Dispense di Istituzioni di storia dello spettacolo teatrale
Parte metodologica (ad uso esclusivo degli studenti)
I. La critica del teatro
Chi sono i critici del teatro? Attualmente sono sia gli studiosi 'accademici' del teatro
sia i chroniqueurs, ovvero i recensori di spettacoli; in molti casi i ruoli si mischiano, si sono
mischiati. Non bisogna trascurare, infatti, i contributi nati sul piano della <<cronaca>>:
soprattutto per la prima metà del Novecento, i problemi generali posti dalla nostra cultura in
rapporto con la contemporanea vita sociale appaiono riflessi proprio negli interventi dei critici
cosiddetti <<militanti>>, avviando alla concezione moderna - pur se non ancora definita - del
teatro come campo specifico di trattazione. La loro voce, anche se addetta al settore più
divulgativo e testimoniale - in una prospettiva oggettivamente estemporanea -, il più delle
volte risponde ad una ispirazione maggiore che non quella (per esempio) di tanti <<letterati
puri>> che hanno scritto anche sul teatro.
Dopo la trasformazione, sul finire dell'Ottocento, del resoconto settimanale o
plurisettimanale nella recensione redatta la sera stessa dello spettacolo, il valore informativo
di una cronaca teatrale oltrepassa quello strettamente funzionale: fornire un ragguaglio
tempestivo ma il più possibile chiaro ed esauriente della rappresentazione, offrirne
un'interpretazione e un giudizio che siano guida per i potenziali spettatori della sera dopo o di
un'altra <<piazza>>. L'attenzione si volge prevalentemente al testo rappresentato (le cronache
sono dette significativamente <<drammatiche>>); al più si guarda alla recitazione degli attori in
una prospettiva individuale, non certo di raccordo collettivo, e gli eventuali cenni allo
spettacolo nel suo insieme si rapportano all'occasione di costume. Eppure, da una cronaca ben
fatta (anche nel modo tradizionale) si può dedurre l'atmosfera dello spettacolo, ossia il
rapporto che si è creato in acto fra testo/messa in scena e pubblico: il che non è secondario
affatto alla comprensione del teatro nel suo realizzarsi fenomenico. Anche se possiamo
dedurne soltanto l'avvenuta comunicazione di una certa performance con un certo pubblico
(testimonianza storico-sociale, relativa al tempo <<presente>> dello spettacolo), questo genere
di informazione può aiutare noi, oggi, a confrontare quel <<presente>> con il nostro e magari
proiettarlo nel <<tempo grande>> del valore artistico dell'opera, ad intuire i <<valori di senso>>
che quell'opera o quella messa in scena può assumere in rapporto alla nostra attualità.
D'altronde, in Italia, gli anni 1940-1950 segnano uno spartiacque, attraverso il quale
molte cose mutano nella pratica e nella concezione della <<teatralità>>. Tramontata dal 1915
l'età del grande attore, sta tramontando (se non è già tramontata nel corso degli anni Trenta)
anche l'età del drammaturgo: dopo la seconda guerra mondiale s'avvia (in Italia) l'età del
regista e degli Stabili. Se si osserva, infatti, il quadro degli <<avvenimenti>> registrato per il
nostro paese nell'Appendice dell'Enciclopedia del teatro del '900 (a cura di Attisani), notiamo
il prevalere delle <<novità>> nell'ambito della regìa e delle interpretazioni su quello della
drammaturgia (intesa come produzione di testi drammatici). Se si eccettuano le perduranti
'prime' di Eduardo De Filippo, qualcosa di Betti e di Squarzina-autore, qualcosa ancora di
Giovanni Testori, oltre poi al complesso fenomeno Fo, gli avvenimenti di maggior frequenza e
rilievo non sono le rappresentazioni di nuovi testi teatrali, bensì la fondazione degli Stabili, le
regìe di prestigio <<private>> e <<pubbliche>>; poi il deflagrare sessantottesco di altri modi di
spettacolo, per cui la <<contestazione>> d'ogni istituzione invade tumultuosamente il campo
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stesso del teatro, con il rigetto non solo del testo scritto ma anche della regìa firmata, della
regìa d'autore.
Le ricerche dell'avanguardia classica e degli anni Settanta, la rottura degli schemi e la
sperimentazione di forme e di strutture hanno allargato, per la riflessione, il concetto di
teatro. Prima di questi fenomeni l'immagine che il pubblico medio (ma anche il critico medio)
aveva del teatro era <<una azione o una storia raccontata non da un narratore, ma da attori
che ne riproducevano mimeticamente gli elementi essenziali, o il maggior numero di elementi
possibile, realizzata, quest'azione e questa mimesi, entro un ambiente che esso pure imitava
un ambiente reale e che a sua volta era collocato in un settore di un edificio costruito
all'uopo, secondo determinati modelli architettonici>> (C. MOLINARI, V. OTTOLENGHI,
Leggere il teatro, Firenze, Vallecchi, 1985, p. 6): il teatro all'italiana, con un palcoscenico, una
platea, ma anche palchetti e gallerie. Dopo, non solo si è dovuto far posto all'interno della
definizione di teatro a fenomeni inattesi come gli happenings, dove l'azione teatrale poteva
risolversi in un tizio che pianta un chiodo, ma si è dovuta per conseguenza ammettere la
sostanziale identità di questi con altri fenomeni (vediamo in proposito il volume Siate buffi.
Cronache di teatro, circo e altre arti, <<L'Espresso>> 1969-77, di ANGELO MARIA
RIPELLINO, Roma, Bulzoni, 1989; ed, in rapporto alla ricerca teatrale svolta nel nostro paese
dal 1980 ad oggi, il libro di Paolo Ruffini e Stefania Chinzari, Nuova scena italiana. Il teatro
dell’ultima generazione, Roma, Castelvecchi, 2000). Ma anche all'interno del <<teatro come
rappresentazione di un'opera>> le varianti sono diventate talmente numerose, le possibilità di
combinazione talmente ampie da permettere qualsiasi discorso spettacolare.
Il compito del critico diventa difficilissimo quando ogni evento scenico si presenta
come un discorso a sé stante. Il 'genere' teatro ha subito via via nel corso degli ultimi
decenni reali trasformazioni: per il suo frequente riferirsi alle sperimentazioni avvenute o in
atto nelle diverse sfere artistiche (si è rinnovata, delle prime avanguardie, la caratteristica
tensione interdisciplinare) o per il suo tentativo di riscoprire le proprie origini nel mondo dei
fenomeni teatrali subalterni (che richiamano alla memoria del genere la drammaturgia
antropologica della "festa"). Il teatro dell’ultimo Novecento (e dell’inizio del nuovo secolo) non
ha convenzioni fissate in statuti di rappresentazione, un’idea di teatro fondamentalmente
univoca, e sperimenta anche diversi "spazi” di teatro, come luogo e come immaginario
dell'agire. Il critico è dunque costretto a misurarsi continuamente con spettacoli che si
inventano o reinventano parametri "nuovi", ad elaborare di volta in volta strumenti nuovi di
lettura e di giudizio. Anche le "cronache del teatro" si debbono trasformare inevitabilmente
in "cronache dello spettacolo", e le unità di misura critica variano in continuazione. Perciò in
nessun altro periodo come il nostro la critica teatrale si è mai interrogata tanto su se stessa
o sul proprio soggetto (che è lo stesso). La componente riflessiva si è accentuata nella stessa
esperienza teatrale, ha condotto gli autori della cosiddetta "scrittura scenica" ed anche i
registi (che si sono posti sul medesimo piano creativo) a costituirsi un'attività parallela e
autonoma, fiancheggiatrice della riflessione critica e/o poetica; è naturale che chi scrive sul
teatro sia portato a chiedersi <<cosa sia>> questo oggetto sempre più misterioso - perché
<<mobile>> - chiamato <<teatro>>.
I. 1. Gli apporti della semiotica alla critica del teatro
La critica teatrale più avvertita ha sentito, dunque, l'esigenza di articolare i suoi
strumenti di indagine, prendendo prestiti - per questa "scienza" del teatro senza dubbio
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"nuova" - da metodologie applicate in altri campi: dallo strutturalismo, dalla psicoanalisi, dalla
semiologia. Fra gli approcci di lettura del teatro con intenzioni di rigore scientifico, che
intendono cioè sottrarre il <<dramma>> alla critica letteraria e lo <<spettacolo>> alle
impressioni dei recensori, la semiotica teatrale ha senza dubbio un posto di rilievo. Anche in
quest'ambito tuttavia, come si vedrà, resta aperto uno dei problemi fondamentali che ancora
divide gli studiosi del 'genere': chi si occupa di teatro e di dramma si trova di fronte a due
tipi di materiale testuale piuttosto dissimili - sebbene intimamente collegati -, quello prodotto
<<nel>> teatro (che potremmo chiamare con Elam il <<testo spettacolare>>) e quello prodotto
<<per>> il teatro (il <<testo drammatico>>). Ha continuato ad essere argomento di discussione
se questi due tipi di struttura testuale appartenessero allo stesso campo di ricerca;
specialmente alcuni, gli <<spettacolisti>>, sono arrivati a sostenere che il testo drammatico non
costituisse un legittimo campo di indagine per il critico del teatro, nonostante esista, nel caso
della rappresentazione di un'opera, una sorta di reciproca interazione fra i due tipi di testo.
La semiologia o semiotica può essere definita come una <<scienza rivolta allo studio
della produzione di significato nella società>>. Come tale, riguarda allo stesso modo il processo
di significazione e quello di comunicazione, cioè <<i mezzi con cui i significati vengono generati
e scambiati>> (K. ELAM, Semiotica del teatro, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 9). Proposta quasi
contemporaneamente da due grandi pensatori moderni all'inizio del Novecento - il linguista
svizzero FERDINAND DE SAUSSURE e il filosofo americano CHARLES SANDERS PEIRCE -,
questa scienza rivolta alla comprensione dei segni ha conosciuto due periodi di intensa e
diffusa attività: gli anni Trenta e Quaranta (con il lavoro dei formalisti cecoslovacchi) e gli
anni Settanta-Ottanta del Novecento (specialmente in Francia, Italia, Germania, Unione
Sovietica e Stati Uniti). La sua applicazione ha avuto soprattutto fortuna (all'inizio) nel
campo degli studi letterari, ma in quanto <<scienza della comunicazione, della trasmissione di
messaggi, della comprensione e non comprensione fra l'individuo, gli altri e se stessi, delle
forme di codificazione socio-culturali>> (Ju. M. LOTMAN, Semiotica della scena, in
<<Strumenti critici>>, n.44, 1981, p. 1), ha fornito anche strumenti teorici e metodologici alla
critica teatrale.
La semiotica teatrale è d'altra parte una disciplina relativamente giovane ed ha dovuto
occuparsi di ricerche e questioni preliminari:
1) la legittimità di applicazione ad un oggetto <<il cui statuto è almeno in gran
parte l'assenza>> (F. RUFFINI, Semiotica del testo. L'esempio teatro, Roma,
Bulzoni, 1978);
2) il problema del carattere specifico e della stessa esistenza della
<<comunicazione teatrale>> (per esempio, G. MOUNIN nega che il teatro
comunichi perché si ha comunicazione solo quando il destinatario può farsi a sua
volta emissario con lo stesso codice);
3) il problema del rapporto fra testo drammaturgico (o drammatico) e spettacolo.
I. 2. I fondatori di una semiotica teatrale: il gruppo russo-praghese
I fondatori di una semiotica teatrale sono stati proprio i praghesi, negli anni Trenta: la
teoria del segno teatrale è stata elaborata in un clima di ricerche interdisciplinari
(linguistica, arte, antropologia, etnografia strutturale) estremamente ricche e articolate. I
loro studi sul pubblico, l'attore, la segnicità della scena, poi sul teatro popolare, le feste, il
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folklore, risultano basilari. Nel 1931 escono in Cecoslovacchia due studi che cambiano
radicalmente le prospettive di un'analisi scientifica del teatro e del dramma: Estetica
dell'arte del dramma di OTAKAR ZICH e Tentativo di analisi del fenomeno dell'attore di
JAN MUKAROVSKY.
Lo strutturalismo praghese si sviluppa sotto la duplice influenza della poetica dei
formalisti russi e, come si è detto, della linguistica strutturale saussuriana. A De Saussure
deve la definizione operativa di <<segno>> come un'entità a due facce, che lega un veicolo
materiale o significante a un concetto mentale o significato. MUKAROVSKY, quindi, identifica
la rappresentazione teatrale nella sua interezza come l'unità semiotica, il cui significante o
veicolo segnico è l'insieme degli elementi materiali, e il cui significato è l'<<oggetto estetico>>
che risiede nella coscienza collettiva del pubblico (1934). Il testo spettacolare diviene un
macro-segno e il suo significato è costituito dal suo effetto totale: si dà in tal modo il peso
dovuto allo spettatore.
I principi di significazione teatrale, stabiliti negli anni Trenta e Quaranta dagli
strutturalisti della Scuola di Praga, riguarderanno:
1) la <<semiotizzazione dell'oggetto>>: l'ipotesi che la scena trasformi radicalmente
tutti gli oggetti e i corpi in essa definiti, conferendo loro un potere significante
che essi non hanno nella loro normale funzione sociale; per esempio, un tavolo
impiegato nella rappresentazione drammatica non differirà da quell'oggetto su cui
si mangia o si scrive, ma per il fatto stesso di apparire sulla scena la sua
significazione simbolica è più importante della sua funzione utilitaristica (per
questo stesso motivo, un oggetto reale può essere sostituito sulla scena da un
simbolo, se questo simbolo è capace di trasferire in se stesso i segni propri
dell'oggetto: il mare può essere significato da un lenzuolo azzurro, che si fa
oscillare);
2) il principio della <<connotazione>> scenica: il fatto che il segno teatrale, oltre al
significato primario <<denotativo>> di <<stare per una classe di oggetti>> (un tavolo
-> <<tavolo>>), acquista anche significati secondari, <<connotativi>>, per il pubblico,
che lo collega ai valori sociali, morali e ideologici operanti nella comunità della quale
attore e spettatore fanno parte; per esempio, un costume marziale sulla scena,
oltre al denotato <<armatura>>, può significare per un dato pubblico <<coraggio>> o
<<virilità>>, o un interno domestico borghese <<ricchezza>>, <<ostentazione>>,
<<cattivo gusto>>, o il veicolo segnico <<corona>> acquistare i significati secondari di
<<maestà>>, <<usurpazione>>, ecc. (in una rapprentazione ottocentesca del Saul di
Vittorio Alfieri da parte di Tommaso Salvini, l’attore, nella scena del delirio finale,
prima abbandonava la corona in terra e poi se la rimetteva in capo per sottolineare
la sua morte regale). Un tavolo da pranzo, che nel primo atto è sede di raccolta di
oggetti gettati alla rinfusa e quindi segno dello <<sfascio della casa>>, nel terzo,
apparecchiato con dignità e diligenza, può diventare invece centro di <<socialità>> e
di <<ritrovo>>. La connotazione dipende dai valori extra-teatrali che hanno certi
oggetti, modi di parlare o forme di comportamento; ma la comunicazione teatrale
permette a questi significati di prevalere sulle funzioni pratiche: le cose servono
solo nella misura in cui significano. Ciò consente di percepire la performance come
una rete di significati, cioè come un testo. Ogni aspetto della performance (come la
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performance nel suo insieme) è governato dalla dialettica <<denotazioneconnotazione>>: la scenografia, il corpo dell'attore, i suoi movimenti e il suo modo di
parlare determinano (e sono determinati da) una rete di significati primari e
secondari che muta costantemente; di qui il <<carattere polisemico>> del segno
teatrale. Un costume può suggerire caratteristiche socio-economiche, psicologiche
e perfino morali (per esempio, il vestito a pezzi internazionali indossato da Gennaro
Jovine nel secondo atto di Napoli milionaria! di Eduardo De Filippo), e la
conseguente <<ambiguità semantica>> essenziale per tutte le forme di teatro.
3) il principio della <<mobilità>>, del <<dinamismo>> o <<trasformabilità>> del segno
teatrale: la scena drammatica, per esempio, non è sempre figurata analogicamente
tramite mezzi spaziali, ma può essere indicata gestualmente tramite indicazioni
verbali o altri mezzi acustici; così l'attore non deve essere necessariamente un
uomo, ma può essere una marionetta, o una macchina, o perfino un oggetto. La
rappresentazione drammatica illusionistica e realistica limita la mobilità del
rapporto segnico: nel teatro occidentale ci aspettiamo generalmente che la
<<classe>> significata (<<tavolo>>) sia rappresentata da un veicolo segnico
riconoscibile come appartenente alla stessa; ma non è il caso del teatro orientale, e
neppure del teatro d'avanguardia (un tavolo può essere significato da un attore <<a
quattro zampe>>). Si tratta non solo del passaggio da una funzione all'altra, ma
anche da un codice all'altro (la sostituzione, per esempio, di indicatori scenici con
gesti o riferimenti verbali). In quest'ambito si può fare anche al meno del soggetto
umano e affidare l'iniziativa semiotica alla scena e agli accessori scenici, percepiti
come equivalenti della figura dell'attore: l'ideale di Gordon Craig era un modo di
rappresentazione determinato da una scena altamente connotativa e in cui l'attore
avesse la funzione di Supermarionetta; ma pensiamo anche ai <<drammi di oggetti>>
di Filippo Tommaso Marinetti, dove la figura umana è vittima dei veicoli scenici
intorno ad essa (Vengono).
1) il principio della <<evidenziazione>> e della <<gerarchia>> della performance: si
concepisce la struttura della performance come una gerarchia dinamica di elementi,
la cui trasformabilità corrisponde alla trasformabilità del segno teatrale. In questa
mutevole struttura, c'è una figura all'apice della gerarchia, la quale attrae verso di
sé la maggiore attenzione del pubblico attraverso un processo di evidenziazione
(ovvero un uso inatteso del linguaggio che attira l'attenzione sul fenomeno stesso,
indipendentemente dai contenuti che esprime). Il <<silenzio>> di un attorepersonaggio può, improvvisamente, costringere non solo gli altri personaggi ma
anche il pubblico ad interessarsi delle sue reazioni. Nella tradizione teatrale
occidentale, la struttura della performance appare automatizzata quando l'apice
della gerarchia è occupato dall'attore <<principale>>. Si ha <<evidenziazione>> quando
l'attenzione si sposta su una scenografia autonoma (Piscator e Craig), sugli effettiluce (Appia) o su un particolare aspetto della performance dell'attore, per es. i suoi
gesti (come negli esperimenti di Meyerhold o Grotowski. Ma l'evidenziazione
teatrale può includere l'<<inquadratura>> di una parte della performance in modo,
per dirla con Brecht, da <<distinguerla dal resto del testo>>. Tecniche di
<<inquadramento>> o di <<straniamento>> possono consistere in un'esplicita
accentuazione del carattere in progress della rappresentazione (il gestus del
mostrare di Brecht), come quando l'attore si mette in disparte per commentare ciò
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che sta accadendo, o nell'evidenziare i mezzi rappresentativi attraverso artifici
come lo <<stoppare>>, l'accelerare o il rallentare, i cambiamenti di luce improvvisi
(come nel teatro sperimentale degli anni Sessanta e Settanta).
Per quanto riguarda poi altri problemi inerenti alla semiosi teatrale, secondo J.
MUKAROVSKY il rapporto fra il testo drammaturgico e lo spettacolo non è questione
scottante e centrale. <<Vi furono epoche in cui si pensava che il teatro servisse soltanto a
riprodurre l'opera dell'autore drammatico <...> altre volte al contrario prevalse l'opinione che
il dramma è semplicemente un testo per la messa in scena teatrale e non un'opera letteraria
autonoma. Ambedue queste tesi esprimono però soltanto concezioni di teatro limitate a un
determinato sistema artistico <...>. Per principio né il teatro è subordinato alla letteratura né
questa al teatro>> (1941, trad. it., Sullo stato attuale della teoria del teatro, in Il significato
dell'estetica, Torino, Einaudi, 1971). Eppure il problema sarà uno di quelli maggiormente
discussi dai teorici e dai critici del teatro.
Mukarovsky intuisce anche il rapporto dialogico fra chi mette in scena lo spettacolo e
il pubblico. La dialettica sala-palcoscenico pone quindi il problema dell'organizzazione
spaziale. Gli spunti si trovano ancora nei lavori della scuola russo-praghese, attratta dalle
<<possibilità della scena, che è spazio, di non essere necessariamente indicata da uno spazio>>.
Rappresentare un dramma significa <<situare un dramma nello spazio>> anche se non
necessariamente con mezzi spaziali: il giardino dei ciliegi, nell'ultimo atto cechoviano, è sulla
scena, anche se gli spettatori non lo vedono; non è indicato in modo spaziale ma dal suono dei
colpi di ascia che abbattono gli alberi. In particolare lo spazio drammatico può <<oltrepassare
la ribalta per trasferirsi sulla scena immaginaria>> e per <<impadronirsi di tutto il teatro>>
fino ad occupare la coscienza del pubblico.
I. 3. La semiotica ed il rapporto fra testo scritto e rappresentazione
Dagli anni Settanta in poi gli studi di semiotica applicata al teatro si diffondono in
Francia, Italia, Germania, Unione Sovietica e Stati Uniti d’America. Ad attrarre l'attenzione
di molti studiosi, soprattutto italiani e francesi, saranno, infatti (come abbiamo anticipato) la
straordinaria ricchezza segnica della scena, l'intrecciarsi di codici diversi, la complessità
dialettica che si crea fra mittente e destinatario, il rapporto fra testo drammaturgico e la
dinamicità dello spettacolo che si arricchisce e si rinnova ad ogni rappresentazione.
Una delle questioni preliminari è stata quella della legittimità dell'applicazione della
semiotica ad un oggetto così mobile come lo spettacolo: <<... si devono affrontare gli ostacoli
della semplice possibilità esecutiva della rifissazione su carta di un evento che si svolge e si
consuma tutto in un certo tempo, senza lasciare tracce e, soprattutto, senza consentire
alcuna sosta alla sua evoluzione, alcuna possibilità di verifica e re-visione (come avviene alla
moviola nel caso del film)>> (Betettini, Appunti per una semiotica del teatro, in G. Bettetini e
M. De Marinis, Teatro e comunicazione, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1977, p.19). E C.
MOLINARI, nel suo agile manuale di semio-stilistica dello spettacolo redatto insieme a
V.Ottolenghi, tiene a distinguere il <<teatro>> come <<spettacolo>> da <<una registrazione o una
trasmissione effettuata con strumenti tecnici come la TV, e questo non perché la
registrazione allontana lo spettacolo dallo spettatore e lo rende ripetibile, ma perché
comporta una materia dell'espressione più omogenea e quindi una minore complessità>>
(Cesare Molinari, Valeria Ottolenghi, Leggere il teatro, Firenze, Vallecchi, 1977; 1982, p. 7).
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La questione del resto, al di là della sua veste teorica, resta aperta nella pratica, e investe la
materia di questo stesso corso dal momento che quando passeremo ad esaminare la
messinscena di alcuni testi dovremo basarci su uno strumento improprio come quello della
registrazione in video.
Tornando comunque ai problemi dibattuti dalla semiotica del teatro negli anni
Settanta, si nota come nel fervore delle polemiche suscitate dalla novità e dalla complessità
dell'argomento, soprattutto in questo primo decennio ('70-'80), le posizioni hanno teso ad
estremizzarsi. Rileviamo, infatti, la presenza di due punti di vista opposti in quest'ambito: di
quelli che muovono dallo studio del <<testo letterario>> e di quelli che ritengono corretta
unicamente l'ottica che riguarda il <<testo spettacolare>>.
 Partendo dalla giusta esigenza di non limitare l'analisi del testo teatrale alla sola
composizione verbale, alcuni privilegiano lo spettacolo fino a considerare anche il
testo drammaturgico più completo alla stregua di uno schema, di un'articolata
ipotesi teatrale da analizzare in questa prospettiva. Ricordiamo, a riguardo, la
proposta anticipatrice di A.G.BRAGAGLIA: <<Il fondamentale errore delle Storie
del Teatro è quello per cui lo studio di testi venne equivocato come studio del
teatro>>; e ancora: <<In certo grado anche i più celebri capolavori della letteratura
drammatica restano sempre un canovaccio>> (Introduzione ad A. Perrucci, Dell'arte
rappresentativa premeditata ed all'improvviso, Napoli, Muzio, 1699; ora Firenze,
Sansoni, 1961, pp.10-11). In quest'ambito, la proposta più articolata è quella di
FRANCO RUFFINI, che fornisce nel suo Semiotica del testo. L'esempio teatro
(Roma, Bulzoni, 1978) un contributo importante alla semiotica del testo teatrale
inteso come spettacolo. Egli tuttavia, anche per motivi polemici nei confronti delle
posizioni <<logocentriche>> fino a quel momento dominanti, tende a sacrificare,
relegandoli ai margini della sua analisi, i problemi relativi al testo drammaturgico.
 All'estremo opposto è la posizione di coloro che tendono a trasformare la semiotica
teatrale in quella del testo letterario: come S. JANSEN (Esquisse d'une théorie de
la forme dramatique, in <<Langages>>, n.12, 1968) e M. PAGNINI (Per una semiologia
del teatro classico, in <<Strumenti critici>>, n.12, 1970, pp. 120-140). Pagnini applica
le <<funzioni narrative>> di R. BARTHES alla fabula del dramma (Hamlet); JANSEN,
in Problemi dell'analisi dei testi drammatici, (<<Biblioteca teatrale>>, n. 20, 1978),
prende come unità di base la <<situazione>>, definita dalle entrate ed uscite dei
personaggi.
Nel tentativo di risolvere un problema generale, le due posizioni privilegiano due
diverse concezioni del teatro.
Su un versante ancora diverso, eppure complementare rispetto ai sostenitori della
prima tesi (coloro che testualizzano la performance), si pone ANN UBERSFELD, in Lire le
théatre, Paris, Edition Sociales, 1977 (tr. it., Theatrikòn. Leggere il teatro, Roma, Edizione
Universitaria La Goliardica, 1984); la studiosa francese si concentra infatti su quegli aspetti
del testo teatrale lasciati in ombra da Ruffini. <<La specificità del testo di teatro è la prima
essenziale questione da affrontare; <... per> sfuggire nello stesso tempo al terrorismo
testuale ed al terrorismo scenico, al conflitto fra chi privilegia il testo letterario e chi <...>
ignora l'istanza scritturale>> (p.10). La Ubersfeld sostiene che la rappresentazione è
sostanzialmente inscritta nel testo drammatico, per cui ricerca nessi aperti, ma pur sempre
necessari, tra testo e spettacolo: una delle sue argomentazioni in proposito è che il testo e la
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messa in scena possono considerarsi <<strutture superficiali>> di un'unica <<struttura
profonda>>. Su questa linea si pone anche Giovanni NENCIONI (in un ambito tuttavia non
specificamente semiotico) con Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato, in
<<Strumenti critici>>, n. 29, 1976 (ora in Di scritto in parlato, Bologna, Zanichelli, 1983); e
Alessandro SERPIERI afferma che l'equivoco è nato dal fatto che si è considerato il testo
drammaturgico come un testo letterario e non come un testo specifico fornito di
determinazioni proprie <<nella sua predisposizione alla scena>> (pp.11-12). Basa il rapporto
testo-spettacolo sulla <<deissi>> dei personaggi, cioè sul loro orientarsi e indirizzarsi,
necessariamente impliciti nel testo. (La <<deissi>>, etimologicamente un concetto gestuale, cioè
l'<<indicare>>, ha nel discorso linguistico il ruolo di definire il protagonista <io>, il destinatario
<tu> e il contesto <qui>: il gesto deittico è di imporatanza decisiva per la performance
teatrale, essendo il mezzo primario con cui vengono stabili la presenza e gli orientamenti
spaziali del corpo dell'attore sulla scena; è attraverso i marcatori pronominali, o deittici, che
viene gettato un ponte fra gesto e linguaggio, perché essi indicano gestualmente gli oggetti
del simultaneo discorso verbale). Per Serpieri dunque fra le più importanti caratteristiche del
discorso teatrale sono gli elementi deittici che appartengono al <<io-qui-ora>>: l'<<io>> della
dramatis persona e il <<qui e ora>> del contesto comunicativo drammatico sono collegati al
corpo dell'attore e al contesto scenico tramite il gesto indicativo che accompagna l'enunciato;
il gesto materializza il soggetto drammatico e il suo mondo, affermando la sua identità con un
corpo reale e uno spazio reale (A.Serpieri et al., Come comunica il teatro: dal testo alla scena,
Roma, Il Formichiere, 1978).
Il problema del rapporto fra testo e spettacolo torna nel saggio di K.ELAM, The
Semiotics of Theatre and Drama, pubblicato originariamente in inglese nel 1980, e tradotto in
italiano come Semiotica del teatro, Bologna, Il Mulino, 1988. Kelam si pone un quesito di
fondo: ogniqualvolta si tenta una indagine semiologica del teatro, essa è concepibile come
un'impresa unitaria che presuppone la complementarietà fra teatro e dramma, oppure si
tratta di affrontare due discipline separate? Indica quindi come <<testo spettacolare>> o
teatrale quello prodotto nel teatro, e come testo drammatico o scritto quello composto per il
teatro. E' tuttavia avanzata una ipotesi di possibile interazione, garantita da una sorta di
reciproca necessità. Per Elam, l'elaborazione del testo drammatico non può prescindere dalla
sua rappresentabilità; altrimenti si tratterebbe di un testo incompleto, la cui comunicazione
non si realizza appieno se non è seguita e sostenuta da mezzi di trasmissione del messaggio di
natura prettamente teatrale (i corpi e le voci degli attori, insieme agli accessori scenici). Da
parte sua, il testo drammatico pone dei vincoli alla performance mediante la determinazione
dell'azione (ciò che gli attori dicono) e attraverso l'indicazione dei movimenti, della
scenografia, della musica.
Nel 1880 esce anche il primo contributo teorico di Jurij M. LOTMAN, tradotto come
Semiotica della scena, in <<Strumenti critici>>, n.44, 1981, pp.1-45. Jurij Lotman è l'esponente
di punta della scuola di Tartu: come professore in quella università ha condotto per molti anni
serrate indagini sul fatto letterario e artistico secondo la prospettiva della semiotica. Lo
distingue anche un particolare equilibrio nell'uso del metodo strutturale-semiotico: in La
struttura del testo poetico (Milano, Mursia, 1972-1976; ed. orig. Mosca 1970), egli afferma
che, per quanto il metodo strutturale-semiotico si ponga, al limite, come possibilità di lettura
integrale dell'opera, questa lettura non potrà mai essere esauriente: la transcodizicazione
dell'opera letteraria, o dell'opera d'arte in genere, in un linguaggio che la <<descriva>> non può
che essere, sempre, parziale. Egli inoltre si pone il problema del rapporto fra testo e
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struttura extratestuale, e il problema del significato nel testo letterario e artistico in
genere; cercando di dimostrare la funzionalità della struttura artistica e di fondare il
<<significato>> del linguaggio artistico. Non può esistere, per lui, opera d'arte senza
significato: su questa base egli cerca di eliminare la dicotomia fra contenuto e forma. Ciò
riguarda in particolare l'arte teatrale; infatti, se in La struttura del testo poetico egli non si
propone di dare una definizione formale del teatro, dal teatro trae alcuni esempi di rilievo,
specialmente in considerazione del <<problema dello spazio artistico>> e della sua <<cornice>>.
Dieci anni dopo, in Semiotica della scena, trae conseguenze dai precedenti studi, riguardo al
teatro come <<arte dello spazio>> (oltreché del <<tempo>>). Afferma tra l’altro, a proposito del
rapporto fra testo e rappresentazione: “Per il drammaturgo l’opera può essere una
comunicazione indirizzata al lettore. Per il teatro invece è comunicazione soltanto la messa in
scena. Naturalmente è possibile anche che il drammaturgo sia un uomo di teatro, per il quale
l’esistenza del testo comincia dal momento della messinscena” (Semiotica della scena, cit.,
p.30). Egli inoltre sottolinea la somiglianza fra il gioco infantile ed il teatro, osservando come
nel primo esista un rapporto reciproco fra comportamento pratico e “convenzionale” (ossia
segnico, rituale etc.), che si realizza simultaneamente. Chi gioca ricorda di trovarsi in un
mondo convenzionale, ma nello stesso tempo prova emozioni “come se” vivesse realmente le
situazioni immaginate. L’arte del gioco consiste in questo comportamento “a due piani”, in
questa assenza di monosignificanza; rovina il gioco sia chi perde il senso della convenzionalità
sia chi non l’accetta. Di qui la natura attiva del gioco, la sua funzione di allenamento della
personalità: abolisce la distinzione fra CHI AGISCE e CHI OSSERVA, TUTTI PRENDONO
PARTE. Di qui anche la differnza fra la statua ed il giocattolo: chi gioca dialoga con il
giocattolo, risponde per sé e per esso. La differenza fra il gioco ed il teatro è che, nel
secondo caso, si tratta di un prodotto artistico, e che comunque esiste una distinzione fra
attore e spettatore.
II. La comunicazione del teatro
Il teatro comunica? Paradossalmente, il punto di partenza della riflessione e della
ricerca sulla comunicazione teatrale è rappresentato dalla sua negazione.
Come abbiamo anticipato, nel 1969, il linguista francese GEORGES MOUNIN ha messo
in dubbio la classificazione del legame attore-spettatore come rapporto cominicativo. La
comunicazione dipende, secondo lui, dalla capacità delle parti di impiegare lo stesso codice
(p.es. una data lingua), in modo che <<l'emittente può diventare a sua volta ricevente, e il
ricevente mittente>>; <<non c'è niente di tutto ciò nel teatro, in cui gli emittenti- attori
restano sempre gli stessi, come pure i riceventi- spettatori>> (La comunicazione teatrale, in
Introduzione alla semiologia, Roma, Ubaldini, 1972 <ed.orig.1970>). La concezione che ha
Mounin della <<performance>> teatrale è un modello <<stimolo-risposta>> nel quale segnali a
senso unico prodotti da un EMITTENTE (ATTORE) provocano nel RICEVENTE
(SPETTATORE) riflessi più o meno automatici che non comunicano a loro volta lungo gli stessi
assi (o mediante gli stessi codici).
EMITTENTE------STIMOLO-----RICEVENTE---RISPOSTA---
(Attore)
(Performance)
(Spettatore)
CODICE
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La tesi di Mounin ha ricevuto numerose confutazioni:
(a) Anzitutto il punto di vista di Mounin appare basato sulle forme più deboli dello
spettacolo, dove un pubblico passivo può fornire risposte automatiche ad un prevedibile
insieme di segnali. Comunque, perfino nelle forme più ovvie e stereotipate dello spettacolo
borghese, il pubblico svolge una funzione fondamentale, essendo lui a innescare il circuito
comunicativo tramite il semplice atto di comprare il biglietto. Inoltre, la presunta passività,
evidente in alcune forme spettacolari, può essere una scelta attiva, perfettamente
obbediente a principi di decoro variabili da pièce a pièce. Per esempio: se la partecipazione
anche turbolenta rende il pubblico delle <<serate futuriste>> come poi quello del Living
Theatre un buon pubblico, il totale silenzio e l'immobilità sono reazioni idonee per l'ideale
ricevente-spettatore di una tragedia classica. D'altra parte, come risposte, più o meno
sollecitate, saranno intese da parte degli attori le risate, gli applausi e i fischi della platea:
<<in qualsiasi forma di teatro vitale i segnali del pubblico sono un contributo essenziale alla
formazione e alla ricezione del testo spettacolare>> (ELAM, 1988, p.40).
(b) In secondo luogo, suscita perplessità la concezione stessa che ha Mounin della
<<comunicazione>>: egli insiste sul fatto che emittente e ricevente impiegano entrambi un solo
codice e un insieme di canali fisici, trasmettendo così segnali simili. Si ritiene invece
sufficiente che il ricevente sia a conoscenza del codice dell'emittente e dunque in grado di
comprenderne il messaggio: se l'emissario e il destinatario conoscono l'uno il codice dell'altro,
non è affatto necessario, affinché si dia comunicazione, che i due codici coincidano, né che
possano tradurre integralmente l'uno i messaggi dell'altro, né che la comunicazione nei due
sensi debba avvenire lungo lo stesso canale. Nel più semplice esempio linguistico, in una
conversazione fra un inglese ed un italiano, basta che il ricevente conosca, anche in modo
approssimativo, la lingua dell'altro per comprenderne il messaggio, e viceversa. E che il
ricevente non possa rispondere secondo il medesimo codice dell'emittente (come osserva
Mounin) non significa affatto che non ci sia comunicazione: ad un messaggio emesso in
alfabeto morse o in linguaggio cifrato, può corrispondere un risposta gestuale, in linguaggio
naturale. <<L'identità dei codici andata-ritorno non è dunque una condizione assoluta della
comunicazione>> (UBERSFELD, 1984, p.24). Così, nell'ambito dello spettacolo teatrale, uno
spettatore con una certa esperienza sarà in grado di capire la performance, almeno
approssimativamente, nei termini dei codici teatrali e drammatici impiegati dagli attori,
rispondendo con diversi segnali.
La rappresentazione è costituita infatti da un insieme di segni, <<verbali e non
verbali>>: lo stesso <<messaggio verbale>> comporta due specie di segni, i <<segni linguistici>>
(componenti il messaggio linguistico) e i <<segni acustici>> (voce, espressione, ritmo, altezza,
timbro); a questi si aggiungono i codici grazie ai quali si possono comprenderne i <<segni non
verbali>>, i codici visuali, musicali, la gestualità, la prossemica ecc. La stessa polisemia del
messaggio teatrale - nella rappresentazione - consente paradossalmente al teatro di essere
inteso e compreso anche da chi non ha <<tutti>> i codici (UBERSFELD, 1984, p.27). Si può
capire un lavoro senza conoscere la lingua, o senza comprendere le allusioni nazionali o locali, o
senza afferrare un certo codice culturale complesso o fuori uso: p.es. i signori o i lacchè che
assistevano alle rappresentazioni di RACINE non capivano niente delle allusioni mitologiche,
essendo ignoranti; gli spettatori parigini che hanno apprezzato le rappresentazioni del
Campiello di GOLDONI messo in scena da G. STREHLER non capivano il dialetto veneziano;
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così La grande magia di EDUARDO DE FILIPPO portata dallo stesso STREHLER in Russia ha
suscitato entusiasmo nel pubblico, che non conosceva la lingua: restavano tutti gli altri codici,
che permettevano di afferrare sufficientemente i segni.
II. 1. Il ruolo dello spettatore e le sue competenze
Il problema della <<comunicazione>> a teatro implica quindi una riflessione sul <<ruolo
dello spettatore>> e sulle sue <<competenze>>.
UBERSFELD osserva che la funzione-ricettore del pubblico è molto più complessa di
quella di un <<contro-emittente>>, che rimanda segni di natura differente, del tipo: <<Vi ricevo
per metà>> o <<Non vi ricevo affatto>> (dicono i fischi o le risate fuori luogo).
(a) Lo spettatore smista anche <<le informazioni, le sceglie, le rifiuta, spinge l'attore
in un senso, con segni deboli, ma molto chiaramente percettibili dall'emittente>>.
(b) Inoltre <<non c'è uno spettatore, ma una molteplicità di spettatori che reagiscono
gli uni sugli altri>>.
(c) Infine, <<è lo spettatore <...> che fabbrica lo spettacolo: egli deve ricomporre la
totalità della rappresentazione>> (1984, p.36). Lo spettatore è costretto non solo a
seguire una storia, ma a ricomporre ad ogni istante la figura totale di tutti i segni
che concorrono alla rappresentazione. Non è stato BRECHT ad inventare questo
<<arbitraggio creativo>> dello spettatore, ma egli ha riscoperto, al di là della
passività del pubblico borghese, la legge fondamentale del teatro: <<quella che fa
dello spettatore un partecipante, un attore decisivo (... senza che sia necessario
far intervenire il minimo happening)>> (1984, p. 37).
D'altra parte, la risposta dello spettatore dipende anche dalla conoscenza acquisita di
regole per mezzo delle quali il suo comportamento è organizzato. Sulla base di una simile
competenza, lo spettatore identifica quegli elementi che appartengono alla rappresentazione
e quelli che non sono pertinenti ad essa (per esempio, l'apparizione degli inservienti per i
cambi di scena), quali eventi extra-testuali possono essere tollerati (gli arrivi in ritardo o il
mancato funzionamento dell'attrezzatura), e fino a che punto la <<convenzione di
trascurabilità>> possa essere accettata (ELAM, 1988).
La competenza dello spettatore può essere relativa alle regole di un dato spettacolo, in
una certa epoca, ma deve comprendere almeno certe regole generali inerenti all'arte del
teatro: se <<l'arte teatrale ha il suo linguaggio specifico>>, solo la conoscenza di questo
linguaggio garantisce al pubblico la possibilità di una <<comunicazione artistica>> con lo
spettacolo teatrale nel suo insieme (LOTMAN, 1981, p. 6). Uno degli elementi fondamentali per LOTMAN - del linguaggio teatrale è <<la specificità del linguaggio artistico della scena. E'
proprio questo a dare il carattere e la misura della convenzionalità teatrale>>. Quali sono i
rapporti che servono a definire questo linguaggio? Possiamo distinguere i rapporti <<attoriattori>>, <<spettatori-spettatori>>, <<attori- spettatori>> (rapporti primari), e i rapporti tra
<<gli elementi della rappresentazione>> e gli <<attori>>, fra gli <<elementi della
rappresentazione>> e il <<pubblico>>, fra la <<rappresentazione nel suo insieme>> e lo <<spazio in
cui la rappresentazione si realizza>> (rapporti secondari) (vedi R.SCHECHNER, in La cavità
teatrale, Bari, De Donato, 1968).
Il rapporto fra la RAPPRESENTAZIONE e il suo SPAZIO finisce per comprendere
anche il rapporto ATTORI-SPETTATORI.
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(a) Nel teatro tradizionale (il cosiddetto <<teatro all'italiana>>), lo <<spazio teatrale>> è
diviso in due parti: il palcoscenico dove si muovono gli attori e la sala dove siedono gli
spettatori; qui si introduce, in genere, un elemento-<<cornice>>, come il classico arcoscenico o
un salto spaziale sentito come invelicabile (alto palcoscenico). Parte dello spazio è dedicata
alla rappresentazione, parte al pubblico: e fra le due parti si creano appunto <<rapporti>>. Dal
punto di vista dello spettatore, dal momento in cui si alza il sipario <<la sala in cui egli è seduto
smette di esistere <...>. La sua autentica realtà diventa invisibile e cede il posto a quella
illusoria dell'azione scenica>> (LOTMAN, 1981, p.8). Se immaginiamo un individuo poco esperto
della convenzionalità teatrale, che durante lo spettacolo osservi con uguale attenzione e senza
fare alcuna distinzione la scena, i movimenti nella buca del suggeritore, i riflettori sul palco e
il pubblico in sala come se costituissero qualcosa di unitario, si avrà tutto il diritto di dire che
egli non conosce l'arte di essere spettatore.
(b) Ci sono tuttavia tipi di rappresentazione in cui un assembramento di spettatori
intorno all'azione spettacolare lascia alla stessa azione spettacolare uno spazio dalla forma
casuale (es. gli spettacoli da strada, molte feste popolari, ma anche alcuni spettacoli di FO);
qui è il pubblico a costringere la rappresentazione entro determinati rapporti spaziali.
All'opposto, ci sono tipi di rappresentazione in cui è l'azione teatrale che determina lo spazio
degli spettatori (es. in alcune Sacre Rappresentazioni medioevali era difficile individuare una
demarcazione netta tra quelli che recitavano il dramma e quelli che guardavano, o anche
nell'Orlando Furioso di Ronconi gli elementi scenici fendono la folla che deve far largo e
cambiare posizione, pur restando pubblico).
(c) D'altra parte esistono gradi intermedi, riferiti a convenzioni culturali e alla loro
violabilità: per esempio, quando mancano elementi che segnalino una divisione, che però viene
rispettata di fatto (spettacoli popolari); quando si introducono elementi che segnalano la
possibilità di violare il limite (come la scala della scena cinquecentesca); quando il limite viene
violato di fatto (l'attore salta dal palcoscenico nella platea, estendendo ad essa,
temporaneamente, l'area dell'azione).
Da queste diverse configurazioni ed articolazioni dello spazio teatrale discendono i
problemi del <<punto di vista>> (unico o multiplo) e della <<partecipazione>> del pubblico allo
spettacolo. Vi torneremo parlando propriamente dello spazio scenico; per ora accenniamo ai
due poli opposti del secondo problema: da un lato, gli spettacoli nei quali il pubblico è diviso
dalla scena attraverso l'immaginaria <<quarta parete>> (come nel teatro naturalista del
secondo Ottocento, quando l'azione scenica è concepita come una tranche de vie, che si svolge
fra le quattro pareti di una stanza, ma una di queste, la quarta, opaca per gli attori, è
trasparente per gli spettatori); dall'altro il coivolgimento spaziale, fisico e psicologico
sconfinante nella partecipazione diretta di tutti gli spettatori (quando manca la distinzione
fra rappresentazione e il pubblico). Anche tra questi due estremi, passività-assenza e
attività-presenza dello spettatore nei confronti dello spettacolo, esistono e sono esistite
possibilità intermedie (per es., nella cosiddetta <<scena aperta>> del teatro francese seisettecentesco, gli attori tengono esplicitamente conto della presenza del pubblico; negli
ammiccamenti e negli <<a parte>> della commedia plautina, l'attore si indirizza esplicitamente
al pubblico o istituisce con esso un rapporto di complicità; in certi spettacoli del Living, al
pubblico viene affidato un ruolo non scelto).
Tuttavia siamo convinti che anche nel caso di uno spettacolo d'avanguardia, che
implichi nel suo <<spazio artistico>> la sala dove siedono gli spettatori per coinvolgerli o
provocarli, la trasgressione presupponga sempre la conoscenza della regola (della distinzione
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fra rappresentazione e pubblico), da parte dello stesso spettatore, il quale altrimenti non
potrebbe cogliere l'aspetto innovativo dello spettacolo. Perciò, <<La rivoluzione
contemporanea del luogo scenico (sparizione o adattamento della scena all'italiana, scena ad
anello, teatro circolare, piattaforme sopraelevate, teatro di strada), tutto ciò che mescola
pubblico e azione scenica, spettatori e attori non intacca questa fondamentale distinzione:
anche se l'attore stesse seduto sulle ginocchia dello spettatore, un sipario invisibile <...> li
separerebbe ancora radicalmente>> (UBERSFELD, 1984, p. 38).
Tra rappresentazione e pubblico si individuano comunque <<rapporti>> che formano
alcune <<opposizioni fondamentali>> per il mondo del teatro: l'opposizione <<esistenzainesistenza>> e l'opposizione <<significativo-non significativo>> (LOTMAN, 1981).
(a) Della prima opposizione (esistenza-inesistenza), abbiamo parlato finora: <<Il
confine fra ciò che si deve vedere e quello che deve invece restare invisibile>> è avvertito
dallo spettatore, anche se non sempre si tratta di un limite così evidente come negli
spettacoli teatrali ai quali siamo abituati. LOTMAN porta un altro esempio: nel teatro
giapponese dei burattini, i burattini sono in scena, fisicamente visibili; indossano però abiti
neri che sono il segno dell'invisibilità ed è <<come se>> il pubblico non li vedesse. Ma anche
<<per chi sta sul palcoscenico la sala dove siede il pubblico non esiste>> (LOTMAN, 1981, p.9);
è <<come se>> gli spettatori fossero invisibili a quelli che si trovano sul palco.
(b) Per quanto riguarda l'altra opposizione <<significativo-non significativo>>, LOTMAN
ribadisce il concetto che <<tutto quello che entra a far parte della scena teatrale tende ad
arricchirsi di significati supplementari rispetto alla funzione diretta dell'oggetto. Il
movimento diventa gesto, l'oggetto dettaglio portatore di senso>>. Siamo dunque convinti che
lo <<spazio teatrale>> - come insieme di scena e platea, attori e spettatori - costituisca, per il
tempo dello spettacolo, un mondo a parte: solo che, nelle esperienze teatrali che prevedono
l'abbattimento della <<quarta parete>>, la platea, in quanto luogo separato dallo svolgimento
teatrale, dove prendono posto individui presenti solo per assistere, viene soppressa e il
palcoscenico si allarga occupando tutta la sala; l'ampliamento della scena oltre i suoi limiti
tradizionali finisce per inglobare tutto lo spazio materiale disponibile - sia pure quello di una
piazza -, il quale però resta chiuso, separato dal mondo esterno, anche quando lo spettatore
prenda parte alla performance. Si tratta comunque di un'adesione alla <<realtà segnica>> della
messa in scena: la disponibilità del pubblico a darle credito o a lasciarsene coinvolgere si
verifica, sempre, entro i limiti di spazio e di tempo della performance, che sono
necessariamente diversi da quelli della vita reale.
Di qui il confronto fra le azioni e le parole sulla scena e quelle della vita reale:
<<L'uomo che parla o agisce nella vita ha di fronte un interlocutore. La scena riproduce lo
stesso comportamento, ma la natura del destinatario è qui duplice: il discorso si rivolge ad una
persona presente sulla scena <l'attore-personaggio> e nello stesso tempo al pubblico>>; anche
perciò la conoscenza dello spettatore è quasi sempre maggiore rispetto a quella dei
personaggi. Certi particolari, che possono sfuggire al personaggio, appaiono al pubblico <<segni
carichi di significati>> (LOTMAN, 1981, p. 10). Per esempio, il fazzoletto di Desdemona è per
Otello una prova del suo tradimento, mentre per il pubblico è simbolo della perfidia di Jago.
Ciò dipende dalla maggiore ricchezza semiotica del <<discorso scenico>> rispetto a quello della
<<vita reale>>.
Anche nella vita reale i segni possono essere di tipo diverso a seconda del loro grado
di <<convenzionalità>>: le <<parole>> uniscono il contenuto all'espressione in modo del tutto
convenzionale (lo stesso significato ha infatti nelle varie lingue una diversa espressione); nei
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segni figurativi (iconici) il rapporto fra il contenuto e l'espressione è invece di somiglianza (il
contenuto <<albero>> si unisce all'immagine disegnata dell'albero). Ma LOTMAN fa anche
l'esempio della <<ciambella>> di legno messa all'ingresso di un negozio di panetteria: il pane di
legno non serve come cibo ma fornisce un'informazione. Fa quindi un terzo esempio,
paragonando appunto l'azione scenica nel suo complesso ad una <<vetrina di un negozio>> che
porti la scritta <<Gli oggetti esposti in vetrina non sono in vendita>>:
<<Abbiamo di fronte oggetti veri, che qui non hanno però la loro funzione diretta, ma
sono segni di se stessi. Così la vetrina combina insieme fotografie, immagini artistiche degli
oggetti in vendita, testi verbali, cifre, indici e oggetti reali che in questo caso hanno tutti
funzione segnica>> (1981, p. 12); <<l'azione scenica come insieme unitario di attori che
compiono azioni, di testi verbali da loro pronunciati, scenari, accessori teatrali, luci, suoni, si
presenta come un testo di grande complessità che utilizza segni di vario tipo dotati di un
grado diverso di convenzionalità>> (ib.).
Della natura segnica del mondo scenico dev'essere consapevole, anzitutto, lo
<<spettatore>>: è proprio la <<sostanza segnica>> del mondo scenico che determina la completa
indipendenza delle sue dimensioni spazio-temporali rispetto a quelle dell'<<universo
quotidiano>>. L'universo teatrale esclude tutto quanto resta fuori di esso, lo cancella fino a
che la rappresentazione è in atto (opposizione <<esistenza- inesistenza>>), e certe leggi della
realtà nello spazio scenico possono essere sottoposte a deformazioni e cambiamenti
(opposizione <<significativo-non significativo>>). Il <<tempo>> in un'azione scenica può, ad
esempio, scorrere più velocemente o in certi casi più lentamente che nella realtà. Sulla scena,
come in ogni spazio chiuso dove si svolge un rito, si accentuano le coordinate semantiche dello
spazio: categorie come <<alto- basso>>, <<destra-sinistra>>, <<aperto-chiuso>>, ecc., acquistano
sulla scena, anche nelle soluzioni più normali, un significato insolito. Ma perché ciò accada
bisogna che lo spettatore sia convinto che <<certe leggi della realtà nello spazio scenico
possono diventare oggetto di sperimentazione>> (LOTMAN, 1981, p.15).
D'altra parte, per quanto riguarda in modo specifico la transazione ATTORESPETTATORE, il dialogo dell'<<attore in scena>> si svolge su due piani diversi: <<egli ha un
rapporto esplicito con gli altri partecipanti all'azione e un dialogo silenzioso col pubblico>>. La
sua vita sulla scena è in linea di principio <<biunivoca>>: <<la continua oscillazione fra i due
estremi dà vitalità allo spettacolo, mentre il pubblico si trasforma da destinatario passivo del
messaggio in partecipante all'atto collettivo di conoscenza che si compie a teatro>>
(LOTMAN, 1981, p. 14).
La competenza dello spettatore svolge infatti un ruolo primario nel processo di
comprensione: gran parte del piacere della ricezione è riflesso dell'abilità con la quale lo
spettatore sa imporre un ordine al contenuto drammatico. E' richiesta al pubblico la capacità
di saper distinguere fra <<attore>> e <<personaggio>> e fra stato intenzionale dell'attore e
atto effettivamente compiuto sulla scena (gli attori che sul palcoscenico simulano duelli e
battaglie, si limitano nella realtà a compiere alcuni gesti e movimenti indicativi o simbolici). Si
tratti di <<azione parlata>> o di azione dinamica, lo spettatore è costretto a cimentarsi in un
triplice atto interpretativo: (1) riconoscere le attività compiute dagli attori, (2) individuare la
loro intenzione e il loro scopo che non si limita alla semplice esecuzione fisica, (3) proiettare
su questi fatti l'intenzione del personaggio nel realizzare il suo atto.
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E' importante segnalare il fatto che - per Lotman - soltanto nel caso del rapporto
<<azione scenica-spettatore>> (rispetto a quelli <<libro-lettore>>, o <<schermo-spettatore>>) la
distinzione fra lo spazio dello spettatore e quello del testo rivela la <<natura dialogica>> del
rapporto: <<Solo il teatro ha bisogno di un destinatario effettivamente presente e accoglie i
segnali che il pubblico gli trasmette (...), variando il testo a seconda di essi. Proprio alla natura
dialogica del testo scenico è legata la possibilità di cambiamenti>> (LOTMAN, 1981, p. 9). La
transazione ATTORE-SPETTATORE non è diretta come quella PERSONAGGIO-LETTORE,
bensì mediata da un contesto drammatico in cui un partner fittizio (il personaggio) si rivolge
ad un ascoltatore fittizio (un altro personaggio). Né gli approcci narratologici né le
tradizionali considerazioni desunte dalla linguistica sono sufficienti a comprendere il
linguaggio del teatro.
Anche limitandosi all'<<aspetto verbale>> di una rappresentazione, lo scambio
comunicativo tra personaggi si differenzia sia dal discorso letterario sia dallo scambio
conversazionale. Mentre in una conversazione spontanea abbondano digressioni, ridondanze,
improvvisi cambi di argomento ed anche una inconcludenza di fondo, il dialogo scenico è
viceversa condizionato da un rigoroso ordine temporale, è soggetto a controlli referenziali
cosicché il pubblico possa prontamente identificare gli elementi a cui ci si riferisce, a
coerenze di tipo discorsivo per cui occorre precisare l'oggetto del discorso, introdotto in
ordine strategico e non casuale. Inoltre, mentre il mondo del romanzo è un mondo di parole,
nella situazione del teatro gli avvenimenti sono dotati d'una loro consistenza fisica: ovvero le
parole del teatro si riferiscono ad una realtà fisicamente presente sulla scena. E' questa
realtà materiale il referente del discorso drammaturgico. Perciò anche il testo drammatico (il
testo scritto <<per>> il teatro, il copione) è scritto presupponendo il fatto che - nel momento
in cui verranno pronunciate - le parole giungano ad uno spettatore che può vedere
(eventualmente anche toccare) quella realtà; che il <<tu>> a cui si rivolge un attore sia un altro
attore, cioè una persona in carne ed ossa, e che i deittici non indicano luoghi ipotetici ma
spazi individuati: qui, là, dentro, fuori della scena ...
<<Il fascino esercitato dal teatro - in crisi perpetua, ma indistruttibile - dipende
innanzitutto dal fatto che esso è un oggetto nel mondo, un oggetto concreto, e che la sua
materia non è un'immagine, ma sono oggetti ed esseri reali; soprattutto degli esseri: il corpo
e la voce degli attori <...> il teatro è appunto l'opera artistica che mostra il linguaggio in
situazione: situazione immaginaria, <...> ma visibile e concretamente percepibile>> (ANN
UBERSFELD, 1984, p. 235).
Partendo quindi dalla considerazione del <<linguaggio specifico>> dell'arte teatrale, la
cui conoscenza garantisce al pubblico la possibilità di una comunicazione artistica con l'autore
e con gli attori>>, con lo spettacolo nel suo insieme (LOTMAN, 1981, p.6), bisogna considerare
sempre, in ogni analisi sia del testo drammatico sia del testo spettacolare, la specifica
complessità della comunicazione teatrale.
II.3. Il testo drammaturgico
Possiamo osservare che il testo drammaturgico è formato da due parti distinte ma
indissociabili, il dialogo e le didascalie. Il dialogo è costituito da battute: parole che si
presuppongono pronunciate da un personaggio (mediante l’attore); al limite esse possono
essere assenti (es. Actes sans paroles di S. BECKETT), non possono invece mancare le
didascalie (es. Il tabacco fa male di CECHOV è un monologo, ma per essere assunto
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teatralmente ha bisogno dell’informazione: qui parla Ivan Ivanovic). Il rapporto testuale
dialogo-didascalia è variabile secondo le epoche della storia del teatro: ma, anche là dove le
didascalie sembrano inesistenti, esse comprendono il nome dei personaggi, nella lista iniziale e
all'interno del dialogo, e le indicazioni di luogo: rispondono alle domande <<chi>> e <<dove>>,
quindi indicano <<il contesto della comunicazione>>.
La testualità delle didascalie è <<un'apertura all'uso che se fa nella rappresentazione>>
(UBERSFELD, 1984, p. 21). Infatti si tratta di <<segmenti verbali>> del testo drammaturgico
che non vengono riprodotti - in quanto tali - nella performance spettacolare; ma di cui è
prevista istituzionalmente l'attualizzazione mediante strumenti espressivi non verbali. Quindi
la loro lettura è parte integrante della lettura del testo drammaturgico, allo stesso titolo
delle battute del dialogo. Non si può parlare tuttavia di coincidenza tra la didascalia e la
performance teatrale: non si tratta di <<trasduzione>>, com'è per Ruffini il rapporto battuta
scritta-battuta pronunciata; per le didascalie avviene un radicale ed irriducibile mutamento di
materie espressive: gli elementi verbali estromessi dallo spettacolo in quanto sequenza di
parole vengono resi mediante codici semiotici diversi.
D'altra parte, la distinzione linguistica fondamentale fra dialogo e didascalie confina
con l'ambito dell'enunciazione, con la domanda <<chi parla?>>. Nel dialogo è il <<personaggio>>
che parla; nelle didascalie è l'<<autore>> stesso che: a) nomina i personaggi e attribuisce a
ciascuno un <<luogo per parlare>> ed una <<parte del discorso>>; b) indica le azioni e i gesti dei
personaggi. L'autore dunque scrive affinché <<un altro>> parli al suo posto, anzi una collezione
di <<altri>> attraverso una serie di scambi di parola. <<Primo tratto distintivo nella scrittura di
teatro: non è mai soggettiva <...>: la parte testuale di cui l'autore è soggetto è costituita
solamente dalle didascalie>> (UBERSFELD, 1984, p.21).
II. 4. Il rapporto fra testo drammaturgico e rappresentazione
Dato un testo drammaturgico compiuto (che non sia cioè un canovaccio o uno scenariotrama), il rapporto fra questo e lo spettacolo si definisce tradizionalmente come
<<interpretazione>>.
(I) L'interpretazione rappresentativa può intendersi come semplice <<esecuzione>>: la
rappresentazione-esecuzione è definita da HONZL come <<situare un dramma nello spazio>>
(J. HONZL, <1940>, trad. franc., La mobilité du signe teatral, in <<Travail théatral>>, n.4,
1971), anche se ciò non avviene necessariamente con mezzi spaziali, <<lo spazio può essere
mostrato da un segno sonoro o luminoso>>. Nel caso della rappresentazione-esecuzione, il
testo tende ad essere concepito come <<notazione>>, nella sua interezza, senza cioè
distinguere fra battute e didascalie: le parole contengono la loro intonazione e i loro gesti.
Da qui discendono due idee opposte del teatro: l'idea che il testo drammaturgico sia
incompleto e attenda la sua perfezione nella messa in scena; l'idea che il testo drammaturgico
sia assolutamente completo.
Si noti, comunque, che nelle epoche del teatro in cui certe condizioni di conoscenza
sono presupposte nell'esecutore (e anche nello spettatore) la notazione appare più sommaria
(es. nel teatro greco, nel teatro italiano del Rinascimento, fino alla fine dell'Ottocento, gli
elementi scenici - scenografia, costume, moduli recitativi - sono canonici, e l'autore prevede
come la sua opera sarà eseguita). Nei momenti, invece, in cui il linguaggio teatrale si
costituisce o si trasforma, il testo drammaturgico è più completo, e aumenta lo spazio delle
didascalie (es. didascalie pirandelliane ed anche eduardiane). A livello semiotico, RUFFINI
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distingue fra <<messa in scena>> di un testo drammaturgico (quando si funzionalizzano tutti gli
elementi dello spettacolo al contenuto di un testo) e <<collocazione in scena>> (quando si
impiegano moduli e codici fissati dalla tradizione e formalizzati).
Quando a un dramma scritto in vista di un determinato sistema scenico si applicano
(innocentemente) moduli di un altro sistema (quando p.es. una commedia di Plauto viene
rappresentata nella scenografia prospettica del Cinquecento o quando un'opera di
Shakespeare viene calata nel realismo storico del romanticismo), il linguaggio scenico
impiegato non è conforme a quello previsto dall'autore. Di qui i tentativi di interpretazioni
rappresentative che siano anche <<ricognitive>> (come quelle applicate ai testi storici e
letterari), che restituiscano cioè al <<dramma>> le forme sceniche originarie (come quello
compiuto alla fine dell'Ottocento dalla Elisabethan Stage Society, allo scopo di ricostruire la
struttura architettonica, l'impianto scenico e recitativo del dramma elisabettiano).
Ma ogni interpretazione rappresentativa finisce per essere anche ricognitiva per
coloro che ammettono una sorta di legame necessario fra testo e rappresentazione: ovvero
considerano testo e rappresentazione come due tempi di una stessa operazione.
(II) C'è tuttavia anche un'interpretazione teatrale che si pone consciamente come
interpretazione <<ricognitiva>>: quella cioè che intende definire il significato di un'opera
drammatica, concepita stavolta come letterariamente autonoma, enuclearne il significato
essenziale, evidenziarne i valori, definirne la collocazione storica, sottolinearne i messaggi
morali e politici. Tale posizione corrisponde al primo atteggiamento semplificatorio nei
confronti del rapporto testo-rappresentazione, individuato dalla UBERSFELD; al suo interno
tuttavia si possono distinguere diverse posizioni:
a) il significato di un'opera è unico e determinato: la messinscena dovrà evidenziarlo;
b) il significato è unico ma oscuro: bisogna scoprire ciò che l'autore <<ha voluto dire>>;
c) il significato è complesso e molteplice: la messinscena ne dà una delle infinite
letture possibili, sottolineando al contempo la prospettiva assunta dal regista;
d) il significato è ambiguo e la messinscena scioglie questa ambiguità, senza tener
conto di ciò che l'autore <<ha voluto dire>>;
e) il significato è un processo, muta e si arricchisce con la storia, con la cultura del
regista (si privilegiano le connotazioni che aumentano e cambiano appunto con la
storia e la cultura).
(III) All'opposto di questa prospettiva, che concepisce la messa in scena come
interpretazione critica del testo drammaturgico, si colloca quella che riduce il testo ad una
funzione della messa in scena. Secondo tale teoria <<l'autore dello spettacolo>> è il regista,
che assume il testo (drammaturgico o no) come uno degli elementi dalla cui sintesi risulterà un
discorso autonomo, con messaggi che saranno indipendenti da quelli dell'autore. Il testo viene
qui ridotto ad una sorta di pretesto operativo: nel migliore dei casi esso viene considerato il
soggetto, lo spunto tematico o narrativo. (E' la posizione più vicina al secondo atteggiamento
semplificatorio individuato dalla UBERSFELD: la più vicina, cioè, al rifiuto radicale del testo).
Come si vede, le stesse posizioni nei confronti del rapporto testo-spettacolo
appartengono sia al campo della teoria (in quanto tesi definitorie dell'<<essenza>> dello
spettacolo drammaturgico) che al campo della prassi spettacolare (come possibili
atteggiamenti di chi lo spettacolo costruisce, in relazione al testo). Ai poli estremi stanno,
ancora una volta, il <<terrorismo testuale>> e il <<terrorismo scenico>>: chi, nell'esecuzione,
privilegia il testo letterario, e chi, alle prese solo con la pratica drammaturgica, ignora
l'istanza scritturale. La scelta di un atteggiamento a preferenza di un altro, da parte del
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costruttore di uno spettacolo, non comporta necessariamente l'uso di diverse formule
linguistiche; tuttavia, per poter stabilire se l'atteggiamento assunto dal regista nei confronti
del testo si ponga effettivamente sul piano dell'<<esecuzione>> (I), o su quello
dell'interpretazione <<ricognitiva>> (II), o su quello <<creativo>> (III), lo spettatore deve
conoscere non solo il testo rappresentato, ma anche il repertorio delle scelte cui il regista fa
riferimento nel costruire materialmente lo spettacolo.
III. La rappresentazione
Si può tentare di analizzare l'organizzazione del <<rapporto testo-rappresentazione>>
partendo dall'ipotesi del fatto teatrale come <<rapporto tra due insiemi di segni, verbali e non
verbali>> (UBERSFELD, 1984). Ma, come si è detto, anche la rappresentazione è costituita da
un insieme di segni <<verbali e non verbali>>; infatti il <<messaggio verbale>> figura all'interno
della rappresentazione con una sua propria <<materia d'espressione>>, che è acustica (la voce),
e comporta due specie di segni: <<i segni linguistici>> (componenti il messaggio linguistico) e <<i
segni acustici>> propriamente detti (voce, espressione, ritmo, altezza, timbro). A questo si
aggiungono tutti i codici grazie ai quali si possono decodificare i <<segni non verbali>>, i codici
visuali, musicali, la gestualità, la prossemica ecc. (UBERSFELD, 1984, p.26).
Qualsiasi messaggio teatrale, nella rappresentazione, richiede dunque per essere
decodificato una moltitudine di codici. E la necessaria specializzazione relativa ai diversi
mezzi espressivi presenti nell'azione scenica determina, in genere, la collaborazione di più
operatori con compiti differenti. Anche se è possibile che più compiti siano assolti da una sola
persona (p. es. DARIO FO, autore, regista, attore), e che uno stesso compito sia svolto da più
persone (p. es. le regie collettive), le diverse funzioni restano analizzabili separatamente.
Quali sono queste funzioni? AUTORE, REGISTA, SCENOGRAFO, TECNICO DELLE
LUCI, ATTORE, COSTUMISTA, TECNICO DEL SUONO.
(1) AUTORE. Nel caso della rappresentazione di un testo drammaturgico, l'autore è
colui la cui opera viene assunta come progetto di spettacolo; ma può trattarsi anche di un
AUTORE- REGISTA (es. DARIO FO, EDUARDO DE FILIPPO).
(2) REGISTA. Può essere definito come l'autore di un progetto secondo, nel quale si
instaura ai fini della rappresentazione un particolare rapporto con il testo. Qualora il testo
sia assente, o ridotto a puro spunto tematico, il regista è colui che definisce, magari nel
realizzarlo, il progetto di spettacolo. Nel cosiddetto <<teatro di regia>>, il regista tende a
riassumere in sé tutte le funzioni, diventando, come voleva Mejerchold, l'autore dello
spettacolo. Ma può accadere, al contrario, che la funzione registica sia demandata agli altri
operatori o condivisa con essi (in B. BRECHT si possono ritrovare frequenti e ricchissime
discussioni collettive, nella fase progettuale comune; così come accadeva anche nel TEATRO
UMORISTICO I DE FILIPPO, nel periodo della collaborazione dei tre fratelli). La regìa può
allora ridursi a orchestrazione.
(3) SCENOGRAFO. La sua funzione è relativa alla preparazione e all'allestimento dello
spazio: può ridursi all'accettazione di uno spazio dato o può costruire lo spazio per una data
rappresentazione. E' dipendente dalle scelte registiche, tuttavia, poiché diviene quadro
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spaziale in cui far muovere gli attori, è anche limitazione e stimolo per le successive decisioni
del regista.
(4) ATTORE. Può mancare, oppure essere sostituito da agenti inanimati (burattini,
marionette), ma in genere è fondamentale e deve possedere doti specifiche in relazione sia al
modello teatrale del momento e luogo storico, sia, più recentemente, all'immagine che il
regista ha dei suoi compiti. Il rapporto fra l'attore e il regista è fra i più complessi: al di là
della completa dipendenza (G. CRAIG sostenne il valore artistico e assoluto della regìa,
subordinante ogni altra componente teatrale: lo stesso attore viene considerato un semplice
elemento, ciecamente obbediente alla volontà del regista) e dell'assoluta autonomia (alcune
animazioni improvvisate), vi sono numerose altre possibilità intermedie (per esempio, per la
teoria della <<reviviscenza>> che STANISLAVSKIJ elaborò negli anni Venti, è l'attore a
creare il <<sottotesto>> per imparare a <<vivere>> e non a <<rappresentare>> il proprio
personaggio, ma è il regista a pretendere poi un prodotto di massimo naturalismo). C'è quindi
(a) l'ATTORE-REGISTA, come caso individuale (FO, CARMELO BENE, EDUARDO) e come
regia collettiva (quando la funzione registica è assunta dal collettivo degli attori); e (b)
l'ATTORE-ESECUTORE (quando appunto l'attore è uno degli elementi in cui si realizza
l'immagine o il discorso del regista); e ci sono (c) soluzioni intermedie (nella pratica del teatro
di BRECHT, l'attore dà una propria visione del testo, ma il regista da un lato sviluppa la
funzione di orchestrazione, dall'altro organizza l'<<atteggiamento stupito>> degli attori ->
straniamento; di più, il regista diventa l'educatore dell'attore). In generale l'attore deve
possedere requisiti tecnici; ma soprattutto nei gruppi stabili, il cui regista-animatore ha una
propria concezione del teatro, l'attore deve affinare le proprie capacità espressive in modo
da rientrare nelle generali scelte espressive del regista, o del gruppo. Talvolta le funzioni di
preparazione-educazione generale e di preparazione-educazione in funzione di un particolare
allestimento sono complementari (così COPEAU, ma così anche EUGENIO BARBA).
Quali sono o come si possono individuare i codici dello spettacolo? Si può partire per la
loro descrizione (come fa MOLINARI, in Cesare Molinari, Valeria Ottolenghi, Leggere il
teatro, Firenze, Vallecchi, 1977) dal modello di KOWZAN: TADEUS KOWZAN, semiotico
polacco che nel 1968 raccolse l'eredità della scuola di Praga (Le signe au théatre, in
<<Diogene>>, n. 61, 1968), afferma che il teatro è un sistema di comunicazione multilineare,
che si svolge cioè secondo diverse linee parallele, o <<linee di codice>>; esse sono (1) PAROLA,
(2) TONO, (3) MIMICA, (4) GESTO, (5) MOVIMENTO, (6) TRUCCO, (7) ACCONCIATURA,
(8) COSTUME, (9) ACCESSORI, (10) SCENOGRAFIA, (11) ILLUMINAZIONE, (12) MUSICA,
(13) EFFETTI SONORI. Le diverse linee vengono raggruppate a seconda che pertengano ad
unità o a sistemi più ampi, come l'attore, la temporalità o la spazialità, che siano visibili o
udibili, ecc.
Molinari preferisce parlare di <<paradigmi>>, nel senso di repertori all'interno dei quali
è possibile effettuare delle scelte. Nella concreta lettura dello spettacolo, bisognerà
chiedersi quali linee entrino in gioco, e considerare l'eventuale prevalenza quantitativa e/o
qualitativa di una o più linee (es. teatro di attore, teatro scenografico, teatro gestuale, ecc.).
Poi si porrà il problema della lettura verticale, o della sintassi dello spettacolo; dal momento
che la realtà teatrale dei segni parziali si ritrova nella sua pienezza solo nel segno globale.
Ancora Molinari esamina le varie linee di codice (strutture comunicative) in
quest'ordine: la SCENOGRAFIA, l'ILLUMINAZIONE, il COSTUME, il GESTO, la MIMICA,
la COREOGRAFIA e la PROSSIMICA, la PAROLA (LINGUISTICA e PARALINGUISTICA), la
MUSICA e i RUMORI, la SINTASSI. La scenografia, l'illuminazione e in qualche misura
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anche il costume, pur riferendosi a codici usati in funzione pratica e comunicativa nella vita
sociale, assumono nel teatro una dimensione autonoma e specifica; invece non si può parlare di
una condizione specificamente teatrale del gesto, della parola, della musica.
III.1. SCENOGRAFIA.
E' un segno continuo: gli elementi che compongono una scenografia sono normalmente
compresenti nello spazio e restano immutati per un periodo di tempo normalmente più lungo.
Inoltre la scenografia rappresenta il <<quadro>> o la <<cornice>> dell'azione, in due sensi: da un
lato, determina la forma dello spazio scenico, dall'altro, essa fornisce informazioni non solo
sull'ambiente in cui si svolge l'azione, ma anche sull'antefatto e sulla situazione. Una
scenografia dev'essere considerata, comunque, nel suo rapporto funzionale con il contesto
dello spettacolo: nel teatro rappresentazione, qualsiasi tipo di scenografia, anche la più
esauriente come rappresentazione di un ambiente reale, può essere disponibile al senso che le
attribuisce l'azione.
Sulla base delle tipologie ambientali possiamo distinguere: scenografia <<astratta>> o
<<concreta>>, <<metaforica>>, <<simbolica>>, <<metonimica>>.
Possiamo definire <<concreta>> quella scenografia in cui i singoli elementi (e la loro
totalità) possiedono autonomamente il significato referenziale che attribuirà loro l'azione
(dove una sedia è riconosciuta come tale dallo spettatore, e come tale è usata dall'attore);
<<astratta>> quella scenografia che aspetta il proprio senso (referenziale o rappresentativo)
in modo tendente al totale. Ovvero, in rapporto alla definizione di <<oggetto>> come <<segno>>
(l'oggetto è segno della propria funzione), si può definire <<concreta>> una scenografia
costituita da oggetti d'uso; <<astratta>> una scenografia fatta di oggetti concettuali. Senza
dimenticare che nel teatro è la funzione che determina o conferma il senso degli oggetti nel
momento dell'uso: una struttura scenografica di estremo realismo può essere stravolta a
significare tutt'altro da sé (p. es. un interno borghese può assumere il significato
dell'Inferno -> A porte chiuse di SARTRE).
Quindi per rappresentare uno stesso ambiente si potranno usare (a) oggetti d'uso in
senso proprio (sc. concreta); (b) gli stessi oggetti, con un significato diverso; (c) oggetti
concettuali o privi di funzione (sc. astratta); (d) oggetti destinati ad uso tecnico (attrezzi).
Si può parlare di <<scena metaforica>> allorché gli elementi costitutivi la scenografia
vengono utilizzati in una funzione diversa da quella loro propria (metafora = trasposizione);
naturalmente il discorso metaforico si basa sulla determinazione di tratti comuni ai due
termini: es. un letto può rappresentare una canoa, in quanto se ne evidenziano la forma
orizzontale e la capacità di sostenere delle persone. Si parla però di <<scena simbolica>>,
quando gli elementi di una scenografia sono utilizzati per rappresentare idee, valori, ecc.
(simbolo = oggetto capace di richiamare un'idea o un valore universale). Si definiscono
<<metonimiche>> quelle strutture scenografiche in cui un elemento scenografico è capace di
assumersi il ruolo di indicare un ambiente (es. un albero -> un bosco); anche se sarebbe più
opportuno parlare di <<sineddoche>> (parte per il tutto), anziché di <<metonimia>> (sostituzione
di un termine con un altro che sta con il primo in rapporto di causa-effetto, materia-oggetto,
ecc.). Poiché il discorso metonimico tende a svilupparsi sull'asse sintagmatico, la
moltiplicazione degli elementi propri all'ambiente rappresentato tende alla raffigurazione
<<realistica>> dell'ambiente stesso.
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La scelta scenografica di uno spettacolo potrà essere <<astratta e metaforica>>,
oppure <<concreta e metonimica>>, ma nella maggior parte dei casi si presentano combinazioni
fra le diverse tipologie. Inoltre una scenografia può essere esauriente dal punto di vista
descrittivo anche in termini di intensa deformazione (espressionismo).
Sulla base delle tipologie di realizzazione dell'apparato scenico possiamo distinguere:
scenografia <<pittorica>>, <<costruttiva>>, <<mobile>>, <<fissa>>.
(a) Per scenografia <<dipinta>> bisogna intendere quella che non ci si può attendere
venga usata dall'azione:
- il grado massimo è costituito da un fondale chiuso e dipinto in termini non
illusionistici;
- il grado medio è la scena a quinte utilizzata dal teatro italiano dal Seicento
all'Ottocento;
- il grado minimo è la scena illusionistica parapettata (i diversi elementi sono connessi
in modo da costituire un ambiente parzialmente o totalmente chiuso.
(b) La scenografia <<costruttiva>> (tridimensionale) viene usata dall'azione per ciò che
rappresenta. Può essere costituita anche esclusivamente di accessori: p. es. le scenografie
brechtiane tendono a mantenere solo gli elementi utili all'azione. Ma gli accessori possono
essere usati anche in direzione metaforica (un fiume = un lenzuolo azzurro agitato in scena).
(c) Mescolanza fra le due tecniche (es. la scena prospettica del teatro erudito italiano
del Rinascimento: telai dipinti con facciate delle case, con alcuni elementi praticabili, fondale
interamente dipinto).
Si può anche distinguere fra <<scenografia fissa>> e <<scenografia mobile>>; la seconda
può rappresentare il movimento reale dell'ambiente rappresentato, oppure può raffigurare
simbolicamente lo sviluppo dell'azione (es. le mura della scena possono restringersi attorno al
personaggio come la morsa del destino). I movimenti possono essere occultati o <<a vista>> (nel
secondo caso in funzione straniante).
Quanto alle modalità di rappresentazione di ambienti differenti nel corso di uno
spettacolo:
- scena successiva: cambiando l'ambiente, cambia anche il quadro scenografico (<<a
vista>> oppure <<con sipario>> o altro);
- scena multipla: i diversi ambienti o luoghi sono compresenti fin dall'inizio della scena
(Sacre Rappresentazioni);
- la struttura scenografica non cambia, ma l'azione dichiara che essa rappresenta ora
un luogo diverso (teatro elisabettiano).
Un cenno a parte merita l'utilizzazione che il teatro moderno può fare della
fotografia e del cinema: in genere sono usati - piuttosto che in funzione di ambientazione
diretta - per mostrare o documentare eventi che si svolgono in un luogo diverso da quello
dell'azione (in maniera antillusionistica: es. Piscator-Brecht).
III. 2. ILLUMINAZIONE.
La prima funzione della luce è quella di far vedere: in tutte le situazioni in cui si
limita l'apporto della luce a quest'unica primordiale funzione, la luce non entra nel contesto
significante dello spettacolo (grado zero semantico della luce).
Valori drammatici o morali (semantici) della luce:
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(a) Per la cultura <<realistica>> occidentale, la prima funzione della luce scenica è
quella di indicare le condizioni di luce in cui si ritiene si svolga l'azione (alba, tramonto, ecc.).
Le scuole veristiche tenderanno a riprodurre situazioni di luce reali: attraverso
l'<<intensità>>; al <<colore>> si affida invece la connotazione di elementi psicologici.
(b) D'altra parte la luce ha assunto nella nostra e in quasi tutte le altre civiltà forti
significati simbolici; la si usa frequentemente per rappresentare situazioni o stati d'animo, o
indurre attese su sviluppi futuri (suspense); attraverso sia l'intensità che il colore.
Altre funzioni:
(c) La luce può anche essere impiegata per rappresentare in modo diretto o indiretto
oggetti concreti. Può configurare l'ambiente (come la scenografia): concretamente e
direttamente delimitando l'area (o più aree) all'interno della quale i personaggi si devono
muovere; indirettamente: il tipo di illuminazione chiarisce che ci si trova in un determinato
ambiente. In termini più metaforici, la luce può essere usata per rappresentare o concorrere
a definire oggetti particolari e dello stesso personaggio.
(d) La luce può assumere anche funzioni di ordine <<grammaticale e sintattico>>: il
buio improvviso o in dissolvenza sta spesso a significare la conclusione di un episodio; un
rapido cambiamento di luce può indicare cambiamento di luogo o il trascorrere del tempo.
(e) Con l'impiego dei <<riflettori a uomo>>, la luce può essere impiegata per isolare e
dare risalto ad un oggetto o ad un personaggio, in funzione <<enfatica>>; anche in questo caso,
come nel precedente, il valore sintattico-grammaticale non esclude un valore più propriamente
semantico (il <<primo piano>> provocato dall'isolare il personaggio in un fascio di luce può
connotare anche <<isolamento>>, <<solitudine>>, ecc.).
(f) Il rapido alternarsi di buio e di luce, ottenuto con la tecnica della <<lanterna
magica>>, rende discontinua l'immagine scenica, scomponendola in una serie di fortogrammi
(es. l'intermittente lampeggiare del flash del fotoreporter, alla fine del secondo atto di Mia
famiglia di EDUARDO DE FILIPPO, trasforma l'atteggimento di madre afflitta di Elena
Stigliano in un'<<apparizione spettrale>>, e rende ancora più contratte le fisionimie degli altri
personaggi).
Quindi l'impiego prevalente della luce nell'una o nell'altra delle funzioni sopra elencate
concorre a determinare la sigla stilistica dello spettacolo.
Quanto alle modalità di attuazione, i parametri di descrizione della luce scenica
possono essere questi:
(a) <<intensità>> (bassa o intensa). Può essere percepita soltanto nella sua funzione
primaria di far vedere, e allora nel teatro rappresentazione se ne fa astrazione (nel teatro
che non è rappresentazione, invece, l'intensità luminosa ha sempre un immediato valore
significativo); altrimenti va considerata nel suo rapporto di <<opposizione>> o di <<ridondanza>>
con altri elementi che concorrono a determinare la situazione (un mezzogiorno d'estate
rappresentato con luce bassa comporta connotazioni più evidenti di quelle di una normale
rappresentazione con luce solare);
(b) <<qualità>> (colorata, calda, fredda). La scelta fra una luce calda (predominanza
della componente rossa) ed una fredda (a dominante viola) serve non solo a dare particolare
rilievo agli oggetti (la luce fredda -> contorni più incisi) ma anche a definire l'atmosfera
dell'azione <vedi la luce colorata, <<psicologica>>, di ACHILLE RICCIARDI>;
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(c) <<continua>> (le variazioni sono graduali e sfumate) e <<discontinua>> (netti
contrasti). La luce può essere discontinua nello spazio, ma anche nel tempo: i cambiamenti di
luce possono scandire il ritmo di uno spettacolo;
(d) <<ferma>> e/o <<mobile>>. Per esempio: un riflettore mobile che segue le evoluzioni
dell'attore.
Quanto alle <<fonti luminose>>, possono essere <<evidenziate>> o <<nascoste>>, <<reali>> o
<<fittizie>>:
(a) una fonte <<evidenziata e reale>> può essere percepita come esterna alla
rappresentazione, ed allora è un segno della situazione teatrale (BRECHT sottolineava la
funzione straniante delle fonti evidenziate esterne: <<il mettere in mostra l'apparecchiatura
delle luci <...> può essere un mezzo per impedire un'indesiderabile illusione>>); oppure come
parte della rappresentazione (un lampadario); quando la fonte è <<evidenziata ma fittizia>>, lo
spettatore percepisce che la stanza rappresentata non è rischiarata dal lampadario, ma da
luci di scena nascoste;
(b) le fonti luminose <<nascoste>> possono essere percepite nella loro realtà scenica,
oppure come simulazione di una fonte di cui vengono mostrati gli effetti (per esempio, il sole o
la luna, di cui lo spettatore vede il raggio che entra dalla finestra della stanza rappresentata).
III. 3. COSTUME.
Il <<costume>> può comprendere l'abbigliatura, l'acconciatura dei capelli, l'aspetto
fisico dell'attore.
(a) Nella comunicazione sociale della vita quotidiana, il costume ci dice come ciascuno
deve o intende essere considerato (<<presentation of self>>, E. GOFFMAN, La vita quotidiana
come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969); nell'analisi bisogna distinguere un punto di
vista <<morfologico>> e un punto di vista <<semantico>>: dal primo punto di vista, il grado zero è
rappresentato dalla nudità; ma dal secondo punto di vista, la nudità può essere fortemente
significante (dove la nudità non è la norma). Il grado minimo del significato vestamentario va
individuato proprio nel suo attenersi alla norma: nelle società stratificate il grado minimo
significa appartenenza ad una classe sociale (o di età o di sesso); un secondo grado sta
nell'aderire alla norma nella situazione data (lo smoking per un pranzo); l'allontanarsi
individuale dalla norma è tanto piò forte quanto più la norma è rigida. Il concetto di <<norma>>
è relativo al costume nel suo insieme.
Nel rapporto sociale la <<figura>> (taglia, grossezza, ecc.) è sentita come sintomo e non
come segno; nel <<teatro rappresentazione>> invece, la figura diviene segno, funzione
dell'oggetto o del personaggio da rappresentare.
(b) Per quanto riguarda l'utilizzazione teatrale del costume (acconciatura, figura),
bisogna individuare il rapporto fra <<costume>> e <<figura>>. Il <<costume>> sottolinea o
nasconde la <<figura>> dell'attore, in molti casi denota anche il ruolo del personaggio (es.
teatro greco). Ma, soprattutto nel teatro rappresentazione, anche la figura diventa segno:
quindi, da un lato è strettamente connessa con la problematica del costume, dall'altro deve
esserne tenuta distinta; i parametri formali della <<figura>> sono pochi (alto/basso,
grasso/magro, robusto/esile), e la cultura istituisce nessi tra figura e carattere (il ghiottone
è grasso, l'avaro è magro, ecc.).
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La figura dell'attore è compromessa con la rappresentazione del <<personaggio>>.
Quando il personaggio non è umano, la violenta trasposizione metaforica attuata umanizza
l'oggetto o l'animale rappresentato; ma tale umanizzazione diminuisce nella misura in cui il
costume tende ad occultare la figura dell'attore (in questo caso, il costume tende a negare la
sua essenza di abbigliamento, per diventare l'oggetto o l'animale). Nel caso, invece, di oggetti
usati come costume nel senso proprio di abbigliamento, ciò può avvenire anche in una
prospettiva realistica, con effetti comici o tragici: per esempio, un oggetto non destinato a
tale uso viene indossato come vestito per necessità (un sacco per ripararsi dal freddo ->
situazione di miseria, un bidone per coprire le vergone -> quando si è colti nudi).
Quando il costume è riconoscibile come abbigliamento: da un lato, esso può essere
rapportabile agli usi vestamentari di una cultura determinata, dall'altro, può non essere
rapportabile ad alcuna cultura.
(a) Nel primo caso possiamo reintrodurre la distinzione tra costume <<metonimico>> e
costume <<metaforico>>:
(a1) <<Metonimico>> è quel costume in cui il riferimento a una data cultura è affidato
soltanto ad un singolo elemento (sineddoche). Perché la metonimia sia leggibile occorre che
l'elemento qualificante emerga su un contesto unitario (p.es. un berretto militare su un
vestito quotidiano; invece, l'abbigliamento pseudomiliare di Gennaro Jovine, nel II atto di
Napoli milionaria! di EDUARDO, fatto a pezzi 'internazionali' - <<Il berretto è italiano, il
pantalone americano, la giacca è di quelle a vento dei soldati tedeschi ed è mimetizzata>> -,
non solo non permette in sé di decidere in alcuna direzione, ma richiama la maschera, ed
anticipa l'atteeggiamento di diffusa pietà per tutte le vittime della guerra, al di là d'ogni
schematismo amici-nemici, che l'autore esprime attraverso il personaggio).
(a2) <<Metaforico>> è quel costume che si riferisce a una data cultura in modo diretto
(esso è metafora della cultura che intende rappresentare). D'altra parte, non è detto che il
costume riferibile ad una data cultura sia connesso all'epoca in cui il dramma è ambientato
(può trattarsi di una scelta stilistica: p.es. VISCONTI realizzò una messa in scena dell'
Oreste alfieriano nella quale il riferimento ambientale non era dato dai tempi eroici del mito
greco, ma dalla cultura settecentesca nella quale si era formato l'autore del testo; tuttavia,
prima della prima metà dell'Ottocento, qualsiasi testo veniva rappresentato da attori vestiti
con abiti della loro epoca). Il <<costume anacronistico>> (nelle rappresentazioni moderne)
abolisce ogni possibilità illusionistica, e connota la astoricità o l'eternità del tema trattato, o
può anche istituire un parallelo fra due epoche storiche (es. Visconti).
(b) Nel caso di un costume non riferibile ad un'epoca determinata, la funzione di
esplicitare tali riferimenti può essere demandata alla scenografia e alla parola. Comunque, nei
costumi il cui significato primo non è di definire l'ambiente di appartenenza del personaggio
tenderanno ad emergere valori e significati di ordine formale o di ordine simbolico o
allegorico o espressivo (astratti tipi psicologici, astratti ruoli sociali).
(c) Un caso particolare: il costume delle maschere italiane della Commedia dell'arte. Gli
originari significati simbolici si sono ben presto perduti, così i costumi delle maschere sono
diventati da un lato forme pure, dall'altro il segno di identificazione del personaggio.
Possiamo indicare alcuni parametri formali per classificare il costume:
- la forma, soprattutto in relazione alla struttura fisica di chi la indossa;
- il materiale (induce rigidità o accentua il movimento);
- il colore (nel contesto della scenografia);
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la struttura (è costituito da un unico elemento o composto da una serie di capi
giustapposti).
La scelta di una o più soluzioni formali di questo tipo risponde in genere a una precisa
scelta semantica o espressiva.
-
III. 4. GESTO.
Sebbene non si possa parlare di una condizione specificamente teatrale del gesto, il
gesto è stato spesso ritenuto l'elemento specifico del teatro.
Per codice <<gestuale>> o <<cinesico>> si può intendere il patrimonio dei movimenti
interni all'attore, che non comportano lo spostamento del corpo da un punto all'altro dello
spazio.
Facciamo una prima distinzione tra <<gesto pragmatico>> e <<gesto comunicativo>>,
ovvero tra <<gestualità pratica>> e <<gestualità mitica>> (A. GREIMAS, Conditions d'une
sémiotique du monde naturel, in <<Langages>>, n.10, 1968).
(I) Si definisce <<pratico>> il gesto che tende a modificare una situazione ambientale o
a rispondere operativamente a uno stato di necessità.
Quindi uno spettacolo teatrale che voglia rappresentare un particolare ambiente
culturale potrà ricorrere anche allo stile con cui in tale ambiente si mangia, si cammina, si
lavora, o particolari deformazioni di questo stile. Nel teatro rappresentazione il risultato
pratico non ha importanza, se non narrativa: conta solo il modo, in quanto connota
l'appartenenza del personaggio ad una cultura o in quanto connota la situazione psicologica del
personaggio.
(II) Il gesto <<mitico>> o <<comunicativo>> è invece intenzionato o percepito come
comunicazione.
Quindi in uno spettacolo in cui prevalgano gesti <<mitici>> l'azione si svilupperà
soprattutto grazie alle informazioni che i personaggi si scambiano (esempio di opposizione tra
due classi sociali per mezzo della gestica: i lavoratori hanno mani mobili, attive; i pigri hanno
mani che pendono, disoccupate e ferme).
Si possono distinguere i gesti mitici, a seconda del tipo di informazione, in tre
categorie (D.EFRON, Gesto, razza e cultura, Milano, Bompiani, 1974):
a. gesti che servono a sottolineare ed enfatizzare il contenuto del discorso verbale
(<<paralleli>>), magari tracciando i percorsi dello schema di pensiero (<<ideografici>>), o
scandendo ritmicamente il contenuto del discorso (<<bacchetta>>).
b. gesti capaci di convogliare informazioni su un referente oggettuale anche senza
l'ausilio del discorso verbale (<<oggettivi>> o <<autosemantici>>). Possono essere: <<deittici>>
(indicano l'oggetto); <<iconografici>> (descrivono la forma di un oggetto visibile);
<<cinetografici>> (rappresentano lo sviluppo di un'azione: es. movimento dell'indice che
riproduce il premere il grilletto di una pistola). Nel teatro possono essere usati per definire
l'appartenenza di un personaggio ad un certo livello sociale, o il suo più o meno volontario
staccarsene; ma si può trattare anche di una precisa scelta stilistica (teatro gestuale).
c. gesti che rappresentano un oggetto reale o logico mediante convenzione
(<<simbolici>>). Essi sono differenti nelle varie culture (è nota l'abbondanza di tali gesti nella
cultura napoletana); quindi saranno i più utili per qualificare gestualmente la cultura di un
personaggio. Ma è difficile distinguere con rigore tra gesti oggettivi e gesti simbolici.
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(III) I gesti che significano direttamente lo stato d'animo, o l'atteggiamento del
soggetto, possono essere definiti globalmente come <<gesti espressivi>>; ma si possono
distinguere anche in <<indizi>> o gesti <<sintomatici>> (rivelano lo stato d'animo al di là
dell'intenzione del soggetto), <<segni-indizi>> (appaiono indiziali all'osservatore, ma sono
coscientemente prodotti dal soggetto), <<espressivi>> (riproducono iconicamente il gestire
sintomatico: es. allargare le braccia per dire <<mi arrendo>> senza voler precisare che il
proprio stato d'animo è quello dello sconfitto). In generale i gesti espressivi tendono a
concedere una netta prevalenza ai valori connotati, rispetto a quelli referenziali: quando
questa prevalenza diventa quasi assoluta possiamo anche qui parlare di <<gesti astratti>>.
Una delle scelte fondamentali di una rappresentazione teatrale riguarda proprio il
privilegiare - nel descrivere i sentimenti dei personaggi - il gestire direttamente espressivo o
sintomatico, oppure il connotato espressivo di altri tipi di gesti, pratici o mitici che siano.
Parametri formali. I parametri formali entro i quali si possono catalogare i gesti sono
insufficienti a descrivere il fenomeno nella sua individualità: il vero significato di un gesto
potrà essere racchiuso in un impercettibile esitare (che solo grossolanamente potrà essere
catalogato entro le categorie lento/veloce).
Comunque i parametri più funzionali restano quelli proposti da EFRON; un gesto può
essere descritto dal punto di vista formale:
a. per il suo raggio (ampio o breve);
b. per la forma (sinuoso o ellittico, rettilineo o curvilineo);
c. a seconda del piano (orizzontale, verticale, obliquo);
d. per le parti del corpo che coinvolge, e a seconda che sia simmetrico o asimmetrico,
unilaterale o bilaterale;
e. sulla linea del tempo (ritmo regolare o irregolare, lento o veloce).
Es. il gesto deittico più comune: puntare l'indice di una mano in direzione dell'oggetto
indicato. In una rappresentazione dell'Amleto, l'attore, nella scena della seconda apparizione
dello spettro, raddoppiava il gesto del braccio destro tutto teso verso il fantasma tendendo,
ma solo in parte, anche l'altro braccio: mentre il gesto di un braccio risultava pieno e deciso,
quello dell'altro appariva per contrasto come trattenuto e incerto (-> paura e dispetto di
Amleto).
Per <<gesto>> si intende il movimento eseguito da una o più parti del corpo, o che
coinvolge l'intera persona: nel primo caso, il gesto ha luogo nel contesto di una <<posizione>> o
di un <<atteggiamento>>.
<<Posizioni>> = i fondamentali e funzionali assetti della figura (in piedi, disteso,
seduto, inginocchiato ecc.); <<atteggiamenti>> = i toni in cui queste posizioni vengono realizzate
(rilassato/teso, attento/diatratto ecc.).
Nel teatro, più che nella vita quotidiana, un atteggiamento può trasformarsi in
<<posa>>, la quale può distinguersi per la sua <<fissità>> e per la sua <<intenzione significante>>.
Pertanto uno spettacolo che faccia uso prevalente di atteggiamenti (spontanei) manifesta
tendenze naturalistiche, mentre l'impiego di pose (artificiose) comporta ricercatezza
stlistica e ridondanza. Es. il Living Theatre presentò uno spettacolo, Mysteries and smaller
pièces, una parte del quale era dedicato all'esibizione di pose nelle quali gli attori esprimevano
in termini di intensa deformazione sentimenti e sensazioni particolarmente violente; alcune
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regìe 'espressionistiche' di Missiroli tendevano a far esprimere certi stati d'animo
attraverso deformazioni di gesti.
III. 5. MIMICA.
Per mimica si intendono i movimenti del viso. I segni mimici si fondano in parte su segni
di ordine sintomatico: ciò ha determinato sia la condizione privilegiata del segno mimico dal
punto di vista espressivo, sia la prevalenza, nel campo semantico del codice mimico, di
messaggi relativi allo stato del soggetto.
(1) Dal punto di vista formale (dei significanti) i gesti del viso, nel teatro, si possono
classificare in:
a. Gesti rari/frequenti: i mutamenti di espressione sono molto o poco numerosi
nell'unità di tempo, ovvero il personaggio (l'attore) tende a dare poche o molte notizie su di
sé, a parlare poco o molto con il viso. Quando i singoli gesti si trasformano l'uno nell'altro si
parla di <<viso mobile>>, quando si sostituiscono con una certa secchezza l'uno all'altro si parla
di <<mimica discreta>> (maggiore durata del gesto).
Due esempi rispondenti a stili opposti: l'attore brechtiano tenderà a dare rilievo a
poche azioni mimiche significative (BRECHT, negando l'immedesimazione, sostiene che
l'attore deve prendere posizione rispetto al personaggio, rappresentandolo da un particolare
punto di vista); il sottile e continuo gioco mimico di chi segue nei dettagli lo sviluppo di una
situazione: gioco spesso inafferrabile nel teatro, mentre nel cinematografo è reso
percettibile dalla possibilità di ingrandire il volto dell'attore portandolo in <<primo piano>>.
Non a caso si dice che EDUARDO DE FILIPPO ha mutuato dal cinematografo la tecnica dei
<<primi piani>> >.
b. Deformazione intensa/moderata, totale/parziale. Anche l'intensità è relativa alle
esigenze della percezione: un gesto mimico appena accennato è visibile solo ad una distanza
limitata, e tuttavia un gesto fortemente deformato non viene percepito a distanza come
moderato.
(2) Dal punto di vista del significato, si può tentare una classificazione dei gesti mimici
in:
a) Gesti che si presentano come espressione pura: si informa solo sullo stato del
soggetto. Possono essere di ordine sintomatico o convenzionale (rido perché non posso
trattenermi o rido per mostrare che sono allegro).
b) Gesti in cui l'espressione, convenzionale, contiene un referente (sorrido per
mostrarti che mi sei simpatico e per approvare quello che dici).
c) Il referente contiene l'espressione (sorrido per cortesia, ma dal sorriso traspare la
mia tristezza). La forza dell'attore sta nel rendere possibile la doppia significazione.
d) Gesti puramente referenziali: non si riferiscono all'atteggiamento del soggetto.
Nella civiltà occidentale, tali gesti del viso sono o deittici (indicare con le labbra o con gli
occhi) o iconici (riprodurre con il proprio viso le fattezze altrui); rari i gesti puramente
simbolici (strizzare l'occhio).
e) Mimica astratta: tenta di abolire il riferimento al viso, per rilevare solo il gioco
delle linee e dei volumi.
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Come per il gesto considerato nell'analisi cinesica, l'attore ha a disposizione un doppio
paradigma: in relazione alla forma dell'espressione (significante), il paradigma si dispone sugli
assi <<frequente/raro>>, <<intenso/moderato>>, <<totale/parziale>> (per esprimere meraviglia si
può spalancare occhi e bocca, facendo durare a lungo questo gesto, oppure aprire soltanto gli
occhi per un istante); dal punto di vista del significato, si può scegliere un gesto univoco, es.
una pura espressione del sentimento, oppure un gesto che unisce una referenza ed una
espressione).
Per quanto riguarda il <<trucco>>: nel teatro esso serve principalmente ad adeguare il
volto dell'attore all'immagine necessaria in un determinato contesto. Il trucco può essere
evidente o nascosto: nell'analisi solo il trucco evidente deve essere preso in considerazione in
quanto tale, e andrà descritto nella sua struttura coloristica e formale, e in relazione ai
movimenti mimici. Infatti la <<maschera>> tradizionalmente intesa si distingue dal <<trucco>>
proprio per la sua immobilità: la maschera è la fissazione di un atteggiamento mimico.
III. 6. COREOGRAFIA.
La coreografia descrive i movimenti di traslazione dell'attore (o di un oggetto) da un
punto all'altro dello spazio scenico (esempi di oggetti animati in funzione attorica: i <<drammi
di oggetti>> futuristi, ed in particolare la <<sintesi>> Vengono di MARINETTI).
Il movimento coreografico può essere catalogato in base a parametri spaziali e/o
temporali:
continuo/discreto;
rettilineo/curvilineo/zigzag;
verticale/orizzontale;
lento/veloce; regolare/irregolare. E la sua descrizione deve riguardare anche il numero di
oggetti coinvolti: sull'asse individuale/corale.
In una particolare scena la scelta potrà essere compiuta tra i diversi tipi di movimento,
mentre, dal punto di vista quantitativo, si andrà dall'estremo dell'assoluta immobilità a quello
del movimento collettivo di tutti gli elementi. Uno spettacolo dunque può essere definito nella
sua globalità o nelle sue parti come tendenzialmente <<statico>> o <<dinamico>>, ma la staticità
degli attori è più informativa di quella degli oggetti. In un contesto dinamico la staticità di un
singolo attore serve a dargli particolare rilievo, così come la sua mobilità sarà esaltata dalla
staticità degli altri.
Un movimento si oppone non solo all'immobilità, ma anche ad un movimento
diversamente caratterizzato sul piano formale: la <<coralità>> è determinata dal convergere di
movimenti simili entro un unico schema; la <<confusione>> è creata dalla somma di movimenti
fra loro decisamente diversi. I movimenti possono quindi essere <<uniformi>> o <<disformi>>: in
base principalmente alla <<direzione>> (anche dal punto di vista del significato).
E' la direzione che determina l'avvicinarsi o l'allontanarsi da un oggetto o da un
partner (in questo caso la descrizione coreografica non è separabile da quella prossemica):
due attori (personaggi), avvicinandosi, passano da una distanza pubblica ad una intima, e
possono allontanarsi da un terzo, ristrutturando l'intera disposizione prossemica (o dei
gruppi). Nel <<teatro all'italiana>>, l'attore può assumere una particolare rilevanza venendo in
primo piano. Invece nel <<teatro all'aperto>>, è il movimento stesso che può creare e definire
lo spazio dell'azione.
Per quanto riguarda specificamente il <<movimento dell'attore>>, si possono utilizzare
parametri già usati per la gestualità, dal punto di vista del significato: a) movimenti funzionali
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(scopo pratico); b) movimenti espressivi; c) movimenti simbolici (connessi a significati per via
di convenzione); d) movimenti puramente formali.
III. 7. PROSSEMICA.
Per prossemica si intende lo studio della distanza fra i soggetti di un rapporto sociale
(E.T.HALL, La dimensione nascosta, Milano, Bompiani, 1968).
In base al rapporto vicinanza/lontananza, sono state individuate quattro categorie:
- <<distanza intima>> (contatto fisico diretto);
- <<distanza personale>> (o del parlare confidenziale);
- <<distanza sociale>> (o del rapporto mondano); - <<distanza pubblica>> (chi parla deve
alzare la voce, i dettagli fisici non si percepiscono quasi più, si esce dal coinvolgimento).
Si tratta di parametri fondati culturalmente; ma dal punto di vista della pura
denotazione, la distanza denota solo se stessa, ed è solo nella connotazione che essa rinvia ad
altri significati (intimità, discrezione, rispetto, ecc.), chiariti solo dal contesto.
Quanto alla rappresentazione teatrale, essa è anche rappresentazione delle distanze
intercorrenti fra i vari personaggi; ma, nell'allestire uno spettacolo, si potrà scegliere fra le
quattro distanze-tipo e questa scelta entrerà a determinare il significato globale della
situazione data.
Inoltre i parametri elementari (esaminati) si complicano man mano che cresce il
numero degli attori presenti. Così la posizione centrale può significare <<rilevanza>> o <<essere
assediato>> solo nel caso della presenza di più attori. E il rilievo accordato ad un attore in
forza della sua posizione e/o dalla sua distanza dal gruppo degli altri può avere un significato
rappresentativo (attribuitogli dagli altri personaggi), ma anche un valore semplicemente
enfatico (attribuitogli dallo spettacolo).
Quanto alla posizione reciproca degli attori, si possono distinguere sei posizioni di
base:
a. fronteggiarsi = reciproco interesse
b. volgersi le spalle = reciproco disinteresse
c. guardare nella stessa direzione = concordanza di attenzione
d. guardare in direzioni opposte = discordanza di attenzione
e. guardare chi guarda davanti a sé
f. volgere le spalle a chi guarda davanti a sé
Bisogna tuttavia considerare il rapporto con gli elementi scenografici e la situazione
rispetto al pubblico: consideriamo i casi più semplici relativi al teatro con scena disposta
frontalmente (<<teatro all'italiana>>) e al teatro a scena centrale (<<théatre en ronde>>).
(A) Nel caso della scena frontale, l'attore può fronteggiare il pubblico, presentargli il
profilo, oppure voltargli le spalle. I significati variano a seconda che la scena sia (a) <<chiusa>>
(il pubblico è diviso dalla scena da un'immaginaria <<quarta parete>>) o (b) <<aperta>> (il
pubblico è una presenza di cui gli attori tengono conto esplicitamente, anche se non gli si
indirizzano positivamente, come nel teatro francese fra Seicento e Settecento).
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(a)
Nel teatro naturalista, ove la linea del proscenio funge da <<quarta parte>>,
un attore può assumere una posizione frontale e in primo piano perché è
quella relativa agli altri personaggi, ma per l'osservatore quel personaggio
assume una posizione di rilievo (relativa al pubblico, non agli altri attori).
(b)
Nella <<scena aperta>>, invece, la posizione dell'attore rispetto al pubblico
tiene esplicitamente conto della sua presenza, in vario grado:
- l'attore non deve voltare le spalle agli spettatori (->rispetto);
- l'attore tende ad assumere la posizione che permette al pubblico una visione più
completa del gioco mimico (attori italiani del primo Ottocento);
- l'attore si rivolge direttamente al pubblico (nei prologhi e negli a parte);
- l'attore si rivolge al pubblico per investirlo di un ruolo.
(B) Nel théatre en ronde, si può considerare ciascun spettatore come una sorta di
pubblico assoluto, quindi l'attore si rivolge soltanto ad una parte del pubblico; oppure si può
considerare il pubblico come globalità (si ricade nella casistica precedente).
III. 8. PAROLA (LINGUISTICA E PARALINGUISTICA).
MOLINARI distingue il paradigma verbale in linguistica e paralinguistica.
Linguistica
Dal momento che, nell'analisi del fenomeno teatrale, ciò che pertiene alla linguistica in
senso proprio è il testo scritto, questo aspetto deve essere esaminato in sede di analisi del
testo drammaturgico. Accenneremo qui soltanto ad alcuni punti: per esempio, alla necessità di
esaminare quale o quali siano i codici impiegati (italiano o norvegese), e se tutti i personaggi,
in tutte le fasi dello spettacolo, parlino o no la stessa lingua e quali effetti derivino
dall'omogeneità o dalla disomogeneità della lingua impiegata; se la lingua usata corrisponede a
quella che i personaggi dovrebbero teoricamente impiegare.
D'altra parte, può aiutare anche un'analisi stilistica, per determinare se, e in quale
misura, i diversi personaggi hanno ciascuno un proprio stile o al contrario usano diversi <<stili
sociali>> di linguaggio; se ciascun personaggio parla in modo corretto o scorretto, se usa giri di
frase, parole e stilemi derivati da lingue e dialetti diversi. Questi rilievi sono pertinenti per
un qualsiasi fatto letterario, ma hanno un'importanza primaria nel teatro, dove, storicamente,
l'individuazione del personaggio assume un'importanza critica spesso determinante.
Paralinguistica
L'attenzione degli studiosi di paralinguistica si è spesso estesa all'ambito gestuale e
mimico; ma riguarda in primo luogo la <<dizione>> (modi d'uso dell'organo della voce). Lo stile
vocale di uno spettacolo può essere valutato sulla base delle distinzioni compiute dall'acustica
(altezza, intensità, timbro o metallo della voce). La voce impiegata può essere acuta, media o
bassa quanto all'altezza; forte, media o debole quanto all'intensità. Ma a questi parametri
formali vanno aggiunti il <<tempo>> (ritmo) e le relative <<pause>>: il ritmo può essere lento o
veloce, regolare o irregolare. Infine la scelta del registro di base può essere quella naturale
per l'attore o forzata fino al limite delle possibilità.
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Dal punto di vista della <<concertazione vocale>>, la gamma delle scelte stilistiche può
essere stabilita sull'asse <<uniformità>>-<<varietà>>; si possono avere anche <<primi piani
sonori>> (una voce acuta e forte, in un complesso di voci basse e moderatamente intense, può
individuare un personaggio fisicamente situato sullo sfondo o di poco rilievo nel contesto
situazionale).
Un posto a parte meritano le <<pause>>, perché possono costituire un fattore decisivo
della denotazione, e quindi far parte del codice propriamente linguistico. D'altra parte, hanno
una grande importanza sul piano espressivo (Rosso di San Secondo rilevava che il suo teatro
era costituito da <<pause disperate>>). E' proprio il doppio statuto, linguistico e
paralinguistico, della pausa, a chiarire l'aspetto semantico della paralinguistica.
Nel dialogo le pause sono di due ordini: quella interna alla battuta, e quella che separa
un intervento da un altro. Nel primo caso esse vanno valutate per la loro <<frequenza>>, per la
loro <<posizione>> (logica o no) e per la loro <<durata>> (sempre in funzione espressiva). Nel
secondo caso, unicamente per la loro <<durata>> (dagli ampi intervalli usati da due ragionatori,
a quelli brevissimi d'un duello dialettico, al sovrapporsi delle battute in uno scontro verbale).
La pausa ha anche una funzione enfatica: crea suspense e rileva la parola che si ritarda
a pronunciare. Ma l'enfasi - come sottolineatura di una parola - si può ottenere anche con un
mutamento di registro tonale o con un aumento dell'intensità vocale. In sé l'enfasi si colloca
sempre sul doppio piano: modulare-acustico-espressivo e semantico. E' ben noto il classico
esempio in voga nelle scuole di recitazione: <<oggi (e non domani) vieni a cena con tuo
fratello>>; <<oggi vieni a cena (e non a pranzo) con tuo fratello>>; <<oggi vieni a cena con tuo
fratello (e non da solo)>> (A.MORROCCHESI, Lezioni di declamazione e di arte teatrale,
Firenze, 1832).
C'è infine da considerare - anche per la paralinguistica - l'aspetto relativo alle
dimensioni del teatro. Nella comunicazione teatrale c'è sempre una forte accentuazione
dell'intensità vocale, e una durata maggiore per la sospensione della voce (i tempi delle pause)
a causa della <<distanza pubblica>> in cui si viene a trovare in genere l'attore rispetto allo
spettatore. Il cosiddetto <<naturalismo recitativo>> non dipende dal fatto che l'attore usa una
voce naturale, ma dal fatto che un ipotetico spettatore recepisce come <<normale>> la
discorsività degli attori. Di qui gli esercizi per l'impostazione della voce; ma oggi l'uso
dell'amplificazione tende a riproporre l'effettiva naturalezza del parlare dell'attore.
III. 9. MUSICA E RUMORI.
La parola, la musica e i rumori costituiscono la <<colonna sonora>> dello spettacolo. Da
quando LUIGI RUSSOLO pubblicò la sua lettera-manifesto a BALILLA PRATELLA sull' Arte
dei rumori (1916) non è più possibile distinguere, in linea di principio, fra musica e rumori.
(A) Nell'analisi dello spettacolo i <<rumori>> sono sempre <<indici>>, segno della causa
che li produce, e in questo senso distinguibili dalla musica. In un contesto descrittivo, il
rumore la cui causa non è visibile induce tensione. Nel teatro rappresentazione un rumore può
essere riprodotto nella sua integralità oppure venir stilizzato. Es. nello spettacolo di CARLO
CECCHI, La morte dint'a 'o letto 'e don Felice, la pioggia nella tremenda notte dei fantasmi
veniva raffigurata da un delicato arpeggio dell'orchestrina a vista: l'effetto era ad un tempo
comico e vagamente sentimentale.
(B) La <<musica>> di uno spettacolo dev'essere esaminata dal punto di vista quantitativo
e qualitativo (modalità della sua presenza). Nella fenomenologia storica del teatro
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occidentale, possiamo distinguere quattro diversi generi teatrali in cui la musica è
fondamentale: a) il concerto (dove la musica è l'unico elemento significativo); b) l'oratorio
(alla linea musicale si unisce anche il canto); c) l'opera o melodramma (il testo verbale e quello
musicale si pongono come progetto di uno spettacolo che prevede l'impiego di tutte le linee di
codice); d) il balletto (un'azione scenica il cui ritmo è determinato dalla partitura musicale).
Quando la musica non ha alcuna priorità genetica nei confronti dello spettacolo, si
parla di musica <<di commento>>. Essa entra nel contesto dello spettacolo implicando una serie
di valori - sul piano del significato - legati a categorie psicologistiche.
Nel teatro drammatico occidentale la musica è stata prevalentemente impiegata come:
a) <<Leitmotiv>> (motivo conduttore), attraverso il quale si possono riconoscere
personaggi, situazioni, oggetti simboli;
b) <<Bella melodia>> (predomina sugli altri elementi musicali e dev'essere prevedibile e
facile da ricordare);
c) <<Musica decorativa>> (riempie i silenzi, accompagna in sordina particolari
situazioni);
d) <<Musica illustrativa>> (usata per descrivere la situazione visiva);
e) <<Musica geografica o storica>> (come supporto all'identificazione del luogo e del
periodo storico in cui si svolge l'azione);
f) <<Musica di atmosfera o di preparazione a particolari situazioni>> (effetti-cliché,
che inducono particolari reazioni emotive nello spettatore; anche usata in funzione oppositiva,
di contrappunto drammaturgico);
g) <<Musica che induce tensione>> (es. il crescendo orchestrale).
Nelle forme teatrali moderne e contemporanee il messaggio musicale è altamente
informativo. Un significativo cambiamento nell'uso della musica si ha con BRECHT: nelle sue
opere la musica è un contenuto strutturale che si pone in rapporto dialettico con gli altri
elementi dello spettacolo. Il concetto stesso di <<straniamento>> è ribadito dalla musica. (Si
pensi anche alle <<canzoni>> d'epoca che scandiscono, in Gli esami non finiscono mai di
EDUARDO il ritmo cronologico dell'azione scenica).
Con l'introduzione del nastro magnetico attorno al 1950 è divenuta possibile una
produzione enormemente diversificata: ruomori, suoni strumentali e vocali, vengono
manipolati, tanto da rendere impossibile il riconoscimenti dell'origine sonore (vedi gli
spettacoli di CARMELO BENE).
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