UN UOMO TENACE
“Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon”.
Erano i versi di un canto che dava speranza a tanti Italiani,
la maggior parte precari o reduci dalla prima guerra mondiale
(1915-1918) che, in cerca di fortuna, si avventuravano nel credo politico del momento, inteso a formare del Regno d’Italia
un Impero coloniale.
Erano gli anni venti.
L’Inghilterra, la Francia, la Spagna, il Portogallo, il Belgio, l’Olanda, quasi tutti gli Stati dell’Europa occidentale godevano già
da qualche tempo di quest’espansione territoriale nei vari Continenti: Africa, America del Sud, medio ed estremo Oriente.
Tali conquiste, motivate da uno spirito di civilizzazione delle
terre lontane, mirarono a espansioni territoriali e a un ritorno,
in termini economici, con lo sfruttamento agricolo, forestale e
minerario che promosse in Europa il commercio di tè, spezie,
oro, diamanti. Queste terre occupate funzionarono da testa di
ponte per altre conquiste.
Lo scopo, in un certo qual senso, fu raggiunto. I popoli, assoggettati già nel seicento e nel settecento, avevano assorbito
lentamente la civilizzazione europea al punto che alcuni indigeni divennero, in tempi più recenti, cittadini europei. I colonizzatori seppero sfruttare quelle terre conquistate, anche a
costo di vite umane. Esse furono falciate sia dalle popolazioni
autoctone sia dai Pirati che all’epoca, seguendo le rotte dei velieri commerciali e militari, ne razziavano le merci o addirittura
le stesse navi.
Stessa cosa si era prefissata l’Italia mussoliniana, fascista, nello stringere patti d’alleanza con la Germania hitleriana, nazista.
Già nel 1912 aveva conquistato la Libia, occupando la Tripolitania e la Cirenaica, che da alcuni secoli era sotto l’Impero turco, iniziando quella espansione territoriale che l’avrebbe portata a diventare un impero coloniale.
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“Tripoli sarai italiana, sarai italiana al rombo del cannon”.
Al “... bel suol d’amore”, seguiva la strofa “sarai italiana al rombo del
cannon”. Una conquista, quindi, non motivata da principi umanitari e di civilizzazione, bensì di sudditanza, di sottomissione
e d’incorporazione della Libia, denominata in seguito “quarta
sponda”.
Migliaia di giovani italiani ricevettero la “Cartolina precetto”,
altri chiesero di partire volontari per conquistare altre terre da
annettere alla Patria e garantirle il nome di “Impero”. Il Duce
fu la loro guida; la sua parola li entusiasmava. Madri, mogli e
figli piangevano alla partenza dei convogli o delle navi che portavano i loro giovani eroi verso terre lontane: l’Africa, la Russia,
l’Albania. A migliaia morirono sui campi di battaglia; le loro
lacerazioni furono imbrattate dalla sabbia del deserto in Africa,
mentre il sangue dei feriti e dei moribondi formava pozzanghere vermiglie sulla candida neve di Russia. Decine di migliaia
di giovani non fecero più ritorno alle loro case; i volti dei loro
congiunti erano cosparsi di lacrime per una morte così assurda.
Vedove, promesse spose, orfani, e anziani genitori si videro privare del proprio unico bene.
Come in ogni guerra si assistette a scene d’orrore e punizioni
per i ribelli. Molti musulmani eminenti e oppositori furono catturati e resi innocui. Accadde, come in tutte le guerre, che i conquistatori furono motivati da ragioni di padronanza e di libero
arbitrio, fino a quando la razionalità e il motivo principale della
conquista non prevalsero e ripristinato l’ordine e la legalità.
I primi coloni giunsero dal Veneto, poi da altre regioni italiane, e dalle vicine colonie francesi dove molti di loro si erano in precedenza stabiliti, portando esperienze artigianali e
professionali diverse. A molti furono affidati ettari di terreno
denominati “concessioni”, poiché si trattava d’appezzamenti
provenienti da occupazione bellica, e quindi sotto la tutela del
Governo italiano; terreni che in seguito furono trasferiti di proprietà a coloro che li avevano riscattati con il proprio lavoro.
Erano estensioni sabbiose, più o meno ampie, prive di coltivazioni e di acqua. I Coloni italiani furono persone coraggiose
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che, con le loro famiglie, incominciarono a trivellare pozzi, per
fornirsi di acqua, costruendo alti tralicci di ferro sormontati da
una grande ruota elicoidale che, azionata dal vento, dava energia a una pompa sommersa; erano i “pozzi artesiani”. L’acqua
sgorgava in superficie ed era avviata in grosse vasche di raccolta, in cemento, capaci di contenerne ettolitri. Essa serviva sia
per irrigare i campi, che per trovare refrigerio dalla calura nelle
calde estati, cui la maggior parte di loro non era assuefatta, con
l’immersione saltuaria a uso piscina.
Con gli aiuti economici e tecnici dello Stato italiano, essi costruirono interi villaggi. Sorsero abitazioni ampie a seconda
delle esigenze familiari, depositi, ripari per il bestiame; quei
contadini trasformarono, in pochi anni, tutta la striscia costiera
libica in un giardino lussureggiante.
Orti, uliveti, palmeti, il grano maturava al sole caldo e i frutteti
si espandevano in tutte le zone. Le arance, i mandarini, i limoni
e agrumi in genere, le albicocche, l’uva, le prugne, i cocomeri e
i meloni, e poi le fragole, i gelsi, i datteri e le banane, tutta frutta
bisognosa di sole e calore aveva trovato in quelle “concessioni”
il suo “habitat” naturale; il profumo e il sapore di quella frutta
maturata sulle piante rimarrà solo un lontano piacevole ricordo.
I lembi di spiagge lungo le coste furono bonificati e resi abitabili, trasformati in pontili, panchine, bastioni. Nelle insenature
naturali sorsero porti ampliati artificialmente. Strade costiere collegarono le varie cittadine e villaggi ai due principali capoluoghi.
I giardini cominciarono a espandersi lungo le coste, verso le
città, con fontane e piccoli monumenti, alberi da ombra che
emanavano frescura per i passanti e le mamme che passeggiavano con le carrozzine dei propri bambini. Palazzine, ville, chiese,
banche, attività commerciali e finanziarie sorsero nel giro di
pochi lustri; furono costruiti cinema, teatri e persino un Casinò.
Furono anni d’intenso fermento e lavoro. Dalla sabbia del
deserto emersero, quali fantasmi tornati a vivere, antiche città
romane come Leptis Magna, con i suoi templi dedicati agli
dei, e Sabratha, dove primeggia l’anfiteatro greco-romano, nei
pressi delle quali furono costruiti musei per la raccolta dei re- 15 -
perti archeologici trovati anche nei dintorni.
Iniziarono i lavori di bonifica, nonché opere di ristrutturazione e sviluppo delle città, con particolare riferimento a Tripoli
e Bengasi, perché capoluoghi delle due Regioni, Tripolitania e
Cirenaica, e di costruzione di altri villaggi per ospitare i nuovi
colonizzatori.
L’insediamento italiano dovette tuttavia fronteggiare la resistenza locale culminata, nel 1923, nella rivolta della famiglia dei
Senussi, eminenti musulmani impegnati nell’opera di proselitismo islamico indipendentista contro gli invasori, con spargimento di sangue da ambo le parti.
In oltre vent’anni gli Italiani trasformarono il volto della Libia in fiorenti città e rigogliosi giardini.
La seconda guerra mondiale (1940-1945) diede ragione alle
truppe britanniche che occuparono la Libia. Nel 1952 l’Inghilterra, dopo le continue rivolte indigene, concedette l’indipendenza a tutta la Regione. Nacque la monarchia del Regno unito
di Libia con l’investitura a Sovrano del Senussi Re Idris 1°.
....dalla sabbia emersero antiche città romane:
il teatro greco-romano di Sabratha
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Un uomo tenace
Tale evento vanificò le conquiste effettuate e i risultati raggiunti con il sacrificio di decine di migliaia di giovani Italiani
deceduti per la gloria della Patria, obbedienti al motto fascista
“Credere, Obbedire, Combattere”. Un Ufficiale dell’Esercito britannico, dopo alcuni anni d’occupazione e protettorato, ebbe
a criticare gli sforzi dell’Italia nella costruzione di uno Stato
con città, giardini e fertili campagne. Aggiunse che le conquiste
servono per sfruttare le colonie, non per renderle ricche ed
edotte nel progresso. Essi sfruttarono ciò che in Libia cresceva
spontaneamente, lo sparto, una pianta erbacea delle Graminacee con lunghe foglie giunchiformi, dalle quali si ricavava una
fibra usata per cordami e nella fabbricazione della cellulosa per
carta.
Gli Inglesi continuarono soltanto nella strutturazione
anagrafica degli autoctoni, già avviata dagli Italiani, per avere
anche un miglior controllo sui cittadini. La maggior parte di
loro, infatti, non conosceva la propria data di nascita che faceva coincidere con avvenimenti naturali o bellici.
Particolare del Teatro greco-romano di Sabratha
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Antonio Vinci, originario della Contea di Modica fra i Monti
Iblei, fin da giovanissimo si era dedicato a vari mestieri per
aiutare i genitori nella conduzione della famiglia; pur essendo
molto giovane, era il più grande di quattro fratelli e spettava
quindi a lui l’incarico di aiutare il padre a sbarcare il lunario,
in tempi molto duri per la sopravvivenza. All’età di diciannove anni, il 21 settembre 1916, fu chiamato alle armi. Già da
un anno era scoppiata la prima guerra mondiale (1915-1918).
Il fratello Gregorio partì per la Francia nello stesso periodo,
all’età di diciassette anni. Perì insieme con altri commilitoni
per l’esplosione di una mina. Inquadrato nella XII Compagnia
Sanità, il 1° gennaio 1917 fu trasferito nel deposito del 6° Reggimento fanteria con la qualifica di cuoco.
Nell’ottobre del 1919, dopo una degenza nell’Ospedale di
Catania, fu inviato in convalescenza di un anno.
Sposatosi con Margherita Sensi nel 1920, ebbe la fortuna di
diventare subito padre di Gregorio. Al primo figlio impose il
nome del fratello deceduto in guerra. Cercò di migliorare la
Teatro greco-romano di Leptis Magna
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propria esistenza e si trasferì a Siracusa, città ritenuta allora
una delle perle della Sicilia. Lavorò prima come cameriere in
un ristorante, dove continuò con l’attività di cuoco, avendo
appreso tale arte nelle cucine dei campi di battaglia durante la
guerra contro l’Austria.
I proventi da tale attività non furono sufficienti per soddisfare le esigenze della famiglia; si vide quindi costretto ad alternare a quello di cuoco il lavoro da ebanista. Lavorare il legno
lo appassionava ed era inoltre più redditizio. Naturalmente il
tutto dipendeva dalla richiesta, che non era sempre insistente.
Dopo qualche anno gli si presentò l’occasione di essere assunto dalle Ferrovie dello Stato quale “frenatore”. Un lavoro
più sicuro con uno stipendio fisso, tale da garantirgli una certa tranquillità. Compito, del tutto nuovo per lui, che consisteva nel manovrare una manovella circolare, posta sulla parete
alla destra della cabina, issata nella parte posteriore dei vagoni
merci, per aiutare la frenatura di tutto il treno. Tale manovra,
infatti, salvaguardava la sicurezza della motrice che, se unica a
Leptis Magna - Foro Severino
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frenare, avrebbe subito il contraccolpo di tonnellate di peso
con conseguenze anche catastrofiche.
Non era un lavoro di tutto riposo. In condizioni atmosferiche buone o cattive bisognava essere presenti e svegli; la stanchezza poteva giocare degli scherzi poco piacevoli con pericoli
per il treno e rischio di licenziamento. Era richiesta quindi la
massima attenzione e serenità. Ogni lavoro, d’altronde, ha il
rovescio della medaglia.
Il 29 ottobre 1922 alle ore 12.55, Il Re Vittorio Emanuele III
affidava incarico a Mussolini di formare il nuovo Governo. Tra
le sue ambizioni vi era quella della creazione di un Impero che
portasse l’Italia a essere una Nazione importante e rispettata.
La Libia fu il suo primo obiettivo verso il quale furono incanalati investimenti d’uomini e mezzi. Poi sarebbe stata la volta
dell’Etiopia, dell’Egitto e così via.
L’Italia era quindi in fermento e gli Italiani fecero affidamento
nel programma presentato dal Fascismo; conquiste volevano
significare lavoro e benessere per tutti. Dopo circa quattro
anni in ferrovia, durante i quali era stato allietato dalla nascita
di Assunta, giunse voce ad Antonio della richiesta di lavoratori
“volontari” per l’Africa italiana. Ritenne tal evento una mossa
audace da intraprendere, rischiosa, ma nel frattempo allettante
per mirare a un futuro migliore. Ebbe dei dubbi; con la moglie
e due bambini verso l’ignoto, di là del mare, in terra africana. Ne parlò con la consorte, ma dovette decidere da solo,
come sempre. Lasciò il lavoro presso le Ferrovie e, fiducioso
nell’aiuto dell’Onnipotente, decise di partire per la Tripolitania
dove, come auspicato, l’avrebbe atteso migliore fortuna. Aveva
trent’anni, l’età in cui l’uomo è ormai maturo per prendere
quelle decisioni dalle quali dipenderà il proprio futuro. Chiese
di poter lavorare a Tripoli, la città dove aveva sede il Governo italiano d’occupazione di quel grande scatolone di sabbia,
com’era nota la Libia, a causa dell’immenso deserto che dal
Mediterraneo s’estendeva fino ai confini col Sudan, e dall’Egitto a quelli con la Tunisia e Algeria.
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