Il bambino consumatore e il neuromarketing
Scritto da Chiara Morozzi
Nella società postmoderna dei consumi il bambino ha conquistato un ruolo da protagonista: con
l’avvento della globalizzazione, l’infanzia si trasforma in una categoria sociale molto potente,
capace di determinare ingenti fatturati e di influenzare i comportamenti d’acquisto degli adulti.
È così che il minore diventa il nuovo oggetto delle attenzioni dei media: questi si sforzano di
comprenderne gusti e tendenze, consapevoli della sempre maggiore rilevanza economica dei
beni di consumo ad esso destinati.
Al giorno d’oggi i bambini non incarnano solo il ruolo di banali consumatori di beni, ma sono
spesso anche acquirenti, grazie alle “paghette” che genitori e nonni gli impartiscono. Oltre a
possedere tale autonomia di scelta, essi hanno anche il potere di influire negli orientamenti di
selezione ed acquisto degli adulti, sia per quel che riguarda i prodotti ad essi destinati che per
quelli concernenti l’intero nucleo familiare.
In genere tutto ciò è conseguenza del numeroso tempo che i bambini trascorrono davanti alla
televisione, strumento che nel tempo è diventato la primaria fonte di apprendimento e, quindi,
luogo di formazione del minore come consumatore. In Born to Buy - The commercialized child
and the new consumer culture
[1] , Juliet
B. Schor afferma come già ad un anno di età i bambini guardano in televisione i
Teletubbies
, già a diciotto mesi riescono a riconoscere i marchi dei vari prodotti e prima dei due anni sono
in grado di chiedere le cose chiamandole con il proprio termine commerciale (ad esempio una
Bratz
o un
Burger King
al posto di una bambola o di un panino). Tale autrice dichiara inoltre che già dai tre anni ai tre
anni e mezzo di età i bambini iniziano a credere che i marchi abbiano la capacità di comunicare
ed esprimere le loro caratteristiche personali, ovvero il loro essere
cool
,
strong
o
smart
. I bambini a tredici anni hanno già visto circa quarantamila spot pubblicitari ogni anno e, così,
una volta adolescenti cercano sempre più di assomigliare agli stereotipi comportamentali
proposti dai media.
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Oramai sono lontani i tempi del Carosello dove la pubblicità era relegata all’interno di uno
spazio televisivo limitato: oggi essa si pone come parte integrante della programmazione
televisiva e, cosa più importante, è percepita come tale dai bambini, soprattutto quando i
testimonial sono i loro amati personaggi dei cartoni animati o dei telefilm.
Si può affermare che il bambino è un piccolo esperto della pubblicità [2] , grazie alla quale
riesce ad instaurare legami con gli altri coetanei: “degli spot, i bambini sanno tutto, o quasi; e
tutti sanno di alcune categorie di prodotti pubblicizzati. Dagli spot dichiarano di aver “scoperto”
l’ultimo gioco o il migliore snack (…). Ma soprattutto degli spot, e/o con il linguaggio degli spot, i
bambini parlano tra loro”
[3]
.
La pubblicità televisiva è una tipologia di comunicazione verso la quale tutti i bambini
manifestano grande simpatia: essi sono affascinati dai testimonial, dalle musiche e dal
dinamismo delle sequenze. Inoltre, si deve tenere conto del fatto che l’atmosfera predominante
negli spot a loro indirizzati è quella familiare, e ciò fa sì che il bambino riesce ad identificarla con
il clima che vive nell’ambito della propria casa.
Quindi, il bambino è sottoposto ogni giorno ad un continuo bombardamento di stimoli da parte
dei media, i quali hanno tre obiettivi prioritari, ovvero rendere assillante il minore nella richiesta
di determinati prodotti, far sì che esso condizioni le scelte d’acquisto dei parenti e, infine,
fidelizzarli verso un preciso brand, un packaging e uno slogan.
Per portare a termine tali obiettivi, le grandi multinazionali si servono di psicologi e sociologi
della comunicazione che operano in sinergia per realizzare strategie pubblicitarie mirate a
seconda della tipologia di prodotto offerto e, soprattutto, dell’età del target di riferimento, nella
consapevolezza che il soggetto più vulnerabile al marketing è proprio il bambino che, nella
maggior parte dei casi, è inconsapevole di essere manipolato. Queste tecniche fanno parte del
cosiddetto marketing persuasivo, per il quale sono state create norme e regole dirette alla tutela
dei minori: ne è un esempio la creazione della fascia oraria protetta di programmazione
televisiva che va dalle ore 16:00 alle ore 19:00.
Tuttavia tale tipologia di marketing è divenuta ormai obsoleta: oggi si parla di “neuromarketing”,
ovvero “il campo di studi che applica le metodiche proprie delle neuroscienze per analizzare e
capire il comportamento umano in relazione ai mercati e agli scambi di mercato” [4] . Si cerca
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cioè di applicare le tecniche di
brain imaging
ad un problema di marketing per tentare di comprendere meglio l’impatto dei metodi utilizzati e
di venire a conoscenza di alcuni funzionamenti del cervello su tematiche fondamentali per tale
disciplina, come ad esempio la fiducia nei rapporti commerciali.
La tecnica di brain imaging più utilizzata a tale scopo è la fMRI (functional magnetic resonance
imaging
) che, “sfruttando le
caratteristiche magnetiche dell’emoglobina, rileva l’incremento di tale sostanza in una specifica
area del cervello in risposta a stimoli specifici (detto anche effetto BOLD). Le variazioni del
flusso sanguigno determinate dall’attività neuronale ci permettono di visualizzare le aree attive
del cervello durante l’esecuzione di un compito”
[5]
.
Infatti, il fine ultimo della neuroeconomia è quello di identificare i processi del cervello che
portano a prendere una determinata decisione e le sue spinte motivazionali, cercando di
costruire un modello biologico del comportamento decisionale in ambito economico. Così
facendo le neuroscienze mettono in crisi il modello di uomo razionale della teoria economica
classica, ovvero l’homo economicus, poiché si arriva all’idea che le scelte sono influenzate da
una serie di fattori che vanno oltre la razionalità, fattori automatici che si riferiscono ai
meccanismi affettivi, inconsci e involontari che guidano le azioni dell’uomo.
Il neuromarketing fa intravedere una concreta possibilità di manipolazione della mente umana,
soprattutto quella dei bambini. A tale proposito molte associazioni di consumatori hanno
presentato delle proposte per eliminare tale disciplina, spinti dallo stesso timore suscitato negli
anni ’60 dalle cosiddette pubblicità subliminali, ovvero spot pubblicitari trasmessi con una
velocità tale da far assimilare al cervello un’informazione a livello inconscio.
Allo stesso modo la maggior parte delle tecniche di neuromarketing è in grado di condizionare
la “scatola magica” [6] del bambino consumatore attraverso l’uso di stimoli sonori, visivi e
olfattivi, ovvero “stimoli sopraliminali” che non si possono controllare consciamente.
Con il neuromarketing si può, quindi, riuscire a superare uno dei problemi del marketing
subliminale, vale a dire il fatto che i bambini già ad undici anni riescono a riconoscere la finalità
manipolatrice e persuasiva della pubblicità: i bambini più adulti ed i ragazzi, anche se sono
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consapevoli delle predette finalità, sono comunque vulnerabili a queste nuove tecniche. Inoltre,
le normative vigenti nell’ambito della pubblicità interessano solo gli spot televisivi e non anche
tutti i campi d’azione dei nuovi media, come i giochi online.
A dare man forte alle associazioni dei consumatori che vanno contro l’applicazione del
neuromarketing è recentemente nata la “neuroetica”, una nuova disciplina che cerca di
meditare sulle questioni morali legate all’utilizzo delle tecniche di ricerca e di intervento delle
neuroscienze sulle funzioni del cervello, nella consapevolezza che è necessaria “la tutela e la
protezione della persona per quello che è e che si dà come realtà esistente” [7] .
In via generale, la paura di fondo è quella che, attraverso le varie tecniche di brain imaging, si
annulli la
privacy
dei propri pensieri, arrivando a giudicare le persone non solo per quel che fanno, ma anche per
i loro pensieri e giudizi: una volta che si arriverà a comprendere il perché e il come gli uomini
agiscono in un determinato modo, ciò non combacerà con la legge, con la religione e nemmeno
con i costumi sociali.
Tuttavia, la ricerca nel campo della neuroeconomia è molto lontana da queste possibilità ed
inoltre non si possono non considerare gli sviluppi di tale scienza, in quanto significherebbe fare
cattiva economia scientifica.
[1] Juliet B. Schor, Born to Buy - The commercialized child and the new consumer culture,
Scribner, New York 2004.
[2] Cfr. M. Morcellini, La TV fa bene ai bambini, Meltemi, Roma 1999.
[3] G. Statera, S. Bentivegna, M. Morcellini, Crescere con lo spot. Pubblicità e socializzazione
infantile
, Nuova ERI, Torino 1990, cit. in P. Di
Matteo,
Bambini e pubblicità: il bambino
consumatore
, Educare.it - Anno
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Il bambino consumatore e il neuromarketing
Scritto da Chiara Morozzi
IV, Numero 1, Dicembre 2003.
[4] F. Babiloni, V. M. Meroni, R. Soranzo, Neuroeconomia, neuromarketing e processi
decisionali
, Springer, Milano 2007, p. 62.
[5] A. Antonietti, M. Balconi, Mente ed economia, il Mulino, Bologna 2008, p. 62.
[6] Cfr. L. Rosati, La scatola magica, Morlacchi Editore, Perugia 2006.
[7] Ibidem, p. 20.
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