ADESSO Capitolo quarto
Adesso
1. Ultimi fenomeni classificati
Ci sono dei creatori che operano quella che si può
chiamare scrittura scenica o drammaturgia della drammaturgia, e che anticipano o rappresentano un passaggio tra la neo avanguardia e la cosidetta post avanguardia degli anni settanta-ottanta. Uno di questi
è Bob Wilson (1941), il quale, con alcuni spettacoli
come Civil Wars, nel 1984 anticipa quella multimedialità creatrice di comunità di utenti con una operazione che si sviluppa in diversi paesi del mondo seguendo un unico progetto. In Wilson, il concetto di
«scrittura scenica» è più vicina al copione che al testo
e comprende luci, suoni, parole e spazi dell’allestimento. Un chiaro esempio è l’opera Deafman Glance,
proprio perché essendo uno spettacolo muto, che
quindi non prende le mosse da un testo, non maneggia un originale precedente. Il risultato è inquietante
soprattutto perché recitato da una compagnia di attori sordomuti, e svolto in due serate. L’ottica è infatti
quella del macrotempo, dello spettacolo lungo, nel
solco di Ronconi ma anche di Stein. Spettacolo costituito non dunque da attori che rappresentano, ma
da presenze fisiche, secondo l’ispirazione di Artaud
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CAPITOLO QUARTO per cui il teatro dev’essere quello che è e non rappresentare qualcos’altro, e lo stesso vale per i suoi attori.
La rinascita di un movimento di avanguardia successivo alla neoavanguardia è legato ai gruppi, più che a
singoli artisti. Nascono nel ’79 i Magazzini Criminali
grazie alle visioni di un architetto-regista Federico
Tiezzi (1951) che si avvale, però, degli attori di formazione che sanno affrontare il testo parlato come
Sandro Lombardi (1951), e Falso Movimento, creato
da Mario Martone (1959), con il quale a partire dagli
anni ottanta comincia a collaborare Toni Servillo
(1959), attore estremamente versatile nell’interpretare
sia ruoli comici che seri e che molti ricorderanno in
diversi fim italiani tra cui il recente Gomorra.
Il panorama napoletano degli anni settanta e ottanta è particolarmente vivace. Ricordiamo spettacoli
come Rasoi di Martone-Servillo con i quali collabora
Enzo Moscato (1947), attore e cantore del cabaret
napoletano. In particolare, ricordiamo lo splendido
monologo che in quest’opera fa Toni Servillo, accompagnato dal ritmo del pianoforte da caffè teatro,
in uno stile di teso e ritmicissimo «recitar cantando»
dei bassi napoletani, rielaborando il mito locale di
Raffaele Viviani, cantore del proletariato napoletano,
che fu ostracizzato dal fascismo in quanto poeta di
una napoletanità critica, alternativa, iconoclasta.
Altri esponenti del teatro napoletano di questi anni
ricorrono al dialetto a volte come effetto straniante, a
volte come soluzione ritmica. Sono però tutti casi
singoli, fuori cioè della logica dei gruppi, come il palermitano Mimmo Cuticchio (1948) che si produce fisicamente in scena assieme ai suoi pupi siciliani, accostando quindi al linguaggio della parodia del mito ca164
ADESSO valleresco rappresentato dal pupo il linguaggio fisico
organico della sua presenza per creare un effetto particolare, anche se non inedito. Palermitano è anche
Franco Scaldati che mette in scena Beckett impastandolo nel dialetto masticato dei quartieri popolari di
Palermo e in particolare di quello della Kalsa. Potremmo menzionare anche l’avvicinamento di Sandro
Lombardi al teatro di Testori (1923-1993) valorizzandone il linguaggio lombardo-maccheronico di testi
come Amleto. Poi Giancarlo Cauteruccio (1956) del
gruppo Krypton di Firenze, formatosi nel 1982, che
recita Beckett in calabrese.
Questa prima post avanguardia è accomunata da
visioni multiculturali e da un rinnovato interesse per
il linguaggio del corpo a livello della coreografia. Gli
anni ottanta e novanta introducono in Italia il teatrodanza, una forma di teatro regolata dalle leggi della
danza contemporanea, sulla scorta della grande coreografa Pina Bausch, 1940-2009, e soprattutto un entusiasmante adesione alla civiltà audiovisiva. I Magazzini Criminali reinterpretano Artaud filmandosi in diretta con telecamere e schermi in scena, e al contempo riprendono i luoghi tipici del teorico della crudeltà. L’adesione al multimediale, a differenza di Piscator, non è un trampolino verso una realtà sociale, ma
solo un fine estetico.
Nei primi anni novanta, nel bel mezzo di un cambio epocale nella nostra politica e della recrudescenza
del fenomeno terroristico che torna a colpire con violenza, questa avanguardia rinuncia a impegnarsi socialmente trasformando semmai la realtà attraverso
una estetica surreale, tecnologica, che la rende «trend».
In un clima autoreferenziale, di marketing del grup165
CAPITOLO QUARTO po, infarcito di citazionismo (cioè di continui riferimenti ad autori precedenti) si arriva ad assumere un
certo snobismo «radical chic». A volte il richiamo dei
Magazzini ad Artaud è palesemente frainteso, come
nel caso di Genet a Tangeri del 1985, spettacolo svolto
nel mattatoio di Riccione nell’arco del festival di Sant’Arcangelo (Ravenna), località romagnola sede dal
1971 del maggiore festival di ricerca teatrale nazionale. Qui la parte oscura che sublimava Genet e il teatro
della crudeltà artaudiano, inteso come catarsi, si trasformano in una trovata scenica che danneggia un lavoro comunque visivamente molto bello: uccidere un
cavallo e squartarlo in scena fu considerato tanto dal
pubblico quanto dalla critica come un grosso malinteso estetico nonché come un atto crudele improvvidamente gratuito, non necessario e per un certo verso
anche odiosamente sbruffone. Notiamo infine che la
rottura dialettica verità/finzione con l’irruzione della
verità a teatro spazza totalmente via il significato dell’atto teatrale. A nulla servono quindi le parole di Genet recitate da Lombardi dopo il gesto di vera uccisione, così come la presenza di immigrati clandestini
in Clan+destini, di Cauteruccio, con la loro presenza
non recitante ma di reale testimonianza sul palco che
stride col testo e rende impossibile teatralmente la recitazione in calabrese di Beckett.
La Societas Raffaello Sanzio nasce nel 1981 dall’iniziativa di un gruppo di studenti di belle arti di Cesena e si connota in principio per una certa estetica
orientaleggiante, complesse strutture e marchingegni
scenografici. Questo gruppo negli ultimi anni è cresciuto molto, tanto da essere assai conosciuto all’estero, molto meno in Italia. Con lo spettacolo Santa
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ADESSO Sofia. Teatro khmer (1985), il loro teatro matura una
svolta. Dai primi atteggiamenti di pseudo contestazione si arriva qui a un’anti-teatralità avulsa dal contesto esterno, cioè ad un percorso che prescinde dalle
influenze politico-sociali, che tenta la riscrittura di
una lingua privata e quindi scivola verso le tematiche
del mito. Intuendo che l’origine mitica si basa sul sacrificio dell’animale, e che numerosi sono i miti di
ibridi uomo-animale o di parti eterogenetici, il gruppo
inizia quindi a lavorare attorno alla natura bestiale
dell’uomo e riempie la scena di animali, capre, serpenti o babbuini. Ricordiamo I Miserabili del 1986 e il
Gilgamesh del 1990. In Hänsel e Gretel del 1993 il Teatro Valle di Roma viene trasformato in parco tematico; si torna come negli happening e nelle performance degli anni sessanta a voler guidare il pubblico in un
percorso labirintico nel bosco. La ricreazione di quest’immaginario è grandiosa e didascalica, e il risultato
consiste un po’ in un parco tematico, un po’ in un
castello degli orrori da luna park. Del 1992 è Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco, rappresentato da un essere in stato vegetativo capace
solo di azioni elementari organiche ma privo di
ogni iniziativa: un uomo allo stato larvale insomma.
Se questo risulta, e vuole essere, spettacolo sgradevole e agressivo in cui imprevedibili risuonano colpi
di pistola e altri rumori «contro» il pubblico, nel Giulio Cesare (1997) si inaugura un vero e proprio «terrorismo delle immagini», utilizzando sonde che mostrano sugli schermi l’interno dei corpi degli attori.
Si passa quindi alla mostrificazione del corpo che si
lega con la visione del campo di concentramento,
che arriva anche a utilizzare un contrasto stridente:
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CAPITOLO QUARTO un candido parco giochi con bambini su cui piove
sangue.
Nel frattempo, la cosiddetta scena ufficiale, a pochi
anni dal 2000, vedeva il teatro di regia di Ronconi avvitarsi in una spirale barocca di budgets costosissimi,
un Dario Fo sempre più «istituzionalizzato», riproponeva un Eduardo de Filippo ormai avanti negli anni e
«spingeva» gli allestimenti popolar-espressionisti di
Gabriele Lavia (1942). Ai gruppi di teatro sperimentale ricordati, tanti altri, negli anni ottanta, si stavano
affiancando, esprimendo energie e idee nuove, quando una volta di più cadde nefasto l’intervento della
politica a tagliare le buone ispirazioni del teatro. Si
trattò della circolare Carraro del 1988, dal nome dell’allora ministro del Turismo e dello Spettacolo, con
la quale si cancellava il criterio secondo cui i finanziamenti al teatro venivano erogati «a pioggia», e si
introducevano dei parametri per l’erogazione degli
stessi che nulla avevano a che fare con criteri artistici.
Il risultato consistette nel penalizzare il concetto stesso di arte, e quindi di innovazione, nel nostro teatro.
Si impose infatti il criterio quantitativo come condizione per l’elargizione della sovvenzione; si presero in
considerazione quindi i borderò, e cioè i libri in cui
vengono segnate le vendite dei biglietti al botteghino,
i giorni di rappresentazione e il numero delle piazze,
cioè dei centri urbani, toccate dalla compagnia. Si introdusse così un criterio che obbligava a velocizzare i
tempi naturali di sviluppo di una determinata ricerca
(ritorna il termine velociferino!), e si pretese di qualificarla in base alla sua «produttività», obbligando
quindi gli artisti a produrre per il mercato creazioni
che avrebbero magari necessitato di tempi più lunghi
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ADESSO adeguati al criterio artistico. Questo determinò l’uscita di scena di molte compagnie, da un lato, e la riconversione di tanti elementi al teatro di regia, come
appunto nel caso di Federico Tiezzi o di Martone.
Tra i fenomeni teatrali stranieri coevi interessante è
quello di Eimuntas Nekrošius (1952). Questo regista
lituano si muove rispetto al testo rispettandone spesso l’integrità, lasciando quindi che certi spettacoli durino anche cinque ore. I suoi allestimenti hanno un
piglio organico, cioè fisico, rispetto alla presenza scenica dell’attore. Con dei «fermo immagine» da cui poi
scattano come molle ritmi coreografici apparentemente disordinati, come nel suo Amleto (1997), e che
restituiscono il senso barbarico, ancestrale, profondamente e buiamente nordico di questa tragedia che
si perde nei secoli della memoria.. Una gestione fisica
che attorialmente si rifà a Grotowski e a Barba, anche
nella scelta di usare la sua lingua, cioè il lituano, che,
masticata e materializzata come un oggetto in sincronia con la musica e il gesto, ricorda il polacco de Il
Principe Costante.
Altrove sono evidenti le rispondenze con la Societas Raffaello Sanzio, soprattutto nel gusto della sorpresa, del controtempo degli oggetti che cadono dall’alto distruggendosi sul palcoscenico e inducendo in
scena quel senso di pericolo, di violenza della macchina, di accadimento reale che preme sulle corde
nervose dello spettatore. In Amleto gli attori vengono
messi dentro una pressa che loro stessi azionano. Gli
attori, che, come nel Faust, sono anche i macchinisti,
che muovono, apparecchiano e sgombrano la scena,
danno senso drammatico a ogni singolo oggetto, partecipando ad una coreografia di gruppo molto calibrata e
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CAPITOLO QUARTO spesso frazionata contemporaneamente in diversi
spazi del palco. Nel frattempo il testo recupera un’unità narrativa attraverso il fluire da attore ad attore
come se si trattasse di un’unica battuta recitata su un
unico filo teso da tutta la compagnia senza soluzione
di continuità.
Votata al meccanismo dello stupore e all’arte digitale è invece la formazione catalana della Fura dels
Baus, che iniziò con una performance in cui gli attori
si rotolavano su fango e farina per poi gettarsi in
mezzo agli spettatori, in un contesto di estremismo
espressivo già per i tempi molto datato: Accións (1984).
Fortemente appoggiati dalle istituzioni catalane come
prodotto sperimentale «di vetrina», i loro spettacoli –
la cui messa in scena è spesso possibile solo in occasioni celebrative di massa, come nelle Olimpiadi del
1992 a Barcellona, o negli allestimenti operistici come
Le Gran Macabre nel teatro El Liceu della stessa città –
sono grandiosi montaggi fatti da proiezioni e coreografie di attori sospesi, installazioni circensi e apparati
scenici colossali. Una sorta di maestoso kitch che altre volte ha voluto fare provocazione con la nudità o
l’endoscopia, con l’uso del linguaggio pornografico,
sempre con l’intento di occupare lo spazio canonico
del pubblico, di mischiare lo spettacolo tra gli spettatori. Emuli di Wilson con Work in progress 97, essi
hanno realizzato simultaneamente l’omonimo spettacolo, in videoconferenza, in altre tre città, davanti quindi a platee differenti. Ultimamente hanno progettato
Naumón, una nave - contenitore culturale che si muove lungo le rotte del Mediterraneo.
A volte gli spettacoli di questo tipo si risolvono in
trovate visive, in istallazioni con musica, con largo
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ADESSO uso di manichini. Negli spettacoli di strada, come in
Naumachia del 2007, enormi burattini, meccanismi robotici alti venti metri, passeggiano tra il pubblico accompagnati da una musica suadente. Ci si riallaccia
alla tradizione tutta catalana della sfilata dei giganti
per la festa patronale della Mercé, in cui gli spettatori
recuperano una dimensione quasi infantile.
Non omettiamo comunque un altro aspetto di
questo gruppo, quello più intimamente teatrale, che
sperimenta con ruoli classici e in un contesto di palco
tradizionale, come nella edizione de La Metamorfosi di
Kafka (scrittore ceco, 1883-1924) presentata al teatro
greco di Barcellona nell’ambito dell’omonimo festival
teatrale estivo nel 2010 (el Grec). In questa rivisitazione non mancano gli apporti multimediali, ma la scrittura scenica è più composta e mirata al testo. La reclusione familiare, la rigidità dei ruoli dei genitori,
l’incubo della perdita dei sogni viene descritto dall’interno di una gabbia in cui implodono i personaggi
che si muovono svuotati, tra riti quotidiani che diventano celebrazioni strazianti del vuoto.
2. Che sta succedendo?
Che sta succedendo attualmente? Continua da un
lato la pratica dei gruppi, dall’altro si sviluppano gli
one-man-show, cioè attori-autori che non hanno bisogno di un regista e che si fanno carico di un teatro di
narrazione. Ricordiamo Marco Baliani (1950), Marco
Paolini (1956), Pippo Delbono (1959), Ascanio Celestini (1972). Vanno segnalati per l’impegno sociale o
il lavoro a contatto con il disagio mentale (Celestini),
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