4 – Il Giusnaturalismo (appunti) La nascita del moderno diritto statale fu accompagnata e seguita da una riflessione sulla natura del diritto, sul suo rapporto con la società, sull'origine delle norme giuridiche. Conviene a questo proposito prendere, sia pure sommariamente, in considerazione le due principali correnti del pensiero giuridico dell'epoca moderna: il Giusnaturalismo, che si sviluppò tra il Seicento e il Settecento, e il Positivismo giuridico, che si contrappose a esso a partire dall'Ottocento. Il Giusnaturalismo muove dalla convinzione che l'uomo, con il solo aiuto della ragione, possa individuare norme di comportamento che preesistono alle norme del diritto positivo (statale o consuetudinario) e che queste ultime possano raggiungere i fini che si propongono soltanto in quanto si basino su presupposti aggettivi individuati razionalmente. Il diritto, come insieme di norme coercitive, ha come fine generale quello di assicurare una coesistenza pacifica tra gli uomini: secondo il pensiero giusnaturalista occorre indagare sui presupposti oggettivi necessari perché possa raggiungere tale fine. Occorre, cioè, applicando la ragione, saper distinguere i veri dai falsi presupposti di un ordinamento giuridico. A questo scopo i Giusnaturalisti ricorsero all'artificio di ipotizzare uno stato di natura preesistente all'istituzione di ogni potere politico e all'emanazione di ogni legge positiva, nel quale gli uomini risultano privi di tutte le abitudini, dei costumi e delle leggi acquisite nel corso della storia. Stabilire come in questo stato di natura gli uomini, guidati solo dalla ragione, si dovessero comportare per soddisfare i loro bisogni naturali, e quindi per sopravvivere, significava, per i Giusnaturalisti, individuare i presupposti oggettivi necessari sui quali doveva basarsi ogni ordinamento giuridico. Questi presupposti venivano chiamati leggi di natura o diritto naturale (da cui il termine “Giusnaturalismo", attribuito a questo movimento di idee): leggi che non derivavano da un'autorità, ma unicamente dalla facoltà insita in ogni uomo di individuare, con la ragione, i comportamenti necessari per sopravvivere. IL DIRITTO NATURALE SECONDO HOBBES E LOCKE. Muovendo da questa premessa comune, i Giusnaturalisti giunsero a conclusioni talora divergenti. Consideriamo a questo proposito i due filoni di pensiero più importanti del Giusnaturalismo, rappresentati dai due filosofi inglesi Hobbes (1588-1679) e Locke (1632-1704). Per Hobbes lo stato di natura è una situazione di estrema insicurezza: da un lato, ognuno ha il diritto di appropriarsi, per la propria sopravvivenza, di tutte le cose e ciò genera una guerra latente o palese di tutti contro tutti; d'altro lato, gli accordi che in questa situazione vengono stipulati tra gli individui sono del tutto precari: mancando un'autorità al di sopra delle parti capace di farli osservare, essi possono impunemente essere violati non appena ci si accorge che non conviene osservarli. La ragione consiglia dunque, per la sopravvivenza di tutti, di creare un sovrano (che può essere un uomo o un'assemblea di uomini) al quale conferire con un patto sia il potere di decidere tutte le norme della convivenza civile, sia il monopolio della forza necessario per farle osservare. Lo stato di natura ipotizzato da Locke è invece una situazione in cui, senza l'intervento di un'autorità, si sviluppa già una vita sociale. Infatti, osserva Locke, per sopravvivere l'uomo deve soddisfare i suoi bisogni; ma per raggiungere questo fine egli ha, per natura, un solo mezzo: applicare il suo lavoro al mondo esteriore. Nello stato di natura, pertanto, secondo Locke, l'uomo ha il diritto naturale di appropriarsi, non già di tutte le cose (come sosteneva Hobbes), ma soltanto di quelle cose che rappresentano il risultato del suo lavoro e che sono necessarie alla soddisfazione dei suoi bisogni: questo diritto è il diritto di proprietà che ogni individuo ha già nello stato di natura perché deriva dalla costituzione fisica dell'uomo. Per appropriarsi delle cose prodotte da altri, necessarie ai suoi bisogni, l'uomo ha un mezzo razionale già nello stato di natura: scambiare i risultati del suo lavoro contro i risultati del lavoro altrui. Dunque, già precedentemente all'istituzione di ogni legge positiva si sviluppano tra gli uomini gli scambi (e si stipulano quindi i contratti) che danno luogo a una vita associata. Ciò che tuttavia manca nello stato di natura è un giudice imparziale: esso è necessario per una convivenza pacifica, altrimenti ognuno potrebbe farsi giustizia da sé ed essere con ciò indotto ad abusare dei suoi diritti naturali, causando di conseguenza ritorsioni e conflitti. La ragione dunque consiglia di costituire con un patto lo Stato, attribuendogli il compito di svolgere questa funzione di giudice: ma la stessa ragione dimostra che lo Stato deve essere costituito al solo fine di garantire agli individui il pacifico esercizio dei diritti di cui già godono nello stato di natura. In tal modo Locke formulava una teoria dello Stato accolta nella «Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino», del 1789. … L'IMPORTANZA STORICA DEL GIUSNATURALISMO. Nonostante la diversità delle premesse sullo stato di natura e delle conclusioni sui compiti dello Stato, il Giusnaturalismo ha avuto un'importanza storica grandissima. Esso ha anzitutto introdotto una concezione laica del diritto e dello Stato, presentandoli come prodotti della ragione e della volontà degli uomini e non della volontà e della ragione divina, come insegnava la tradizione medievale. In secondo luogo, ponendo l'accento sulla necessità di individuare i presupposti oggettivi di ogni ordinamento giuridico positivo, esso ha aperto la strada a indagini sgombre da pregiudizi sui fenomeni individuali e sociali che stanno alla base dell'ordinamento giuridico positivo, lo precedono e lo condizionano: sulla psicologia, sui sentimenti, sui moventi dell'agire umano, ma anche sulla struttura e sui meccanismi effettivi delle diverse società umane. Il Giusnaturalismo ha dunque contribuito all'origine delle scienze sociali moderne. Non a caso negli stessi secoli in cui si sviluppa tale movimento di idee, nasce l’ economia politica con il fine principale di individuare le regole che gli uomini di fatto seguono, indipendentemente da ogni norma positiva, nella produzione e nella distribuzione dei beni. Infine, il Giusnaturalismo ha guidato l'azione svolta dall'Illuminismo nel Settecento per una riforma radicale della società feudale e l’instaurazione di un ordine sociale fondato sulla ragione. Esso ha consentito alla borghesia in fase di ascesa rivoluzionaria di mostrare l'irrazionalità della società assolutistico-feudale, abbattuta poi con la Rivoluzione francese. I moderni stati costituzionali nati dalle rivoluzioni borghesi del Sei-Settecento furono fortemente influenzati dalla dottrina giusnaturalista: essi assunsero, come loro fondamento essenziale, il riconoscimento e la garanzia dei diritti naturali dell'uomo; attraverso le codificazioni essi si proposero di elaborare un diritto positivo statale che corrispondesse ai precetti razionali del diritto naturale. 5 – Il Positivismo giuridico (appunti) Nel corso dell'Ottocento, a mano a mano che la borghesia si consolidò come classe dominante, l'impostazione giusnaturalistica venne ripudiata negli studi di teoria generale del diritto e si affermò gradatamente un diverso indirizzo di pensiero che va sotto il nome di Positivismo giuridico. Il principale rappresentante di questo nuovo indirizzo è stato il filosofo austriaco Kelsen (18811973). La critica al Giusnaturalismo svolta dal Positivismo giuridico mira anzitutto a dimostrare l'impossibilità di trovare, con la ragione, regole di comportamento valide per tutti. Sia in un ipotetico stato di natura, sia nella società reale, ogni individuo, posto nelle stesse situazioni, può comportarsi nei modi più diversi e le regole morali o sociali che egli decide di seguire sono essenzialmente soggettive e relative. E’ dunque un'illusione, secondo il Positivismo giuridico, credere che tali regole possano essere giustificate con la ragione. D'altro canto, osservano i fautori di questa linea di pensiero, anche le regole del diritto hanno un contenuto che può essere diverso da paese a paese e da un'epoca storica all'altra. Tale contenuto dunque non dipende affatto da presupposti oggettivi comuni a tutti gli uomini e a tutte le società, ma esclusivamente dalla volontà dell'autorità preposta a dettare quelle regole. Muovendo da queste premesse scettiche sulla possibilità della ragione di indirizzare le azioni umane, il Positivismo giuridico giunge a definire il diritto come una mera tecnica di controllo sociale, consistente nel prevedere e applicare regole e sanzioni, alla quale ricorrono tutte le società organizzate per influire sul comportamento degli individui. I fini di questa tecnica possono essere i più diversi e variano da una società all'altra. L'unico dato che lo studioso del diritto deve prendere in considerazione è, per il Positivismo giuridico, la validità formale delle norme, cioè il fatto che siano emanate secondo le procedure legittime dalle legittime autorità politiche; i fini che l'ordinamento giuridico persegue e i presupposti sociali da cui esso deriva sono fenomeni extra-giuridici che non lo interessano direttamente. In questo modo, tale dottrina si propone di separare la scienza del diritto dalle altre scienze sociali, quali la psicologia, la sociologia, l'economia, la morale e la teoria politica, per giungere a un approccio "scientifico" e "avalutativo" del diritto: il diritto va considerato come esso è, non come esso dovrebbe o potrebbe essere. Il Positivismo giuridico teorizza quindi la separazione del diritto (che, comunque, è sempre inteso come diritto positivo) rispetto agli altri fatti sociali e la necessità di studiarlo isolandolo da essi. CRITICHE AL POSITIVISMO GIURIDICO. Anche la dottrina del Positivismo giuridico è stata sottoposta a numerose critiche. Nonostante il suo apparente realismo, questa concezione si rivela inadeguata a rappresentare il ruolo effettivo delle norme giuridiche nella società. Anche nelle società contemporanee nelle quali il diritto è formato da norme scritte decise dallo Stato, la volontà dell'autorità ha determinati presupposti nella vita associata, che preesistono alla deliberazione della norma. Ad esempio, le norme sui contratti contenute nel codice civile sono certamente poste dall'autorità pubblica, ma esse presuppongono gli scambi che si sviluppano nella società per cause del tutto indipendenti dalla volontà dell'autorità. Analogamente, le norme del codice civile sulla famiglia presuppongono l'esistenza di nuclei familiari che si creano e si sviluppano del tutto indipendentemente dalla volontà dello stato. Sia nel campo degli scambi, sia in quello della famiglia, l'autorità pubblica può intervenire con norme che recepiscono regole sociali generalmente osservate o, al contrario, con norme innovatrici che vietano comportamenti diffusi o impongono comportamenti inconsueti. Ma in ogni caso tali norme possono operare come strumenti di controllo sociale soltanto in quanto esistano nella società presupposti oggettivi da esse indipendenti (negli esempi che abbiamo fatto, gli scambi e le famiglie). Vi è dunque un rapporto di influenza reciproca tra la società e l'autorità pubblica, ossia tra la società civile e lo Stato. Esso fa sì che le norme giuridiche che lo Stato pone siano condizionate dai comportamenti, dai ruoli e dalle istituzioni che si affermano autonomamente nella società civile. Questi comportamenti, questi ruoli e queste istituzioni costituiscono i presupposti ineliminabili delle norme giuridiche. La loro conoscenza è indispensabile non solo per interpretare il significato delle norme giuridiche e per poterle applicare, ma anche per svolgere un'altra attività sempre necessaria al miglioramento di ogni società: vale a dire la critica al diritto positivo, svolta dimostrando l'erroneità o la natura fittizia dei presupposti sui quali esso si può basare o l'irrazionalità dei fini che può perseguire.