Della vocazione del/la maestro/a
Spunti di riflessione
Il termine vocazione deriva dal latino vocare, la cui radice è vox, voce; tale termine, in
italiano non ha più, perché caduto in disuso, il verbo vocare, che ben rendeva il senso di un
essere vocati, di una voce che chiama. Vocazione, dunque,
indica l’essere chiamati a
qualcosa, un sentirsi chiamati che risuona dall’interno e che fa tutt’uno con l’essere più
proprio ed autentico, perché nasce dalle profondità più intime. Per tale motivo essa implica
un dover dare
necessariamente ascolto, un seguire la direzione verso cui, quasi
necessariamente, si è spinti. E tale spinta che fa muovere ed andare in una direzione anziché
in un’altra può essere lieve o violenta, ma comunque stiano le cose accade sempre che
bisogna realizzare quanto viene richiesto. Marìa Zambrano a tal proposito scrive:
«La voce da cui deriva vocazione chiede di essere udita in maniera tenue o imperativa,
dolce o dominante, ma chiede comunque la stessa cosa:obbedire, non tutto in un momento, ma
in un costante e crescente continuare a fare quello che la chiamata chiede, dichiarandolo, e
altre volte semplicemente insinuandolo, ma sempre esigendolo»1.
M. Zambrano ritiene che:«Il processo di vocazione, per compiersi, presenta due aspetti
che sembrano contrari: l’addentrarsi del soggetto, il penetrare più in profondità in ciò che
tradizionalmente si chiama l’interiorità dell’anima, e il movimento che potrebbe essere
contrario e che invece è complementare, il manifestarsi tanto interamente quanto possibile; un
aspetto che può apparire negativo di fronte al prossimo e di fronte al mondo esteriore; un
momento susseguente di manifestazione espansiva, generosa, come quella di un palombaro
che discende nei fondi marini per riapparire in seguito con le braccia colme di qualcosa
strappato chissà con quale fatica e che dà senza neppure rendersi conto di quel che gli è
costato e che lo sta regalando a quelli che neppure
speravano tanto perché non lo
conoscevano»2.
La figura del/la maestro/a è complessa, ma non deve essere ritenuta ambigua, perché se
da un lato egli/ella ha la necessità di un’analisi introspettiva, dall’altro ha anche il bisogno di
relazionarsi agli altri e può farlo solo dopo aver portato «al mondo cose nuove, parole mai
dette prima, pensieri mai pensati, chiarezze nascoste, scoperte di leggi insospettate e persino
di sentimenti che giacevano nel cuore di ciascuno senza respiro né diritto di esistere3».
M. Zambrano, Per l’amore e per la libertà. Scritti sulla filosofia e sull’educazione, Marietti, Genova-Milano 2008, p.
106.
2
Ivi, pp.106-107
3
Ibidem.
1
Il /la maestro/a sente in sé la vocazione della mediazione; egli/ella è un ponte tra il
sapere e l’ignoranza, tra il passato ed il futuro, tra la confusione e l’ordine, è colui/colei che
quando lo /la si incontra consente di far luce, di far ordine, mediante la ricchezza che ha
scoperto in sé e che non può sottrarsi di elargire in abbondanza e senza risparmiarsi mai.
Per citare ancora la Zambrano: «Il filosofo, il saggio, l’artista sono mediatori di una
specie confinante con quella del maestro perché trasmettono qualcosa, verità, scienza,
bellezza; ma non in una forma personale, diretta, ma attraverso l’opera, un’opera che ha una
speciale forma di esistenza, quella che corrisponde a ciò che Husserl ha chiamato oggetti
ideali, dove oggetto deve intendersi come qualcosa dotato di autonomia (…) e ideale come
non trovato nella realtà che ci si dà. (…)Ma la mediazione esercitata dal maestro ha un’ultima
specificità che si riferisce all’essere, all’essere del vivente (…) il maestro
è mediatore
rispetto all’essere mentre cresce, e crescere per l’uomo non è solo aumentare, ma anche
integrarsi. (…) Il maestro è mediatore (…) tra il sapere e l’ignoranza, tra la luce e la ragione e
la confusione in cui ogni uomo è solito stare. Ma lo è in funzione del fatto che la creatura
umana ha bisogno di questi saperi multipli per integrarsi, per crescere in senso propriamente
umano, per essere; in ragione di ciò è necessario che la luce della ragione si accenda nella
coscienza e nell’animo e che, una volta accesa, si condensi, che germini (…)4».
Il/la maestro/a allora non è il semplice depositario di un sapere, ma è anche colui che è
in grado di renderlo vivo, di trasformarlo in cibo per la crescita personale dei propri allievi.
Per fare ciò, tuttavia, è necessario che egli/ella l’abbia già trasformato da oggetto ideale in
nutrimento per la crescita personale ed individuale. Solo in questo modo può divenire
maestro/a e rispecchiare la sua natura più autentica, quel di più5 che è insito nella sua
etimologia e che lo porta a possedere e ad essere qualcosa in più rispetto agli altri. Questo di
più, però, non va tenuto per sé, perché se è vero da un lato che è il frutto di un cammino
personale, è pur vero che è un dono che ha ricevuto gratuitamente, per cui va elargito, offerto
agli altri senza richiedere nulla in cambio. Egli/ella ha il dono di aprire
altre possibilità di
vita, di mostrare altre modalità di stare al mondo, può mostrare la realtà della vita vera. E
colui/colei che non lo facesse si muterebbe «in una controfigura del suo essere se non ottiene
di trasmettere in qualche modo il suo insegnamento a coloro che
gli sono affidati,
inizialmente a tutti»6.
4
Ivi,pp.113-114.
Il termine magister deriva da magis che in latino è un avverbio al grado comparativo, per cui indica il possesso di un
di più rispetto a qualcosa o a qualcuno.
6
Ivi, p. 111.
5
Il /la maestro/a ha una caratteristica unica in quanto consente a quanti gli/le si affidano
di trovare la propria strada; è quel sostegno che permetterà all’allievo/a di capire la via che
deve seguire per realizzare se stesso ed è per questo che M. Zambrano ritiene che essa sia «
tra tutte la vocazione più indispensabile, la più prossima a quella dell’autore di una vita,
perché la conduce alla piena realizzazione7».
La vocazione, tuttavia, non sarebbe tale se non fosse supportata dalla passione, quella
dedizione profonda per ciò che si fa e per ciò che si è, passione che comporta sofferenza, che è
connessa all’incomprensione, al fallimento, alla sfiducia perché:
«Quando si sente il prossimo come persona, si spera sempre in lui e, di conseguenza,
uno dei dolori più grandi che ci procura la vita è assistere allo sprofondamento o alla
falsificazione di quella promessa. (…) potremmo dire che questo è uno dei patimenti che
visitano in particolar modo chi ha la vocazione di maestro8». Ma è la passione che consente
al/la maestro/a di andare oltre lo sprofondamento e la falsificazione della promessa. Il rischio
dello scacco, del fallimento, del tradimento è continuo, ma è la passione fiamma unica che
tiene costantemente acceso l’interesse, il piacere di continuare ad essere di sostegno e di aiuto
per quanti ci vengono affidati o ci scelgono come maestri/e; la passione, seppure con la
sofferenza, che è implicita nella sua etimologia,
sostiene quando l’operare, la relazione, il
dialogo vengono meno e non portano quei frutti che si pensava di poter raccogliere, quando le
possibilità che si erano aperte non vengono praticate o scartate a priori perché ritenute
inadeguate. Ciò permette ai/alle maestri/e di continuare per la loro strada, consente loro di non
rinunciare alla chiamata, alla propria vocazione, che equivarrebbe ad un rinunciare a se stessi.
Sulla relazione
La relazione che lega maestro/a discepolo/a è un elemento assai complesso ed articolato
e che va chiarito in quanto è proprio nella corretta relazione che si gioca la formazione di una
persona.
Un/a maestro/a non è tale se non all’interno di una relazione con degli/lle allievi/e e
questi ultimi non sono tali se non ne richiedono la presenza, che per loro è fondamentale in
quanto solo il/la maestro/a è in grado di farli uscire dal labirinto dell’ignoranza. Scrive a tal
proposito la Zambrano che il non «avere maestro è come non avere a chi domandare e, ancora
più profondamente, non avere colui davanti al quale domandare a se stessi, il che
7
8
Ivi, p. 114.
Ivi,p. 100.
(significherebbe) restare chiusi all’interno del labirinto primario che in origine è la mente di
ogni uomo; restare rinchiuso come il Minotauro, traboccante d’impeto senza via d’uscita. La
presenza del maestro che non ha abdicato – né si è dimesso – indica il punto, l’unico verso il
quale si indirizza l’attenzione. L’alunno si irrigidisce. Ed è in questo secondo momento che il
maestro, con la sua tranquillità, ha da dare quel che gli sembra possibile, ha da trasmettere,
prima ancora di un sapere, un tempo, uno spazio di tempo, un cammino di tempo9».
La relazione mette in comunicazione due universi ed inizia quando c’è una domanda,
quando l’allievo/a ha la necessità di dare una risposta, di colmare delle lacune, di superare
un’ignoranza. La domanda la si pone a colui/ colei che riconosco quale maestro/a perché in
lui/lei ritrovo le mie stesse domande, con la differenza che il maestro/a ha trovato delle
risposte. Nelle parole del/la maestro/a si rivela, dunque,
un bisogno, ma si intravedono
anche delle possibili vie d’uscita. Ed è allora che ci si affida, che si è trovato il/la maestra. A
questo punto si apre: «Un tempo vibrante e calmo; un risveglio senza soprassalti Ed è senza
dubbio il maestro che lo fa sorgere facendo sentire all’alunno che ha tutto il tempo per
scoprire e per andare scoprendosi, liberandolo dalla densità dell’ignoranza dove la domanda si
nasconde, liberandolo da quel timore iniziale che incatena l’attenzione (…)L’azione del
maestro
può essere chiamata, più esattamente, una conversione: si muta in attenzione
l’iniziale resistenza che irrompe nelle aule. La domanda comincia a dispiegarsi. (…)
Ignoranza e sapere circolano e si risvegliano nello stesso modo nel maestro e nell’alunno il
quale, solo allora, comincia a essere discepolo. Nasce il dialogo 10». E’ a questo punto che la
relazione si dà, nasce un legame che il/la maestra deve essere in grado di gestire in maniera
equilibrata, perché tale relazione è complessa e difficile in quanto entrano in gioco una
molteplicità di piani: quello affettivo, intellettivo, corporeo etc..di cui bisogna tener conto per
riuscire a realizzare una corretta relazione che sia in grado di far crescere l’allievo/a e gli/le
consenta di fargli/le intravedere quelle vie possibili per la propria realizzazione.
Sulla responsabilità dei maestri
L’essere umano presenta la peculiarità di essere strutturalmente aperto verso se stesso e
verso il mondo e la persona consapevole si sa e si comprende con questa doppia possibilità.
E’ cosciente di ciò che accade in se stesso o di ciò che si verifica all’esterno e ciò è possibile
9
Ivi, p. 118.
Ivi, p.119
10
in quanto possiede una coscienza intenzionale, che si dirige sempre verso qualcosa che può
appartenere al mondo esterno o a quello interno.
Questa doppia apertura, tuttavia, pone l’essere umano di fronte a dei quesiti a cui deve
dare delle risposte. Infatti, quando l’essere umano si comprende e si sa in quanto tale, si
scopre nel contempo quale essere chiamato alla responsabilità. Essere responsabili vuol dire
rispondere a qualcosa e l’essere umano per la sua strutturale apertura a se stesso ed al mondo
non può sottrarsi dal dare risposte, non può non sentirsi responsabile nei confronti di se stesso
e del mondo.
Agire in modo responsabile vuol dire muoversi tenendo presente una preciso quadro
assiologico, che si staglia sullo sfondo e che sostiene l’agire stesso, e delle motivazioni che
inducono ad un’azione. Pertanto in un agire responsabile, l’autore deve sempre avere di mira
gli esiti reali o possibili della sua azione, perciò il suo agire deve essere sempre
pre-
veggente. E per un /a maestro/a l’agire preveggente è quanto di più di più auspicabile, in
quanto egli/ella comprende immediatamente le conseguenze possibili che possono causare i
suoi comportamenti, le sue parole e perciò, nei limiti del possibile,
i suoi scritti. La
contingenza, l’imprevisto contraddistingue l’esistenza umana, ma il maestro/a deve cercare di
ridurre al minimo effetti indesiderati causati dalle sue parole e dalle sue azioni.
Un/a maestro/a sa di essere in primo luogo vocato alla responsabilità e proprio per il
ruolo fondamentale che egli/ella ricopre non può assolutamente prescindere dalla questione
assiologia. Sarebbe un non senso. Cosa significherebbe essere maestri senza supportare tale
essere da valori? Sarebbe come un procedere senza conoscerne la direzione. Sarebbe come
sentirsi chiamati a qualcosa di cui non si conosce il fine, il senso. Perciò il/la maestro/a sa
che nella relazione con l’allievo/a l’orizzonte valoriale non deve mai venir meno, perché per
lui/lei sarebbe un grave errore, significherebbe far venir meno quella fiducia che è alla base
della relazione stessa.
Un/a maestro/a è in grado non solo di individuare i valori su cui far muovere il proprio
insegnamento, sa trasmetterli ma soprattutto li vive perché gli/le è chiaro che una migliore
comprensione del valore si verifica unicamente se l’allievo lo vede incarnato in lui/lei. Su tale
questione siamo supportate da Edith Stein la quale ritiene che si debba far comprendere
concretamente, intuire un valore o un disvalore, come ad esempio l’invidia, e «la via più
semplice per far sì che questo accada è data dai casi concreti in cui vengono posti dinanzi ai
loro occhi persone invidiose e persone libere dall’invidia. Quando un insegnamento di tal
genere viene appreso in maniera viva, conduce al giudizio sul comportamento proprio e degli
altri»11. Di ciò un maestro/a deve tener conto perché se il suo comportamento non è conforme
al contenuto del suo insegnamento egli/ella non sarà credibile, perché gli allievi giungeranno
alla conclusione che egli non crede in quanto dice oppure non intende seguire ciò che fa
passare per gli altri come un’obbligazione.
Se, invece, il comportamento è conforme a
quanto va sostenendo, allora gli allievi comprenderanno che all’interno dell’esperienza
individuale, sociale o comunitaria c’è sempre un di più di senso, riusciranno a sperimentare
concretamente la forza del valore, perché è attraverso tali esperienze di valore, passa
l’autentica realizzazione personale, la libertà di ogni essere umano. Inoltre, nel momento in
cui c’è coincidenza tra il dire e l’agire, il /la maestro/a mostra concretamente che vivere i
valori, realizzarli all’interno della propria vita non significa sacrificarsi all’ideale con il
rischio della perdita della concretezza dell’esistenza, ma vuol dire trovare un senso, riuscire
a realizzarsi, ad esprimersi completamente per quel che si è. Solo attraverso l’esperienza
valoriale vissuta dai/lle propri/e maestri/e gli/le allievi/e sono in grado di comprendere che i
valori devono andare a costituire la struttura portante della propria esistenza perché quelli che
si ritengono essere ideali si realizzano sempre ed unicamente nelle piccole cose di cui è
intessuta l’esistenza di ogni singola persona.
La scelta dei valori e la loro testimonianza è uno dei fulcri della relazione. La
responsabilità, certamente, comporta delle scelte precise e vincolanti, che precludono parte
della libertà di ogni persona; infatti, più che condannati alla libertà, alla possibilità ed alle
scelte si è condannati alla responsabilità. La libertà consiste nello scegliere tra le molteplici
possibilità che l’esistenza ci offre, ma nel momento in cui abbiamo scelto entra
immediatamente in campo, e prepotentemente, anche la responsabilità.
La questione che nasce a questo punto è quella di capire se dalla responsabilità
dell’essere maestri/e è possibile recedere o meno. Ovviamente per poter dare risposta a tale
questione bisogna ritornare nuovamente al concetto di vocazione.
E come scrive la Zambrano:«L’essenza delle vocazione e la sua manifestazione sono
ugualmente ineludibili. Ma dal momento che gli esseri umani sono prima di tutto liberi,
possono sempre eluderla. Non vi
è se non una contraddizione apparente in queste due
asserzioni, perché eludere l’ineludibile fa accadere qualcosa:la persona finisce per restare
progressivamente “desostanziata” (…). Ha sbagliato nella sua vita, in ciò che la vita le ha dato
di più di suo, e lei lo sa. Tutto ciò che farà un giorno sarà dettato dall’affanno di giustificarsi
dal punto di vista morale e dalla necessità di trovare una compensazione dal punto di vista
vitale. Un affannoso sforzo più faticoso in verità di tutti i lavori che avrebbe trovato seguendo
11
E. Stein, La struttura della persona umana, Città Nuova Editrice, Roma 2000, p. 221.
la sua vocazione. Sisifo che trasporta la sua roccia, senza riposo, potrebbe essere il simbolo di
questa fatica distruttrice12». La vocazione, per seguire ancora il pensiero della Zambrano,
rivela « (…) in maniera privilegiata l’essenza trasparente dell’uomo e la sua realizzazione
concreta. In essa appaiono uniti i piani e le istanze dell’essere e della realtà (…). Li unisce
realizzandoli. (…) La vocazione (…) fa sì che la vita si sostanzi e si realizzi insieme, unendo
vita, essere e realtà»13. Se allora la vocazione fa realizzare noi stessi , comporta una serie di
responsabilità da cui non si può fuggire. Si sceglie se stessi e la propria vocazione e con essa
anche le responsabilità che questa comporta, dunque nel momento in cui si è scelti l’essere
maestri e allora ci si deve assumere anche tutte le responsabilità del ruolo ed è quasi difficile
rinunciarvi, perché farlo vuol dire tradire se stessi.
Ma in che cosa consistono le
responsabilità di essere maestri/e? In primo luogo essere maestri/e
responsabili nei confronti dei/delle discepoli/e
vuol dire sentirsi
che si affidano con fiducia, vuol dire
prendersene cura, sostenerli nel cammino dei formazione, sia umana che professionale, vuol
dire mostrare concretamente le modalità per giungere a se stessi, per trovare la propria
dimensione.
Nel momento in cui c’è il legame maestro/a allievo/a inevitabilmente non si può non
rispondere alle loro necessità. E’ interessante quanto afferma in merito Agnes Heller:«Siamo
responsabili per tutti gli uomini e tutte le donne che vantano un diritto su di noi, che guardano
a noi, che ci interpellano, in breve tutti coloro con i quali entriamo, o potremmo entrare in una
relazione morale rilevante. Inoltre è lasciato al giudizio della singola persona l’operare la
distinzione fra relazione e situazione moralmente rilevanti o meno»14. Questo è un punto
estremamente complesso da districare, perché un /a maestro/a è libero scegliere tra una
relazione o un’altra, ma egli/ella sa anche che l’essere stati a lungo o per un periodo maestri/e
di discepoli/e vuol dire non potersi sottrarre dalle loro domande, dal loro interpellare; il rifiuto
da parte del/la maestro/a di un proprio allievo/a diviene cosa molto grave perché vuol dire che
lo sguardo del/la maestro/a non è stato sufficientemente preveggente, ed è venuto meno ad
uno di quei prerequisiti fondamentali che sono alla base dell’esser maestri/e e che proprio per
tale motivo è stato teorizzato dalla filosofia sin dai suoi esordi nella figura di Socrate a cui
Platone fa dire nel Teeteto :«(…) la cosa più importante inerente alla mia tecnica è la
capacità di saggiare in ogni modo se il pensiero del giovane partorisce un’immagine e una
falsità oppure qualcosa di vitale e di vero»15.
M. Zambrano, Per l’amore e per la libertà, cit., p. 109.
Ibidem.
14
A. Heller, La bellezza della persona buona, a cura di B. Biagiotti, Diabasis, Reggio Emilia 2009,p. 100.
15
Platone, Teeteto, 150 c.
12
13
Il/la maestro/a che decide di essere tale per un allievo/a deve saper accettare la diversità
umana e di pensiero del/la discepolo/a perché la sua funzione é quella di far partorire
all’altro/a, attraverso il sapere e la testimonianza della sua vita, il se stesso cui ognuno è
chiamato, ciò vuol dire fargli/le trovare la propria via, il proprio percorso intellettuale che può
anche divergere dal suo. Ma di questo il/la maestro/a autentico non ha paura anche perché sa
che la sua impronta, anche nella diversità del pensiero, non sparirà mai, sarà sempre una
presenza forte, con cui dover fare i conti.
Guardini:
«L’educatore aiuta colui che sta crescendo a discernere nel proprio essere il
bene dal male, ciò che promuove da quanto procura danno; e lo aiuta a vedere dove
stanno le sue intime contraddizioni, e a trovare una via su cui avanzare»16.
L’intesa con il giovane è possibile solo se gli si lascia
«la possibilità di pensare, giudicare, agire con la propria testa – e poi di fare il
contrario di quanto è giusto oppure io desidererei. E se sono un davvero educatore,
devo perfino aiutarlo a far così –perché esattamente questo significa educare, anche
se richiede molto tempo e spesso è pesante (...)»17.
16
17
R. GUARDINI, Etica, cit., p. 893.
Ivi, p. 898.