Rousseau, un`occasione per ripensare la nostra

NUOVA SECONDARIA RICERCA
Rousseau, un’occasione per ripensare
la nostra provenienza
Vincenzo Costa
L’articolo menziona e discute un serie di pretese che sono argomentate nel libro recentemente apparso a cura di Giuseppe Bertagna, Il
pedagogista Rousseau. Tra metafisica, etica e politica. Vengono presentati e discussi i principali passi e le nuove interpretazioni di
Rousseau che emergono da questo libro. Una parte centrale di questo articolo mira a mostrare l’importanza di una nuova interpretazione
del pensiero pedagogico di Rousseau.
The paper mentions and discusses a number of claims that are argued in the book on Rousseau, edited by Giuseppe Bertagna, Il
pedagogista Rousseau. Tra metafisica, etica e politica. The chief passages and new interpretations of Rousseau of this book are presented
and discussed. A substantial part of the present paper is written with the intention to show the relevance of a new interpretation of
Rousseau’s thought on education.
La pubblicazione degli atti del convegno di studio su Il
«pedagogista» Rousseau tra metafisica, etica e politica
(Bergamo, Padova, 1-3 ottobre 2012) pone a tema la necessità di un confronto con Rousseau sul piano teoretico,
oltre che filologico.
I
l pedagogista Rousseau. Tra metafisica, etica e politica (La Scuola, Brescia 2014), recentemente apparso
a cura di Giuseppe Bertagna, ha, tra i suoi tanti meriti, quello di attirare l’attenzione sulla necessità di riprendere un confronto con Jean-Jacques Rousseau, non
tanto e non solo da una prospettiva meramente filologica
e “archeologica”, quanto piuttosto da un punto di vista
teoretico, mirando a comprendere quali possibilità il suo
pensiero ci consegna per poter vivere il nostro presente e
pensare il nostro futuro. La raccolta di saggi mette insieme, infatti, una parte degli interventi presentati a un
convegno internazionale organizzato, in collaborazione
con altri enti, dal Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università degli studi di Bergamo, il cui obiettivo – sottolinea il curatore – «non è stato tanto la
celebrazione accademica di un autore, quanto la possibilità di avviare un confronto e un dialogo su temi che interrogano tuttora la nostra contemporaneità» (p. 6).
Questo, peraltro, non significa non dare il giusto peso
alla necessità di analisi fondate nei testi, filologicamente
informate, e di fatto tutti gli interventi si confrontano
con l’opera di Rousseau sviluppando prospettive chiare,
teoreticamente impegnate, e tuttavia capaci di portare
alla luce aspetti inediti del suo pensiero. Per non dire
© Nuova Secondaria - n. 1, settembre 2014 - Anno XXXII
della grande utilità della terza parte del volume, dedicata alla ricezione del pensiero rousseauiano, in cui il
lettore può trovare un’importante rassegna della ricezione di Rousseau in varie aree culturali. In questa parte,
Simonetta Polenghi presenta alcuni punti essenziali
della ricezione del filosofo ginevrino nell’area austrotedesca, Antonio Viñao in Spagna, Dorena Caroli in
Russia tra Settecento e Ottocento, Adolfo Scotto di
Luzio fa il punto sul dibattito italiano su Rousseau alla
vigilia della Grande Guerra e Giuseppe Zago analizza
la lettura che dell’Emilio offre Giuseppe Flores D’Arcais. Così come va segnalata l’importante messa a punto
del rapporto tra Barth e Rousseau offerta da Guglielmo
Forni Rosa (Karl Barth: dal Rousseau romantico alla
teologia liberale).
Collocare Rousseau?
Il volume si presenta, dunque, come un’occasione per
fare il punto su Rousseau, sulla storia degli effetti prodotti dal suo pensiero, e forse anche sui nostri problemi
attuali, dato che noi stessi siamo, in parte, effetti di una
storia culturale che ha in Rousseau uno dei suoi protagonisti principali. Ed in effetti, con il pensatore di Ginevra
una nuova possibilità emerge, una svolta nel modo di
pensare l’uomo si fa strada, e con esso un nuovo modo di
pensare l’educazione, sicché – non senza ragione – Jacques Derrida ha parlato di un’«epoca di Rousseau» per
designare quel periodo in cui le scienze umane si vengono a costituire secondo determinati fondamenti ontologici che giungeranno sino a Lévi-Strauss e all’antropologia culturale.
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E tuttavia, Rousseau non è solo colui che apre una stagione, e non è solo, dato il suo carattere eccentrico, un
“problema” difficile da collocare. Rousseau apre in
quanto si situa in una tradizione, la riprende e mira a rinnovarla, sicché non si deve dimenticare, come nota nel
suo intervento Bertagna (Una pedagogia tra metafisica
ed etica), che Rousseau non è un dissolutore della tradizione e della necessità di una riflessione ontologica sulla
natura umana. Egli, a differenza di un orientamento che
svuota la riflessione etico-metafisica in una ricerca meramente empirica, adopera le conoscenze «che gli provengono dalle scienze empiriche solo per ribadire che gli
“stati di fatto” fisici e storico-civili non devono e non possono essere scambiati e nemmeno possono ostacolare lo
sforzo di elaborare una scienza dell’uomo intesa in senso
antropologico classico, ovvero in senso filosofico-metafisico» (p. 50).
In questo senso, come nota in un altro intervento Giuseppe Mari (Il pensiero pedagogico rousseauiano tra culmine e superamento della modernità), «Rousseau ha
saputo cogliere il limite della modernità» (p. 99), pur abitandola e, per molti versi, continuando ad appartenervi.
Infine, mentre il pensiero politico moderno è spesso caratterizzato dalla ricerca di un congegno istituzionale capace di garantire la sicurezza in quanto condizione del
legame civile, a partire dalla sua sfiducia nel progresso,
l’intera impostazione di Rousseau – rileva Maurizio
Griffo (Rousseau e l’ottima costituzione: l’onnipresenza
del modello antico) – è «permeata dalla convinzione che
la chiave di volta di una soddisfacente condizione politica
sia la virtù civica» (p. 200), per cui «la libertà degli antichi resta per lui la pietra di paragone» (p. 211) e il riferimento al pensiero classico resta centrale nella sua
elaborazione.
Teoria e prassi pedagogica
Da questa collocazione di Rousseau tra modernità e pensiero classico si possono prendere le mosse per affrontare un problema centrale nel dibattito pedagogico
attuale, e cioè se la pedagogia debba essere fondata come
scienza nomotetica o ideografica. Da questo punto di
vista, riprendendo produttivamente Rousseau, Bertagna si
chiede se da principi pedagogici si possano dedurre
«orientamenti per casi concreti» (p. 7). Un punto su cui
Rousseau è chiaro, quando rifiuta di fare da precettore,
di applicare a casi concreti e specifici il sapere generale
presentato nell’Emilio, e proprio questo permette a Bertagna di rileggere Rousseau ancorandolo ai classici, in
particolare ad Aristotele, e di appellarsi alla figura della
phrónesis e della prudenza cristiana in quanto strutture
teoriche capaci di mediare tra il sapere e la pratica peda-
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gogica. Così come l’accostamento ai classici gli permette
di riprendere l’importanza educativa degli endoxa che, a
differenze del mero procedere argomentativo, coinvolgono la persona nella sua totalità di ragione, emozione e
volontà.
Di qui anche la ripresa di un tema decisivo per il Rousseau pedagogista e teorico della politica, e cioè che la formazione prende le mosse da una deformazione iniziale,
poiché l’uomo è stato sfigurato dalla cultura, per cui formare significa restituire all’uomo la sua forma. Infatti,
rispetto all’uomo deformato come una statua di Glauco,
Bertagna sottolinea che l’educazione ha, per Rousseau,
il compito di «tornare all’origine, di ritrovare la statua
nella forma della sua autenticità iniziale» (p. 32).
Stato di natura e civiltà
Ed è qui che emerge l’importanza dello stato di natura e
il suo significato. L’interpretazione di questa nozione è
dibattuta, e non è certo questo il luogo per dirimere questa controversia. Ci interessa, invece, richiamare l’attenzione sul fatto che tutti gli interventi del volume cercano
di sfruttarne produttivamente le potenzialità. Rispetto alle
letture che interpretavano lo stato di natura come una
sorta di stato primitivo, dagli interventi emerge, senza che
siano troppo forzate le intenzioni degli autori, che lo stato
di natura o lo stato artificiale in cui avviene l’educazione
di Emilio possono essere interpretati come la condizione
di possibilità dell’evento dell’educazione e della ricerca
di sé.
Non si tratta di descrivere fatti, ma di determinare a quali
condizioni si ha educazione, per cui lo stato di natura o la
situazione astratta descritta nell’Emilio hanno il senso di
indicare uno stato che non c’è, che non c’è mai stato e
che forse non ci sarà mai. Qualcosa di assente, forse di
impossibile, ma che non è un nulla, bensì la riserva attiva
del possibile. Assente e impossibile, esso rende possibile
l’educazione reale, è il supplemento che impedisce la trasformazione dell’educazione in mero addestramento, manifesta, almeno in negativo, che l’addestramento e
persino l’apprendimento non sono l’educazione e la formazione. L’idealità e il carattere rarefatto o irreale rappresentano una mancanza che anima il movimento del
reale e fanno sì che l’educazione avvenga. Non descrivono come avviene di fatto l’educazione, ma le condizioni a partire dalle quali avrebbe senso parlare di
educazione, a quali condizioni vi sarebbe educazione, in
modo da permetterci di sorprendere, spiando l’esperienza, i momenti o i luoghi in cui l’evento dell’educazione accade o in cui la nostra vera natura si manifesta
facendosi strada e aprendosi un varco attraverso tutte le
devastazioni che la vita sociale ha depositato in noi.
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Proprio per questo, se riprendiamo la questione posta da
Bertagna e da cui avevamo preso le mosse, l’evento concreto dell’educazione non può essere dedotto, non deriva
dai principi, ma accade, al di là di ogni programmazione
e di ogni progetto, quando qualcuno si appropria di quella
pura possibilità e la agisce con responsabilità e prudenza,
facendola accadere. In questo senso, l’Emilio non deve
fornire criteri generali da applicare, ma portare davanti
all’azione. Esso non richiede lettori, ma esseri pre-occupati di dovere agire: mira a portare l’educatore davanti
all’azione, a produrla, senza offrire alcuna garanzia e alcuna rassicurazione, senza togliere la responsabilità irriducibile del gesto educativo e di chi è chiamato a farlo
accadere.
In questo senso, il modello di educazione senza contesto
offerto nell’Emilio è un supplemento originario, ed è presente, come mancanza, anche nelle forme educative difettive, nelle sue dimensioni adulteranti e adulterate,
come le chiama Bertagna, così come lo stato di natura
non è uno stato cronologicamente anteriore. Esso intende
indicare l’origine e il fine dell’uomo, dunque allude a una
possibilità normativa che – nota Bertagna – «ci è offerta
soltanto dalla metafisica e dall’etica» (p. 51). L’originario non è cioè il primitivo, ed è un mero problema empirico che riguarda la ricerca delle scienze umane
determinare se il primitivo si avvicina di più all’originario, cioè se i popoli cosiddetti primitivi siano più simili di
noi al modello originario o se siano sfigurati come i popoli cosiddetti civili.
La preoccupazione di Rousseau non è, dunque, di natura
empirica, bensì ontologica e concettuale. Infatti, come
nota Mari, «Rousseau non voleva favorire il ritorno allo
stato ferino perché la “natura” a cui si richiama non ha
valenza cronologica, ma ontologica e antropologica» (p.
104). L’originario è, infatti, una possibilità ontologica,
di cui ci si deve sempre di nuovo riappropriare, in contesti sempre diversi e in ogni nuovo gesto educativo. E ogni
gesto educativo fallisce nella misura in cui non esprime
l’originario, il quale non è, dunque, collocato in un passato obbiettivo. È, invece, un passato che non è mai stato
presente e che vive, come possibilità, in ogni ora attuale.
Infatti, come mostra nel suo intervento Giuliano Minichiello (L’esperienza autobiografica come categoria pedagogica nel Contratto e nell’Emilio), non esiste un’età
dell’oro per l’essere umano. Richiamandosi al Manoscritto di Ginevra Minichiello attira l’attenzione sul fatto
che nella situazione primitiva la nostra vita passerebbe
senza essere vissuta, senza coscienza, sicché «il ritorno
alla purezza, alla tranquillità, all’innocenza della natura
non è una meta che l’umanità possa in qualche modo conseguire» (p. 84). In questo senso, forse potremmo inter© Nuova Secondaria - n. 1, settembre 2014 - Anno XXXII
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pretare lo stato di natura come qualcosa che può essere ricostruito solo a partire dalla cultura, qualcosa che vive
nel nostro presente, in ogni presente preoccupato della
verità di sé.
Un punto su cui richiama l’attenzione Gianfranco Dalmasso (Il “Rousseau” di Hegel) quando nota che «lo
stato di natura è in Rousseau conoscibile solo a partire da
una contraddizione, da una divisione che l’uomo sperimenta in sé» (p. 180). Pertanto, esso indicherebbe ciò che
manca alla cultura per raggiungere la verità di sé: lo
stato di natura non è ciò che viene cronologicamente
prima della cultura, ma la verità, impossibile, della storia
e della cultura, la mancanza originaria che impedisce all’uomo civilizzato di perdersi del tutto e che lo richiama
a sé. Lo stato di natura, per così dire, non è l’origine passata, ma la destinazione, cioè l’origine (trascendentale)
dell’origine (empirica). In questo senso, l’uomo naturale
è la persona, che è ciò che ogni essere umano è chiamato
a diventare e può diventare, e che l’educazione deve aiutare a trarre fuori da ognuno di noi.
Natura e passioni
In questo contesto viene da chiedersi che cosa renda impossibile la realtà dello stato di natura, che cosa ostacoli
la realizzazione e il divenir reale dell’originario. Domanda complessa, che rimanda probabilmente a molte
linee di discorso. Una di esse è però certamente rappresentata dal tema delle passioni, ed Egle Becchi, nel suo
intervento (Natura e educazione: i tre grandi testi degli
anni Sessanta e oltre), rivolge l’attenzione proprio sul
ruolo delle passioni. Becchi nota che la vita regolata e
tranquilla presentata nella Nuova Eloisa è resa possibile
dalla figura di Wolmar, definito da Julie come saggio, con
l’aggiunta che «è un uomo senza passioni». E, allo stesso
modo, Emilio e Sofia una volta ricondotti all’interno del
traffico umano e non più consigliati dal governeur sono
travolti dalle passioni, che sconvolgono le loro vite.
La caduta sembra, dunque, essere altrettanto originaria
dello stato originario, come se lo stato originario fosse,
originariamente, una caduta o potesse manifestarsi solo a
partire dalla caduta, e questa problematica sembra avere
il proprio nucleo teoretico nell’interpretazione ontologica
che delle passioni Rousseau sviluppa, e che riconduce a
una domanda che bisognerebbe porsi, e cioè se lo stato di
natura non sia pensato da Rousseau, come sembra indicare Becchi – «come essenza dell’uomo singolo» (p. 73).
Il tema ci sembra particolarmente importante, e in vista
della sua chiarificazione il volume offre piste di ricerca,
storiografiche e teoretiche, importanti. In primo luogo,
sulla base del nesso fatto emergere da Andrea Cegolon
(Rousseau e Quesnay: un’ipotesi sulla genesi del mito
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della natura) tra la nascente riflessione sull’economia e
il pensiero di Rousseau, e a partire dalla particolare posizione di Rousseau che «[se] non accetta l’ordine spontaneo del commercio, non condivide neppure l’ordine
naturale esaltato dalla fisiocrazia» (p. 122), si potrebbe
sviluppare la necessità di indagare meglio quali rapporti
si siano venuti a stabilire, in un ordine del discorso complessivo e strutturale, tra la nascente economia politica e
una certa idea di uomo, inteso sempre più come soggetto
consumatore, che consuma tutto, compreso il sapere, il
quale diviene esso stesso un oggetto di consumo.
Si tratterebbe di vedere come e se questo abbia determinato la nozione stessa di stato di natura in Rousseau, per
esempio la sua nozione di egoismo passivo, l’idea secondo cui la società si produce con la divisione del lavoro, resa a sua volta possibile dalla nozione di utilità,
cioè dalla necessità di soddisfare i bisogni individuali. In
questo caso, la nozione di utilità diverrebbe un concetto
centrale da analizzare con cura in Rousseau, poiché costituirebbe la cerniera tra natura e cultura, dato che l’utilità e la sua scoperta costituirebbero il punto di trapasso
dalla natura alla cultura e il punto da cui sgorgano tutte le
passioni negative che poi dilagheranno nello stato civile.
Nel Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, infatti,
Rousseau nota che «dal momento in cui un uomo ebbe
bisogno dell’aiuto di un altro uomo, da quando ci si rese
conto che era utile ad uno solo aver provviste per due,
l’eguaglianza scomparve». Questa nozione di utilità costituisce il nucleo fondante e la specificità dell’ontologia
dell’economia politica come si va costituendo proprio
negli anni in cui lavora Rousseau, ed implica un’idea di
soggetto che sembra preesistere allo scambio, poiché i
suoi bisogni sarebbero precedenti ad esso, e forse potrebbe rivelarsi il fulcro che rende comprensibile come e
perché, secondo Rousseau, si passi dallo stato di natura a
quello civile, così come perché anche un’educazione perfetta sia destinata a decadere non appena il fanciullo viene
inserito in relazioni concrete con altri uomini. Esso sarebbe la necessità stessa della caduta, la sua inevitabilità.
Stato di natura, socialità e intersoggettività
In secondo luogo, seguendo le sollecitazioni presenti nel
volume, si tratterebbe di interrogare il rapporto tra stato
di natura e intersoggettività. Infatti, nonostante una certa
oscillazione e forse una consistente ambiguità nel testo
di Rousseau, vi sono ragioni (e pagine) che inducono a
pensare che lo stato di natura sia relativo all’uomo singolo e che la caduta avvenga con l’apparire dell’altro. Si
tratta di un tema difficile, che dovrebbe essere analizzato
con cura nelle pagine rousseauiane, poiché sembrerebbe
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implicare che la caduta è inestricabilmente connessa al
legame intersoggettivo (e – se volessimo collegarlo col
punto precedente e con i recenti temi emersi in quella che
si chiama antropologia economica – allo “scambio”). Pertanto, si tratterebbe di chiedersi se la determinazione essenziale dell’uomo nel suo stato di natura, così come
viene pensata da Rousseau, non sia una determinazione
che, fedele in questo all’impostazione cartesiana, non sia
basata su una ontologia che considera la relazione all’altro come l’inizio stesso della caduta, e che dunque rimuove un’altra ontologia, quella che pensa l’uomo come
un essere ontologicamente relazionale. Ed è forse a partire da questi presupposti che nasce la domanda di Becchi: «Come si fa a guidare nel sociale degli esseri
individuali e collettivi che non sono di per sé sociali, ma
lo sono diventati, e lo devono essere senza rovinarsi,
senza perdere la loro natura?» (p. 79).
Il tema è centrale nel lavoro di Andrea Potestio (Il ruolo
del linguaggio nella proposta educativa di J.-J. Rousseau), che offre una lettura molto generosa di Rousseau,
a volte anche empatica. Egli nota che «il riconoscimento
dell’altro genera il desiderio di comunicare le passioni e
questo fatto origina la parola e, di conseguenza, anche
l’uscita dell’umanità dall’ipotetica armonia dello stato di
natura» (p. 129), dando così l’impressione di abbracciare
l’idea secondo cui l’intersoggettività e la relazione sono
la caduta, almeno se intendiamo la caduta come l’uscita
dallo stato di natura. Non appena appare l’altro ed entriamo in relazione con lui perdiamo la purezza dell’origine, che quindi precede, di diritto e di fatto, la relazione.
In questo caso, infatti, sembrerebbe che la caduta sia la
diffrazione di un’unità originaria che tiene insieme l’altro, le passioni e il linguaggio: questi tre elementi delimitano l’entrata in uno stato in cui viene perso il rapporto
con lo stato di natura. Tuttavia, dall’altro lato, Potestio,
anche attraverso un confronto serrato con la lettura che
Derrida offre di Rousseau in Della grammatologia, sviluppa la riflessione in una diversa direzione, tentando di
ribaltare l’idea secondo cui l’intersoggettività e l’alterità
rappresentano la caduta, suggerendo che invece, nel ginevrino, l’essere umano ha una natura originariamente
relazionale, dato che «egli, attraverso la parola, testimonia la propria natura etica e relazionale» (p. 144). Temi
complessi, che pongono, ci sembra, la necessità di definire se la natura etica e relazionale sia presente in uno
stato di natura che precede, ontologicamente, l’apparire
dell’altro, oppure se nello stato di natura l’uomo sia già
relazione. Nello stato di natura l’essere umano sarebbe
già originariamente relazione? In un certo senso, la vita
stessa di Rousseau, e in particolare i suoi ultimi anni, testimoniano una sorta di necessità di sottrarsi alla rela© Nuova Secondaria - n. 1, settembre 2014 - Anno XXXII
zione intersoggettiva per guadagnare la verità di sé. E tuttavia, la via indicata da Potestio ha un proprio rigore e su
di essa torneremo più avanti, poiché forse si tratta di distinguere tra differenti strutture relazionali e di trovare
una specifica forma di linguaggio e di comunicazione in
cui emergano i sentimenti naturali che legano l’uomo all’uomo senza corromperne la natura, e vedremo che forse
questa forma comunicativa è rappresentata dalla narrazione di sé.
Di fatto, l’Emilio e la sua educazione negativa, tesa a impedire che il male entri nell’anima del fanciullo, presuppone che Emilio – nota Roberto Gatti nel suo saggio Il
male, l’educazione, la politica – stia nel mondo senza essere in relazione con gli altri del mondo, in modo da rimanere immune dal contagio della falsa civiltà. Ma
allora, se l’educazione implica questo isolamento, nota
Gatti, «riesce francamente difficile capire come tale progetto sia generalizzabile» (p. 169). E, di fatto, sappiamo
che non appena Emilio entrerà in relazione con gli altri le
passioni esploderanno e il male entrerà in lui. In questo
senso, la caduta stessa è originaria, poiché – nota Gatti –
«il male si rivela inscritto nella natura umana – non mera
escrescenza storica, ambientale, sociale – e, per tale motivo, neppure l’educazione del più “abile maestro” può
porre per sempre al riparo da esso» (p. 177).
La narrazione come disvelamento
dello stato di natura?
Di qui, dopo avere percorso la strada relativa a come cercare di costruire una buona vita per esseri già toccati dal
male (nella Nuova Eloisa e nel Contratto) e dopo avere
percorso la strada, anch’essa rivelatasi forse impercorribile a Rousseau, di un’educazione che impedisca al male
di infettare la natura originaria (nell’Emilio), forse l’ultima strada attraverso cui il soggetto può cercare la verità
di sé al di sotto delle incrostazioni e delle deformazioni
della civiltà sarà rappresentata dalla narrazione di sé. In
fondo, quando leggiamo Rousseau troviamo spesso racconti, anche quando si presentano in altre vesti (per esempio “storie proprio così” come i due Discorsi o testi con
una scrittura più controllata e rigorosa come Il contratto
sociale).
Da questo punto di vista, Becchi attira l’attenzione sul
fatto che nello stesso Emilio il governeur ed Emilio «valgono come figure di un racconto, non come personaggi irrinunciabili nella problematica costruzione di un mondo
individuale e collettivo buono» (p. 81). L’Emilio non è
un progetto, e neanche una serie di principi, ma un racconto che ci deve permettere di spiare noi stessi: di sorprendere i momenti in cui nella nostra vita, nonostante
tutto, siamo stati educati bene o siamo stati buoni educa© Nuova Secondaria - n. 1, settembre 2014 - Anno XXXII
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tori. E forse, allora, potremmo dire che natura e cultura
si sono intrecciate già da sempre, che esse costituiscono
la trama della nostra vita, la differenza di origine che
opera entro di noi.
In questo senso, la realtà è la trama in cui, tra cadute e riprese, natura e cultura si annodano, poiché in ogni caduta
è presente qualcosa di altro che riprende dalla caduta e
che ci permette di interpretare quello stato come caduta,
impedendo che l’esistenza si perda del tutto, che l’educazione diventi deformazione: una differenza che riprende sempre di nuovo dallo stato di smarrimento,
sicché l’ontologico e lo storico si intramano, e la storia
tiene, nonostante tutto, l’uomo non si sfascia, l’essere è
vittorioso sul nulla, perché questa differenza dentro di
noi, se da un lato impedisce il compimento, dall’altro si
oppone al rovinio, richiama l’esistenza a se stessa.
Questo richiamo (ciò che la tradizione ha anche determinato come voce della coscienza o voce della natura) è un
richiamo alla responsabilità, cioè al fatto che l’essere
opera se l’uomo risponde, perché non bisogna dimenticare che, per Rousseau, l’uomo è libertà, capacità o possibilità di modificare il suo stato, mentre l’animale è
istinto, ed è dunque legato alla sua situazione. In questo
senso, nel Discorso sull’origine dell’ineguaglianza egli
scrive che «non è perciò tanto l’intelletto che distingue
in modo specifico l’uomo tra gli animali, quanto la sua
qualità di agente libero». Proprio la differenza, proprio il
suo essere natura e cultura, proprio questo essere due
mondi, secondo la lezione pascaliana, rende possibile la
libertà e la storia in quanto luogo della ricerca di sé, ed
implica una differenziazione all’interno stesso dell’educazione, tra quella del fanciullo e quella dell’adulto o dell’adolescente, rispetto a cui non è più sufficiente
un’educazione negativa, poiché – nota Bertagna – «dopo
la preadolescenza, infatti, Emilio scopre le ampiezze e le
possibilità della ragione e della coscienza. Non è più immaginabile poterlo educare senza il suo diretto e protagonistico concorso» (p. 61).
Ma questo concorso educativo alla propria educazione,
che può diventare anche autoeducazione o educazione di
sé, si lega alla narratività. Infatti, al di là della storia come
decadenza o della storia come progresso, forse Rousseau,
attraverso l’attenzione accordata al racconto, ci indica
una maniera inaudita di pensare la storia, indicandola
come luogo in cui ogni singolo ricerca la propria verità,
spia come e dove la natura appaia e irrompa.
In questo senso, abbiamo detto che i testi di Rousseau
sono racconti, in cui è spesso del resto difficile capire
dove inizia il versante speculativo e dove finisce quello
autobiografico. Sono racconti di cadute e riprese perché
in essi, forse, Rousseau cerca la propria natura, e sa di
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poterla e di doverla cercare solo in questo intreccio originario. Spiando la propria storia e le proprie cadute, egli
cerca di sorprendere i punti in cui la verità di se stesso
emerge, facendosi strada attraverso una selva di errori e
di vizi, sicché verrebbe da pensare che qui l’autobiografia non mira a raccogliere in unità un corso di vita, a ricucire i pezzi, quanto piuttosto a sorprendere gli elementi
di verità intemporali come si mostrano in frammenti di
assoluto, cioè dove Rousseau è stato veramente uomo,
pedagogo, legislatore. Il racconto deve fare emergere
dove, in lui, lo stato di natura si è aperto un varco e si è
reso fenomeno.
Il racconto mira, allora, a chiarire come, attraverso una
selva di impedimenti, lo stato di natura emerga e possa
essere colto attraverso rapidi colpi di sonda. In questo
senso, il saggio di Raymond Trousson Eziologia del ricordo d’infanzia e di giovinezza in J.-J. Rousseau mostra
molto chiaramente come nelle Confessioni Rousseau cerchi di comprendere in che modo «è avvenuta una degenerazione» (p. 161) e, allo stesso tempo, cerchi i punti in
cui la natura sopravvive sotto questa deformazione, non
essendo la degenerazione forse altro che la creazione di
opposizioni binarie che frantumano ciò che dovrebbe, invece, marciare unito. Così, per esempio, queste opposizioni binarie frantumano Jean-Jacques quando si
producono due forme di amore opposte, alternative, che
disgregano un’unità originaria, l’unità stessa di Jean-Jacques, costituendolo come essere scisso e lacerato e fornendogli il compito di una intera vita: cercare l’unità di
sé sotto la lacerazione.
In questo senso, forse, si potrebbe riprendere la questione
della verità della narrazione autobiografica. Minichiello
nota, giustamente, che il tratto caratteristico dell’autobiografia moderna «non è il puro e semplice riconoscimento di una trama oggettiva da portare alla luce, bensì
la costruzione di una unità/identità che nella narrazione
viene effettivamente posta in essere» (p. 91). In questa
direzione resta allora da chiedersi a partire da che cosa
questa unità/identità venga posta in essere. Forse, nella
narrazione non si tratta di scoprire “come le cose sono
veramente andate”, ma neanche – come oggi spesso si
dice – di inventarsi, narrativamente, un sé, una vita o le
vite che vogliamo. Forse Rousseau ci suggerisce che nel
racconto e nell’autobiografia la verità di sé deve essere
cercata a partire da ciò che non si è ancora. Si tratta di
cercare nella storia di vita dove il proprio Sé è emerso e
dove, invece, è stato oscurato e il soggetto è divenuto
estraneo a se stesso.
E qui nasce la necessità della relazione, di una relazione
altra rispetto a quella attraverso cui l’essere umano esce
dallo stato di natura, viene travolto dalle passioni e di-
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venta estraneo a se stesso. La scrittura autobiografica è,
infatti, intrinsecamente e strutturalmente relazionale,
poiché l’autobiografia inaugurata da Rousseau, nota Minichiello, mira ad «un’esposizione all’Altro che sorge da
una necessità morale di unione» (p. 93). In questo senso,
è importante la ripresa e la trasformazione che, a questo
proposito, Rousseau inaugura del tema aristotelico dell’amicizia, dato che l’autobiografia è destinata a qualcuno: parla all’amico e parlare all’amico è la via per
potere giungere a se stessi e alla verità (sempre a venire)
di sé.
Un tema decisivo. Infatti, l’autobiografia e la scrittura (altrove considerata da Rousseau un pericoloso supplemento) sembrerebbero questa volta potere rendere
possibile un rapporto con l’altro differente rispetto alla
relazione prodotta dalle passioni distruttive dello stato di
natura che – come nota Potestio – «porta alla costituzione
di legami sociali ma, allo stesso tempo, allontana l’uomo
dalle passioni naturali e lo spinge verso la degenerazione» (p. 130). L’autobiografia sembrerebbe essere un
destinarsi e un inviarsi all’altro in cui le passioni originarie stesse (amore di sé e pietà) possono affermarsi contro le passioni che producono il disordine e il
disfacimento dentro sé e tra sé e gli altri. L’autobiografia
sarebbe, allora, una scrittura in cui il rapporto all’altro e
a se stesso sfuggirebbe a quel linguaggio in cui – sostiene
Potestio – «la parola diviene uno strumento dei dispositivi sociali che corrompono la bontà originaria dell’uomo» (p. 143).
In questo senso, si tratterebbe di chiedersi come debba
essere intesa l’idea di Rousseau secondo cui vi sarebbero
due passioni naturali: l’amore di sé e la pietà. Sono forse
sentimenti innati, per così dire biologicamente innati, o
sono possibilità attraverso cui la persona giunge a se
stessa e alla propria formazione, proprio in quanto un diverso tipo di linguaggio e di scrittura, quali quelli caratteristici dell’autobiografia, li sorprende come i sentimenti
attraverso cui possiamo autenticamente entrare in contatto con noi stessi e in relazione con gli altri? La loro
originarietà è biologica, cioè un dato di fatto naturale, o
ontologica, cioè una possibilità che interpella la nostra
responsabilità e rispetto a cui dobbiamo chiederci – e
forse Rousseau l’ha fatto, inaugurando davvero, in questo senso, la pedagogia come scienza fondamentale e autonoma – come coltivarli?
Rispetto a ciò è interessante riprendere la prospettiva proposta da Mari. La narrazione, infatti, si lega potentemente
alla questione pedagogica della formazione, poiché, a differenza della modernità che mira a un sapere “utile”, ad
un sapere che è potere, per Rousseau non è importante
che cosa un essere umano deve giungere a fare, ma chi
© Nuova Secondaria - n. 1, settembre 2014 - Anno XXXII
può essere, sicché «Rousseau rimette al centro dell’educazione il riconoscimento della cultura come coltura
animi ossia “formazione” nel senso di “trasformazione”,
anzitutto morale, attraverso cui l’essere umano […] diventa ciò che è» (p. 109).
Intendere così le cose significa però forse pensare che la
differenza tra l’originario e lo storico non si traccia a partire dall’opposizione tra ciò che è scritto nel cuore e ciò
che è scritto con l’inchiostro, ma all’interno stesso della
scrittura, delle sue forme, perché nello scrivere e nella
storia si traccia il cuore dell’uomo. L’opposizione non è
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NUOVA SECONDARIA RICERCA
tra mondi separati (l’ontologico e lo storico), poiché l’origine stessa è una differenza originaria, e se la storia è la
caduta essa è anche il luogo in cui si scrive e si inscrive,
rendendosi fenomeno, la verità di sé, poiché la verità non
è fuori dalla storia e dalla vita, ma è se opera.
Vincenzo Costa
Università del Molise
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