mediate, i meccanismi di formazione
e di azione degli anticorpi responsabili sono simili, come
sarà di seguito esposto.
Tralasciando di considerare gli aspetti relativi alle
metodiche di studio ed alle tecniche di laboratorio impiegate
per la diagnosi di questa patologia, che non sono l'oggetto
di questa rassegna, si metterà principalmente a fuoco il
fenomeno dell'autoimmunità che ne sta alla base,
affrontando ed analizzando i seguenti argomenti:
· l'immunità e la tolleranza immunologica,
· le CAE come esempi significativi di malattie autoimmuni,
· la specificità degli autoanticorpi,
· i rapporti fra le CAE e le immunocitopenie ematologiche
farmaco-indotte,
· il ruolo del chimerismo nella genesi dell'autoimmunità,
· il mimetismo molecolare (molecular mimicry) e le
malattie autoimmuni.
Immunità e tolleranza immunologica
Il sistema immune umano possiede normalmente una
duplice capacità: la prima è riconoscere gli antigeni estranei
che penetrano dall'esterno, fra i quali anche gli alloantigeni
delle cellule ematiche, e rispondere allo stimolo da essi
esercitato, mobilitando l'insieme di cellule che lo
costituiscono attraverso la secrezione di una miriade di
citochine e di mediatori dell'infiammazione (immunità
cellulare) con la successiva produzione di immunoglobuline
(Ig) anticorpali rilasciate in circolo (immunità umorale); l'altra
capacità, altrettanto importante, è ignorare gli stimoli
provenienti dagli antigeni dei tessuti propri (self),
minimizzando i danni derivanti dalla risposta che ha o può
avere verso sé stesso. Questa seconda capacità, che va
sotto il nome di tolleranza immunologica, viene acquisita
da ogni individuo attraverso un processo che inizia già nel
periodo fetale e continua anche dopo la nascita.
Nell'età adulta, tra l'immunità e la tolleranza si stabilisce
un equilibrio che in condizioni normali consente di
assicurare una robusta risposta immune agli antigeni
quando sono presentati da microbi patogeni (virus, batteri
298
e parassiti), ma non agli stimoli antigenici provenienti dai
tessuti propri dell'individuo o da antigeni simili.
Sia nella risposta immune verso il non-self che
nell'acquisizione e mantenimento della tolleranza verso il
self, sono coinvolti i cloni di cellule linfocitarie T e B, con il
concorso di altre cellule, tra le quali le antigen presenting
cells (APC), con la funzione di presentare l'antigene alla
cellula T, previa la sua elaborazione in peptidi.
Esistono ormai numerose evidenze a dimostrazione che
le cellule T e B immature vengono fisicamente eliminate
(clonal deletion) negli organi linfoidi centrali: la tolleranza
dei linfociti T si stabilisce nel timo e quella dei B nel midollo
osseo.
A completamento di questa tolleranza cosiddetta
centrale interviene un processo che conduce ad uno stato
di unresponsiveness, denominato anergia (clonal anergy),
che coinvolge le cellule linfatiche ormai mature alla periferia
del sistema (tolleranza periferica). C'è anche la possibilità
che alcuni antigeni self, per il fatto di essere anatomicamente
sequestrati nelle cellule tessutali, non riescano ad indurre
una tolleranza né a livello centrale né a livello periferico,
realizzandosi così una clonal ignorance.
Numerosi sono stati gli studi condotti per comprendere
il fenomeno della tolleranza, ma va riconosciuto che non si
è ancora riusciti a definire con sicurezza quali e quanti
antigeni self inducano una tolleranza centrale oppure
periferica e, soprattutto, quali siano i meccanismi
patogenetici che entrano in gioco.
Tra le ipotesi avanzate vi è quella della mancanza di
quei segnali di attivazione che, come è stato dimostrato,
sono indispensabili per il riconoscimento dei peptidi
antigenici presentati dalle APC, quando il linfocita T viene
a contatto nella periferia con i propri antigeni. Un'altra
ipotesi è quella di un blocco della cellula T quando viene a
contatto con l'antigene self provocandone l'apoptosi13-17.
Già da tempo è stata dimostrata l'esistenza negli
individui normali di cellule B autoreattive, secretrici di
autoanticorpi, cosiddetti naturali, caratterizzati da un ampio
spettro di reattività verso antigeni pubblici ben conservati
(come quelli delle membrane cellulari) e da una reattività
verso il self, senza essere specifici verso il self stesso18.
Alla luce di tali osservazioni, si può comprendere
l'affermazione secondo la quale un riconoscimento specifico
degli antigeni propri sia da considerare come un fenomeno
normale. Attualmente, infatti, si tende a ritenere che la chiave
per l'acquisizione e il mantenimento della self-tolleranza sia
basata su un controllo che viene imposto sui linfociti maturi
che vengono a contatto durante la vita con il proprio
corredo antigenico.
Resta il fatto che non si riesce ancora a comprendere
attraverso quali meccanismi si arrivi a rompere il normale
Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità
equilibrio tra immunità e tolleranza, sbilanciandolo in favore
della prima, e come, di conseguenza, possano comparire le
diverse malattie autoimmuni.
Le CAE come esempi significativi di malattie
autoimmuni
Le malattie autoimmuni vengono tradizionalmente
suddivise in due gruppi: le forme organo-specifiche e quelle
non organo-specifiche o sistemiche. È nel secondo gruppo
che le CAE sono tradizionalmente inserite, ma più
recentemente hanno trovato collocazione in un terzo gruppo
che comprende le forme intermedie o citospecifiche,
caratterizzate da un'autoimmunizzazione verso antigeni delle
membrane delle serie cellulari ematiche o verso le Ig (Ig)
sieriche.
Witebsky et al.19 hanno per primi enunciato i postulati
che devono essere soddisfatti perché una malattia possa
essere considerata di origine autoimmune19. Con i progressi
delle conoscenze in tema di autoimmunità intervenuti nel
corso degli anni, tali postulati sono stati riformulati e
completati da Rose et al..20 , che, per la dimostrazione che
una malattia abbia una patogenesi autoimme, propongono
di disporre di tre tipi di evidenze: diretta, indiretta e
circostanziale.
Più recentemente, Betterle ha elencato una serie di criteri
che dovrebbero essere soddisfatti per un giudizio di
autoimmunità, distinguendoli in maggiori e minori21.
I primi comprendono:
- la presenza di infiltrati linfocitari che, a seconda della
malattia, possono essere localizzati nell'organo le cui
cellule sono il bersaglio dell'azione autoanticorpale
oppure diffusi a livello di diversi organi;
- la dimostrazione di autoanticorpi e/o di linfociti
autoreattivi circolanti nel siero e/o localizzati a livello
delle cellule bersaglio;
- l'identificazione e/o l'isolamento degli autoantigeni
implicati nella reazione autoimmune;
- la possibilità di indurre nell'animale da esperimento la
malattia, inoculando in esso estratti cellulari o gli
autoantigeni specifici purificati; e la possibilità di
trasferire la malattia dall'animale affetto ad un altro sano,
mediante il trasporto passivo di siero e/o di linfociti;
- l'efficacia della terapia immunosoppressiva.
Almeno due dei suddetti criteri maggiori dovrebbero
essere soddisfatti per poter considerare come autoimmune
una malattia.
I criteri di minore importanza, comuni a tutte le malattie
autoimmuni, sono:
- l'associazione con altre malattie autoimmuni nello stesso
individuo o nella famiglia;
l'ipergammaglobulinemia;
l'associazione statisticamente rilevabile con un
particolare aplotipo del sistema maggiore
dell'istocompatibilità dell'uomo (HLA);
- il sesso femminile.
Non in ogni forma morbosa, oggi riunita nel gruppo
delle malattie autoimmuni, si osserva il rispetto di tutti i
criteri sopraelencati: accanto a quelle che ne soddisfano la
maggior parte (esempi tipici: la tiroidite di Hashimoto, la
tireotossicosi o morbo di Basedow-Graves ed il lupus
eritematoso sistemico), ve ne sono altre in cui solo parte
dei criteri è rispettata.
Le CAE soddisfano buona parte di essi. Già le tradizionali
tecniche sierologiche avevano portato evidenze di tipo
diretto a dimostrazione della presenza di anticorpi circolanti
che reagivano in maniera specifica con gli antigeni cellulari
propri dei pazienti affetti, assieme all'identificazione degli
antigeni delle membrane cellulari target dell'azione
anticorpale.
La conferma della natura autoaggressiva degli anticorpi
era acquisita con la dimostrazione della loro presenza
nell'eluato ottenuto dalle cellule ematiche che li avevano
fissati in vivo e in vitro. L'impiego delle più recenti
metodologie di studio di ordine immunochimico e di biologia
molecolare, oltre a ribadire i suddetti reperti, consentono
anche di ottenere informazioni sulla composizione chimica
degli antigeni e di conoscere i geni dai quali essi sono
codificati.
Per quanto riguarda la possibilità di riprodurre
sperimentalmente la malattia attraverso il trasporto passivo
di siero e/o di linfociti (considerata un'evidenza di tipo
diretto da Rose et al.20 ed il rispetto di uno dei criteri
maggiori enunciati da Betterle21), va ricordato che nel caso
delle CAE sono state accumulate evidenze non soltanto
nell'animale da esperimento, ma anche nell'uomo.
Dopo il memorabile esperimento di Harrington22, che
nel 1951 si sottopose a trasfusione di plasma di un soggetto
affetto da piastrinopenia idiopatica andando incontro ad
una grave piastrinopenia con emorragie, vanno ricordate
le osservazioni relative al trasferimento transplacentare di
autoanticorpi antiemazie o antipiastrine da madri affette da
anemia emolitica e, rispettivamente, da piastrinopenia
autoimmuni al figlio, con la comparsa della malattia dopo la
nascita. È ben noto, ad esempio, che l'incidenza di una
trombocitopenia nel neonato riconducibile agli
autoanticorpi ricevuti dalla madre è del 30-40%, con il 1015% di figli che presentano un deficit numerico di piastrine
grave23.
Al riguardo, va segnalato che questo trasferimento una specie di esperimento "in natura" - è stato osservato
-
299
GL Molaro
anche per alcune malattie autoimmuni non ematologiche,
quali la miastenia grave, il morbo di Basedow-Graves e la
policondrite 20.
Significative sono anche le osservazioni sulla
riproduzione durevole di malattie autoimmuni, come la
piastrinopenia autoimmune, il diabete mellito insulinodipendente (IDDM) di tipo 1, la miastenia grave e la tiroidite
autoimmune, in seguito ad un trapianto di cellule staminali
emopoietiche (CSE) da donatore portatore della suddette
malattie allo stato latente al ricevente affetto da emopatie
(leucemia, aplasia midollare), ma esente dal disordine
autoimmune24-27.
Gli esperimenti di trasferimento della malattia dall'uomo
all'animale (topi neonati), impiegando il siero o le Ig
purificate oppure i linfociti T-specifici per gli autoantigeni,
non hanno invece fornito risultati significativi sia con gli
autoanticorpi (nel pemfigo e nella miastenia grave) sia con
i linfociti; ciò anche a causa delle difficoltà incontrate per
superare le barriere immunologiche tra specie diverse20.
Sono poi numerose le osservazioni relative alla comparsa
contemporanea o successiva nello stesso paziente di
autoanticorpi con specificità diretta verso differenti antigeni
cellulari. L'associazione di autoanticorpi diversi può
riguardare solo le serie cellulari ematiche, essendo
interessate due o tutte le tre cellule. Esempi significativi
sono: la sindrome di Evans, caratterizzata dalla comparsa
contemporanea o in successione di autoanticorpi antiemazie
e antipiastrine (talvolta anche antineutrofili) nello stesso
paziente, ed alcune immunocitopenie ematologiche
farmaco-indotte (tipiche quelle associate all'assunzione di
chinino e chinidina) che possono provocare un'anemia ed
una piastrinopenia da autoanticorpi antiemazie e
antipiastrine, con la possibilità di arrivare ad un'insufficienza
renale con o senza una coagulopatia da consumo28, 29.
Non è neppure del tutto rara l'evenienza di pazienti
portatori di un'autoimmunizzazione multipla che riguarda
sia gli antigeni di una o più serie cellulari ematiche sia quelli
di altre cellule dell'organismo nel contesto di una delle
malattie autoimmuni.
È verosimile, anzi, ritenere che le segnalazioni di questa
associazione consegnate alla letteratura medica siano
inferiori alla realtà. Non sempre, infatti, i pazienti con una
malattia autoimmune sono sufficientemente studiati o
documentati e altri casi ancora passano inosservati.
Il prototipo di malattia con produzione di molteplici
autoanticorpi è il lupus eritematoso sistemico (LES),
caratterizzato dalla produzione di anticorpi antinucleo (nei
loro diversi tipi), antiemazie, antipiastrine, antifosfolipidi
ed altri. Anche nella sindrome da autoanticorpi
antifosfolipidi, sia nella forma primaria che in quella
secondaria associata a diverse forme morbose (in particolare
300
il LES), è frequente il riscontro di autoanticorpi anti-cellule
ematiche.
Si è cercato, in queste situazioni, di verificare se le
diverse specificità autoanticorpali presenti nello stesso
paziente fossero espressione di una stessa molecola ma,
almeno nei pazienti portatori del LES, l'autoanticorpo diretto
verso le piastrine è risultato essere diverso da quelli
antifosfolipidi, rappresentati dall'anticorpo anticardiolipina
e dall'anticoagulante lupico30-32.
Anche se queste osservazioni, di una comparsa nello
stesso paziente di autoanticorpi con specificità diretta
verso differenti antigeni, vengono considerate come
un'evidenza solo di tipo circostanziale o come il rispetto di
un criterio minore per la diagnosi di malattia autoimmune,
esse servono a confermare le evidenze di tipo diretto e
costituiscono la prova del profondo disordine dell'equilibrio
tra immunità e tolleranza.
Le conoscenze sull'eziopatogenesi delle malattie
autoimmuni si basano anche sulle osservazioni compiute
nello studio dei modelli di animali geneticamente determinati
per una di queste malattie. Gli studi più numerosi ed
importanti al riguardo sono stati compiuti nei topi NZB
(New Zealand Black) che sviluppano un quadro clinico e
di laboratorio (ematologico e immunoematologico) del tutto
simile a quello dell'anemia emolitica autoimmune ad anticorpi
caldi dell'uomo. La malattia può essere riprodotta nei topi
sani per inoculazione degli autoanticorpi e, inoltre, compare
spontaneamente nei topi transgenici per il gene
responsabile della malattia stessa20.
Le suddette osservazioni compiute nell'animale
richiamano l'attenzione sul possibile ruolo dell'ereditarietà
nella patogenesi delle malattie autoimmuni umane. In realtà,
l'esistenza di una familiarità è ormai ampiamente dimostrata
tra i portatori di una malattia autoimmune, tanto da essere
considerata come un rispetto di uno dei criteri minori per la
diagnosi di un disordine autoimmune.
Nel caso delle CAE, l'importanza dell'ereditarietà e anche
quella degli ormoni femminili, dimostrata dalla maggior
incidenza delle malattie autoimmuni nelle donne rispetto
all'uomo, non sono state confermate (nelle donne l'incidenza
delle anemie emolitiche autoimmuni è solo del 55 - 60% del
totale di queste citopenie)2.
La specificità degli autoanticorpi nelle CAE
Come sopra ricordato, la dimostrazione che gli
autoanticorpi presenti in un soggetto reagiscono in maniera
specifica con gli antigeni delle proprie cellule in vitro, e
quindi anche in vivo, è una delle evidenze di tipo diretto
per riconoscere la natura autoimmune della malattia.
Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità
Nelle CAE, per lungo tempo, gli autoanticorpi sono stati
considerati come "aspecifici" o "panreattivi", in base alla
constatazione che nella comune pratica immunoematologica
essi reagivano non soltanto con le cellule del portatore ma
anche con quelle di tutti gli altri individui,
indipendentemente dal loro fenotipo gruppoematico,
dimostrando così di non possedere una ben definita
specificità verso gli antigeni noti, come avviene invece per
gli alloanticorpi. Nel corso degli anni, dapprima per le emazie
e successivamente anche per le piastrine ed i neutrofili,
sono state accumulate evidenze sempre più numerose a
dimostrazione di una ben definita specificità degli
autoanticorpi.
Le prime dimostrazioni risalgono già agli anni 1950
quando Weiner et al.33 dimostrarono una specificità anti-e
di un autoanticorpo antiemazie e altri Autori nello stesso
decennio confermarono l'osservazione con la dimostrazione
di una specificità dirette verso altri antigeni del sistema Rh.
La disponibilità di emazie con fenotipi rari, ad esempio
emazie con una delezione degli antigeni Rh, sia parziale
(Rh-partially deleted) che totale (emazie Rhnull) e
l'utilizzazione di tecniche di assorbimento degli anticorpi
alle emazie test con la successiva loro eluizione,
consentirono di stabilire che gli autoanticorpi "aspecifici",
riscontrati nella maggior parte dei pazienti con anemia
emolitica autoimmune, presentavano anche una specificità
diretta verso altri antigeni quali U, LW, Wrb, ed Ena 2, 5.
Anche le tecniche immunochimiche di
immunoprecipitazione ed immunoblotting, individuando le
proteine della membrana eritrocitaria verso le quali erano
diretti gli autoanticorpi antiemazie, confermavano l'esistenza
di una loro specificità34-36.
L'affermazione che gli autoanticorpi antiemazie sono
"aspecifici" deriva, quindi, soltanto da osservazioni del
passato, basate sull'impiego di metodiche di studio
immunoematologico della specificità anticorpale senza
avere la disponibilità di cellule test prive degli antigeni dei
vari sistemi gruppoematici che hanno una frequenza
estremamente elevata nella popolazione, come sono, ad
esempio, quelle con i fenotipi sopra ricordati U, LW, Wrb ed
Ena. Si tratta, quindi, di un'affermazione concettualmente
infondata dal momento che ogni anticorpo, per definizione,
presuppone un antigene specifico che lo produce.
Il riconoscimento di una specificità non vale soltanto
per le emazie, il cui studio ha aperto il capitolo
dell'immunematologia, ma anche per le altre cellule ematiche
successivamente controllate per la specificità dei rispettivi
autoanticorpi.
Per quanto riguarda le piastrine, l'impiego delle tecniche
sierologiche ha condotto alla scoperta di un mosaico dei
antigeni piastrino-specifici (HPA) raccolti in 5 sistemi di
antigeni diallelici (da HPA-1 fino a HPA-5), con altri 11
antigeni di bassa frequenza (da HPA-6 a HPA-13, assieme
ad altri 3 antigeni.), secondo il più recente aggiornamento
sulla nomenclatura degli antigeni HPA37.
Gli antigeni piastrinici sinora conosciuti sono risultati
associati a 5 glicoproteine (GP) della membrana piastrinica
GPIa, GPIbα, GPIbβ, GPIIb e GPIIIa, ciascuna codificata da
5 differenti geni. Nelle piastrinopenie autoimmuni il target
antigenico dell'azione degli autoanticorpi è costituito dalle
GPIa, IIb/IIIa (nella maggior parte dei casi), Ia, IV e I/IX.
La suddetta classificazione degli antigeni piastrinospecifici su base sierologica è stata successivamente
integrata da un'altra classificazione fondata sullo studio
dei geni che codificano per gli antigeni associati alle GP, in
accordo con le linee guida per la nomenclatura del Genoma
umano. Dal confronto fra le due classificazioni si può
constatare come alla GP IIIa siano associati diversi epitopi
antigenici che fanno parte di 7 sistemi sierologici HPA e
precisamente HPA-1, HPA-4, HPA-6, HPA-7, HPA-8, HPA10 ed HPA-11. Tali antigeni sono codificati da una serie di
geni alleli di un gene "ancestrale" il quale dà origine,
attraverso mutazioni puntiformi di un singolo nucleotide,
ad altri geni (con conseguente cambiamento di un singolo
aminoacido nella molecola dell'antigene prodotto). Il gene
"ancestrale" della GP IIIa, denominato GP3A*1, secondo
la nomenclatura del Genoma umano, da origine agli alleli
GP3A*2, e così via fino al GP3A*8
Il prodotto antigenico del gene "ancestrale" ha una
frequenza nella popolazione tra le più alte riscontrate in
tutte le etnie studiate, a dimostrazione che anche per gli
autoanticorpi antipiastrine esiste una specificità diretta
verso antigeni cosiddetti pubblici presenti sulle piastrine
di tutti gli individui37,38.
Del resto, la specificità degli autoanticorpi dei pazienti
con una piastrinopenia autoimmune verso gli antigeni
associati alla GPIIb/IIIa era stata già dimostrata con le
metodiche sierologiche rilevando la loro mancata reazione
con le piastrine dei pazienti affetti dalla piastrinopatia di
Bernard-Soulier, caratterizzata dalla carenza ereditaria del
suddetto complesso di GP dalla membrana piastrinica.
Anche per gli autoanticorpi antineutrofili è possibile
oggi riconoscere una loro specificità, pur con le ben note
difficoltà esistenti per la loro dimostrazione sierologica. Gli
antigeni specifici di queste cellule attualmente conosciuti
sono raggruppati nei sistemi NA, NB (ciascuno con due
alleli), NC, ND, NE e SAR. Di questi, è l'antigene NA1 quello
verso cui sono diretti gli autoanticorpi riscontrati nel 50%
dei casi di neutropenia autoimmune del neonato 9,39,40.
In definitiva, risulta evidente come gli autoanticorpi dei
pazienti con le CAE non differiscano dagli alloanticorpi
presenti nelle forme cliniche sostenute da
301
GL Molaro
un'alloimmunizzazione (quali le piastrinopenie neonatali da
alloimmunizzazione materno-fetale, la porpora posttrasfusionale e la refrattarietà alle trasfusioni piastriniche),
per la mancanza di una specificità come si riteneva in
passato. Essi sono diretti verso gli antigeni pubblici
presenti sulle cellule ematiche di tutte le persone, ad
eccezione delle rare o rarissime cellule null che ne sono
prive. Nei test sierologici ed immunochimici solo l'impiego
di queste particolari cellule consente all'immunoematologo
di arrivare a stabilire la vera specificità degli autoanticorpi.
Le immunocitopenie ematologiche farmacoindotte
Nel corso degli anni è continuamente aumentato il
numero di farmaci che i dati clinici e la conferma, ottenuta
con le indagini immunoematologiche, hanno dimostrato
essere responsabili di un'aggressione di natura
immunologica delle emazie, delle piastrine e dei neutrofili
nei pazienti in trattamento, dopo aver esclusa l'eventualità
di un'azione tossica diretta sulla loro produzione negli
organi emopoietici o sulla loro vitalità in circolo.
È difficile calcolare l'incidenza di questa complicanza
della terapia farmacologica: molti casi passano inosservati,
altri non vengono adeguatamente studiati con le necessarie
indagini di laboratorio e altri ancora non sono confermati,
dopo l'interruzione della terapia farmacologica, dalla
scomparsa della sintomatologia morbosa.
Lo studio dei meccanismi responsabili delle complicanze
immunologiche farmaco-mediate è stato iniziato nel 1949
da Ackroid nelle piastrinopenie associate all'uso di
farmaci41. Nei successivi numerosi studi compiuti nei
laboratori di immunoematologia è emerso che la patogenesi
di tutte le citopenie farmaco-indotte riconosce gli stessi
meccanismi d'insorgenza. Tre sono stati i meccanismi di
risposta immunologica al farmaco che sono stati individuati
e denominati rispettivamente: drug-dependent antibody,
drug absorption reaction e autoantibody formation (drugindipendent).
Come si evince dalle stesse denominazioni, il terzo dei
suddetti meccanismi dell'autoantibody formation (drugindipendent) differisce sostanzialmente dai due precedenti
essendo responsabile di una differente modalità di
insorgenza e natura dell'anticorpo in causa. La risposta
immune, infatti, è quella che conduce alla formazione di un
anticorpo che presenta tutte le caratteristiche sierologiche
di un vero autoanticorpo, con la capacità di reagire in vitro
con le cellule proprie del paziente anche in assenza nei test
sierologici del farmaco in causa. Al contrario, gli altri due
meccanismi entrano in gioco quando il farmaco,
302
responsabile della comparsa degli anticorpi diretti verso le
cellule ematiche, diventa indipensabile per mettere in
evidenza sierologicamente l'anticorpo stesso nei test in
vitro, a dimostrazione che esso è diretto contro il farmaco
adeso alla cellula ematica più o meno labilmente a seconda
del farmaco in causa.
Quanto sopra esposto consente di distinguere
sostanzialmente solo due modalità di patogenesi nelle
citopenie immuno-mediate indotte da farmaci. La prima è
quella dei farmaci capaci di agire sulla cellula ematica (o sul
sistema immune?) provocando in essa la formazione di un
drug-indipendent neoantigen, che diventa il bersaglio della
risposta autoanticorpale, senza che i farmaci stessi entrino
a far parte dell'antigene target specifico dell'anticorpo nelle
reazioni in vitro: si tratta, quindi, di veri autoanticorpi (druginduced autoantibody), come è dimostrato dalla loro
capacità di reagire nei test sierologici in vitro con le cellule
di ogni individuo ed in vivo da un quadro
sieroimmunologico del tutto simile a quello di una CAE.
L'elenco dei farmaci che agiscono secondo questo
meccanismo, per quanto riguarda le emazie, comprende il
metildopa, il levodopa, la procainamide, la clorpromazina,
la nomifensina, e, stando a rare osservazioni, alcuni farmaci
anti-infiammatori non steroidei.
Nell'altra modalità di patogenesi di citopenie immunomediate i farmaci agiscono invece attraverso la formazione
nelle cellule ematiche di un drug-dependent neoantigen
responsabile di un risposta immune che conduce alla
formazione di anticorpi che reagiscono con le cellule in
vitro e in vivo solo in presenza del farmaco stesso: gli
anticorpi sono, pertanto, da considerare come drugdependent antibodies.
Esempi tipici di questa modalità d'azione dei farmaci
sono le citopenie associate al chinino ed alla chinidina,
con la comparsa sia di una piastrinopenia che di un'anemia
e le complicanze immunoemolitiche associate alle terapie
con penicillina e cefalosporine.
Il diverso meccanismo d'azione dei drug-dependent
antibodies rispetto agli altri fa sorgere la domanda se, a
stretto rigore di termini, non si debba in questi casi parlare
di una partial autoimmunoreaction piuttosto che di un
vera autoimmunizzazione42-47.
È stato anche fatto rilevare che l'impiego dei metaboliti
dei farmaci incriminati (ricercati nelle urine del paziente),
oppure del siero di volontari o di altri pazienti dopo
assunzione del farmaco (i cosiddetti ex vivo antigens) nei
test sierologici può diminuire le indubbie e ben comprensibili
difficoltà che si incontrano per accertare la responsabilità
di un farmaco nell'insorgenza di una citopenia ematologica
immuno-mediata48.
Anche nelle citopenie ematologiche farmaco-indotte da
Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità
drug-dependent antibodies è possibile evidenziare una
specificità degli anticorpi. Ciò dimostra che tali anticorpi
sono diretti verso il coniugato che si forma tra il farmaco ed
uno dei tanti antigeni specifici delle cellule ematiche49, così
come era stato ipotizzato già in passato da Habibi50.
Il chimerismo cellulare e l'autoimmunità
Come è noto, nella mitologia greca la Chimera era il
mostro con la testa di leone, il corpo di capra e la coda di
serpente. In medicina il termine è impiegato per indicare un
soggetto che racchiude in sé due popolazioni cellulari
geneticamente diverse, derivanti da due distinti zigoti che
coesistono nello stesso individuo.
Si distinguono due tipi di chimere: le naturali e le
artificiali. Le prime si formano tra due gemelli dizigoti riuniti
tra loro in utero attraverso anastomosi vascolari tra le
rispettive placente con uno scambio di tessuti emopoietici,
oppure derivano da un individuo dispermico (two persons
in one body, a self-contained twin).
Nell'uomo queste chimere sono rarissime, ma oggi sono
diventate molto più frequenti quelle artificiali quale effetto
di procedure medico-chirurgiche, rappresentate
rispettivamente dalle trasfusioni, dal passaggio
transplacentare di cellule ematiche e dalle terapie
trapiantologiche.
La dimostrazione della presenza di cellule nucleate del
donatore, nella fattispecie i linfociti, nel circolo di un
soggetto trasfuso e della loro persistenza dopo l'evento
trasfusionale era già stata ottenuta con le tecniche di analisi
citogenetica nei casi di donatore di sesso maschile e donna
come ricevente.
Il successivo impiego delle tecniche più sensibili e sicure
della biologia molecolare, basate sull'amplificazione del
DNA, ha confermato il dato, dimostrando nel sangue dei
pazienti, trasfusi in occasione di interventi di chirurgia
maggiore, la presenza di cellule circolanti del donatore nei
primi 2 giorni dalla trasfusione e di un loro aumento
transitorio fino ai 5 giorni successivi51. Questo reperto è
stato interpretato da alcuni Autori come espressione di
una Graft-versus-Host Disease (GvHD) abortiva verso le
cellule HLA-incompatibili del ricevente. Gli stessi Autori,
in uno studio su pazienti traumatizzati politrasfusi, hanno
osservato la persistenza di leucociti del donatore per un
periodo da 6 sino ad 18 mesi dalla terapia trasfusionale52.
Del resto, la prova più sicura della presenza e vitalità
delle cellule allogeniche del donatore, nonché della loro
capacità di produrre di anticorpi è data dalle osservazioni
della comparsa della malattia da GvHD, che può insorge
dopo la trasfusione (TA-GvHD). È una complicanza post-
trasfusionale che non si osserva solo in situazioni di
incompatibilità del sistema HLA tra donatore e ricevente,
laddove sia stata trasfusa un'adeguata quantità di
emocomponenti cellulari (ad esempio, in casi di
exsanguinotrasfusione in un neonato) e in riceventi
immunodepressi, ma, come è ormai noto, anche in riceventi
immunocompetenti in particolari situazioni di
incompatibilità HLA con il donatore.
Da quanto sopra esposto, si comprende il valore e
l'importanza della deplezione leucocitaria degli
emocomponenti cellulari come importante mezzo di
prevenzione delle complicanze immunologiche posttrafusionali (oltre, naturalmente, del rischio infettivo), e,
nel caso della TA-GvHD, dell'irradiazione con raggi gamma
dei prodotti ematici cellulari53.
Anche la gravidanza è stata riconosciuta come
un'occasione per un trasferimento di cellule ematiche tra
madre e feto attraverso la placenta. Con l'impiego delle
tecniche di indagine della biologia molecolare è stato
possibile dimostrare come il passaggio transplacentare di
cellule ematiche nucleate sia bidirezionale, e come esso si
verifichi con una frequenza relativamente elevata con
un'uguale incidenza nelle due direzioni dello scambio, cioè
quella che va dalla madre al figlio e viceversa54,55.
Il passaggio di cellule dalla madre al figlio, anche se
meno studiato rispetto all'inverso, è dimostrata dalla
presenza di cellule materne nucleate nel sangue del funicolo
ombelicale, in quantità che va dal 0,04 al 1% nel 20% dei
campioni esaminati, utilizzando la tecnica
dell'immunfluorescenza con l'ibridizzazione in situ (FISH)56.
L'importanza di tale reperto nasce dalla presenza di cellule
staminali progenitrici materne che può essere di ostacolo
all'impiego del sangue funicolare a scopo di trapianto per il
pericolo di una GvHD nel ricevente. Per inciso va ricordato
che la dimostrazione di cellule materne nel circolo fetale è
alla base dell'ipotesi che ciò costituisca il possibile
meccanismo di insorgenza di una sensibilizzazione delle
donne D-negativo verso questo antigene. Le donne Dnegativo nate da madri D-positivo potrebbero sensibilizzarsi
all'antigene D delle emazie della madre ricevute nel periodo
fetale (la cosiddetta gradmother theory)54.
Il passaggio inverso di cellule fetali nel circolo materno
è stato dimostrato dagli immunoematologi già utilizzando
le metodiche sierologiche per la dimostrazione di emazie o
di Ig del feto nel sangue delle donne gravide, allo scopo di
valutare l'entità del passaggio transplacentare di emazie
fetali (per la prevenzione della malattia emolitica da
incompatibilità materno-fetale Rh). Con l'impiego nell'ultimo
decennio di tecniche di studio più sensibili e specifiche,
come quelle di citogenetica e soprattutto di biologia
molecolare con l'amplificazione genica del DNA fetale
303
GL Molaro
presente nel cromosoma Y, è stato possibile aumentare le
conoscenze sulla trasmissione di cellule fetali nucleate nelle
madri. Studiando donne gravide con figli di sesso maschile,
sono state dimostrate non solo l'elevata frequenza del
passaggio transplacentare di tali cellule, ma anche la loro
sopravvivenza nel circolo materno per un tempo che arriva
fino a 27 anni dal parto57-59.
Considerando che le cellule nucleate fetali passate nella
madre contengono gli elementi progenitori delle cellule
ematiche, comprese quelle della serie linfopoietica, si è
ritenuto verosimile che nella specie umana la gravidanza
possa rappresentare l'occasione per lo sviluppo nella donna
di uno stato di chimerismo a lungo termine57.
Va rilevato che lo studio dello scambio di cellule nucleate
tra madre e feto durante la gravidanza riveste importanza
non soltanto per le conseguenze derivanti dalla presenza
di cellule allogeniche, potenzialmente pericolose a distanza
di tempo dalle gravidanze, ma anche per accertare la
possibilità di trasmissione verticale dalla madre al figlio di
agenti infettivi veicolati dai leucociti (il citomegalovirus e
l'HTLV-I/II), e anche per una migliore comprensione della
fisiologia dei rapporti immunologici feto-materni e di quali
siano i meccanismi che entrano in gioca per spiegare la
tolleranza della madre verso il prodotto del concepimento
che è, chiaramente, incompatibile con la madre60.
La dimostrazione dell'esistenza di un microchimerismo
post-gravidico, sia pur di lieve grado, ma certamente
persistente nel tempo, ha sollevato alcune importanti
questioni. Quale può essere il suo significato clinico?
Esistono evidenze a dimostrazione che esso sia responsabile
di una GvHD di tipo cronico? Quali rapporti esistono tra le
gravidanze responsabili di un microchimerismo duraturo e
la comparsa di malattie autoimmuni nelle donne?.
Considerando il fatto che le donne risultano affette con
maggior frequenza degli uomini da forme morbose
reumatologiche e non, comprese nel gruppo delle malattie
autoimmuni (il rapporto femmine:maschi per la sclerodermia,
il SLE, la sindrome di Sjögren, la tiroidite di Hashimoto e la
cirrosi biliare primitiva è superiore a 5:1, tanto che il sesso
femminile è considerato uno dei criteri minori da soddisfare
per l'inclusione di una forma morbosa tra queste malattie),
è stata avanzata la suggestiva ipotesi che le suddette
malattie possano trovare una causa, o almeno una concausa,
nella presenza e nell'azione di cellule fetali allogeniche
chimeriche ed essere, pertanto, l'espressione di una GvHD.
L'altra possibile ipotesi di una patogenesi legata agli ormoni
sessuali femminili sarebbe da escludere: il picco di tali
ormoni durante le vita della donna non coincide, infatti,
con l'età nella quale si osserva la maggiore incidenza di
alcune delle più importanti malattie autoimmuni, ad esempio
l'artrite reumatoide61,62.
304
Una significativa conferma all'ipotesi del chimerismo è
stata portata dalle osservazioni compiute in donne affette
da sclerodermia con figli maschi: nelle cellule del loro
sangue periferico è stato possibile dimostrare la presenza
delle sequenze geniche DYZ1 contenute nel DNA del
cromosoma Y e, a conferma di tale reperto, le metodiche di
immunofluorescenza con ibridizzazione in situ (FISH) hanno
dimostrato la presenza di cellule con il cromosoma Y nel
tessuto sede delle lesioni sclerodermiche cutanee63. Se a
ciò si aggiunge la constatazione che in questa malattia è
presente un insieme di lesioni tessutali simili a quelle dei
pazienti con una GvHD di tipo cronico, si comprende come
Nelson abbia potuto concludere le sue riflessioni sulla
sclerodermia ammettendo per essa l'esistenza di una
patogenesi legata ad una aggressione del graft ricevuto
dal figlio verso l'host materno, non senza, però, porre il
seguente interrogativo: qualche malattia autoimmune è
auto-alloimmune oppure allo-autoimmune61?.
Indubbiamente il caso più importante e significativo di
chimerismo umano acquisito è quello che si instaura dopo
un trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche
(CSE) del midollo osseo o del sangue periferico con la
presenza delle cellule del donatore e la contemporanea
persistenza di quelle del ricevente, anche se questi è stato
sottoposto ad un trattamento mieloablativo prima del
trapianto allo scopo di evitare la GvHD64-68.
Da numerosi studi, condotti sui pazienti trapiantati per
conoscere le caratteristiche di questo chimerismo e per
valutare la sua evoluzione nel tempo dopo il trapianto, risulta
che esso presenta una stabilità nel tempo. Mentre una
completa sostituzione del tessuto midollare del ricevente
con le cellule del donatore, cioè il chimerismo totale, è
un'evenienza molto rara, il comportamento più frequente è
quello di una tendenza ad un graduale aumento delle cellule
dell'host 66.
Il più importante fattore della persistenza delle cellule
del ricevente è costituito dalla preventiva deplezione delle
cellule T del trapianto, almeno stando alla maggior parte
delle osservazioni67.
Si tratta di un chimerismo misto linfoemopoietico, dal
momento che le cellule staminali si differenziano anche
verso i progenitori degli elementi immunocompetenti della
serie linfoide. La componente cellulare del ricevente nel
chimerismo misto è costituita da cellule stromali, linfociti B
e T e da neutrofili66.
È intuitivo che la situazione di incompatibilità
immunologica che si realizza tra il donatore ed il ricevente
nel trapianto allogenico di CSE possa essere la causa di
reazioni immunologiche che compromettono in qualche
modo la vitalità delle cellule del trapianto con ripercussioni
sia sul ricevente che sulle cellule dell'host. Infatti, oltre al
Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità
rigetto del trapianto, la più nota e temibile complicanza
immunologica è la GvHD acuta e cronica per la sua gravità,
per l'alta frequenza e per le difficoltà della sua cura. Accanto
a questa, non va però dimenticata l'evenienza relativamente
frequente, e talora grave, della comparsa a breve o lunga
distanza dal trapianto di una citopenia immuno-mediata che
coinvolge tutte le tre serie cellulari ematiche in forma isolata
od associata69-75.
Va ricordato che quest'ultima non è però una
complicanza esclusiva dei trapianti allogenici, ma anche di
quelli autologhi e singenici76,77. Né va dimenticato, peraltro,
che anche i trapianti di organi (rene, fegato ed intestino)
possono accompagnarsi a complicanze immuno-mediate
riguardanti le singole cellule ematiche, di solito a breve
distanza dal trapianto78.
La patogenesi delle citopenie ematologiche immunomediate è diversa a seconda dei casi: nella maggior parte
delle anemie e piastrinopenie (più frequentemente studiate
dal punto di vista immunoematologico) l'aggressione
cellulare è il risultato dell'azione di alloanticorpi contenuti
nel tessuto trapiantato o preesistenti nel ricevente. Sono
gli alloanticorpi naturali del sistema ABO i responsabili
dell'emolisi delle emazie incompatibili quando il trapianto
allogenico viene praticato tra soggetti con incompatibilità
maggiore, minore oppure bidirezionale, senza adottare le
opportune misure di prevenzione (per esempio, il
plasmaexchange nel ricevente). In questi casi l'emolisi è
immediata, diversamente da quella ad insorgenza più tardiva
che compare a distanza di 3 a 6 settimane dal trapianto e
può intervenire nei soggetti che ricevono un trapianto con
un'incompatibilità minore per il sistema ABO (donatore O/
ricevente di altri gruppi) oppure per altri sistemi come l'Rh
(donatore D-negativo/ricevente D-positivo). L'emolisi più
tardiva di questi casi è provocata da alloanticorpi antiemazie
prodotti dalle cellule immunocompetenti del donatore
presenti nel ricevente, che rispondono allo stimolo
antigenico esercitato dagli antigeni delle emazie del
ricevente stesso73,74. Anche la piastrinopenia e la
neutropenia che compaiono a distanza dal trapianto, se
non sono causate dalle terapie mieloablative o dai
trattamenti condizionanti, possono avere una patogenesi
immune da alloanticorpi prodotti dal ricevente contro
piastrine originate dalla mielopoiesi del donatore79,80.
Una parte minore delle citopenie immuno-mediate posttrapianto ha, invece, una patogenesi autoimmune
dimostrata dai reperti delle indagini immunoematologiche
che confermano la presenza di anticorpi prodotti dalle
cellule immunocompetenti del donatore diretti verso le sue
proprie cellule. L'anemia emolitica autoimmune compare
entro alcuni mesi da un trapianto allogenico di midollo
osseo, anche se praticato previa deplezione dei linfociti T.
Questa complicanza è stata osservata nel 3-5% dei pazienti
con trapianto allogenico: un'incidenza di gran lunga
superiore a quella di tutte le anemie emolitiche autoimmuni
riscontrate nella popolazione (0,001%). Se ne deduce,
pertanto, che nell'era dei trapianti la causa più frequente
dell'anemia emolitica autoimmune è quella, iatrogena, del
trapianto allogenico di CSE.
Dal punto di vista sierologico, due sono le forme di
anemia autoimmune osservate: una più precoce che insorge
tra i 2 e gli 8 mesi dal trapianto ed è sostenuta dalla presenza
di autoanticorpi freddi della classe IgM; l'altra, ad
insorgenza più tardiva, dai 6 agli 18 mesi, ad autoanticorpi
caldi della classe IgG. In entrambe le forme, la terapia si è
rivelata difficile e scarsamente efficace, nonostante la
molteplicità dei trattamenti impiegati (farmaci
corticosteroidei, IgG ad alte dosi per via endovenosa,
immunosoppressori e perfino la splenectomia). La prognosi
di questa complicanza rimane, pertanto, ancora
sfavorevole73,74.
Anche le piastrinopenie e le pancitopenie ematologiche
autoimmuni di comparsa più tardiva dopo trapianto di
midollo osseo hanno una prognosi sfavorevole, con
l'eccezione della neutropenia che risponde ai cortisonici
meglio delle altre citopenie autoimmuni71,72.
L'osservazione che le complicanze autoimmuni posttrapianto di CSE possono comparire non soltanto dopo un
trapianto allogenico, ma anche dopo quello singenico o
autologo76,77, solleva il problema delle patogenesi delle
complicanze ematologiche autoimmuni post-trapianto. È un
problema che riguarda anche la comparsa di una malattia
autoimmune dopo un trapianto di midollo osseo allogenico:
i casi segnalati riguardano tireopatie autoimmuni
(l'ipotiroidismo e, meno frequentemente, l'ipertiroidismo),
miastenia grave e più raramente altre malattie autoimmuni75.
Tre sono state le ipotesi patogenetiche avanzate per
spiegare l'autoimmunità post-trapianto, escludendo
l'evenienza, già precedentemente segnalata, di un
trasferimento attraverso il trapianto di una malattia
autoimmune di un donatore portatore della malattia allo
stato latente. La prima ipotesi riconduce l'autoimmunità che
compare in questi pazienti ad anomalie quantitative e
qualitative dei linfociti T con secondaria disregolazione
delle cellule B e formazione di autoanticorpi. La seconda
suggestiva ipotesi interpreta l'insieme delle complicanze
autoimmuni come l'espressione di una GvHD di tipo cronico.
A suo sostegno, si fa presente come la sua sintomatologia
sia caratterizzata dalla presenza di lesioni della cute, del
fegato, dei polmoni e del tratto gastrointestinale con la
comparsa di un'immunodeficienza e produzione di
autoanticorpi circolanti. Sono, appunto, reperti clinici e di
laboratorio simili a quelli presenti nelle malattie autoimmuni
305
GL Molaro
come il LES, la sindrome di Sjögren e la sclerodermia. La
terza ipotesi patogenetica, di una responsabilità del
trattamento con la ciclosporina impiegata nel trapiantato,
sarebbe invece da escludere dal momento che le
complicanze autoimmuni si osservano anche nei pazienti
non trattati con questo farmaco75, 81,82.
Il mimetismo molecolare e l'autoimmunità
Già da tempo gli immunoematologi studiando le CAE
avevano avuto modo di constatare come le anemie
emolitiche autoimmuni si accompagnano frequentemente
a malattie infettive. In particolare, le forme ad autoanticorpi
freddi (crioagglutinemia) si associano ad una polmonite
atipica da Mycoplasma pneumoniae, o ad una
mononucleosi infettiva e, più raramente, ad altre infezioni
virali, mentre l'emoglobinuria parossistica a frigore compare
nei soggetti con la sifilide nei suoi stadi avanzati (ora non
più osservati), ma soprattutto dopo infezioni virali (morbillo,
parotite, varicella, mononucleosi infettiva) e vaccinazione
antivaiolosa2.
Anche le forme acute della porpora trombocitopenica
idiopatica od autoimmune, che colpiscono tipicamente
l'infanzia, compaiono con una elevata frequenza (fino al
80% dei casi) a distanza di 1-3 settimane dopo un'infezione
virale acuta.
Queste osservazioni cliniche ed epidemiologiche hanno
stimolato gli studi volti a verificare l'esistenza di un rapporto
eziopatogenetico tra le due evenienze, nell'ipotesi che la
risposta del sistema immune all'infezione sia diretta non
soltanto verso gli antigeni dell'agente infettante, ma anche
verso quelli propri del soggetto colpito dall'infezione.
È l'ipotesi del cosiddetto mimetismo molecolare (dalla
parola greca µιµεσισ, corrispondente al termine
anglosassone molecular mimicry83), che postula l'esistenza
di una somiglianza strutturale tra gli antigeni degli agenti
microbici (parassiti, batteri e virus) e quelli propri dei tessuti
umani. La risposta cellulare ed umorale del soggetto
infettato condurrebbe alla formazione di anticorpi crossreagenti (cross-reactivity), sconvolgendo il normale
equilibrio esistente tra immunità e tolleranza e provocando
una situazione di autoimmunità che si prolunga nel tempo
e si automantiene anche a distanza dalla guarigione
dell'infezione.
Ovviamente, si presuppone che il soggetto sia colpito
da un agente infettivo portatore di antigeni
immunologicamente simili ai suoi propri, ma nel contempo
sufficientemente differenti per non essere riconosciuti come
self, quando sono presentati ai linfociti T del soggetto
stesso, tanto da indurre una risposta immune diretta verso
306
i suoi stessi tessuti. Come è noto, il riconoscimento degli
antigeni estranei è il compito specifico svolto da queste
cellule attraverso il loro recettore (TCR), a cui le APC
presentano il peptide antigenico associato alle molecole
del complesso maggiore dell'istocompatibilità (HLA). È
stato però anche accertato che il riconoscimento degli
antigeni da parte dei linfociti T presenta una flessibilità,
che conferisce a queste cellule la possibilità di riconoscere
anche peptidi antigenici abbastanza simili84.
L'esistenza di un mimetismo molecolare è un fatto ormai
conosciuto e dimostrato da numerosi studi85, condotti nei
laboratori di biochimica molecolare e in modelli animali
sperimentali.
In quest'ultimi anni, sono state accumulate evidenze
che hanno dimostrato come lo stimolo antigenico
provocato da microbi può indurre una risposta immune
con formazione di anticorpi che possiedono una crossreattività verso gli antigeni infettanti e quelli propri
dell'animale86. Inoltre, partendo dall'attuale disponibilità di
data base riguardanti le sequenze peptidiche delle proteine,
è stato rilevato come esistano delle sequenze che sono
condivise sia da microbi che da animali, compreso l'uomo.
La disponibilità delle librerie peptidiche ha consentito
anche di preparare dei peptidi sintetici che, cimentati in
vitro verso cloni di cellule T, ne provocano l'espansione
con una loro cross-reattività verso il peptide stimolante e
verso quelli self dell'animale dal quale erano state ottenute
le cellule T87,88.
Tutto ciò potrebbe spiegare la comparsa di una risposta
autoimmune in un soggetto colpito da infezioni microbiche
quale conseguenza di un mimetismo molecolare, ma non si
deve dimenticare che tutte queste osservazioni sono state
ottenute in vitro, in condizioni ben diverse da quello che si
hanno in vivo.
Va anche ricordato che per la valutazione di questa
ipotesi sono stati condotti anche studi con l'impiego di
modelli sperimentali di animali con malattie autoimmuni
(encefalomielite allergica, miastenia grave acuta, artrite
collageno- ed adiuvante-indotta, miocardite Coxsakieindotta)89,90.
L'insieme di tutte queste osservazioni sul mimetismo
molecolare solo difficilmente possono essere considerate
come un'evidenza di tipo diretto per sostenere l'ipotesi che
esso costituisca il meccanismo per aggirare la tolleranza
immunologica e provocare una malattia autoimmune. Le
evidenze sinora prodotte rimangono ancora soltanto
circostanziali89-91.
Tuttavia, l'ipotesi continua ad essere oggetto di
attenzione e di studio, e non si è tralasciato di verificare se
una malattia autoimmune possa comparire attraverso altri
meccanismi patogenetici direttamente od indirettamente
Le citopenie ematologiche autoimmuni e l'autoimmunità
Tabella I: malattie autoimmuni nell'uomo e mimetismo
molecolare
Malattie
autimmuni
Autoantigene
proposto
Diabete mellito Tipo I GADS 65
Patogeno
od epitopo proposto
Coxsakievirus P2-C
Artrite reumatoide
HLA-DRB1
40 kd HSP
Artrite reumatoide
HSP 60
Mycobacterium
tubercolosis HSP 65
Sclerosi multipla
Proteina
diversi virus
basica mielinica
Spondiloartropatie
HLA-B27
Malattia di Graves
Yersinia
Recettore
della tireotropina enterocolitica
proteine batteri
Gram-negativi
GADS 65: Glutamate decarbossilasi; HSP: Heat shock protein. Da Albert e
Inman, modificata91
legati al fenomeno del mimetismo.
Tra le possibilità prese in considerazione vi è quella
che epitopi cellulari normalmente nascosti, cosiddetti
criptici (criptic self) vengano esposti e presentati ai linfociti
T, in modo da provocare una risposta immune diretta verso
il self stesso. Così, un'infezione, portando alla ribalta
antigeni criptici più o meno simili a quelli dell'agente
infettante, potrebbe essere appunto la causa di una risposta
autoimmune. Con questo meccanismo potrebbero agire
anche lesioni tessutali di varia natura, inducendo la
liberazione di determinanti antigenici del citoscheletro e/o
della heat shock protein (HSP)85.
Tra le altre eventualità prese in considerazione vi sono
quella di un'estensione del potere antigenico da alcuni
epitopi ad altri provvisti di una somiglianza intra- od
intermolecolare (il cosiddetto antigenic spreading) e quella
di una cronicizzazione dell'infezione con persistenza degli
antigeni microbici dopo la guarigione clinica. Esempi di
questa possibilità sono lo sviluppo di un'artrite reattiva
nella fase cronica di un'infezione enterica da Yersinia
enterocolitica, e l'artrite che compare nei pazienti con la
malattia di Lyme ormai cronicizzata, causata dalla persistenza
occulta della Borrelia burgdorferi nel soggetto colpito89 .
La scoperta dei "superantigeni" microbici, con la loro
caratteristica di legare al TCR dei linfociti T le molecole di
classe II del sistema HLA espresse su altre cellule senza la
necessità di un normale processo di elaborazione
dell'antigene92, ha spinto gli studiosi a verificare la loro
capacità di stimolazione del sistema immune, provocando
a volte l'espansione dei cloni di cellule T, con conseguente
autoimmunità ed altre volte, invece, inducendo
nell'individuo infettato una unresponsiveness, che si
traduce nell'anergia funzionale o nella morte della cellula
per apoptosi17, 89. In altri studi, è stato indagato il ruolo dei
retrovirus e dell'infezione cronica da citomegalovirus come
responsabili di un bypass della tolleranza immunologica,
con conseguente insorgenza di un disordine autoimmune
attraverso un mimetismo molecolare93.
Nella Tabella I sono riportate alcune delle malattie
autoimmuni umane nelle quali entrerebbe in gioco un
meccanismo patogenetico basato sul fenomeno del
mimetismo molecolare associato ad un'infezione microbica.
In patologia umana, il reumatismo articolare acuto è
stato proposto come un modello di malattia autoimmune
che insorge con il suddetto meccanismo patogenetico,
basandosi sulla dimostrazione della presenza nel sangue
dei pazienti di anticorpi cross-reagenti con la proteina dello
streptococco M tipo 5 e con il tessuto del miocardio. Un
altro modello è quello della già citata malattia di Lyme.
L'artrite resistente alla terapia antibiotica, che talvolta
compare nella fase cronica della malattia (nel 10% circa dei
casi), potrebbe avere una patogenesi simile, dal momento
che il liquido sinoviale dei pazienti presenta una crossreattività con la proteina di superficie A (OspA) della
Borrelia burgdorferi e un epitopo associato ai leucociti
(LFA-1, CD11a/CD18) del pazienti stessi94.
Anche per la gastrite atrofica del fondo dello stomaco è
stata avanzata l'ipotesi del mimetismo molecolare,
chiamando in causa l'Helicobacter pylori riscontrato nei
pazienti affetti da questa malattia. È stato osservato che
l'anticorpo della classe IgG prodotto nei pazienti portatori
di questo batterio presenta una cross-reattività con gli
antigeni del batterio stesso e quelli propri della loro parete
gastrica95,96. Caratteristica significativa di queste
osservazioni è la dimostrazione che l'antigene target degli
anticorpi è costituito da noti antigeni gruppoematici e
precisamente Lex, Ley ed H tipo 197. Del tutto recentemente
è stato segnalato che i pazienti, portatori dell'Helicobacter
pylori e contemporaneamente di una trombocitopenia con
presenza di autoanticorpi antipiastrine, presentano un
aumento delle piastrine dopo la scomparsa del batterio e,
in una parte dei casi, anche degli autoanticorpi antipiastrine
dopo un adeguato trattamento antibiotico. Ciò a
dimostrazione della possibilità che l'anticorpo diretto verso
l'Helicobacter pylory cross-reagisca anche con le piastrine
stesse del paziente98.
Al riguardo, merita di essere segnalata l'osservazione
di un'associazione tra l'infezione dal suddetto batterio e la
presenza di una porpora trombocitopenica99.
Come già ricordato, le evidenze portate dagli studi sul
fenomeno del mimetismo quale modalità di superamento
della tolleranza immunologica rimangono ancora di tipo
circostanziale o al massimo indiretto. Pur rilevando che le
infezioni sono comuni nell'uomo, ma le malattie autoimmuni
non lo sono, rimane il fatto che si tratta di un fenomeno
ormai accertato e riscontrato in maniera diffusa in natura.
307
GL Molaro
Se si considera poi che esiste un alto grado di degenerazione
(degeneracy) e di flessibilità della specificità antigenica, si
ha, per lo meno, la prova che tale fenomeno può rivestire
un ruolo biologico importante.
Fino dove esso possa entrare in gioco nella genesi
dell'immunità rimane ancora da stabilire con prove di
maggiore evidenza, attraverso ulteriori studi la cui
importanza appare indubbia se si tiene conto delle
implicazioni che possono sorgere in ordine al problema
delle vaccinazioni contro le malattie infettive.
Conclusioni
Da tempo si ritiene che la patogenesi delle malattie
autoimmuni sia multifattoriale, riconoscendo tre ordini di
fattori; genetici, ormonali e ambientali. I primi sono
dimostrati dalla loro ormai accertata familiarità; i secondi
dal ruolo degli ormoni, data la prevalenza di tale patologia
nel sesso femminile. Sono aumentate le conoscenze sui
fattori del terzo gruppo che si sono rivelati capaci di indurre
una risposta immune di un soggetto diretta verso il self, sia
con la formazione di autoanticorpi con le caratteristiche
tradizionalmente considerate come specifiche di questo tipo
di immunoglobuline, sia come anticorpi che, per essere
formati da cellule allogeniche presenti nell'individuo verso
i propri costituenti cellulari, sono da considerare, a stretto
rigore di termini, come alloanticorpi. Numerosi farmaci, la
trasfusione, la gravidanza e soprattutto le più recenti terapie
trapiantologiche possono entrare in gioco nell'insorgenza
di una risposta immune verso il self. Da quanto sopra
esposto, analizzando gli aspetti di maggior interesse
speculativo, ma con evidenti implicazioni pratiche, del
problema dell'autoimmunità, risulta chiara l'importanza di
ulteriori studi per comprendere meglio i meccanismi
attraverso cui, in condizioni normali, si instaura e soprattutto
si mantiene la tolleranza verso il self, quale premessa per
individuare le cause e le modalità che conducono alla sua
perdita. Mentre è più comprensibile che nei pazienti
sottoposti a terapie trapiantologiche compaiano
complicanze allo- ed autoimmuni, non è facile, invece, capire
come in altri soggetti si arrivi a perdere la normale tolleranza
verso antigeni self (tra i quali anche gli antigeni
gruppoematici cosiddetti pubblici delle tre serie cellulari
ematiche) che è presente già alla nascita. Né è facile
comprendere come avvenga l'affioramento degli antigeni
tessutali criptici. Certamente sorprende ancora il fatto che
vi siano farmaci e soprattutto agenti microbici che possano
provocare a volte una risposta autoimmune e, altre volte
invece, un'alloimmunizzazione. È il caso di chiedersi, come
fanno Behar e Porcelli, se non si debba arrivare ad una
308
riclassificazione di certe malattie autoimmuni e/o accettare
una definizione dell'autoimmunità più allargata di quella
tradizionalmente ammessa.
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