La morale e il diritto.
a. La separazione.
Molte dottrine filosofiche, quella di Hegel per esempio, e molte ideologie politiche
hanno sostenuto e sostengono che nella società moderna la moralità, intesa come
imposizione di regole, ha termine, perché i cittadini si riconoscono nella comunità della
quale fanno parte. Per l'utilitarismo il cosiddetto 'Stato moderno', più che dalla
coincidenza tra morale e diritto, era caratterizzato dalla presenza di un'autorità
sovrana che ha il monopolio dell'emanazione delle leggi e della forza con la quale si
possono comminare le sanzioni. Ma anche fuori dell'utilitarismo si fece strada l'idea
che il diritto fosse costituito solo dalle regole validamente emanate e accompagnate
da sanzioni, e che la certezza del diritto esigesse la sua rigorosa separazione dalla
morale. La cosa fu reinterpretata in termini kantiani dai sostenitori della 'teoria pura
del diritto' (Hans Kelsen, Dottrina pura del diritto, 1933): si poteva considerare la
legalità come il valore proprio di un ordinamento giuridico, emancipando le leggi
positive dalla subordinazione alla legge naturale, e sciogliere il nesso tra giustizia e
legislazione, che aveva ancora gravato sull'interpretazione kantiana della legalità
come una specie di degradazione della moralità.
b. La fine della separazione e l'etica dei diritti.
Questa teoria, conosciuta come positivismo giuridico, che fondava la legittimità delle
leggi sulla possibilità di ricavarle attraverso una norma fondamentale, era ispirata
dall'esigenza di difendere le leggi dalle influenze politiche e dalle convinzioni morali di
chi detiene la sovranità. Ma essa era anche il prodotto dello stereotipo culturale che
faceva dello Stato moderno il titolare del monopolio della forza. Carl Schmitt (Dottrina
della costituzione, 1928; Legalità e legittimità, 1932) poteva così sostenere che l'atto
fondamentale istitutivo della legalità risiede in una decisione. Per contro H. L. A. Hart
(Il concetto di diritto, 1961) riteneva che la norma fondamentale di un ordinamento
giuridico dovesse essere riconosciuta come regola di convivenza di una comunità e
potesse essere rintracciata nella costituzione scritta o in quella consuetudinaria, e non
soltanto essere ricavata attraverso la ricostruzione formale di un ordinamento. Infine i
sociologi del diritto (Niklas Luhmann, Sociologia del diritto, 1972) hanno mostrato che
l'importanza data all'applicazione delle sanzioni dal positivismo giuridico è eccessiva,
perché le leggi non si limitano a reprimere comportamenti, ma hanno anche una
rilevante funzione comunicativa che genera comportamenti originali, diversi da quelli
vietati e sostitutivi di essi.
D'altra parte gli atti internazionali successivi alla seconda guerra mondiale e al
processo di Norimberga, il programma dell'Organizzazione delle Nazioni Unite a favore
dei diritti dell'uomo, le vaste campagne di difesa dei diritti umani, sia in sede
internazionale sia all'interno di molti Stati, hanno indebolito l'idea che la sovranità
nazionale debba essere considerata la fonte suprema della legalità. Perciò nella pratica
sociale e politica, ma anche nella prassi giudiziaria, si è introdotta la convinzione che
possa essere insufficiente giustificare una decisione giuridica riportandola a regole
dell'ordinamento vigente. E questo ha sollevato dubbi sulla possibilità di separare le
argomentazioni morali da quelle giuridiche. Già le teorie metaetiche avevano illustrato
l'affinità 'formale' dei procedimenti, anche se si potevano mantenere separati i
rispettivi 'principî'. La contrapposizione tra principî morali e principî giuridici diventa
meno netta se si intendono i principî non come assiomi di tipo logico-matematico,
perfettamente esplicitabili, ma come ciò cui si rifanno, nei processi argomentativi ai
quali ricorrono, giudici, amministratori, avvocati e cittadini di fronte a una corte di
giustizia o anche quando devono prendere una decisione per proprio conto. La
distinzione tra morale e diritto tende a diventare una distinzione significativa - se non
altro perché il diritto ha le proprie istituzioni e i propri ufficiali - ma non assoluta,
perché il ragionamento giuridico è dello stesso tipo del ragionamento morale e non è
del tutto precluso il passaggio da un campo all'altro. Partendo da queste esperienze
giuridiche R. Dworkin (I diritti presi sul serio, 1977) ha formulato una teoria etica
dell'uguaglianza per la quale un ordinamento è giusto solo se assicura "uguale rispetto
e considerazione" per tutte le concezioni della vita, una teoria diversa da quella, in
fondo comune all'utilitarismo e al positivismo giuridico, che assicura ai cittadini
soltanto un 'trattamento uguale' per tutti. E si è delineata la figura del 'titolare di
diritti', che non hanno bisogno di essere sanciti da una legislazione positiva, ma sui
quali semmai si misurano e si valutano gli ordinamenti vigenti (A. Gewirth, Human
rights, 1982).