La responsabilità medica1 *** 1. Premessa: dalla “responsabilità del medico” alla “responsabilità medica”. 2. La condotta dovuta come obbligazione di mezzi. 3. La natura della responsabilità. 4. Il grado della colpa. 4.1. La nozione di “colpa lieve”. 4.2. L’onere della prova. 5. Il nesso causale. 6. Il consenso informato ed il fondamento normativo dell’obbligo di informare. 6.1. Natura e requisiti del consenso. 6.2. Effetti della mancanza di informazione. 6.3. Consenso e capacità. 6.4. L’onere della prova del consenso. 11. Forme della professione e regole di responsabilità. 11.1. Il libero professionista. 12. Il medico convenzionato. 13. Il medico dipendente di struttura privata. 13.1. La responsabilità della casa di cura privata. 14. Il medico dipendente di struttura pubblica. 14.1. Medici in posizione apicale (primari) e medici subordinati (aiuti). 14.2. La responsabilità della struttura sanitaria pubblica. 14.3. La responsabilità delle disciolte USL. 14.4. L’azione di rivalsa della p.a.. 1 Tratto da “La responsabilità civile - CD-Rom”, IPSOA, Milano, n. 2/2009. Pagina 1 di 68 1. Dalla “responsabilità del medico” alla “responsabilità medica”. Probabilmente non esiste altra categoria professionale oltre quella dei medici, che negli ultimi 15 anni abbia visto modificarsi così profondamente sia le regole che presiedono all’esercizio della relativa professione; sia le norme che disciplinano la relativa responsabilità. Non è, quindi, in errore chi ha osservato che nella borsa del diritto il titolo “responsabilità del medico” è segnalato in forte e costante rialzo (Palmieri, Relazione medico-paziente tra consenso «globale» e responsabilità del professionista, in Foro it. 1997, I, 772). In particolare, gli ultimi anni hanno visto una crescita vertiginosa (sulla quale, però, mancano allo stato dati precisi) delle domande di risarcimento per danni causati al paziente da una condotta colposa del medico; sono conseguentemente aumentate le pronunce di condanna nei confronti di medici; è letteralmente “esplosa” l’attenzione della dottrina verso questo fenomeno (tra le opere ed i contributi più recenti si segnalano Alpa, La responsabilità medica, in Resp. civ. prev., 1999, 315; STANZIONE e ZAMBRANO, Attività sanitaria e responsabilità civile, Milano, 1998; Iamiceli, La r.c. del medico, in Cendon (a cura di), La responsabilità civile, VI, Torino 1998, 309; BARNI, Diritti-doveri, responsabilità del medico Dalla bioetica al biodiritto, Milano, 1998; Alpa-Bessone (a cura di), La responsabilità civile-Aggiornamento 1988-1996, Torino 1997, II, 781; CASTRONOVO, Profili della responsabilità medica, in Vita not., 1997, 1222; BASILE, Spunti di riflessione sul tema della responsabilità professionale del medico, in Dir. ed economia assicuraz., 1996, 275; BELLELLI, Codice di deontologia medica e tutela del paziente, in Riv. dir. civ., 1995, II, 577). Le principali concause di questo fenomeno sono state individuate dalla dottrina: (a) in una più consapevole presa di coscienza dei propri diritti da parte degli utenti del servizio "sanità"; Pagina 2 di 68 (b) nell'attività di sensibilizzazione compiuta dalle associazioni di difesa dei diritti del malato; (c) nell'accresciuta scolarizzazione della popolazione; (d) nell'evoluzione dei mezzi di cura e diagnosi, che hanno sia consentito un più approfondito controllo ab extemo sull'attività del medico, sia l’esposizione di quest’ultimo al rischio derivante dal controllo e dal governo di strumentazioni assai sofisticate; (e) nell'evoluzione significativa del concetto e delle funzioni della “responsabilità civile", la quale, da criterio di riparto delle conseguenze sfavorevoli di un evento dannoso, è andata assumendo la natura di strumento di allocazione delle risorse del sistema (Rodotà, Tecnologie e diritto, Bologna, 1995; Idem, Modelli e funzioni della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1984, 595; Corsaro, Responsabilità civile - Diritto civile, in Enc. giur., XXVI, Roma, 1991, 1; Busnelli, La parabola della responsabilità civile, in Riv. crit. dir. priv., 1988, 649). La particolarità del fenomeno ora descritto non si limita, però, ad una semplice crescita del numero di controversie giudiziali nelle quali si invoca una colpa professionale del medico. L’altro aspetto assolutamente evidente del fenomeno è rappresentato da un mutato atteggiamento della giurisprudenza, la quale sembra quasi avere elaborato regole ermeneutiche ad hoc per la responsabilità del medico (in tema di concorso della responsabilità aquiliana con quella contrattuale; in tema di riparto dell’onere della prova; in tema di applicazione della esimente di cui all’art. 2236 c.c.; in tema di accertamento del nesso causale tra condotta colposa ed evento di danno). E’ questo il motivo per cui vari autori hanno insistito sulla esigenza che la responsabilità del medico debba essere tenuta distinta dalla analoga responsabilità degli altri professionisti. Non di “responsabilità del medico” occorrerebbe, dunque, parlare, ma di “responsabilità medica”, concepita come un vero e proprio “sottosistema” della responsabilità civile (Alpa, La responsabilità medica, in Resp. civ. prev., 1999, 316; Liguori, La Pagina 3 di 68 responsabilità civile medica, in Sub iudice, Atti del convegno tenuto a Rimini l’8-11 ottobre 1997, Pisa, 1998, 63; De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995). All’analisi degli aspetti che maggiormente differenziano questo sottosistema, rispetto alla ordinaria responsabilità del professionista, saranno dedicate le pagine seguenti. 2. La condotta dovuta come obbligazione di mezzi. Contestata, abbandonata, confutata dalla dottrina (per una eco della discussione si veda DE LORENZI, Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, in Digesto civ., Torino, 1995, XII, 397), la distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato continua ad essere accolta ed applicata dalla giurisprudenza: si vedano, ad esempio, nella giurisprudenza di legittimità, Cass., sez. II, 27-05-1997, n. 4704, in Foro it., 1997, I, 2078, con riferimento al contratto di prestazione d’opera professionale dell’ingegnere; Cass., sez. II, 18-06-1996, n. 5617, in Foro it. Rep. 1996, voce Procedimento civile, n. 116, con riferimento al contratto di prestazione d’opera professionale dell’avvocato (la giurisprudenza di legittimità è, sul punto, copiosissima: si vedano anche, in senso conforme, Cass., 07-05-1988, n. 3389, in Dir. e pratica assic., 1989, 497; Cass., 18-05-1988, n. 3463, in Corriere giur., 1988, 989. La distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultati è altresì recepita dalla giurisprudenza di merito assolutamente prevalente: si vedano, al riguardo, Pret. Fermo, 16-04-1997, in Dir. e lav. Marche, 1997, 245, con riferimento al contratto di agenzia; App. Venezia, 24-12-1996, in Foro pad., 1998, I, 50, con riferimento al contratto di prestazione d’opera professionale dell’ingegnere; Pret. Torino, 12-04-1996, in Orient. giur. lav., 1998, I, 474, con riferimento al contratto di lavoro subordinato; Trib. Milano, 22-06-1995, in Giur. it., 1996, I, 2, 258, con riferimento alla lettera di patronage; Trib. Roma, 09-12-1991, in Giust. civ., 1992, I, 1355, con riferimento ai contratti bancari di gestione titoli. Pagina 4 di 68 Nell’ambito della distinzione in esame, l’obbligazione assunta dal medico nei confronti del paziente viene sussunta nelle obbligazioni di mezzi, e non di risultato, al pari di tutte le altre prestazioni professionali (Cass., sez. III, 25-11-1994, n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913; Trib. Forlì, 29-031996, in Riv. it. medicina legale, 1996, 1232; Trib. Napoli, 15-02-1995, in Foro nap., 1996, 76; Trib. Trieste, 14-04-1994, in Resp. civ., 1994, 768). Una eccezione a questa regola è stata ammessa dalla S.C. in tema di chirurgia estetica: in questi casi, ferma restando la configurabilità dell’obbligazione del medico quale obbligazione di risultato, è ammissibile che sia il professionista stesso ad assumere l’obbligo di garantire un risultato, inteso però non come dato assoluto, ma da valutare con riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie (Cass., sez. III, 25-11-1994, n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913). Tuttavia sia parte della dottrina, sia parte della giurisprudenza di merito, tendono a superare l’impostazione tradizionale, ritenendo che in taluni casi l’obbligazione del medico possa ritenersi di risultato anche quando il professionista non abbia assunto alcuna garanzia in tal senso: cioè avverrebbe, secondo queste tesi estreme: (a) quando “l’esito della cura [non] rimane al di fuori delle possibilità di controllo del medico” (così Ferrando, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico, principi, problemi e linee di tendenza, in Riv. crit. dir. priv., 1998, 41); (b) nel caso di interventi di chirurgia estetica, salva diversa pattuizione delle parti (Trib. Roma, 01-06-2001, in Giurisprudenza romana, 2001, 354; Pret. Roma 17.12.1998, ivi, 1999, 239; Trib. Roma 15.1.1998, ivi, 1998, 186; Trib. Roma, 23-12-1996, in Arch. civ., 1997, 178; Trib. Roma, 05-10-1996, in Giurispr. romana, 1997, 9); (c) nel caso di interventi assolutamente rutinari (Trib. Roma 1.3.2006, Giorgi c. Sterpetti, inedita). Pagina 5 di 68 3. La natura della responsabilità. Stabilire se l’inadempimento della prestazione dovuta dal medico dia luogo a responsabilità contrattuale od aquiliana ha dato luogo a numerosi contrasti in giurisprudenza. Nelle decisioni meno recenti vi è addirittura eco delle tesi le quali escludevano che il rapporto tra medico e paziente potesse essere configurato quale locatio operis, motivando con “la superiorità del lavoro intellettuale sul lavoro materiale” (cfr. App. Milano 22.9.1925, in Foro it. 1926, I, 206; nella medesima decisione, significativamente, la responsabilità del medico viene ritenuta di natura extracontrattuale, e fondata sull’art. 1151 c.c. del 1865, corrispondente all’attuale art. 2043 c.c.). La Corte di cassazione non ha mai abbracciato tesi così estreme (o arcaiche). Sin dai primi decenni del secolo, i giudici di legittimità non avevano alcuna difficoltà ad ammettere che il rapporto medico-paziente potesse configurarsi come un rapporto contrattuale. Già Cass. 22.12.1925, in Giur. it. 1926, I, 1, 537, ad esempio, affermava espressamente che “nei rapporti tra l’operatore e l’infermo si stabilisce un contratto di locazione d’opera, in forza del quale l’operatore assume l’obbligazione di usare ogni cura per raggiungere la guarigione dell’infermo e di adottare le cautele opportune a prevenire qualsiasi sinistro”. La giurisprudenza di legittimità, unanime e costante nel ritenere che la responsabilità del medico libero professionista avesse natura contrattuale, si era invece divisa - sino a non molto tempo fa nell’individuare la natura della responsabilità del medico che avesse agito quale dipendente della pubblica amministrazione. Secondo un primo orientamento, tale responsabilità doveva ritenersi aquiliana, in quanto il contratto di cura viene stipulato tra ente ospedaliero e paziente, mentre nessun vincolo contrattuale viene posto in essere tra quest’ultimo ed il medico (Cass., 26-03-1990, n. 2428, in Giur. it., 1991, I, 1, 600; Cass., sez. III, 13-03-1998, n. 2750, in Foro it., 1998, I, 3521). Pagina 6 di 68 Vi era però anche un secondo orientamento, secondo il quale la responsabilità dell’ente pubblico verso il paziente, nel caso di danno causato dal medico pubblico dipendente, ha natura contrattuale. Di conseguenza, per effetto della disposizione di cui all’art. 28 Cost., anche la responsabilità del medico deve essere ritenuta di natura contrattuale, perché anch’essa, al pari di quella dell’ente, ha radice nell'esecuzione non diligente di una prestazione sanitaria (Cass., sez. III, 27-05-1993, n. 5939, in Foro it. Rep. 1993, voce Professioni intellettuali, n. 114; Cass., 01-02-1991, n. 977, in Giur. it., 1991, I, 1, 1379; Cass., 01-03-1988, n. 2144, in Foro it., 1988, I, 2296). La cosa singolare di questo contrasto giurisprudenziale è che i due filoni contrastanti, pur essendo sorti all’interno della medesima sezione della S.C. (la III), si ignoravano completamente. Il contrasto è stato recentemente composto da una decisione, dottamente motivata, nella quale la Corte ha messo in evidenza i limiti dei due orientamenti appena descritti. Alla tesi della natura extracontrattuale è stato obiettato che il medico non può essere equiparato, quanto al regime della responsabilità, ad un qualsiasi “terzo” che con la propria condotta abbia inciso sulla sfera giuridica del paziente. Infatti tra medico (sebbene pubblico dipendente) e paziente si instaura pur sempre un "rapporto", in virtù del quale il paziente si affida alle cure del medico ed il medico accetta di prestargliele. Alla tesi della natura contrattuale, d’altro canto, è stato obiettato che il richiamo all’art. 28 cost. è insufficiente a dirimere la questione della natura della responsabilità del medico pubblico dipendente. Tale norma, infatti, statuisce sull’an respondeatur, ma non sul quomodo respondeatur, che è stabilito dalle norme ordinarie, le quali giustappunto prevedono sia la responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.), sia quella contrattuale (art. 1218 c.c.). La conclusione cui è pervenuta la S.C. è che il rapporto tra medico pubblico dipendente e paziente, pur non scaturendo formalmente da Pagina 7 di 68 alcun contratto (che, se mai, viene stipulato tra l’ente ospedaliero, o la A.S.L., ed il paziente stesso), nei fatti si atteggia però come un vero e proprio rapporto giuridico, nel quale ciascuna delle parti vanta diritti ed obblighi nei confronti dell’altra. In particolare, è stato rettamente osservato che il medico pubblico dipendente non è soggetto soltanto all’obbligo del neminem laedere, cioè di astenersi dall’incidere nell’altrui sfera giuridica. Al contrario, al medico pubblico dipendente la coscienza sociale e l’ordinamento giuridico richiedono di attivarsi, sino al limite dell’apprezzabile sacrificio, per mettere a disposizione del paziente la propria competenza professionale. Ciò vuol dire che la prestazione del medico verso il paziente, vi sia o non vi sia stata tra i due la formale stipulazione di un contratto, resta di identico contenuto, e ha ad oggetto non il mero astenersi da una condotta lesiva, ma l’obbligo di compiere un facere infungibile. Dalla identicità di prestazione la Corte fa discendere la necessaria identicità di disciplina, concludendo che anche il medico pubblico dipendente, nel caso di colpa professionale, possa essere chiamato a rispondere del danno a titolo di responsabilità contrattuale (Cass. 22.1.1999 n. 589, in Corr. giur., 1999, 441, con nota di Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in cassazione). 4. Il grado della colpa. Anche il medico, come qualsiasi altro soggetto, non può essere chiamato a rispondere del danno causato, se questo non sia stato commesso con dolo o colpa. Anzi, in teoria, la responsabilità del medico - come quella di qualsiasi altro libero professionista - è attenuata dal disposto dell’art. 2236 c.c., in virtù del quale “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, il professionista risponde soltanto se versa in colpa grave. Si è detto “in teoria”, in quanto l’elaborazione giurisprudenziale degli ultimi anni ha, di fatto, fortemente ridotto la portata dell’art. 2236 c.c., operando con lo strumento delle presunzioni semplici (art. 2727 c.c.). Pagina 8 di 68 Questo aspetto è molto importante e deve essere esaminato con attenzione. Sino alla fine degli anni ’80 la giurisprudenza riproduceva nelle proprie sentenze - forse inconsciamente - una concezione assai diffusa nell’idem sentire comune: quella secondo cui, nel rapporto tra medico e paziente, il vero dominus doveva essere considerato il primo: era il primo a scegliere la terapia; era il primo a stabilire cosa rivelare e cosa no al paziente, per il bene (presunto) di quest’ultimo; era il medico a decidere se e quando intervenire. La Cassazione era infatti solita ritenere che “la responsabilità viene meno, perché manca la colpa, laddove si è nel campo della dottrina e delle opinioni disputabili, ed il medico ha seco la presunzione di capacità nascente dalla laurea”; e che di conseguenza “la responsabilità del medico deve affermarsi (…) per tutti quegli errori che si dimostri che si potevano evitare qualora avesse agito con maggiore diligenza e migliore attenzione e che attestino una ignoranza od imperizia non scusabili nell'esercizio della professione (…). La colpa sarà stabilita non solo coi comuni criteri con cui la pratica giudica le azioni umane ordinarie dei profani, ma eziandio alla stregua delle cognizioni scientifiche: però in questo caso dovrà consistere nella trascuranza di canoni fondamentali od elementari della medicina” (Cass. 22.12.1925, in Giur. it. 1926, I, 1, 537). In altri termini, la concezione a lungo imperante vedeva il medico ripetesi, al pari di qualsiasi altro professionista - quasi depositario di un arcano sapere, il cui esercizio (od il cui mancato esercizio) era sindacabile soltanto se infirmato da errori grossolani, evidenti, madornali. Questo assetto interpretativo, conservatosi a lungo, negli ultimi tempi ha subìto profondi cambiamenti. In primo luogo, il giudice di legittimità ha ritenuto che la portata mitigatrice dell’art. 2236 c.c. non si estende ad ogni ipotesi di colpa professionale, ma solo alle ipotesi di colpa consistita nell’imperizia. Quando, invece, la cattiva riuscita della prestazione sia dovuta a imprudenza o negligenza, la limitazione di cui all’art. 2236 c.c. non opera, ed il medico risponderà Pagina 9 di 68 anche solo per colpa lieve. In questo senso si veda, tra le tante, Cass. pen. 23-08-1994, in Mass. Cass. pen., 1995, fasc. 2, 118, secondo la quale “in materia di colpa professionale del medico, quando l'evento venga addebitato a titolo di imperizia, la valutazione del giudice deve essere particolarmente larga nel ristretto ambito della colpa grave; mentre se l'addebito si concreta in una condotta imprudente o negligente la valutazione del giudice deve essere effettuata nell'ambito della colpa lieve per la omissione della più comune diligenza rapportata al grado medio di cultura e capacità professionale, secondo i criteri normali e di comune applicazione, valevoli per qualsiasi condotta colposa”. Anche la cassazione civile è dello stesso avviso: si veda, ad esempio, Cass. 18.11.1997 n. 11440, in Riv. giur. circ. trasp. 1998, 67, secondo cui “il medico chirurgo chiamato a risolvere un caso di particolare complessità, il quale cagioni al paziente un danno a causa della propria imperizia, è responsabile solo se versa in dolo od in colpa grave, ai sensi dell’art. 2236 c.c.. Tale limitazione di responsabilità invece, anche nel caso di interventi particolarmente difficili, non sussiste con riferimento ai danni causati per negligenza od imprudenza, dei quali il medico risponde in ogni caso” (nello stesso senso, Cass., sez. II, 28-03-1994, n. 3023, in Foro it. Rep. 1994, voce Professioni intellettuali, n. 111; Cass., sez. III, 08-07-1994, n. 6464, in Foro it. Rep. 1994, voce Professioni intellettuali, n. 109). La S.C. è pervenuta a questa conclusione osservando che se la colpa è consistita in una mancanza di perizia, l’esame non può essere necessariamente “rigoroso”, in quanto il giudice deve tener conto che la patologia è sempre condizionata, nelle sue manifestazioni concrete, dalla individualità biologica del paziente; che i dati nosologici non sono tassativi e che è sempre possibile un errore di apprezzamento dei riscontri clinici, sicché il giudizio diagnostico può, con frequenza, risultare errato. Di conseguenza, se il medico è stato imperito, egli risponde soltanto se versi in colpa grave (a meno che, come si dirà più avanti, l’intervento non fosse Pagina 10 di 68 routinario o di facile esecuzione (così Cass., sez. III, 18-11-1997, n. 11440, cit.). Se, invece, la colpa è consistita in una mancanza di diligenza, l’esame deve essere particolarmente rigoroso, perché la tutela della salute, che viene affidata al medico, impone a questi l’esercizio della massima attenzione (Cass., 11-07-1980, imp. De Lilla, in Riv. pen., 1981, 283). L’art. 2236 c.c. è stato poi ritenuto inapplicabile - oltre che nei casi di colpa per imprudenza o negligenza - anche nelle ipotesi di interventi routinari o di facile esecuzione. A tale conclusione la giurisprudenza è pervenuta sulla base della lettera dell’art. 2236 c.c., il quale fa riferimento appunto all’esistenza di “problemi tecnici di speciale difficoltà”, di norma insussistenti nel caso di interventi routinari. L’art. 2236 c.c. si applica quindi soltanto se il caso affidato al medico sia di particolare complessità, o perche' non ancora sperimentato e studiato a sufficienza o perche' non ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da seguire (Cass., sez. III, 11-04-1995, n. 4152, in Foro it. Rep. 1995, voce Professioni intellettuali, n. 168; Cass. 26.3.1990 n. 2428, in Foro it. Rep., 1990, voce Professioni intellettuali, n. 113). In ogni caso, il paziente che alleghi di aver patito un danno alla salute in conseguenza dell'attività professionale del medico, ovvero di non avere conseguito alcun miglioramento delle proprie condizioni di salute nonostante l'intervento del medico, deve provare unicamente l'esistenza del rapporto col sanitario e l'insuccesso dell'intervento, e ciò anche quando l'intervento sia stato di speciale difficoltà, in quanto l'esonero di responsabilità di cui all'art. 2236 cod. civ. non incide sui criteri di riparto dell'onere della prova. Costituisce, invece, onere del medico, per evitare la condanna in sede risarcitoria, provare che l'insuccesso dell'intervento è dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà e tale prova va fornita dimostrando di aver osservato nell'esecuzione della prestazione sanitaria la diligenza normalmente esigibile da un medico in possesso del medesimo grado di specializzazione (Cass. 8.10.2008 n. 24791). Pagina 11 di 68 Le distinzioni operate dalla S.C. possono essere organizzate nella seguente tabella: Grado della colpa necessario per una pronuncia di condanna Intervento complesso Colpa per imperizia grave Colpa per negligenza lieve Intervento routinario lieve lieve Come si nota, il medico è sempre tenuto anche soltanto per colpa lieve, ad eccezione dell’ipotesi in cui sia chiamato a compiere un intervento complesso, ed il danno sia stato arrecato non per negligenza od imprudenza, ma per imperizia. 4.1. La nozione di “colpa lieve”. Nel caso di intervento complesso, nel corso del quale il medico arrechi un danno per imperizia, la responsabilità del sanitario è esclusa qualora egli versi in colpa lieve. Tuttavia non sempre è agevole distinguere la colpa lieve da quella grave. La dottrina, da tempo, ha messo in evidenza il carattere relativistico della nozione di colpa: in essa è implicito un venir meno, una manchevolezza, un deviare rispetto ad una regola prestabilita. Questa regola può essere una norma giuridica od anche una norma di condotta, variabile in funzione delle circostanze di tempo, di luogo e di persona: di talché lo sforzo dell’interprete si riduce, di volta in volta, a delineare quale avrebbe potuto essere, nel caso concreto, il “modello” astratto cui l’autore dell’illecito avrebbe dovuto uniformarsi (così Forchielli, Colpa – I) Diritto civile, in Enc. giur., Roma 1988, VI, 3-4). In tema di colpa medica occorre ricordare che l’art. 1176, comma secondo, c.c., esige da chi deve adempiere una obbligazione inerente l’esercizio d’una prestazione professionale una diligenza proporzionata alla natura dell’attività esercitata. L’intensità della colpa del medico va pertanto valutata con riferimento non al generico modello del bonus Pagina 12 di 68 paterfamilias, ovvero dell’uomo coscienzioso e diligente, ma con riferimento al modello astratto del professionista diligente. Non è possibile ovviamente stabilire a priori quale sia il modello astratto del bonus medicus o del bonus vulnerarius, ma utili elementi possono essere offerti dalla analisi sistematica della giurisprudenza. Dal punto di vista teorico, la nozione di “colpa lieve” è stata ben scolpita da Cass., 22-02-1988, n. 1847, in Arch. civ., 1988, 684, la quale ha affermato che versa in colpa lieve il medico che, di fronte ad un caso ordinario, non abbia osservato, per inadeguatezza od incompletezza della preparazione professionale, ovvero per omissione della media diligenza, quelle regole precise che siano acquisite, per comune consenso e consolidata sperimentazione, alla scienza ed alla pratica, e, quindi, costituiscano il necessario corredo del professionista che si dedichi ad un determinato settore della medicina. Non si deve tuttavia pensare che versi in colpa lieve soltanto il medico che non si attenga alle comuni regole della scienza e della pratica. Può versare in colpa anche il medico che non si aggiorni o non si sia aggiornato; quello che abbia sovrastimato le proprie capacità; quello che abbia omesso di informare il paziente anche degli aspetti o dei rischi secondari dell’operazione (una affermazione recisa di tale ultimo obbligo è stata compiuta dai giudici d’oltralpe, i quali hanno ritenuto che il medico non è dispensato dall’obbligo di informazione per il solo fatto che il rischio si verifichi soltanto eccezionalmente: Cour de cass., 7.10.1998, 9710.267, in Recueil Dalloz, 1999, 144). Da un punto di vista pratico l’esame delle singole fattispecie sottoposte all’esame della S.C. rivela come la nostra giurisprudenza sia per lo più propensa a ritenere sussistente la colpa grave del medico convenuto. Si direbbe, in altri termini, che delle due l’una: o la domanda di risarcimento nei confronti del medico viene rigettata; o se, viene accolta, il giudizio di responsabilità si fonda sulla colpa grave, e quasi mai sulla colpa lieve. Così, ad esempio, è stato ritenuto in colpa grave: Pagina 13 di 68 -) il medico che abbia somministrato un anestetico locale, rivelatosi poi letale per il paziente, senza previamente eseguire alcun previo accertamento sulle condizioni del paziente stesso (Cass., 01-03-1988, n. 2144, in Foro it., 1988, I, 2296); -) il medico specializzato in ortopedia per avere affrontato, con esito negativo, un intervento di alta neurochirurgia (Cass. 26.3.1990 n. 2428, in foro it. Rep., 1990, voce Professioni intellettuali, n. 113); -) il medico che abbia omesso di informare una donna sul possibile esito negativo dell’intervento abortivo cui si era sottoposta, in un caso in cui la paziente, dopo l’intervento, aveva volontariamente abbandonato l’ospedale (Cass., sez. III, 08-07-1994, n. 6464, in Corriere giur., 1995, 91, con nota di Batà); -) il medico che, nell’esecuzione di un trattamento chirurgico di riduzione di una lussazione dell’anca e di frattura femorale, con rimozione dei frammenti articolari, abbia lasciato libero nella cavità acetabolare un frammento osseo della testa femorale (Cass., sez. III, 11-04-1995, n. 4152, in Enti pubblici, 1996, 908); -) il medico che abbia omesso di rilevare una frattura del femore (Cass., sez. III, 12-08-1995, n. 8845, in Foro it. Rep. 1995, voce Professioni intellettuali, n. 170); -) il medico primario che, pur essendo in ferie, abbia ritardato un intervento indifferibile, causando un danno al paziente (C. conti 20.9.1996, n. 100/A, in Riv. corte conti, 1997, fasc. 2, 103); -) il medico che, chiamato ad intervenire chirurgicamente su una tumefazione al seno, decida di asportare l’intera ghiandola mammaria senza previamente eseguire un esame istologico intraoperatorio (Cass. 2.12.1998 n. 12233, inedita). 4.2. L’onere della prova. Si è visto dunque che il giudice di legittimità ha operato in materia di responsabilità del medico, una tripartizione: Pagina 14 di 68 a) per l’insuccesso di interventi e prestazioni routinari, il medico risponde anche se versa soltanto in colpa lieve; b) per l’insuccesso di interventi e prestazioni non routinari, il medico risponde solo se versa in colpa grave; c) per l’insuccesso di interventi e prestazioni non routinari, il medico risponde anche se versa soltanto in colpa lieve, qualora la colpa sia consistita in negligenza od imprudenza. Come si ripartisce, nelle varie ipotesi, l’onere della prova tra medico e paziente? In passato, la giurisprudenza del giudice di legittimità distingueva due ipotesi: (A) se l’intervento è routinario, il fatto stesso che non sia riuscito pone a carico del medico una presunzione de facto di imperizia (si ricordi che la presunzione semplice è il fatto noto dal quale il giudice, con una deduzione logica, risale ad un fatto ignoto (art. 2727 c.c.), secondo il principio res ipsa loquitur. Pertanto in questi casi: (a’) il paziente ha l’onere di provare soltanto la routinarietà dell’intervento; (a’’) sarà il medico, se vuole andare assolto, a dover provare che l’insuccesso va ascritto a complicazioni imprevedibilmente insorte. (B) Se l’intervento è complesso, il fatto che non sia riuscito non è idoneo a far ritenere imperito il medico. Pertanto: (b’) il medico ha soltanto l’onere di provare la complessità dell’intervento; (b’’) sarà il paziente, se vuole ottenere la condanna del medico, a dover provare che, nonostante la complessità dell’intervento, l’insuccesso va ascritto ad una banale imprudenza o negligenza del medico. Le sentenze in questo senso sono state numerose e sempre conformi: si vedano, tra le ultime, Cass. 21.7.2003 n. 11316; Cass. 16-11-1988 n. Pagina 15 di 68 6220, in Foro it. Mass., 1988; Cass. 16-11-1993 n. 11287, in Foro it. Mass., 1993; Cass. 18-10-1994 n. 8470, in Foro it. Mass., 1994; Cass. 30.5.1996 n. 5005, in Foro it. Mass. 1996. Questo orientamento è stato tuttavia ormai abbandonato. Ed infatti, in seguito all’intervento delle Sezioni Unite, si è stabilito che colui il quale lamenta l'inadempimento di una obbligazione contrattuale deve soltanto dimostrare l'esistenza e l’efficacia del contratto, mentre è onere del convenuto dimostrare o di avere adempiuto, ovvero che l'inadempimento non è dipeso da propria colpa (cfr., da ultimo, Cass. sez. un. 30.10.2001 n. 13533, in Dir. e giust., 2001, fasc. 42, 26). Tali princìpi trovano applicazione anche nell’ipotesi di responsabilità professionale del medico. In questi casi, è dunque onere del medico dimostrare che il danno non sussiste, ovvero non è dipeso da propria colpa (ex permultis, Cass. sez. un. 11.1.2008 n. 577; Cass., sez. III, 2305-2001, n. 7027, in Danno e resp., 2001, 1165; Cass., sez. III, 06-101997, n. 9705, in Giust. civ., 1998, I, 424; nonché, per la giurisprudenza di merito, ex multis, Trib. Roma 30.11.2003, Plaitano c. Toscana, inedita; Trib. Roma 30.6.2003, Felix c. Marcorelli, inedita; Trib. Roma 1.8.2003, Nardozi c. Diotallevi, inedita). Per effetto del nuovo orientamento, il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l'inadempimento del professionista, restando a carico di quest’ultimo l'onere di provare l'esatto adempimento, con la conseguenza che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà rileva soltanto per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà (Cass. sez. un. 11.1.2008 n. 577; Cass. 9.11.2006 n. 23918; Cass. 31.7.2006 n. 17306; Cass. 24.5.2006 n. 12362). Pagina 16 di 68 Una considerazione a parte merita l’ipotesi in cui il medico ha garantito al paziente il conseguimento di un determinato risultato. Infatti nel contratto avente ad oggetto una prestazione di chirurgia estetica (ma il principio può certamente estendersi anche a settori diversi dalla chirurgia estetica: si pensi agli interventi di eliminazione della miopia con terapia laser), il sanitario può assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero anche una obbligazione di risultato, da intendersi quest'ultimo non come dato assoluto ma da valutare con riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie (Cass. 25-11-1994 n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913). In questi casi, il sanitario è responsabile nei confronti del cliente per l’omesso conseguimento del risultato promesso, ma l’onere di provare che il sanitario aveva garantito il risultato incombe sul paziente (Cass. 10014/94, cit.). 5. Il nesso causale. Anche l’accertamento del nesso causale, in tema di responsabilità medica, soggiace a regole particolari di matrice giurisprudenziale. La particolarità dell’accertamento del nesso causale, nell’ipotesi di colpa medica, consiste nel fatto che, per potere affermare la responsabilità del sanitario, è necessario accertare che, se il medico avesse tenuto il comportamento alternativo corretto, il paziente non avrebbe subito pregiudizi (avrebbe, cioè, evitato la morte o il danno alla salute). Sui criteri di accertamento di tale nesso causale si registra tuttavia un contrasto tra le sezioni penali e quelle civili della S.C.. Le Sezioni Unite penali della Cassazione, componendo il precedente contrasto relativo ai criteri di accertamento del nesso di causalità tra l'omissione del medico e l'esito infausto della malattia, hanno ritenuto non condivisibile quell’orientamento che, in tema di responsabilità per omessa diagnosi, si richiamava alla nozione di “serie ed apprezzabili possibilità di successo” (Cass. sez. un. 11.9.2002 n. 30328, in Dir. e giust. 2002, fasc. Pagina 17 di 68 35, 21, con nota di Pezzella, Colpa medica e nesso di causalità nel reato omissivo improprio). Secondo la tesi accolta dalle sezioni unite penali (che spiega i propri effetti anche in tema di responsabilità aquiliana, posto che le regole di cui agli artt. 40 e 41 c.p. disciplinano il principio di causalità tanto in materia penale quanto in materia civile), in tema di accertamento del nesso causale tra colpa medica per omissione e danno risarcibile si dovrà fare ricorso a criteri logici che possono essere così riassunti: (a) per quanto attiene all’accertamento del nesso causale tra omissione e danno, resta valido il ricorso al “giudizio controfattuale”, ossia a quella particolare astrazione consistente nell’ipotizzare quali sarebbero state le conseguenze della condotta alternativa corretta omessa dal medico; (b) per quanto attiene al grado di probabilità, in base al quale stabilire astrattamente se l’effettuazione della condotta omessa avrebbe sortito effetti positivi per la salute o la vita del paziente, occorre avere riguardo non già alla mera “probabilità statistica” desunta dai precedenti clinici, ma al differente concetto di “probabilità logica”, la quale deve essere prossima alla certezza; (c) la “probabilità logica”, a sua volta, va accertata collazionando le probabilità statistiche di successo dell’intervento omesso con tutte le circostanze del caso concreto, quali risultanti dal materiale probatorio raccolto (cfr. Cass. 30328//02, cit., pp. 26-27). In definitva, per le sezioni penali della Cassazione, al vecchio criterio delle “serie ed apprezzabili possibilità di successo” è venuto a sostituirsi quello della “alta o elevata credibilità razionale” del giudizio controfattuale. Le sezioni civili della Cassazione non si sono tuttavia uniformate a tale orientamento, ritenendo il giudizio controfattuale soddisfatto, in tema di colpa omissiva, quando si possa ritenere che, in presenza della condotta omessa, il danno avrebbe avuto “serie ed apprezzabili possibilità” di non accadere. Questo “scostamento” delle sezioni civili da quelle penali in Pagina 18 di 68 tema di accertamento della causalità omissiva, dopo qualche contrasto, è stato ribadito dalla importante decisione resa da Cass. sez. un. 11.1.2008 n. 581, nella quale si è definitivamente stabilito che ai fini del risarcimento del danno il nesso causale tra una condotta omissiva e l’evento dannoso deve ritenersi sussistente ogni qual volta possa affermarsi, in base alle circostanze del caso concreto, che la condotta alternativa corretta avrebbe impedito l’avverarsi dell’evento con una probabilità superiore al 50%, secondo la regola del “più sì che no”. Successivamente all’intervento delle SS.UU., tale principio è stato ribadito da Cass. 17.1.2008 n. 867. Quindi, mentre per la Cassazione penale il nesso causale tra omissione ed evento esige l’accertamento che senza l’omissione il danno non si sarebbe verificato “con alta o elevata credibilità raizonale”, per la Cassazione civile il nesso causale tra omissione ed evento non esige la certezza assoluta che senza la condotta il danno sarebbe accaduto, ma semplicemente una probabilità superiore al 50% che ciò sarebbe accaduto. (Sul tema si veda anche la scheda “Nesso causale”). 5.1. La prova del nesso causale. In tema di responsabilità medica, il giudice di legittimità ha poi ammesso la possibilità di pronunciare un giudizio di condanna nei confronti del medico in base ad un nesso di causalità “presunto”. E’ stato infatti affermato che quando non è possibile stabilire se la morte di un paziente sia stata causata dall’incuria del medico curante o da altre cause, e l’incertezza derivi dalla incompletezza della cartella clinica o dall’omesso compimento di altri adempimenti ricadenti sul medico, quest’ultimo deve ritenersi responsabile del decesso, allorché la sua condotta sia stata astrattamente idonea a causarlo (Cass. 13.9.2000 n. 12103, in Dir. e giust., 2000, fasc. 34, 33; Cass. 21.7.2003 n. 11316). Pertanto, quando applica il principio della causalità adeguata Pagina 19 di 68 alla materia della responsabilità del medico, la corte sembra aggiungervi un ulteriore corollario in materia di riparto dell’onere della prova, che può essere così riassunto: (a) se è accertato che il medico ha posto in essere un antecedente causale astrattamente idoneo a produrre il danno; (b) se non è accertato se, nella specie, il danno sia stato effettivamente causato dalla condotta del medico; (c) in simili evenienze, incombe sul medico l’onere di provare concretamente, se vuole andare esente da responsabilità, che il danno è dipeso da un fattore eccezionale ed imprevedibile. 6. Il consenso informato ed il fondamento normativo dell’obbligo di informare. L’emersione del requisito del consenso libero e consapevole del paziente, quale presupposto di legittimità dell’operato del medico, costituisce l’aspetto più importante dell’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria degli ultimi anni, in tema di responsabilità del medico. Si ricordi che, secondo la giurisprudenza meno recente, “il medico ha seco la presunzione di capacità nascente dalla laurea” (Cass. 22.12.1925, in Giur. it. 1926, I, 1, 537). Questa concezione - assai risalente nel tempo - comportava una serie di corollari: in particolare, quello secondo cui nel rapporto medico-paziente quest’ultimo non dovesse “impicciarsi” delle scelte del medico, unico e solo dominus della strategia terapeutica. L’assetto della materia è mutato con l’introduzione del codice civile del 1942, e quindi con la promulgazione della Carta costituzionale del 1947. In considerazione del preminente rilievo che la nuova Carta costituzionale riconosceva alla salute come diritto dell’individuo, la giurisprudenza cominciò a configurare la necessità del consenso del paziente quale causa di giustificazione di un atto - quello medico - che, essendo Pagina 20 di 68 potenzialmente lesivo dell’integrità psicofisica dell’individuo, si sarebbe dovuto considerare illecito in assenza del consenso. Questa ricostruzione del consenso come causa di giustificazione (volenti non fit iniuria) prestava però il fianco a molteplici critiche: prima fra tutte, quella secondo cui non si può equiparare l’atto medico ad una “aggressione” della salute dell’individuo, scriminata dal consenso del paziente (al contrario, l’atto medico mira proprio a restaurare la salute perduta). In secondo luogo, col consenso all’attività medica, il paziente non rinuncia ad esercitare un proprio diritto, anzi, tutela il proprio diritto alla salute (Ferrando, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico, principi, problemi e linee di tendenza, in Riv. crit. dir. priv., 1998, 54). Di qui l’abbandono della vecchia concezione, ed il realizzarsi di una vera e propria rivoluzione copernicana nella tradizionale impostazione dei rapporti tra medico e paziente. Al riguardo ha osservato la Suprema Corte che “sarebbe riduttivo (…) fondare la legittimazione dell'attivita' medica sul consenso dell'avente diritto (art. 51 c.p.), che incontrerebbe spesso l'ostacolo di cui all'art. 5 c.c., risultando la stessa di per se' legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui il medico e' abilitato dallo Stato. Dall'autolegittimazione dell'attivita' medica, anche al di la' dei limiti dell'art. 5 c.c., non deve trarsi, tuttavia, la convinzione che il medico possa, di norma, intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. La necessita' del consenso - immune da vizi e, ove importi atti di disposizione del proprio corpo, non contrario all'ordine pubblico ed al buon costume -, si evince, in generale, dall'art. 13 della Costituzione, il quale, come e' noto, afferma l'inviolabilita' della liberta' personale - nel cui ambito si ritiene compresa la liberta' di salvaguardare la propria salute e la propria integrita' fisica -, escludendone ogni restrizione (anche sotto il profilo del divieto di ispezioni personali), se non per atto motivato dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e con le modalita' previsti dalla legge. Per l'art. 32 co. 2 Cost., inoltre, "nessuno puo' essere obbligato a Pagina 21 di 68 un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge" (tali norme hanno trovato attuazione nella l. 13 maggio 1978, n. 180, sulla riforma dei manicomi, per la quale "gli accertamenti e trattamenti sanitari sono volontari", salvi i casi espressamente previsti - art. 1 -, e nella l. 23 dicembre 1978, n. 833, che, istituendo il servizio sanitario nazionale, ha ritenuto opportuno ribadire il principio, stabilendo che "gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari": art. 33). Si eccettuano i casi in cui: a) il paziente non sia in grado, per le sue condizioni, di prestare un qualsiasi consenso o dissenso: in tale ipotesi, il dovere di intervenire deriva dagli art. 593 c. 2 e 328 c.p.; b) sussistano le condizioni di cui all'art. 54 c.p.” (Cass. 25.11.1994 n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913, con nota di SCODITTI, Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale, nonché in Nuova giur. civ., 1995, I, 937, con nota di FERRANDO, Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico). Al centro della nuova concezione, non c’è più il medico, portatore di un sapere quasi arcano e non contestabile, gestore della salute del paziente; ma c’è quest’ultimo, il quale è considerato l’unico ed esclusivo “proprietario” della propria salute, e quindi l’unico soggetto cui spetta decidere se, come, quando e quanto curarsi. Naturalmente, perché il paziente possa esercitare consapevolmente questo diritto, è necessario che egli sia debitamente informato su tutto quanto possa concernere la cura: di qui, l’obbligo di informazione, divenuto, da causa di giustificazione, esercizio di un diritto (sull’obbligo di informazione del medico e sulla necessità del consenso del paziente, in generale, oltre i contributi citati in precedenza, si vedano anche Abbagnano Trione, Considerazioni sul consenso del paziente nel trattamento medico chirurgico, in Cass. pen. 1999, 146; Massa, Il consenso informato: luci ed ombre, in Questione giustizia, 1997, 407; FERRANDO, Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico, in Nuova giur. civ., 1995, I, 941; CALCAGNI e MEI, Sul diritto del Pagina 22 di 68 consenso all'atto medico, in Zacchia, 1994, 375; POLVANI, Il consenso informato all'atto medico: profili di rilevanza penale, in Giust. pen., 1993, II, 734; RODRIGUEZ, Intervento chirurgico praticato senza il consenso del paziente e radiazione dall'albo professionale, in Riv. it. medicina legale, 1994, 233; POSTORINO, Ancora sul «consenso» del paziente nel trattamento medico-chirurgico, in Riv. pen., 1993, 44; SCALISI, Il consenso del paziente al trattamento medico, in Dir. famiglia, 1993, 442; PASSACANTANDO, Il difetto del consenso del paziente nel trattamento medico-chirurgico e i suoi riflessi sulla responsabilità penale del medico, in Riv. it. medicina legale, 1993, 105; GIAMMARIA, Brevi note in tema di consenso del paziente ed autodeterminazione del chirurgo nel trattamento medico-chirurgico, in Giur. merito, 1991, 1123; RODRIGUEZ, Ancora in tema di consenso all'atto medico-chirurgico - Note sulla sentenza del 18 ottobre 1990 della corte d'assise di Firenze, in Riv. it. medicina legale, 1991, 1117; IADECOLA, In tema di rilevanza penale del trattamento medico-chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, in Giust. pen., 1991, II, 163; BONELLI e GIANNELLI, Consenso e attività medico-chirurgica: profili deontologici e responsabilità penale, in Riv. it. medicina legale, 1991, 9; GUALDI e CIAURI, Il «consenso informato» in chirurgia refrattiva ed onere probatorio del corretto adempimento, da parte del professionista, al dovere di informazione, in Nuovo dir., 1991, 781; IADECOLA, Consenso del paziente al trattamento medico chirurgico, Padova, 1989; NANNINI, Il consenso al trattamento medico, Milano, 1989; NORELLI e MAZZEO, Sulla progressiva svalutazione del consenso all'atto medico nella recente giurisprudenza costituzionale, in Giust. pen., 1989, I, 311; DEL CORSO, Il consenso del paziente nell'attività medico-chirurgica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1987, 536; ANGELINI ROTA e GUALDI, In tema di consenso del minore al trattamento medico-chirurgico, in Giust. pen., 1980, I, 368). L’obbligo del medico di informare il paziente non è previsto, in via generale ed astratta, da una precisa norma di legge, ma si desume con Pagina 23 di 68 chiarezza ed inequivocità da un fitto reticolo di norme, sia di rango costituzionale, sia di rango ordinario. (A) Norme costituzionali. L’obbligo di informazione viene solitamente fondato innanzitutto sugli artt. 2, 13 e 32 della costituzione. Infatti, ove il paziente non fosse informato sull’attività cui sta per essere sottoposto, si violerebbe da un lato il suo diritto alla autodeterminazione, e dall’altro il suo diritto a non essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà. (B) Norme ordinarie. Il fondamento normativo dell’obbligo di informare il paziente viene poi ravvisato in numerose norme di rango ordinario, e segnatamente: (a) nell’art. 33 co. I e V l. 23.12.1978 n. 833 (“Istituzione del servizio sanitario nazionale”), in base al quale “Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari (...). Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori (...) devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”; (b) nell’art. 4 l. 26.6.1967 n. 458 (“Trapianto del rene tra persone viventi”), in base al quale “il trapianto del rene legittimamente prelevato e destinato ad un determinato paziente non può aver luogo senza il consenso di questo o in assenza di uno stato di necessità”; (c) nell’art. 14 l. 22 maggio 1978, n. 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”), in base al quale “il medico che esegue l'interruzione della gravidanza è tenuto a fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite, nonché a renderla partecipe dei procedimenti abortivi, che devono comunque essere attuati in modo da rispettare la dignità personale della donna. Pagina 24 di 68 In presenza di processi patologici, fra cui quelli relativi ad anomalie o malformazioni del nascituro, il medico che esegue l'interruzione della gravidanza deve fornire alla donna i ragguagli necessari per la prevenzione di tali processi”; (d) nell’art. 2 l. 14 aprile 1982, n. 164 (“Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”), in base al quale “la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso di cui all'articolo 1 è proposta con ricorso al tribunale del luogo dove ha residenza l'attore (...). Quando è necessario, il giudice istruttore dispone con ordinanza l'acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni psicosessuali dell'interessato”, dal che si desume che l’attribuzione di sesso può essere disposta solo previo esperimento di un giudizio sull’esistenza d’una effettiva volizione; (e) nell’art. 121 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (“Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”), in base al quale “l'autorità giudiziaria o il prefetto nel corso del procedimento, quando venga a conoscenza di persone che facciano uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, deve farne segnalazione al servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio. Il servizio pubblico per le tossicodipendenze, nell'ipotesi di cui al comma 2, ha l'obbligo di chiamare la persona segnalata per la definizione di un programma terapeutico e socio-riabilitativo”; (f) negli artt. 1 e 2 d.m. 27 aprile 1992 (“Disposizioni sulle documentazioni tecniche da presentare a corredo delle domande di autorizzazione all'immissione in commercio di specialità medicinali per uso umano, in attuazione della direttiva n. 91/507/CEE”), in base ai quali “le norme di buona pratica clinica cui fa rinvio la «Parte 4» dell'allegato della richiamata direttiva n. 91/507/CEE sono riportate nell'allegato 1 del presente decreto (...). Fatte comunque salve le disposizioni dell'art. 1, le sperimentazioni cliniche effettuate in Italia devono essere condotte in Pagina 25 di 68 cliniche universitarie, in strutture ospedaliere o in altre strutture a tal fine ritenute idonee dal Ministero della sanità. Ove costituiti in Italia, i comitati etici, in ogni caso conformi alle indicazioni delle norme di buona pratica clinica di cui all'art. 1, comma 2, devono aver sede presso strutture sanitarie o scientifiche di comprovata affidabilità”. Poiché nell’allegato si indicano, tra i princìpi della “buona pratica clinica”, il necessario consenso di coloro sui quali sono effettuate le sperimentazioni, se ne desume che anche per il legislatore comunitario il consenso del paziente è elemento indefettibile per l’avvio del programma di cure sperimentali. (C) Norme, trattati ed accordi internazionali. L’obbligo di informare il paziente, e di ottenere da questi un consenso libero ed informato, è infine previsto da un rilevante numero di accordi internazionali, stipulati sia tra Stati, sia tra organizzazioni non governative. Vengono in rilievo, al riguardo: (a) il Principio 4 dei “Principi concernenti la procreazione umana artificiale”, approvati nel 1989 dal Comitato di esperti per lo sviluppo delle scienze biomediche (CAHBI) del Consiglio d’Europa, il quale stabilisce che “le tecniche di procreazione artificiale possono essere usate solo se le persone interessate hanno dato il loro consenso libero ed informato, esplicitamente e per iscritto”; (b) il General Comment 20 all’art. 7 del Patto sui diritti civili e politici, adottato dal Comitato dei diritti umani nella 44° sessione delle Nazioni Unite, il quale stabilisce che “l’art. 7 espressamente proibisce esperimenti medici o scientifici senza il libero consenso della persona interessata”; (c) l’art. 5 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 19.11.1996, ed aperta alla firma il 4.4.1997 (non ancora ratificata dall’Italia), il quale stabilisce che “un intervento nel campo della salute può essere effettuato dopo che la persona interessata ha dato un consenso libero ed informato. La Pagina 26 di 68 persona interessata può liberamente revocare il consenso in qualsiasi momento”; (d) il principio 3 della Dichiarazione europea sulla promozione dei diritti del paziente, adottata ad Amsterdam il 30.3.1994 dalla Consulta Europea per i diritti dei pazienti, sotto gli auspici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il quale stabilisce che “il consenso informato del paziente costituisce prerequisito per qualsiasi intervento medico. Il paziente ha il diritto di rifiutare o fermare un intervento medico. Le conseguenze del rifiuto o dell’interruzione debbono essere attentamente spiegate al paziente”. 6.1. Natura e requisiti del consenso. Emerge, da quanto sin qui esposto, che la manifestazione del consenso all’atto medico non costituisce rimozione di un ostacolo all’esercizio di un’attività (quella medica) altrimenti illecita, ma rappresenta esercizio di un diritto di libertà. In questa nuova ottica, il rapporto medico paziente ha subìto una autentica rivoluzione copernicana: al centro del rapporto non c’è più, come in passato, il medico. Protagonista del rapporto (definito in termini di “alleanza terapeutica”) sta il paziente, il quale deve essere considerato l’unico titolare del potere di disporre della propria salute. In altri termini, per usare una icastica espressione adottata da un attento studioso della materia, occorre convincersi che la salute del paziente non appartiene al medico, ma solo al paziente stesso (Santosuosso, Il consenso informato, Ancona, 1996). Da questa nuova concezione deriva, tra l’altro, la necessità del consenso per ogni e qualsiasi intervento medico, sia esso di diagnosi o di cura. Al contrario di quanto ritenuto dalla giurisprudenza sino a pochi anni fa (si riteneva, in passato, che l’obbligo di informare il paziente sussistesse solo nei casi in cui venissero poste in serio pericolo la vita o l’incolumità fisica del paziente: così Cass. 25.7.1967 n. 1950; Cass. 18.6.1975 n. 2439, in Foro it. 1976, I, 745; Cass. 29.3.1976 n. 1132, Foro it. Rep. 1976, voce Pagina 27 di 68 Professioni intellettuali, nn. 40-42; Trib. Genova 20.7.1988, ivi, 1989, voce cit., n. 99; significativa, fra le altre, l’affermazione contenuta in Cass. 6.12.1968 n. 3906, in Resp. civ. prev. 1970, 389, secondo cui il medico deve adeguare l’obbligo di informazione al “grado di cultura del malato”), oggi la giurisprudenza afferma espressamente che l’obbligo in questione sussiste non solo in relazione alla necessità di intraprendere interventi devastanti o complessi, ma sussiste in relazione ad ogni attività medica che possa comportare un qualche rischio: quindi il medico ha l’obbligo di informare il paziente sia quando intende compiere attività chirurgica; sia quando intende compiere esami diagnostici o strumentali. In quanto espressione di una facoltà ricompresa in un diritto di libertà, il consenso deve essere inquadrato nella categoria dei negozi giuridici. Da ciò consegue che esso, per essere valido, deve essere immune da qualsiasi vizio della volontà (errore, dolo, violenza). Ne consegue - lo si rileva incidentalmente - la sostanziale imprecisione dell’espressione “consenso informato”: essa è una endiadi, giacché un eventuale consenso “disinformato” non costituirebbe un negozio valido e produttivo di effetti. In altri termini, il consenso all’esercizio dell’attività medica o è informato, o non è neppure consenso (così anche In questo senso, FERRANDO Gilda, Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico, in Nuova giur. civ., 1995, I, 941). Questo è il motivo per il quale, nel presente lavoro, si è preferito parlare di consenso tout court. Perché la volontà del paziente di consentire all’intervento medico possa dirsi liberamente formata, è necessario che il paziente stesso abbia ricevuto una informazione completa e dettagliata. L’informazione fornita deve comprendere, in particolare: (a) la natura dell’intervento o dell’esame (se sia cioè distruttivo, invasivo, doloroso, farmacologico strumentale, manuale, ecc.); (b) la portata e l’estensione dell’intervento o dell’esame (quali distretti corporei interessi); Pagina 28 di 68 (c) i rischi che comporta, anche se ridotti (come effetti collaterali, indebolimento di altri sensi od organi, ecc.); (d) la percentuale verosimile di successo; (e) la possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi, ed i rischi di questi ultimi (In questo senso, si vedano Cass. 25.11.1994 n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913 cit., e Cass. 15.1.1997, n. 364, in Foro it., 1997, I, 771); (f) le eventuali inadeguatezze della struttura ove l'intervento dovrà essere eseguito (Cass. 21.7.2003 n. 11316). In altri termini, il paziente deve essere messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa: “nell’ambito degli interventi chirurgici, in particolare, il dovere di informazione concerne la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di vantaggi e rischi. L’obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento. Assume rilevanza, in proposito, l’importanza degli interessi e dei beni in gioco, non potendosi consentire tuttavia, in forza di un mero calcolo statistico, che il paziente non venga edotto di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle sue condizioni fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita. L’obbligo di informazione si estende, inoltre, ai rischi specifici rispetto a determinate scelte alternative, in modo che il paziente, con l’ausilio tecnico-scientifico del sanitario, possa determinarsi verso l’una o l’altra delle scelte possibili, attraverso una cosciente valutazione dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi” (Cass. 15.1.1997 n. 364, in Foro it., Pagina 29 di 68 1997, I, 771. In senso sostanzialmente conforme, si vedano anche Cass. 26.3.1981 n. 1773 e Cass. 9.3.1965 n. 375, in Foro it. 1965, I, 1040). Il giudice di legittimità ha dunque posto limiti rigorosi all’obbligo di informazione: esso comprende tutti i rischi prevedibili, anche se la loro probabilità è minima; mentre non comprende i rischi anomali, cioè quelli che possono essere ascritti solo al caso fortuito. E’ quindi in colpa (da inadempimento contrattuale) sia il medico che non fornisca al paziente le necessarie informazioni, sia quello che che le fornisca in modo insufficiente, sia quello che le fornisca in modo errato (Cass. 28.11.2007 n. 24742). Deve aggiungersi che, in materia di completezza dell’informazione fornita al paziente, la giurisprudenza di legittimità ha distinto tra intervento a fini funzionali ed intervento di chirurgia estetica. Nel primo caso, il paziente deve essere informato soprattutto sui possibili rischi dell’operazione; nel secondo caso, invece, il paziente deve essere informato sulla effettiva conseguibilità di un miglioramento fisico (Cass., 12-06-1982 n. 3604, in Giust. civ., 1983, I, 939; Trib. Roma 10.10.1992, in Giur. it. 1992, I, 2, 337). Pertanto, nel caso di chirurgia estetica, l’informazione da fornire deve essere assai più penetrante ed assai più completa (specie con riferimento ai rischi dell’operazione) di quella fornita in occasione di interventi terapeutici (Cass. 08-08-1985 n. 4394, in Foro it., 1986, I, 121). Il consenso, inoltre, deve essere continuato. Esso non può essere prestato una tantum all’inizio della cura, ma va richiesto e riformulato per ogni singolo atto terapeutico o diagnostico, il quale sia suscettibile di cagionare autonomi rischi. La Corte Suprema è stata su questo punto molto chiara: “è noto che interventi particolarmente complessi, specie nel lavoro in équipe, ormai normale negli interventi chirurgici, presentino, nelle varie fasi, rischi specifici e distinti. Allorché tali fasi assumano una propria autonomia gestionale e diano luogo, esse stesse a scelte operative diversificate, ognuna delle quali presenti rischi diversi, l’obbligo Pagina 30 di 68 di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi rischi” (Cass. 15.1.1997 n. 364, in Foro it. 1997, I, 771). A tale regola si fa eccezione nel caso di interventi urgenti, anche quando l’urgenza non sia assoluta: in tal caso, il consenso consapevole prestato dal paziente che si considera implicitamente esteso anche alle operazioni "complementari", qual è quella di sostegno, durante l'intervento, delle risorse ematiche del paziente, che siano assolutamente necessarie e non sostituibili con tecniche più sicure (Cass. 26.9.2006 n. 20832). In applicazione di questi princìpi, è stata affermata la responsabilità della USL per lesioni conseguite all’erronea effettuazione di una anestesia epidurale: la Corte ha osservato nella fattispecie che la paziente, pur essendo stata informata sulla natura e sulle alternative dell’intervento, non lo era stata sui vari tipi di anestesia che potevano esserle alternativamente praticati. Sarebbe comunque erroneo ritenere, alla luce dei princìpi appena esposti, che il medico adempia i propri obblighi giuridici e deontologici rivelando tutto, fino in fondo, al paziente. Gli ampi contenuti che la giurisprudenza e la dottrina hanno assegnato all’obbligo di informazione gravante sul medico hanno infatti fatto sorgere un ulteriore delicato problema: quello di conciliare tale obbligo con le particolari esigenze del paziente, quando una informazione piena, competa. direi “brutale”, possa riverberare gravi conseguenze psicologiche e depressive sul paziente stesso. E’ inutile nascondersi che questo aspetto costituisce quello di più ardua soluzione per il personale medico, il quale si trova quotidianamente vis à vis con casi in cui le ragioni del diritto sembrano cedere a quelle della pietas. Che fare in questi casi? Informare il paziente che gli restano pochi e terribili mesi di vita? Oppure lasciargli almeno il dolce conforto della speranza?. Sul punto, un dato appare certo: deve escludersi che l’informazione (e quindi il consenso che su essa si fonda) possa essere data a persona Pagina 31 di 68 diversa dal paziente, quando questi sia maggiorenne e capace. Se infatti l’esercizio del consenso costituisce manifestazione di un diritto di libertà, (come esposto supra, § 6), esso è personalissimo e non delegabile. Il problema del rapporto tra completezza dell’informazione e tutela psichica del paziente è stato affrontato dal Comitato Nazionale per la Bioetica (istituito con d.p.c.m. 28.3.1990) il quale, in un proprio studio del 20.6.1992 dedicato a “Informazione e consenso all’atto medico”, ha fissato due linee guida: “(a) il curante deve possedere sufficienti doti di psicologia tali da consentirgli di comprendere la personalità del paziente e la sua situazione ambientale, per regolare su tali basi il proprio comportamento nel fornire le informazioni; (b) le informazioni, se rivestono carattere tale da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, dovranno essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti e sempre corredate da elementi atti a lasciare allo stesso la speranza di una, anche se difficile, possibilità di successo”. Il parere del Comitato per la Bioetica, comunque, riveste soltanto un valore (sia pur elevatissimo) morale e deontologico, ma non costituisce fonte di alcun obbligo giuridico. La conseguenza è che, con riferimento al problema di cui qui si discorre, l’attuale evoluzione dell’esperienza giuridica ha lasciato i medici sovraesposti, soli dinanzi alla tragica scelta se cautelarsi contro azioni di responsabilità, anche a costo di provocare un grave shock al paziente; oppure tutelare innanzitutto la salute di quest’ultimo, anche a costo di esporsi al rischio di azioni giudiziarie. La prestazione del consenso non è soggetta ad alcuna forma particolare. Nel nostro ordinamento vige infatti il principio della libertà delle forme del negozio giuridico, con la conseguenza che le parti possono scegliere quella ritenuta più opportuna (ivi compresa la forma orale e la forma tacita, cioè il comportamento concludente: Cass. 25.7.1967 n. 1950; Cass. 6.12.1968 n. 3906, in Resp. civ. prev. 1970, 389; Cass. 18.6.1975 Pagina 32 di 68 n. 2439). Naturalmente, la forma scritta resta quella preferibile, in quanto facilita enormemente il problema della prova del consenso. 6.2. Effetti della mancanza di informazione. Dalla violazione dell’obbligo di informazione la giurisprudenza fa discendere la responsabilità del medico nel caso di insuccesso dell’intervento. Questa responsabilità si fonda sia sulla violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.); sia sulla assenza di un valido consenso, che - per essere tale - deve essere consapevole. In assenza di informazione, pertanto, l'intervento è impedito al chirurgo tanto dall'art. 32, 2º comma, cost., a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, quanto dall'art. 13 cost., che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall'art. 33 l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità, ex art. 54 c.p. (Cass. 25-11-1994 n. 10014, in Foro it. Mass., 1994; Cass. pen. 21-04-1992, in Riv. pen., 1993, 42, con nota di POSTORINO; Trib. Roma, 10-10-1992, in Giur. it., 1993, I, 2, 337; Trib. Genova, 20-07-1988, in Foro pad., 1989, I, 172). Va segnalato che, secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale, nel caso di omessa informazione del paziente il medico risponde dell’insuccesso dell’intervento, anche se in concreto non sia a lui addebitabile alcuna colpa (Cass. 14.3.2006 n. 5444; Cass. 24.9.1997 n. 9374, in Resp. civ. prev. 1998, 78, con nota di Martorana, Brevi osservazioni su responsabilita' professionale ed obbligo di informazione, nonché in Riv. it. med. leg. 1998, IV, 821, con nota di Introna, Consenso informato e rifiuto ragionato. L'informazione deve essere dettagliata o Pagina 33 di 68 sommaria?; App. Genova, 05-04-1995, in Danno e resp., 1996, 215; App. Milano 2.5.1995, in Foro it. 1996, I, 1418; Trib. Napoli 30.1.1998, in Tagete, 1998, fasc. 4, 62). In questi casi, infatti, l’illecito del medico viene fatto consistere non nel mancato rispetto delle leges artis, ma nell’omessa informazione; quest’ultima, a sua volta, impedendo il paziente di esercitare il diritto di rifiutare l’intervento, viene considerata quale antecedente causale dell’evento infausto. Ha osservato, al riguardo, la S.C. che “nessuna contraddizione sussiste tra l'accertata assenza di colpa (…) e l'affermazione della responsabilità dell'ente [ospedaliero] per il mancato adempimento del dovere di informazione nei confronti del paziente, cui erano tenuti i sanitari dipendenti (…). La mancata richiesta del consenso costituisce autonoma fonte di responsabilità qualora dall'intervento scaturiscano effetti lesivi, o addirittura mortali, per il paziente, per cui nessun rilievo può avere il fatto che l'intervento medesimo sia stato eseguito in modo corretto” (Cass. 9374/97, cit.). 6.3. Consenso e capacità. Per essere efficace, il consenso all’attività medica deve essere prestato da soggetto capace di intendere e di volere. Quando il paziente è legalmente e naturalmente capace, soltanto lui è titolare del potere di consentire o rifiutare l’intervento. La giurisprudenza - mutando il proprio precedente orientamento - ha radicalmente escluso che, quando il paziente sia compos sui, il consenso all’intervento possa essere richiesto ai congiunti più stretti (ad esempio, al fine di evitare traumi al malato): così Trib. Milano, 04-12-1997, in Danno e resp., 1998, 1030. Per lo stesso motivo, non può essere ritenuto responsabile il medico che ometta di eseguire una terapia «salvavita» ad un paziente che la rifiuti (cfr. Pret. Roma, 03-04-1997, in Cass. pen., 1998, 950), e del pari non sarà resposanbile il medico che esegua una terapia necessaria ma non voluta Pagina 34 di 68 dal paziente, quando il dissenso di quest’ultimo non era né noto, né presumibile al medico (Cass. 23.2.2007 n. 4211). Per il soggetto legalmente incapace, il consenso deve essere prestato da chi ne ha la rappresentanza legale (il genitore od il tutore). E’ stato tuttavia sostenuto che anche il minore possa validamente prestare il proprio consenso al trattamento medico, quando abbia acquisito una sufficiente maturità di giudizio (App. Milano 25.6.1966, in Foro it. Rep. 1966, voce Patria potestà, n. 11; Trib. min. Bologna 13.5.1972, ivi, 1974, voce cit., n. 7; Trib. min. Bologna 26.10.1973, ivi, n. 5). Il consenso non può tuttavia essere prestato dal soggetto che, pur legalmente capace, si trovi in concreto in stato d’incapacità di intendere e di volere (Cass. 6.12.1968 n. 3906, in Resp. civ. prev. 1970, 389). In quest’ultimo caso (l’esempio tipico è quello del paziente incosciente od in stato comatoso), qualora vi sia l’urgenza e l’indifferibilità di un trattamento terapeutico anche rischioso, il medico non andrà tuttavia incontro a responsabilità di sorta per avere omesso di informare il paziente, in quanto la sua condotta sarebbe comunque giustificata dalla necessità di evitare un danno grave alla salute od alla vita del paziente, ai sensi dell’art. 54 c.p.. Va segnalato comunque che la S.C., sul punto qui in esame ha, sensibilmente ridotto l’area di responsabilità del medico, inaugurando così una controtendenza rispetto all’orientamento degli ultimi anni. Ha infatti stabilito il giudice di legittimità che la mancanza del consenso del paziente al trattamento sanitario è irrilevante non soltanto quando il medico abbia agito in stato di necessità ex art. 54 c.p., ma anche quando questo stato di necessita, oggettivamente inesistente, sia stato soltanto supposto dal medico, senza sua colpa (Cass. 23.2.2007 n. 4211; Cass., 15.11.1999 n. 12621). Nella stessa decisione è contenuta, sia pure obiter dictum, un’altra importante affermazione: l’applicazione del principio di cui all’art. 2236 c.c. non solo alle ipotesi di malpractice in senso stretto, ma anche alle ipotesi di omessa informazione. Pagina 35 di 68 La corte ha infatti incidentalmente affermato che nei casi particolarmente complessi, così come opera la limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c. per i danni dovuti a semplice imperizia, lo stesso principio deve trovare applicazione con riguardo ai casi di omessa informazione del paziente: se l’omissione è dovuta ad imperizia, il medico risponderà soltanto se versa in colpa grave; se, invece, l’omessa informazione è dovuta a imprudenza o negligenza, il medico risponderà anche se versa in colpa lieve. 6.4. L’onere della prova. Sul tema del riparto dell’onere di provare che il paziente sia stato correttamente informato, ha dato luogo ad un contrasto fino alla corte di cassazione. Secondo l’orientamento meno recente, l’onere di provare che il medico curante avesse fornito una informazione completa e corretta ricade sul paziente. Tale affermazione viene ricavata dai princìpi costantemente affermati in materia di responsabilità extracontrattuale, e cioè: (a) il medico che non fornisce un’informazione completa si rende inadempiente al contratto di prestazione d’opera professionale; (b) l’inadempimento è fatto costitutivo della pretesa risarcitoria; (c) ergo, incombe su chi allega l’altrui inadempimento l’onere di provarlo. Tale principio è stato affermato ore rotundo da Cass. 25.11.1994 n. 10014: “ai fini della ripartizione dell'onere della prova in materia di obbligazioni, si deve aver riguardo all'oggetto specifico della domanda, talché, a differenza del caso in cui si chieda l'esecuzione del contratto e l'adempimento delle relative obbligazioni, ove e' sufficiente che l'attore provi il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e cioe' l'esistenza del contratto e, quindi, dell'obbligo che si assume inadempiuto, nell'ipotesi in cui si domandi invece la risoluzione del contratto per l'inadempimento di una obbligazione l'attore e' tenuto a provare anche il Pagina 36 di 68 fatto che legittima la risoluzione, ossia l'inadempimento e le circostanze inerenti in funzione delle quali esso assume giuridiche rilevanza, spettando al convenuto l'onere probatorio di essere immune da colpa solo quando l'attore abbia provato il fatto costitutivo dell'inadempimento" (da ultimo, Cass. 29.1.1993, n. 1119). Il problema non si pone diversamente allorche' l'inadempimento venga addotto non per conseguire la risoluzione del contratto, ma ai fini di ottenere il risarcimento del danno” (Cass., sez. III, 25-11-1994, n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913). La Corte non si era nascosta le difficoltà cui potrebbe andare incontro il paziente, obbligato a provare non un fatto positivo, ma la circostanza negativa di non essere stato informato, ma aveva rilevato che “l'obiettiva difficolta' in cui si trovi la parte di fornire la prova del fatto costitutivo del diritto vantato non puo' condurre ad una diversa ripartizione del relativo onere, che grava, comunque, su di essa (fra le altre, Cass., sent. n. 832596 del 1983), mentre l'antico brocardo, negativa non sunt probanda, e' da intendere nel senso che, non potendo essere provato cio' che non e', la prova dei fatti negativi deve essere fornita mediante la prova dei fatti positivi, ma non gia' nel senso che la negativita' dei fatti escluda od inverta l'onere (Cass., sent. n. 2612 del 1969)”. Le conclusioni non mutavano ove si ritenga che la responsabilità del chirurgo per omessa informazione sia di natura aquiliana e non contrattuale. Infatti, come si è visto sopra, l’obbligo di informare sussiste prima ancora della conclusione del contratto di prestazione d’opera professionale, ed è espressione del più generale obbligo di correttezza nel corso delle trattative. Si potrebbe dunque affermare che la violazione dell’obbligo di informazione dia ingresso a responsabilità extracontrattuale, nella specie della responsabilità precontrattuale. Anche in questo caso, tuttavia, la condotta illecita (cioè l’omissione di informazione) sarebbe fatto costitutivo della pretesa risarcitoria, e dovrebbe essere provata dal paziente. Pagina 37 di 68 Secondo un diverso il più recente orientamento, invece, se il paziente si duole di non essere stato informato, deve essere il medico convenuto a provare di avere esaurientemente informato il paziente di tutte le caratteristiche ed i rischi dell’intervento. Il paziente, dunque, quando la cura cui si è sottoposto ha peggiorato la sua salute, può convenire il medico in giudizio e chiedere il risarcimento del danno, allegando di non essere stato informato sui rischi dell’operazione, e dimostrando soltanto: (a) l’esistenza del contratto di prestazione d’opera professionale; (b) la sua validità; (c) l’esistenza del danno. Sarà il medico convenuto, se vuole andare esente da condanna, a dovere provare: (a) di avere informato il paziente sui rischi e sulle modalità dell’operazione; (b) che l’omessa informazione non è dipesa da propria colpa. Se il medico non riesce a fornire questa prova, non gli servirà a nulla né dimostrare il carattere complesso dell’operazione (art. 2236 c.c.), né dimostrare di averla eseguita attenendosi scrupolosamente a tutte le regole della buona pratica clinica ed alle leges artis: egli risponderà comunque del peggioramento della salute del paziente, per non avere ottenuto il “consenso informato” di quest’ultimo (Cass., sez. III, 23-052001, n. 7027, in Danno e resp., 2001, 1165, con nota di ROSSETTI, nonché in Foro it., 2001, I, 2504, con nota di PARDOLESI). Per pervenire a queste conclusioni, la Corte ha articolato il seguente sillogismo: (a) l’obbligo gravante sul medico di informare il paziente ha natura contrattuale, e la sua violazione costituisce perciò inadempimento (art. 1218 c.c.); (b) colui il quale chieda, in giudizio, il risarcimento del danno da inadempimento di un obbligo contrattuale, deve provare solo l’esistenza del contratto, mentre spetterà al convenuto dimostrare o di avere adempiuto, ovvero che inadempimento non è dipeso da propria colpa; Pagina 38 di 68 (c) ergo, nel giudizio per il risarcimento del danno alla salute, derivante asseritamente causato dall’imperizia del medico, deve essere quest’ultimo a provare di avere adempiuto l’obbligo di informazione. 11. Forme della professione e regole di responsabilità. 11.1. La libera professione. L’esercizio della professione medica può concretamente atteggiarsi secondo modalità assai diverse. A seconda della ricorrenza dell’una o dell’altra modalità, mutano i contenuti degli obblighi e dei diritti scaturenti dall’esercizio dell’attività medica. Il medico può svolgere la propria attività in regime totalmente privatistico, come qualsiasi altro libero professionista. L’attività libero-professionale del medico, costituendo adempimento di un obbligo contrattuale (contratto d’opera), è disciplinata sia dalle norme generali in materia di contratti (e, soprattutto, dagli artt. 1176 e 1375 cod. civ.), sia, più in particolare, dagli artt. 2229-2238 cod. civ., nonché dall’art. 2751, n. 2, c.c., il quale riconosce al medico un privilegio generale sui beni mobili del defunto, a garanzia dei crediti per le “spese d’infermità” fatte negli ultimi sei mesi di vita del defunto. Il medico libero professionista, nell’esercizio della propria attività, può andare incontro - anche cumulativamente per effetto della medesima condotta - a tre tipi di responsabilità: disciplinare, penale e civile. La responsabilità disciplinare è regolata dagli artt. 38 e ss. d.p.r. 5.4.1950 n. 221, ed è demandata al Consiglio dell’ordine competente ratione loci. La responsabilità penale del medico libero professionista è sempre personale. Essa non è oggetto di trattazione in questa sede. La responsabilità disciplinare (demandata al Consiglio dell’ordine) e quella penale sono comuni a tutte le forme di esercizio dell’attività medica, e pertanto su esse non si tornerà in seguito. La responsabilità civile del medico libero professionista può avere natura contrattuale (art. 1218 c.c.) o extracontrattuale (art. 2043 c.c.). Essa è Pagina 39 di 68 personale, ma in taluni casi il medico può essere chiamato a rispondere unitamente ad altri soggetti. Ciò può accadere: (a) se il medico, pur operando nell’esercizio della propria attività liberoprofessionale, abbia agito in concorso con altri medici o comunque esercenti professioni sanitarie; (b) se il medico abbia operato nell’ambito di una struttura organizzata da terzi (ad esempio, una casa di cura privata, che senza alcun vincolo di sovraordinazione abbia messo a disposizione del medico una sala operatoria; ovvero un ospedale pubblico nel quale il medico operi come libero professionista). Nel primo caso, il danneggiato potrà pretendere l’intero risarcimento, ai sensi dell’art. 2055 cod. civ., da uno qualsiasi dei corresponsabili dell’evento dannoso. Il condebitore escusso, risarcito il danneggiato, avrà poi azione di regresso nei confronti degli altri condebitori. Nel caso in cui il corresponsabile escusso sia coperto da una assicurazione della r.c., l’assicuratore che ha indennizzato il danneggiato si surroga (tra l’altro) nel diritto di regresso verso gli altri corresponsabili, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1299 e 1916 cod. civ.. Di conseguenza, il partecipante all’équipe può trovarsi esposto a due azioni: una, di regresso, da parte del coobbligato che abbia risarcito il danneggiato per l’intero; l’altra, di surrogazione, da parte dell’assicuratore della responsabilità civile di uno dei corresponsabili, che abbia risarcito il danneggiato. Nel secondo dei casi sopra considerati (allorché, cioè, il medico responsabile dell’illecito abbia agito, nella veste di libero professionista, all’interno di una struttura organizzata), sorge il problema di stabilire in quali casi la struttura, nell’ambito della quale il medico ha agito, possa essere chiamata a rispondere del danno alla persona causato dalla colpa professionale del medico: normalmente, la responsabilità della struttura pubblica sussisterà in questi casi quando il danno abbia trovato la propria Pagina 40 di 68 causa, od anche la propria concausa, nella insufficienza della struttura stessa (in tema si veda anche infra, § 7.3.1). Secondo la suprema corte, inoltre, allorché il medico dipendente di una struttura ospedaliera assiste, all'interno di essa, un paziente al quale è legato da un rapporto privatistico di prestazione d'opera professionale, per quanto non possano essere addebitate al medico le carenze della struttura stessa, ne' la condotta colposa di altri dipendenti dell'ospedale, a lui incombe, tuttavia, l'obbligo, derivante dal rapporto privatistico che lo lega al paziente, di informarlo della eventuale, anche solo contingente, inadeguatezza della struttura, tanto piu' se la scelta della stessa sia effettuata proprio in ragione dell'inserimento di quel medico in quella struttura, nonche' di prestare al paziente ogni attenzione e cura che non siano assolutamente incompatibili con lo svolgimento delle proprie mansioni di pubblico dipendente. Da ciò il giudice di legittimità fa derivare la persistenza del dovere del medico che abbia partecipato all'intervento in ragione di un rapporto professionale diretto con il paziente - di adoperarsi comunque per il raggiungimento del risultato al di la' della sua estraneita' alle insufficienze della struttura in cui abbia operato, ed anzi tenendone conto al fine di conformare la propria condotta al raggiungimento dell'obiettivo costituito dall'esito favorevole dell'intervento (Cass. 21.7.2003 n. 11316). Ciò vuol dire, detto altrimenti, che quanto più la struttura ospedaliera o del paziente ricoverato è carente, tanto più elevato sarà l'obbligo del medico che assista il paziente in virtù di un rapporto di prestazione d'opera professionale di assistere eseguire il paziente per tutto il periodo della degenza, eventualmente attivandosi per sopperire alle carenze della struttura ospedaliera. 12. Il regime di convenzionamento. Pagina 41 di 68 L’attività medica può, altresì, essere svolta in regime di convenzionamento, ai sensi degli artt. 8 d.P.R. 30 dicembre 1992, n. 502 e, in precedenza, 48 l. 23 dicembre 1978, n. 833. Il rapporto di “convenzionamento” tra le Aziende sanitarie locali ed i medici viene definito “rapporto di impiego continuativo a tempo definito” (art. 48, comma 3, n. 3), l. 833/78), ovvero “rapporto di lavoro autonomo, continuativo e coordinato” (art. 1 dell’accordo collettivo per i medici di medicina generale, approvato con d.P.R. 28.7.2000, n. 270). Il rapporto di convenzionamento è caratterizzato da una sostanziale corrispettività tra l’operato del medico, che ha l’obbligo di prestare la propria assistenza agli assicurati del Servizio Sanitario Nazionale, e la Azienda sanitaria, tenuta a corrispondere al medico un compenso per ogni assistito. Questo rapporto, secondo la Corte di cassazione, deve essere qualificato come parasubordinazione (Cass., sez. lav., 15-07-2002, n. 10255, in Foro it. Rep., 2002, Sanitario e personale della sanità, n. 6; Cass., Sez. Un. 8 febbraio 1997, n. 1213, in Foro it. Rep., 1997, Sanitario, n. 65; Cass., Sez. Un. 23 dicembre 1997, n. 13023, ivi, 1997, Sanitario, n. 79). Questa fattispecie, sempre secondo il giudice di legittimità, è caratterizzata da due elementi: a) il rapporto ha ad oggetto una prestazione coordinata e continuativa a carattere prevalentemente personale, e riguarda prestazioni di facere riconducibili allo schema generale del lavoro autonomo, ancorché rientranti in figure contrattuali tipiche; b) il prestatore d’opera svolge la propria attività in autonomia e con responsabilità e rischi propri (Cass., Sez. Lav. 7 novembre 1995, n. 11581, in Foro it. Rep., 1995, Lavoro e previdenza (controversie), n. 81; Cass., Sez. Lav. 4 aprile 1992, n. 4152, ivi, 1992, Lavoro e previdenza (controversie), n. 67; si veda altresì TAR Lazio, 28 gennaio 1988, n. 82, in Foro amm., 1988, 2544, nonché, in dottrina, MARANDO, Il rapporto di lavoro del medico convenzionato, in Dir. e pratica lav., 1997, 1444; PELLETTIERI, Pagina 42 di 68 Rapporto di lavoro del medico convenzionato: diritto al compenso per prestazioni rese ad assistiti eccedenti il «massimale», in Giur. lav. Lazio, 1996, 9). Il medico “convenzionato” non è un pubblico dipendente, ed a lui non si applicano dunque le norme sulla responsabilità dei pubblici impiegati (Cass., sez. lav., 16-07-2002, n. 10310 , in Foro it. Rep., 2002, Sanitario e personale della sanità, n. 7; Cass., sez. lav., 29-03-2001, n. 4661, in Foro it. Rep. 2001, Sanitario e personale della sanità, n. 39; Cass., sez. un., 03-08-2000, n. 532, in Foro it. Rep., 2000, Sanitario, n. 45; cfr. altresì T.a.r. Campania, sez. Salerno, 23-02-2000, n. 129, in Ragiusan, 2000, fasc. 195, 421; T.a.r. Lazio, sez. I, 02-12-1999, n. 3007, in Ragiusan, 2000, fasc. 195, 391; T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, 16-05-2000, n. 440, in Ragiusan, 2000, fasc. 195, 440; T.a.r. Piemonte, sez. II, 26-05-2000, n. 634, in Ragiusan, 2000, fasc. 195, 441). Il medico convenzionato, nell’esercizio della sua attività, può andare incontro a responsabilità disciplinare, nei confronti della Azienda sanitaria; ed a responsabilità civile, nei confronti del paziente. La responsabilità disciplinare, il cui accertamento è demandato al direttore dell’azienda sanitaria con la quale è stato stipulato il rapporto di convenzionamento, è regolata dai singoli accordi collettivi (cfr., per i medici di medicina generale, art. 16 d.p.r. 28.7.2000 n. 270; per i medici ambulatoriali, art. 14 d.p.r. 28.7.2000 n. 271; per i pediatri di libera scelta, art. 13 d.p.r. 28.7.2000 n. 272). La responsabilità civile nei confronti del paziente in teoria potrebbe avere soltanto natura extracontrattuale, posto che tra gli assistiti ed il medico convenzionato non viene stipulato alcun rapporto di prestazione d’opera professionale. Tuttavia sembra applicabile anche al rapporto tra medico convenzionato e paziente il principio, elaborato dalla Corte di cassazione, relativo ai c.d. rapporti contrattuali di fatto: secondo tale principio, là dove il rapporto giuridico tra due soggetti si atteggi secondo le modalità di un tipico rapporto contrattuale, ad esso sono applicabili le norme sulla Pagina 43 di 68 responsabilità contrattuale, anche se non scaturente da un accordo vero e proprio (Cass., sez. III, 22-01-1999, n. 589, in Foro it., 1999, I, 3332). Il rapporto di convenzionamento pone all’interprete il problema di stabilire se la pubblica amministrazione possa essere chiamata a rispondere del danno colposamente cagionato al paziente dal medico convenzionato. L’autonomia del medico convenzionato, e la diretta assunzione da parte di questi della responsabilità del proprio operato (così, sia pure obiter dictum, Cass., Sez. Lav. 7 novembre 1995, n. 11581, in Foro it. Rep., 1995, Lavoro e previdenza (controversie), n. 81) dovrebbero, di norma, far escludere che del danno causato dal medico convenzionato possa rispondere la pubblica amministrazione. Tuttavia le convenzioni che, ai sensi degli artt. 8 d. lgs 502/92 e 48 l. 833/78, disciplinano il rapporto di convenzionamento, demandano alle Aziende sanitarie estesi e talora rilevanti controlli sull’attività del medico. Ad esempio, l’art. 47 d.P.R. 28 luglio 2000, n. 270 (con il quale è stato approvato l’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale), stabilisce che “il dirigente sanitario medico preposto (...) al servizio specifico o ricomprendente l'organizzazione dell'assistenza medica generale di base ha la responsabilità e accede al controllo della corretta applicazione delle convenzioni, per quel che riguarda gli aspetti sanitari”. Tale norma costituisce una clausola di stile negli accordi di convenzionamento: si vedano, nello stesso senso, l’art. 40 d.P.R. 28.7.2000, n. 271, con il quale è stato approvato l’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici specialisti ambulatoriali; e l’art. 36 d.P.R. 28.7.2000 n. 272, con il quale è stato approvato l’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici specialisti pediatri di libera scelta). L’esistenza di questo dovere di controllo dell’Azienda sanitaria sull’attività del medico convenzionato non è certamente sufficiente per rendere la prima responsabile diretta del danno causato dal secondo, ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. L’esistenza di quel dovere, però, ben potrebbe in Pagina 44 di 68 certi casi fondare una responsabilità – diretta – dell’Azienda sanitaria per culpa in vigilando, allorché il danno causato dal medico convenzionato sia stato concausato od agevolato proprio dall’omissione dei dovuti controlli da parte della pubblica amministrazione. La responsabilità per omesso controllo non è certamente un novum nel campo dell’illecito aquiliano: basterà ricordare che la S.C. (Cass. 20 luglio 1993, n. 8069, in Foro it., 1994, I, 455), ha ritenuto le imprese farmaceutiche, intervenute nel ciclo produttivo di gammaglobuline umane, responsabili per colpa grave dei danni derivati in caso di contagio conseguente all’uso del farmaco ove, pur avendo ottemperato alle disposizioni normative vigenti, non dimostrino di aver impiegato ogni cautela idonea ad impedire l’evento). In altri termini, la responsabilità dell’Azienda sanitaria per il fatto dannoso causato dal medico convenzionato potrebbe essere fondata sul seguente sillogismo: a) gli accordi collettivi prevedono un obbligo dell’Azienda di controllare l’attività del medico; b) la violazione di questo dovere di controllo, in quanto previsto da una norma, costituisce un comportamento contra ius; c) ergo, se da questa condotta contra ius deriva un danno, la pubblica amministrazione è tenuta a risarcirlo. A questa costruzione si potrebbe obiettare che l’accordo collettivo non è una norma di legge, ma un atto amministrativo di natura pattizia, il quale vincola soltanto le parti aderenti: il terzo danneggiato, pertanto, non potrebbe invocare una responsabilità della p.a. fondata sulla violazione dell’accordo, in quanto le norme di questo non avrebbero alcuna efficacia diretta nei confronti dei terzi. A tale obiezione può replicarsi che anche la violazione di una norma contrattuale può generare una responsabilità (secondo taluni autori, addirittura contrattuale) nei confronti dei terzi estranei all’accordo, allorché la norma violata fosse finalizzata a prevenire eventi dannosi dello stesso tipo di quello effettivamente avveratosi. È, questa, la teoria degli Pagina 45 di 68 obblighi di protezione, o Schutzpflichten, secondo la quale ogni fattispecie contrattuale fa sorgere in capo alle parti, accanto agli obblighi contrattuali in senso stretto, anche i cc.dd. “obblighi di protezione” (o Schutzpflichten), cioè l’obbligo di attivarsi per preservare sia l’utilità della prestazione per la controparte, sia la salvaguardia dei beni essenziali (vita e salute) di terzi (c.d. Vertrag mit Schutzwirkung für Dritte (Sugli obblighi di protezione in generale si vedano BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano 1953, 99, e CASTRONOVO, Obblighi di protezione, in Enc. giur. it., Roma 1990, XXI, 1 e ss.; in senso critico, invece, si vedano NATOLI, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Trattato Cicu-Messineo, Milano 1974, 14; BRECCIA, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano 1968). Ovviamente, perché la Azienda sanitaria possa essere chiamata a rispondere dell’illecito commesso dal medico convenzionato, sarà pur sempre necessaria la sussistenza d’un preciso nesso causale tra l’omissione del controllo imputabile alla p.a., e la condotta illecita del medico. Deve essere altresì segnalato che alcuni accordi collettivi di convenzionamento prevedono, a carico dell’Azienda sanitaria, l’obbligo di stipulare una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile verso i terzi del medico convenzionato. Tale obbligo risulta previsto, ad esempio, dall’art. 29 d.P.R. 28 luglio 2000 n. 271 (Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici specialisti ambulatoriali). Va segnalato però che gli accordi collettivi prevedono la stipula delle polizze per un certo massimale, che in verità appare piuttosto basso: € 1.032.913,8 per i danni a persona, con un massimale di € 1.549.370,7 per sinistro. La polizza stipulata dalla Azienda sanitaria in adempimento dell’obbligo imposto dal contratto collettivo costituisce un tipico esempio di assicurazione per conto altrui, ex art. 1891 cod. civ. E poiché il medico convenzionato vanta un diritto soggettivo perfetto alla stipula della polizza Pagina 46 di 68 in suo favore, l’eventuale inefficacia o invalidità della polizza, per fatto imputabile alla Azienda sanitaria, comporterà la responsabilità di quest’ultima nei confronti del medico, il quale potrà chiedere alla p.a. il risarcimento del danno subìto per essersi trovato esposto, privo di copertura assicurativa, alle pretese risarcitorie del paziente danneggiato (Cass., Sez. Lav. 24 novembre 1997, n. 11736, in Foro it. Rep., 1997, voce Sanitario, n. 78). Naturalmente il tipo di polizza in questione potrà coprire soltanto la responsabilità dell’assicurato (cioè del medico), e non quella dello stipulante (cioè dell’Azienda). Di conseguenza, se il danno è stato concausato dall’amministrazione ed anche questa venga convenuta in giudizio, essa non potrà beneficiare della polizza stipulata ai sensi delle norme sopra citate (cfr., con riferimento però all’ipotesi del contratto di assicurazione per conto di chi spetta, Cass. 3 luglio 1996, n. 6086, in Foro it., 1997, I, 1925, nonché in Contratti, 1997, 500, con nota di FIORETTI, Diritti del contraente e consenso dell’assicurato). 13. Il medico dipendente privato. Del danno commesso dal medico, dipendente di un casa di cura (o comunque di una struttura) privata, risponde il datore di lavoro, ex art. 2049 cod. civ., in solido col medico stesso (Cass. 11 marzo 1998, n. 2678, in Foro it. Rep., 1998, voce Responsabilità civile, n. 15; Trib. Napoli 15 febbraio 1995, in Foro nap., 1996, 76; Trib. Roma 28 giugno 1982, in Temi romana, 1982, 601). Il datore di lavoro, come noto, risponde dell’illecito commesso dal dipendente anche se cagionato con dolo, purché l’illecito sia stato reso possibile o comunque agevolato dal rapporto di lavoro (Cass. 14 novembre 1996, n. 9984, in Foro it. Rep., 1996, voce Responsabilità civile, n. 141; Cass. 11 maggio 1995, n. 5150, ivi, 1995, voce Obbligazioni in genere, n. 45; Trib. Sondrio, 22 febbraio 1982, in Banca, borsa e tit. cred., 1985, II, 401). Pagina 47 di 68 13.1. La responsabilità della casa di cura privata. Mentre è pacifico che la casa di cura privata risponda del danno causato dal medico ad essa legato da un rapporto di lavoro dipendente, maggiori perplessità ha sollevato ipotesi in cui il medico autore del fatto illecito non fosse dipendente della clinica privata, ma avesse semplicemente locato le strutture di questa per l'esecuzione dell'intervento. Per molto tempo, la giurisprudenza ha ritenuto che la responsabilità della struttura ospedaliera privata per il fatto illecito commesso dal medico nell’esecuzione di un intervento potesse essere affermata de plano soltanto nei seguenti casi: (a) ex art. 2049 c.c., quando il medico era un lavoratore dipendente della casa di cura; (b) ex art. 1228 c.c., quando il contratto avente ad oggetto l’esecuzione dell’intervento era stato stipulato direttamente con la casa di cura, la quale aveva curato la scelta del chirurgo (per questa distinzione, Cass., sez. III, 11-03-1998, n. 2678, in Arch. civ., 1998, 917). Negli altri casi (la maggioranza), nei quali era il paziente stesso a scegliere il medico, e quest’ultimo a sua volta invitava il paziente a farsi operare presso una clinica alla quale il medico non era legato da alcun rapporto di lavoro dipendente, diventava problematico individuare una responsabilità della casa di cura, in quanto questa aveva buon gioco nell’eccepire da un lato che la propria obbligazione nei confronti del paziente era limitata a fornire l’alloggio e la sala operatoria; dall’altro la propria totale estraneità all’operato del medico. Per superare questo genere di eccezioni (evidentemente sul fondamento che la casa di cura non potesse gestire una attività economica, spesso lucrosa, pretendendo di goderne sempre i commoda e mai gli incommoda), in passato la giurisprudenza aveva lavorato quasi esclusivamente sul disposto dell’art. 1228 c.c., cercando di ravvisare un vincolo di collaborazione, fondamento della responsabilità per fatto altrui, anche nei casi in cui tra casa di cura e medico non vi fosse un rapporto di Pagina 48 di 68 lavoro subordinato o prestazione d’opera professionale. In tal senso, ad esempio, molti anni fa il tribunale di Roma ritenne che l'attività svolta da un chirurgo libero professionista presso una casa di cura privata, in virtù di un non occasionale rapporto d'esecuzione d'opera, comporta “per sua natura” un vincolo di dipendenza, sorveglianza e vigilanza tra la casa di cura committente ed il chirurgo preposto. Da ciò si trasse la conclusione che, in caso di colpa medica, sussisteva la responsabilità solidale contrattuale (ex art. 1218 e 1228 c.c.) ed extracontrattuale (ex art. 2049 c.c.) della casa di cura (Trib. Roma, 28-06-1982, in Temi romana, 1982, 601, con nota di SCALFANI, In tema di responsabilità della casa di cura privata per danni conseguenti ad un intervento operatorio; per motivazioni più o meno analoghe si veda anche Trib. Trieste, 14-04-1994, in Resp. civ., 1994, 768). Altri giudici, sempre al fine di applicare l’art. 1228 c.c. nei rapporti tra casa di cura e medico responsabile del danno, si sono sforzati di ravvisare un qualche potere di vigilanza della prima sul secondo: in tal senso, Trib. Milano, 20-10-1997, in Danno e resp., 1999, 82, con nota di BONA, nonché in Resp. civ., 1998, 1144, con nota di GORGONI, ed in Riv. it. medicina legale, 1999, 596, con nota di INTRONA; Trib. Napoli, 17-011997, in Nuovo dir., 1997, 677, n. NUNZIATA; Trib. Napoli, 15-02-1995, in Foro nap., 1996, 76 (ove, significativamente, si afferma essere irrilevante, ai fini della responsabilità della casa di cura, la circostanza che il medico operi in essa una o infinite volte). Anche il giudice di legittimità è pervenuto a ritenere sussistente la responsabilità della casa di cura, ex art. 1228 c.c., per il danno causato dal chirurgo, quand’anche quest'ultimo non faccia parte dell'organizzazione aziendale della casa di cura, in base al rilievo che il medico è “ausiliario necessario” della casa di cura per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale di quest’ultima, e che comunque sussiste un collegamento tra la prestazione del medico e l’organizzazione aziendale della casa di cura (Cass. 26.1.2006 n. 1698; Cass., sez. III, 08-01-1999, Pagina 49 di 68 n. 103, in Danno e resp., 1999, 779, con nota di DE MATTEIS, nonché in Resp. civ., 1999, 683, con nota di SANNA). In queste sentenze la Corte ha affermato che nella rimunerazione della prestazione fornita dalla casa di cura è incluso anche “il costo, inteso come rischio, dell'esercizio dell'attività di impresa della casa di cura”, ivi compreso quello della distribuzione delle competenze tra i vari operatori, delle quali il titolare dell'impresa risponde ai sensi dell'art. 1228 c.c.. L’assenza di un inquadramento organico del responsabile del danno nella struttura della casa di cura è stata poi ritenuta irrilevante, sul presupposto che comunque la prestazione del medico è “indispensabile alla Casa di cura per adempiere l'obbligazione assunta con i danneggiati”. Negli ultimi anni la S.C. ha infine rotto ogni indugio, ed affermato espressamente la responsabilità della casa di cura per il fatto del medico non dipendente, ex art. 1228 c.c.. Ha osservato, al rigurado, il giudice dilegittimità, che il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo, insorgono a carico della casa di cura accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri - obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Di conseguenza la responsabilità della casa di cura nei confronti del paziente può conseguire sia all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, sia, in virtù dell'art. 1228 cod. civ., all'inadempimento della prestazione medicoprofessionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche "di fiducia" Pagina 50 di 68 dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (Cass. 14.6.2007 n. 13953). E’ stata, inoltre, affermata altresì la responsabilità ex art. 1228 c.c. anche del medico operatore per il fatto del personale di supporto messogli a disposizione da una struttura sanitaria dalla quale il medico non dipende, dovendosi esigere dal chirurgo operatore un dovere di controllo specifico sull'attività e sulle iniziative espletate dal personale sanitario con riguardo a possibili e non del tutto prevedibili eventi che possono intervenire non solo durante, ma anche prima dell'intervento e in preparazione di esso (nella specie la S.C., sulla scorta del suddetto principio, ha confermato la sentenza impugnata con la quale era stata affermata la responsabilità di un medico chirurgo che aveva effettuato, presso una casa di cura privata dalla quale non dipendeva, un intervento - ritenuto di "routine" - di liposuzione agli arti inferiori ad una paziente rimasta danneggiata in virtù di un'infezione batterica che ne era conseguita, così respingendo il motivo del ricorrente ad avviso del quale non avrebbe potuto essergli addebitata alcuna responsabilità in relazione all'attività disimpegnata dal personale della clinica per il fatto che in ordine alla stessa egli non avrebbe avuto la possibilità, giuridica e di fatto, di esercitare qualsivoglia potere di direzione, vigilanza e controllo, ivi compreso quello sulla perfetta sterilizzazione della sonda suttrice e concretamente utilizzata, dalla quale si era propagata l'infezione conseguita in danno della paziente: Cass. 14.6.2007 n. 13953). Più di recente, tuttavia, queste impostazioni tradizionali, ed il loro continuo richiamarsi all’art. 1228 c.c., sono state ritenute inappaganti, in quanto il preteso potere di vigilanza e controllo della casa di cura sul medico (presupposto per l’operatività dell’art. 1228 c.c.) può in concreto mancare del tutto. Alcuni giudici di merito, di conseguenza, hanno affrontato una strada del tutto nuova, ed hanno ravvisato nell’obbligazione del medico e della casa Pagina 51 di 68 di cura una “obbligazione plurisoggettiva ad attuazione congiunta”, osservando che nel caso di colpa medica nell’esecuzione di un intervento chirurgico, la casa di cura privata dove il paziente è stato ricoverato risponde dei danni in solido col medico, quand’anche ciascuno di essi abbia stipulato col paziente un contratto distinto ed autonomo. La prestazione della casa di cura e quella del medico, infatti, sono collegate così strettamente da configurare una obbligazione soggettivamente complessa con prestazione indivisibile ad attuazione congiunta, con la conseguenza che ciascuno di uno soltanto dei coobbligati obbliga anche l’altro al risarcimento (Trib. Roma 1.6.2001, in Giurispr. romana, 2001, *** (11./01). 14. Il medico pubblico dipendente. Il rapporto tra il medico e la pubblica amministrazione non è conformato ad un modello unitario, ma è disciplinato da fonti normative diverse a seconda della natura della p.a. datrice di lavoro. Vanno infatti distinti: (a) i medici dipendenti delle Aziende sanitarie e delle Aziende ospedaliere, il cui rapporto d’impiego è disciplinato dall’art. 47 l. 23.12.1978 n. 833. Tale norma stabilisce che “lo stato giuridico ed economico del personale delle unità sanitarie locali è disciplinato, salvo quanto previsto espressamente dal presente articolo, secondo principi generali e comuni del rapporto di pubblico impiego (...). la gestione amministrativa del personale delle unità sanitarie locali è demandata all'organo di gestione delle stesse, dal quale il suddetto personale dipende sotto il profilo funzionale, disciplinare e retributivo”. (b) i medici dipendenti delle istituzioni universitarie (art. 5 d. lgs. 21.12.1999 n. 517); (c) i medici dipendenti delle istituzioni di ricerca scientifica (CNR). Nonostante la diversità di disciplina del contenuto del rapporto di lavoro, sul piano della responsabilità esiste una omogeneità di fondo, in quanto Pagina 52 di 68 sia ai medici compresi nel ruolo organico delle Aziende sanitarie, sia ai medici dipendenti di istituzioni universitarie, si applica l’art. 55 d. lgs. 30.3.2001 n. 165 (c.d. testo unico sul pubblico impiego), il quale espressamente stabilisce che per i dipendenti pubblici “resta ferma la disciplina attualmente vigente in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile”. Tale disciplina, in virtù del rinvio di cui all’art. 28 d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (alla stregua del quale “in materia di responsabilità, ai dipendenti delle unità sanitarie locali si applicano le norme vigenti per i dipendenti civili dello Stato di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e successive integrazioni e modificazioni”), è rappresentata tuttora dagli artt. 22 e 23 d.P.R. 10.1.1957 n. 3. La prima di tali norme stabilisce che l’impiegato il quale, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto, è personalmente obbligato a risarcirlo. L’azione di risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con l’azione diretta nei confronti dell’Amministrazione qualora sussista anche la responsabilità dello Stato. L’amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente si rivale contro quest’ultimo. L’art. 23 del testo unico precisa la nozione di “danno ingiusto”, stabilendo che è tale quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l’impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave, salve “le responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti”. L’art. 23 d.P.R. 3/57 esclude pertanto l’azionabilità diretta della pretesa risarcitoria nei confronti del pubblico impiegato, nelle ipotesi di colpa lieve: ricorrendo questo caso, unica legittimata passiva sarà la p.a. Il combinato disposto degli artt. 28 d.P.R. 761/79, e 22-23 d.P.R. 3/57, non distingue affatto tra danni arrecati dal medico nell’esercizio di attività terapeutica o sanitaria in senso stretto, e danni arrecati a causa di altre mancanze ai propri doveri d’ufficio (ad esempio, mancato rispetto dell’orario di lavoro; infedele certificazione; omesso controllo della Pagina 53 di 68 salubrità degli ambienti, ecc.). Sembrerebbe dunque che, quale che sia l’eziogenesi del danno causato dal medico, questi possa essere convenuto dal danneggiato soltanto nel caso di colpa grave o dolo. In realtà così non è. Le norme in esame sono state infatti restrittivamente interpretate dalla giurisprudenza, per quanto concerne l’attività del medico pubblico dipendente. Secondo la S.C., l’attività svolta dal medico in favore dei pazienti non costituisce esercizio di una amministrazione pubblica, ma costituisce erogazione di un servizio pubblico. Nell’erogazione di questo servizio, si stabilisce un rapporto giuridico di tipo pubblicistico tra il privato, che ha un diritto soggettivo alla prestazione in suo favore; e la p.a., che ha il corrispondente dovere di adempiere. “Appunto – ha osservato la S.C. - perché si costituisce un rapporto giuridico tra i due soggetti, strutturato da un diritto soggettivo e da un correlato dovere di prestazione, la responsabilità dell’ente pubblico verso il privato, per il danno a questi causato dalla non diligente esecuzione della prestazione (…) va qualificata contrattuale, intesa (…) come responsabilità insorta nel compimento di un’attività dovuta nell’ambito di un preesistente rapporto giuridico, privato o pubblico, tra i due soggetti. Nel servizio pubblico sanitario, l’attività svolta dall’ente pubblico gestore del servizio a mezzo dei suoi dipendenti, nell’adempimento del dovere di prestazione verso il privato richiedente (titolare del corrispondente diritto soggettivo), è di tipo professionale medico; similare all’attività svolta, nell’esecuzione dell’obbligazione (privatistica) di prestazione, dal medico che abbia concluso con il paziente un contratto d’opera professionale. Ed appunto per questa similarità, perché quella svolta dall’ente pubblico a mezzo dei medici suoi dipendenti è attività professionale medica, la responsabilità è analoga a quella del professionista medico privato. Con la conseguenza che vanno applicate, analogicamente, le norme che regolano le responsabilità in tema di prestazione professionale medica in esecuzione d’un contratto d’opera professionale; in particolare quella di cui all’art. 2236 cod. civ., il quale dispone che, «se la prestazione implica Pagina 54 di 68 la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave»” (Cass. 1.3.1988, n. 2144, in Foro it., 1988, I, 2296, con nota di PRINCIGALLI, Medici pubblici dipendenti responsabili come liberi professionisti?; Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in Danno e resp., 1999, 294, con nota di CARBONE; Cass. 27 luglio 1998, n. 7336, in Foro it. Rep., 1998, voce Professioni intellettuali, n. 36; Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, in Enti pubblici, 1996, 908; Cass. 27 maggio 1993, n. 5939, in Foro it. Rep., 1993, voce Professioni intellettuali, n. 114). Da questa interpretazione consegue che alla responsabilità diretta dell’ente (ed a quella del medico inserito organicamente nella struttura dell’ente, per fatti inerenti la somministrazione delle prestazioni sanitarie) non sono applicabili le norme previste dagli art. 22 e 23 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, con riguardo alla responsabilità degli impiegati civili dello Stato per gli atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini (Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in Danno e resp., 1999, 294, con nota di CARBONE; Cass. 27 luglio 1998, n. 7336, in Foro it. Rep., 1998, voce Professioni intellettuali, n. 36; Cass. 11 aprile 1995, n. 4152, in Enti pubblici, 1996, 908; Cass. 27 maggio 1993, n. 5939, in Foro it. Rep., 1993, voce Professioni intellettuali, n. 114). Nei rapporti tra medico, ente ospedaliero e terzi danneggiati, la colpa, l’imperizia, la negligenza, il nesso causale, l’ingiustizia del danno, vanno accertati secondo le norme dettate dal codice civile sul contratto d’opera professionale, e non secondo il testo unico sul pubblico impiego. L’applicabilità degli artt. 22 e 23 del d.P.R. 3/57 al danno causato dal medico è stata invece affermata quando il danno sia stato arrecato non in conseguenza della prestazione di attività sanitaria in senso stretto. Ad esempio, è stato ritenuto responsabile, ai sensi dell’art. 23 d.P.R. 3/57, il medico fiscale che aveva erroneamente diagnosticato una infermità, sulla base della quale il presunto infermo era stato posto in aspettativa dal suo datore di lavoro (Cass. 22 ottobre 1984, n. 5370, in Foro it. Rep., 1984, Pagina 55 di 68 voce Impiegato dello Stato e pubblico, n. 1057). Pertanto, a seconda della natura (soggettiva ed oggettiva) dell’illecito commesso dal medico, potranno aversi tre ipotesi: a) danni commessi dal medico con dolo o colpa grave, al di fuori della somministrazione di prestazioni sanitarie: di essi rispondono solidalmente ed a titolo extracontrattuale il medico e la p.a.; b) danni commessi dal medico con colpa lieve, al di fuori della somministrazione di prestazioni sanitarie: di essi risponde solo la p.a., a titolo extracontrattuale; c) danni commessi dal medico nell’esercizio di prestazioni sanitarie, quale che sia lo stato soggettivo (colpa lieve, grave o dolo): di essi rispondono solidalmente ed a titolo contrattuale il medico e la p.a. 14.1. Medici in posizione apicale (primari) e medici subordinati (aiuti). Nel caso di danni derivanti da colpa dell personale medico ospedaliero, si registra sovente incertezza in merito all’individuaizone del soggetto che deve concretamente rispondere del danno: se, cioè, responsabile sia il medico collocato nella posizione apicale (il “primario”), ovvero i medici a lui subordinati (“aiuti” ed “assistenti”). La materia, sino ad epoca relativamente recente, era disciplinata dall’art. 7 d.p.r. 27.3.1969 n. 128. In base a tale norma, gli ospedali erano amministrati da “enti ospedalieri”, dei quali la legge fissava struttura e funzioni. In particolare, l’organizzazione dell’ospedale era articolata in divisioni, ognuna delle quali diretta da un primario, coadiuvato da aiuti e da assistenti (art. 7 d.p.r. 128/69). Sulla base di tale norma, che assegna soltanto ai primari ed agli aiuti le scelte terapeutiche, la giurisprudenza ritiene che soltanti questi ultimi debbano rispondere nel caso di cure errate od omesse. La responsabilità dell’aiuto, in particolare, è stata affermata anche in un caso in cui l’omissione da parte di quesi era dovuta proprio ad un ordine Pagina 56 di 68 del primario, che lo aveva destinato ad altre mansioni. Osservò la S.C., in quel caso, che in una situazione di potenziale conflitto tra la disposizione data dal primario al suo aiuto e gli obblighi di assistenza di quest’ultimo verso il paziente, l’ordine del primario non può valere, di per sé, a liberare l’aiuto dai suddetti obblighi e, così, ad escluderne la colpa. Infatti, se pure l’aiuto è soggetto al potere organizzativo del primario, egli deve comunque curarsi di “rendere compatibili i due suoi diversi doveri, non solo rappresentando al primario, prima ancora del ricovero, la necessità in cui si sarebbe potuto venire a trovare, di prestare assistenza alla partoriente, ma anche esponendogli, dopo il ricovero, la necessità di non allontanarsi dal reparto per incombenze che gli impedissero di seguire l'evolversi del parto a lui affidato” (Cass., 13-03-1998, n. 2750 in Foro it., 1998, I, 3521). Meno rigorosa è la responsabilità dell’assistente: questi, secondo l’orientamento prevalente, non può essere considerato in colpa, quando ometta di eseguire un intervento, salvo che in tre casi: (a) quando vi sia l’urgenza di provvedere; (b) quando il primario e l’aiuto siano impossibilitati ad intervenire; (c) quando le istruzioni impartite dal primario o dall’aiuto siano manifestamente erronee. Con riferimento a quest’ultima ipotesi (ordine erroneo), non deve tuttavia credersi che la giurisprudenza applichi ai rapporti gerarchici esistenti tra il personale ospedaliero un principio analogo a quello dettato dall’art. 51 c.p., secondo cui chi ha eseguito l’ordine del superiore non risponde del danno causato a terzi per effetto dell’esecuzione, “quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell'ordine” (così Cass. 27.2.2004 n. 4013; Cass. 10.5.2001 n. 6502, in Dir e giust., 2001, fasc. 24, 36). Infatti, in tema di responsabilità dell’assistente, il giudice dilegittimità ha operato un distinguo tra ordine manifestamente erroneo, ed ordine Pagina 57 di 68 infelice nell’esito, ma pur sempre rientrante nella pratica clinica prevista per quella concreta patologia. Nel caso di ordine manifestamente erroneo, l’assistente (o comunque il sottoposto) deve astenersi dall’eseguirlo, ed è in colpa se lo esegue. Nel caso di ordine astrattamente non erroneo, ma inopportuno o dannoso per il caso concreto, l’assistente non può astenersi dall’eseguirlo, ma ha il solo obbligo, se vuole andare esente da responsabilità, di manifestare, anche oralmente, il proprio dissenso (Cass. 10.5.2001 n. 6502, in Dir e giust., 2001, fasc. 24, 36). Deve tuttavia ricordarsi che il d.p.r. 128/69 è stato abrogato dall’art. 4, comma 10, d. lgs. 30.12.1992 n. 502, il quale ha demandato alle regioni il compito di disciplinare struttura e funzioni delle Aziende sanitarie e delle aziende ospedaliere (queste ultime possono costituire, oggi, sia Aziende a sé stanti, sia presidi delle A.S.L.). La stessa norma ha disposto che il d.p.r. 128/69 perda efficacia a far data dall’approvazione, da parte delle Regioni, della suddetta disciplina, e comunque entro un triennio dall'entrata in vigore del decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517 (avvenuta il 30.12.1993). L’art. 3, commi 1 bis e 1 quater, d. lgs. 502/92, ha inoltre disposto che l’organizzazione ed il funzionamento delle Aziende ospedaliere sia disciplinato con “atto aziendale” di diritto privato, adottato dal direttore generale dell’azienda, nel rispetto dei principi e criteri previsti dalle disposizioni regionali (per un esempio di tali disposizioni si veda, ex multis, l’art. 26 l. reg. Lazio 16.6.1994 n. 18). Il mutato quadro normativo, con la scomparsa della tradizionale tripartizione tra primari, aiuti ed assistenti, non rende inattuali i princìpi affermati dalla Corte, e sopra riassunti. La Corte, infatti, per escludere la responsabilità degli assistenti, non ha fatto leva sic et simpliciter sull’art. 7 d.p.r. 128/69 (cioè su una norma oggi abrogata). La regula iuris posta a fondamento delle decisioni sopra richiamate è stata infatti la seguente: “il medico [quale che ne sia la qualifica funzionale, n.d.a.] non risponde del danno da omesso o tardivo Pagina 58 di 68 intervento, quando l’omissione è dipesa da scelte terapeutiche imposte dal superiore gerarchico, ed esisteva una norma che lo obbligava ad attenersi a tali scelte”. Principio, quest’ultimo, affatto svincolato dall’art. 7 d.p.r. 128/69, e suscettibile di trovare applicazione tutte le volte che esista una norma statale, regionale, od anche una norma dell’ “atto aziendale” di diritto privato che, ai sensi dell’art. 3, comma 1 bis d. lgs. 502/92, la quale disciplini gli interna corporis delle aziende ospedaliere, ed attribuisca ad una figura professionale sovraordinata il potere di decidere il da farsi, con effetti vincolanti per i medici sottoordinati. 14.2. La responsabilità della struttura sanitaria pubblica. La struttura sanitaria pubblica può essere chiamata a rispondere nei confronti del paziente sia per il fatto colposo commesso dal medico suo dipendente od incaricato, sia per il il fatto colposo proprio, che può consistere nella difettosa sepsi degli ambienti ospedalieri, nella o carente omessa predisposizione di macchinari, strutture e presidi terapeutici, nella omessa predisposizione di turni efficienti di personale, nella culpa in vigilando od in eligendo. Può accadere che una struttura ospedaliera, gestita da un ente pubblico, sia di proprietà di altro ente pubblico (ad es., una regione che dia in godimento un ospedale ad una facoltà universitaria). In questi casi del danno patito dal paziente deve rispondere l’ente che abbia la materiale gestione della struttura (Cass. 8.10.2008 n. 24791). Una ipotesi particolare di responsabilità della struttua sanitaria è quella derivante dai danni causati a se stessi da soggetti incapaci di intendere e di volere. Di tale questione la giurisprudenza è stata chiamata più volte ad occuparsi. La S.C., in un caso in cui un paziente ricoverato per disturbi mentali aveva tentato il suicidio, riportando lesioni personali, ha ritenuto che la U.S.L. dovesse rispondere di tali lesioni, a prescindere dal carattere volontario od obbligatorio del trattamento sanitario praticato in concreto, Pagina 59 di 68 non potendo quest'ultimo condizionare l'obbligo di sorveglianza da parte del medico e del personale sanitario (Cass., sez. I, 10-11-1997, n. 11038, in Arch. civ., 1998, 428, nonché in Enti pubblici, 1998, 567; nello stesso senso, per la giurisprudenza di merito, si veda Trib. Velletri, 19-03-1979, in Giur. it., 1981, I, 2, 567, il quale ha affermato che “viola l'obbligo contrattualmente assunto di vigilanza e di assistenza, oltre il principio del neminem laedere, la casa di cura per malattie nervose che non riesca ad impedire al malato schizofrenico di nuocere a se stesso, dovendosi ritenere ampiamente prevedibile il comportamento irrazionale del ricoverato”. Ed ancora, in un caso in cui un neonato era stato sottratto dal reparto maternità di un ospedale pubblico, la S.C. ha affermato recisamente che l'obbligazione dell'ente ospedaliero non si esaurisce nella mera prestazione delle cure mediche, ma include la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela che siano destinatarie dell'assistenza ospedaliera, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale della cura. Il dovere di curare l'assistito, pertanto, implica necessariamente l'adozione delle misure necessarie alla protezione della persona ed alla tutela dei suoi diritti primari (Cass., 04-08-1987, n. 6707, in Foro it. Rep., 1987, voce Responsabilità civile, n. 88; sostanzialmente nello stesso senso è altresì copiosa la giurisprudenza di merito: si vedano, al riguardo, Trib. Roma 26.1.2004, Tocco c. Regione Lazio, inedita (anch’essa concernente il caso del suicido di un malato di mente); Trib. Venezia, 23-10-1995, in Foro It., 1996, I, 1844; Trib. Perugia, 26-061991, in Arch. Civ., 1992, 453; Trib. Trieste, 23-11-1990 in Nuova Giur. Civ., 1993, I, 986; Trib. Milano, 13-07-1989, in Giur. It., 1991, I, 2, 54). E’ stata, invece, esclusa la responsabilità della ASL per la morte di una persona, uccisa da un soggetto affetto da vizio totale di mente all'interno di un bar, non potendosi configurare nei riguardi della ASL stessa uno stretto obbligo di sorveglianza a carico dell'omicida che, se pur risultato malato di mente, non si trovava comunque sottoposto a trattamento Pagina 60 di 68 sanitario obbligatorio (TSO), e comunque fino a pochi giorni prima del delitto non aveva dato segni di squilibrio e premonitori di una possibile manifestazione di follia (Cass. 20.6.2008 n. 16803). 14.3. La responsabilità delle disciolte USL. Il d. lgs. 30.12.1992 n. 502 (“Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”), successivamente modificato dal d. lgs. 7.12.1993 n. 517, ha disposto (art. 3 co. 1) che “l'unità sanitaria locale è azienda dotata di personalità giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, fermo restando il dirittodovere degli organi rappresentativi di esprimere il bisogno socio-sanitario delle comunità locali”, stabilendo altresì (art. 3, comma 5) che “le regioni disciplinano, entro il 31 marzo 1994, nell'ambito della propria competenza le modalità organizzative e di funzionamento delle unità sanitarie locali prevedendo tra l'altro: a) la riduzione, sentite le province interessate, delle unità sanitarie locali, prevedendo per ciascuna un ambito territoriale coincidente di norma con quello della provincia. In relazione a condizioni territoriali particolari, in specie delle aree montane, ed alla densità e distribuzione della popolazione, la regione prevede ambiti territoriali di estensione diversa; b) l'articolazione delle unità sanitarie locali in distretti; c) i criteri per la definizione dei rapporti attivi e passivi facenti capo alle preesistenti unità sanitarie locali e unità socio-sanitarie locali”. Nell'interpretazione di queste norme il giudice di legittimità, dopo vari contrasti iniziali, in subiecta materia ha fissato i seguenti princìpi: (A) per quanto attiene la legittimazione passiva sostanziale, dei debiti contratti dalle vecchie u.s.l. non possono rispondere le nuove ASL, ma debbono rispondere le Regioni (Cass., sez. un., 30.11.2000 n. 1237, in Giust. civ., 2001, I, 651; Cass., sez. un., 26-02-1999, n. 102, in Foro it. Rep. 1999, voce Sanità pubblica, n. 320; Cass., sez. lav., 06-06-1998, n. Pagina 61 di 68 5602, in Foro it. Rep. 1998, voce Sanità pubblica, n. 49; Cass., sez. un., 06-03-1997, n. 1989, in Corriere giur., 1997, 1176; Cass., sez. lav., 0911-1996, n. 9804, in Enti pubblici, 1997, 810; cfr. altresì, nello stesso senso, Trib. Roma 27.3.2000, in Giurispr. romana, 2000, 370; Trib. Roma 29.1.1999, in Giurispr. romana, 1999, 167; Trib. Latina 26.1.1999, in Giurispr. romana, 1999, 325; Trib. Roma 11.6.1997, in Giurispr. romana, 1997, 312). (B) Per quanto attiene la legittimazione passiva processuale, la giurisprudenza di legittimità è ormai orientata a ritenere che anche questa, così come la legittimazione sostanziale, spetti alle Regioni (Cass. 18.2.2000 n. 1829, in Foro it. Rep. 2000, Sanità pubblica, n. 307; Cass. 5.10.1999 n. 11070, inedita; Cass. 1.10.1999 n. 10874, inedita; Cass. 27.9.1999 n. 10647, inedita; Cass. 24.9.1999 n. 10550, inedita; Cass. 22.9.1999 n. 10317, inedita). Tuttavia, se il processo è instaurato nei confronti di una U.S.L. prima della sua soppressione, e prosegue tra le parti originarie (salva l'ipotesi di intervento o chiamata in causadella Regione nella sua veste di successore a titolo particolare), è ammissibile l'appello proposto dal commissario liquidatore (Cass. 23.9.2004 n. 19133). 14.4. L’azione di rivalsa della p.a. datrice di lavoro. Come si è già detto, l’art. 22, comma 2, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, stabilisce che “l’amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente si rivale agendo contro quest’ultimo (…)”. In virtù della sua formulazione omnicomprensiva, tale norma veniva tradizionalmente intesa nel senso che la p.a. potesse agire in rivalsa nei confronti del proprio dipendente quando questi avesse cagionato a terzi un danno del quale la stessa p.a. aveva dovuto rispondere, in ogni caso, anche se l’impiegato aveva agito soltanto con colpa lieve, con la sola eccezione dei danni causati dai conducenti di veicoli (22). Pagina 62 di 68 Il quadro normativo, tuttavia, è di recente mutato. L’art. 1 l. 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dall’art. 3 d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, ha infatti stabilito che “la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave (…)”. La norma più recente ha dunque implicitamente ridotto l’ambito di operatività dell’art. 22 d.P.R. 3/57, impedendo alla p.a. di agire in rivalsa nei confronti del medico quando il danno sia stato da questi arrecato con colpa lieve. La rivalsa della p.a., nell’ipotesi prevista dall’art. 22, comma 2, d.P.R. 3/57, è demandata alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti. Tale giurisdizione esclusiva risulta da un reticolo di norme diverse, e segnatamente: (a) dell’art. 103, Cost.; (b) dall’art. 83 r.d. 18 novembre 1923, n. 2440 (recante “Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”); (c) dall’art. 52, t.u. 12 luglio 1934, n. 1214 (recante “Approvazione del testo unico delle leggi sulla Corte dei conti”). Questo blocco normativo, nell’interpretazione datane dalla S.C., va inteso nel senso che la giurisdizione esclusiva della Corte dei conti debba ritenersi sussistente non solo per i fatti dannosi conseguenti al maneggio di denaro, ma si estende ad ogni ipotesi di responsabilità per pregiudizi economici arrecati allo stato o ad enti pubblici da persone legate da vincoli di impiego o di servizio ed in conseguenza di violazione degli obblighi inerenti a detti rapporti (Cass. 15 luglio 1988, n. 4634, in Cons. Stato, 1988, II, 2140). Più in particolare, per quanto qui rileva, la Corte di cassazione ha sovente affermato che quando un ente ospedaliero sia condannato, in solido con il medico proprio dipendente, al risarcimento del danno da quest’ultimo cagionato ad un paziente per colpa nell’esercizio delle proprie attribuzioni, la domanda di rivalsa formulata dall’ente ospedaliero nei confronti del medico è devoluta alla giurisdizione esclusiva della Corte dei conti, perché in simili casi il danno subìto dalla Pagina 63 di 68 p.a. trova la propria genesi nel rapporto di impiego o di servizio (Cass. 15 luglio 1988, n. 4634, in Cons. Stato, 1988, II, 2140; Cass. 18 luglio 1979, n. 4244, in Foro it., 1980, I, 753). Per completezza sul punto, è opportuno segnalare che il medico può arrecare danno alla p.a. non soltanto causando lesioni al proprio paziente, ma anche commettendo un illecito nello svolgimento della propria attività amministrativa in senso ampio (certificazione, individuazione dei pazienti, esatta enumerazione delle prestazioni effettuate, ecc.). In questi casi, occorre due distinguere due ipotesi: (a) se il danno è stato arrecato da un medico di base in regime di convenzionamento (il quale abbia prescritto specialità medicinali per finalità non terapeutiche o, comunque, al di fuori delle indicazioni autorizzate), la giurisdizione in merito all’azione di rivalsa della p.a. spetta alla Corte dei conti, in quanto tra il medico di base e la p.a. si costituisce convenzionalmente un rapporto di servizio con riguardo alle attività che si inseriscono nell’organizzazione strutturale, operativa e procedimentale dell’ASL (25); (b) se, invece, il danno è stato arrecato alla p.a. da un medico specialista, in regime di convenzionamento esterno (una fattispecie – purtroppo – ricorrente al riguardo è quella della percezione di compensi per prestazioni in realtà mai eseguite, e falsamente documentate), si registra un aperto contrasto in seno alla stessa Corte di cassazione, circa l’individuazione del giudice competente a conoscere della domanda di rivalsa. Infatti secondo S.C. (Cass. 18 dicembre 1985, n. 6442, in Foro it., 1986, I, 2831), la giurisdizione spetta alla Corte dei conti, in quanto l’attività di documentazione delle attività erogate in regime di convenzionamento esterno rientra nell’ambito di un rapporto di servizio con l’ASL. Al contrario, in fattispecie del tutto analoga, Cass. 5 dicembre 1989, n. 5381, in Cons. Stato, 1990, II, 469, ha ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice ordinario, considerando che i medici specialisti in regime di convenzionamento esterno operano quali liberi professionisti, e Pagina 64 di 68 non sono legati con l’amministrazione da alcun rapporto di impiego o di servizio. Si può quindi concludere che – quale che dovesse essere l’esito del rilevato contrasto – la Corte di cassazione fonda la giurisdizione della Corte dei conti sull’esistenza del rapporto di impiego o di servizio: se il danno alla p.a. è arrecato dal medico nell’ambito del suddetto rapporto, l’azione di rivalsa sarà devoluta alla Corte dei conti; se il danno è stato arrecato al di fuori d’un rapporto di impiego o di servizio, l’azione di rivalsa spetta alla giurisdizione del giudice civile ordinario. Deve comunque segnalarsi che, da alcuni spunti contenuti in varie decisioni delle magistrature superiori, sembrerebbe potersi desumere che l’azione contabile ex art. 22, comma 2, d.P.R. 3./57 non sia esclusiva, ma sia alternativa rispetto all’ordinaria azione di surrogazione dinanzi al giudice civile, ex art. 1203 cod. civ. La Corte di cassazione, ad esempio, ha affermato che “giurisdizione (…) civile per risarcimento dei danni – da un lato – e giurisdizione contabile – dall’altro – sono reciprocamente indipendenti nei profili istituzionali, anche quando investano un medesimo fatto materiale, dalle colorazioni e rilevanze giuridiche diverse. L’interferenza può avvenire fra i giudizi, specie in relazione alla preminenza di quello penale (art. 3 cod. proc. pen., art. 295 cod. proc. civ., art. 26 r.d. 13 agosto 1933, n. 1038), giammai fra le giurisdizioni” (Cass. [ord.], 21 maggio 1991, n. 369, in Cons. Stato, 1991, II, 1695; Cass. 3 febbraio 1989, n. 664, in Riv. corte conti, 1989, fasc. 3, 161). L’affermazione secondo cui può sussistere “interferenza tra i giudizi, non tra le giurisdizioni”, dimostra, a parere di chi scrive, come nel pensiero della S.C. la pubblica amministrazione che abbia risarcito il danno subìto dal terzo, per colpa del medico pubblico dipendente, abbia dinanzi a sé due strade per agire in rivalsa: o la denuncia al procuratore regionale della Corte dei conti (ex art. 45 r.d. 12 luglio 1934, n. 1214), ovvero l’ordinaria azione civile. Questa conclusione sembra corroborata da alcune decisioni dello stesso giudice contabile: in Pagina 65 di 68 un caso in cui la p.a. si era costituita parte civile nel giudizio penale promosso contro l’impiegato infedele, ed in quella sede era stata pronunciata condanna dell’imputato al risarcimento del danno civile in favore della p.a., la Corte dei conti ha affermato che la condanna in sede penale al risarcimento del danno civile non precludeva l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa nei confronti dell’imputato, ma soltanto a condizione che, dopo l’affermazione della responsabilità dell’imputato, non fosse iniziato, in sede civile, il giudizio liquidatorio del danno (Corte conti, Sez. riun. 17 febbraio 1992, n. 752/A, in La settimana giuridica, 1992, IV, 169). Analogamente, in tema di misure cautelari, il giudice contabile ha ritenuto che il sequestro conservativo previsto dall’art. 48 t.u. 13 agosto 1933, n. 1038 (e che potrebbe definirsi una sorta di azione cautelare contabile) poteva essere chiesto ed ottenuto, dal procuratore presso la Corte dei conti, a condizione che non fosse stato eseguito un precedente sequestro conservativo dei beni del responsabile (Corte conti, Sez. riun., 2 giugno 1990, n. 670, inedita). Queste decisioni appaiono fondate sul principio del “doppio binario”, in virtù del quale alla p.a. sarebbe consentito, per recuperare gli esborsi compiuti in favore di terzi a causa di danni arrecati dai propri dipendenti, sia avvalersi degli ordinari strumenti del diritto e del processo civile, sia avvalersi del giudizio contabile (per uno spunto si veda C. conti, Sez. II, 17 luglio 1982, n. 106, in Riv. corte conti, 1982, 960, ove si legge che “l’azione di responsabilità amministrativa è completamente distinta ed autonoma rispetto all’azione civile di responsabilità contrattuale, avendo per oggetto la violazione di un obbligo di servizio che abbia determinato un danno, valutabile non in termini di mera patrimonialità, ma in relazione al principio di buona amministrazione, e comportando una sanzione patrimoniale ragguagliata non al danno arrecato all’erario, ma proporzionata alla colpa dell’agente”). Questo assunto, di recente, è stato corroborato dall’autorità del Consiglio di Stato, il quale in sede consultiva ha ritenuto che nel sistema Pagina 66 di 68 processuale binario, attivabile in caso di danno erariale, l’azione di responsabilità amministrativa non ha carattere esclusivo e l’amministrazione conserva la titolarità dell’azione civile risarcitoria e restitutoria con correlato onere di compiere anche gli atti conservativi del diritto, fermo restando l’obbligo dell’immediata denunzia dell’evento di danno erariale al procuratore regionale della Corte dei conti (C. Stato, commiss. spec., 20 gennaio 1997, n. 1420, in Cons. Stato, 1997, I, 1321). Per completezza, è opportuno infine ricordare che rientra nella giurisdizione del TAR, e non in quella della Corte dei conti, il ricorso proposto dal sanitario contro la deliberazione con la quale l’ente ospedaliero di appartenenza ha disposto il recupero, a titolo di rivalsa, delle somme corrisposte a terzi per il risarcimento di danni causati dalla sua imperizia, in seguito ad un giudizio civile al quale il sanitario sia rimasto estraneo (TAR Basilicata, 30 ottobre 1981, n. 262, in Foro it., 1983, III, 124). In conclusione della presente scheda, e per comodità del lettore, è possibile riassumere nel seguente quadro sinottico le principali differenze tra le regole della responsabilità medica e le regole della responsabilità civile in generale: Prova della colpa Prova del nesso causale Responsabilità civile (generale) incombe sull’attore incombe sull’attore, secondo le regole della “causalità umana”, ex artt. 40 e 41 c.p. Pagina 67 di 68 Responsabilità medica la colpa del medico si presume, quando l’intervento non è complesso il nesso causale tra condotta del medico e danno si presume, quando l’incertezza sull’esistenza del nesso causale sia dovuta all’imperfetta tenuta della cartella clinica, ed il sanitario abbia comunque tenuto una condotta astrattamente idonea a causare il danno Accertamento della colpa E’ necessario dimostrare Basta a radicare un giudizio che la condotta negligente, di colpa l’omissione di imperita o imprudente sia informazione al paziente, a stata causa del danno nulla rilevando che l’intervento sia stato eseguito diligentemente Contenuto del neminem Astenersi dal violare l’altrui Attivarsi per diagnosticare e laedere sfera giuridica curare anche i mali diversi da quelli per cui ha avuto inizio la terapia, secondo le regole della responsabilità contrattuale Pagina 68 di 68