Lyceum n. 38 - Dicembre 2009 Editoriale Soltanto investendo sulla Scuola è possibile superare quest’epoca di passioni tristi Un altro anno è cominciato, il mio secondo qui a Sarno, un anno, se mi è consentito utilizzare questa espressione, ancora più difficile di quelli che lo hanno preceduto, non tanto per le notizie allarmanti che provengono dal mondo dell’economia, quanto per i durissimi interventi sulla scuola. Un anno non facile per il disagio, le incertezze e le preoccupazioni che è possibile avvertire nel nostro ambiente, dove tutti, e ribadisco proprio tutti, si interrogano su quale strada seguire per far funzionare meglio la scuola a fronte del grande impoverimento delle risorse umane e finanziarie. Accanto all’attuazione dei tagli agli organici, quest’anno la nostra scuola sarà interessata alla riforma dei licei che riconduce tutti gli indirizzi ad ordinamento, non consentendo di mantenere le sperimentazioni avviate. Non è e non può chia- marsi riforma questo intervento legislativo, che non si basa su analisi approfondite e che non tiene presente tutto quanto la Scuola militante ha realizzato negli ultimi decenni; si tratta di una riforma che, al momento, non ha un progetto forte, ma soprattutto manca ancora di contenuti e finalità e, quindi, di futuro. Tutto è ricondotto solo a quadri orari ed Lyceum Dicembre 2009 3 impoverimento di risorse umane e finanziarie. Siamo molto attenti a seguire tutta la vicenda legislativa. In questi giorni la “Bozza” è in Parlamento, e con la ragione, con l’orgoglio e la credibilità di una lunga storia di organizzazione, di sperimentazione e di scuola di qualità siamo determinati a garantire, qualunque sia la decisione politica, la prosecuzione del corso di studi sperimentale almeno per le attività laboratoriali. Lo faremo per l’impegno che abbiamo assunto con l’utenza e per la professionalità e la dignità che ci ha sempre contraddistinti. Ogni giorno, ci sforziamo di offrire il meglio, proponiamo soluzioni, cerchiamo confronti, ma soprattutto difendiamo il valore vincolante della scelta delle famiglie in merito agli indirizzi di studio, alle lingue, all’arricchimento dell’Offerta Formativa e lo faremo anche per ciò che concerne Il modello orario di funzionamento scolastico. 4 Gli alunni e le famiglie, pertanto, stiano tranquilli: tutte le attività avviate saranno confermate, anzi, proprio in momenti come questi, c’è la volontà e la determinazione, da parte di tutti noi, di fare meglio e di più. Il quadro orario e i progetti dal teatro a quelli di lingua, dall’ECDL ai “Certamina” saranno confermati se non ampliati. Inoltre, quest’anno è in cantiere di far decollare il sito della scuola, in modo da migliorare e favorire la circolarità delle comunicazioni, con indubbi vantaggi per tutti. Certo, sul piano strutturale, le note continuano ad essere fortemente negative, anzi peggiorano giorno dopo giorno e su questo versante c’è bisogno veramente di tutti quelli che hanno a cuore il “Tito Lucrezio Caro”. Questa scuola, la nostra scuola, che è stata e vuole continuare ad essere per Sarno una finestra ed un punto di riferimento per tutto l’Agro, non può essere ghettizzata. Gli utenti sono minorenni e non possono muoversi in maniera autonoma. Se si vuole costruire un edificio in periferia, lo si faccia, ma è necessario pensare a potenziare il trasporto pubblico locale. Diversamente si tratta di una realizzazione avulsa da qualsiasi seria program- mazione territoriale e lontanissima dai parametri di efficienza ed efficacia di cui si parla tanto in politica e nell’Amministrazione. Il risparmio è assicurato, il continuare a volare alto no! L’anno che si è appena concluso ha fatto registrare all’Esame di Stato, ben 25 allievi con il massimo dei voti e tre di essi con l’attribuzione della lode (Chiara D’Ambrosio, Valentina D’Avino e Anna Arpaia). Una menzione particolare va fatta all’allievo Nappo Francesco (5MC) che agli esami di Stato è stato ammesso con il massimo dei voti in tutte le discipline, una media mai registrata nella storia del nostro Liceo. Nel corso dell’anno scolastico molti allievi si sono distinti in diverse manifestazioni regionali e nazionali sulle discipline studiate. Tra costoro non è possibile non menzionare Alfonso Quartucci (IV MC), primo classificato nel premio “Valitutti”, Michele Casillo della V MSB, quinto classificato al “Certamen” a Napoli, Francesco Nappo (V MC), settimo classificato al “Certamen” a Bassano del Grappa, gli studenti della II A e II C del Liceo Classico e della V D del Liceo Scientifico per il Progetto “Vivere il mare”, la I C, del Liceo Classico (prima classificata al Premio “Inner Wheel”), le alunne Valentina D’Avino (III B del Liceo Classico) e Luisiana Levi (II B del Liceo Classico), rispettivamente prima e seconda classificate al “Premio Albatros”. Questo non vuole essere un orgoglioso canto di vittoria; è semplicemente la testimonianza di un lungo impegno e l’annotazione di alcuni risultati del lavoro fatto con passione e spirito di sacrificio. Per noi è questo: dire le cose come stanno, fare i conti con il contesto e con le condizioni date, non illudere la gente, non far credere l’impossibile. Non ci fermiamo: il nostro impegno continua. Non abbandoniamo il nostro progetto di Buona Scuola, perché crediamo che soltanto investendo sulla scuola sia possibile superare quest’epoca di passioni tristi. Giuseppe Vastola Dirigente Scolastico Liceo Classico, Scientifico e Linguistico “T. L. Caro” - Sarno (Sa) Strumenti Decisamente ricca la sezione Liminarismo, per la varietà di contributi in quanto ad argomenti proposti e a modalità di scrittura. Come sempre, efficace l’intervento del Prof. John C. McLucas della Towson University che, con linguaggio semplice e allo stesso tempo gravido di significato, ci presenta il Presidente Obama, africano con trattino, alle prese con le sfide del mondo di oggi e con la scommessa di gettare le basi per una nuova identità nazionale. Con un salto nel passato, Margherita Pampinella-Cropper, della stessa università, ci propone Stazio quale alter ego di Dante e, per rimanere in tema, ci si dà la possibilità di leggere in chiave liminare il comico della Commedia. Non meno interessanti la nuova ermeneutica dei sette vizi capitali e il viaggio dell’ulisside tra arethê ed entropia planetaria, così come l’intervista a Maram Al Massri, poetessa liminare tra Siria e Francia, che ama definirsi abitante della terra, ma anche il problema del confine fra democrazia e dittatura. E poi un intreccio di letteretatura, teatro, cinema e musica con la storia di Romeo e Giulietta che si muove tra confini labili e suggestivi, la rappresentazione scenica, in terra d’Otranto, del romanzo L’ora di tutti di Maria Corti, il tentativo di Tornatore di fare storia, in Baarìa, sganciandosi da parametri tradizionali, e, sempre nel segno della cultura-creativa, la figura di Giuseppe Martucci, compositore alternativo del tardo Ottocento italiano… Manifesto del Liminarismo Nella società contemporanea, complessa, stratificata e dinamica, appare utile – a livello metodologico – porre attenzione non solo alla struttura generale e compatta di un fenomeno, ma alle sue interne, sottili e impercettibili parti, perennemente soggette a modificazioni e a reinterpretazione e profondamente in contatto fra loro attraverso una serie di linee di “soglia” (limen) e di “confine” (limes). In tale ottica (definibile pertanto come liminaristica) diventa interessante studiare i passaggi da un’epoca a un’altra, da un fenomeno a un altro, da una concezione a un’altra ed analizzare: • il senso del limite e della soglia che viene continuamente varcata e spostata nelle tappe dell’esistenza vista come “formazione” e “costruzione” nell’ambito di una visione, che, pur se cangiante, non è relativistica; • il senso dell’impegno culturale come ricerca di un orizzonte di valori e di significati delle azioni: la crisi della società contemporanea può essere attribuita a una mancanza di senso da dare alle cose; • i nessi fra fenomeni diversi o contrapposti (ad es. tra religione e magia o tra cultura alta e cultura popolare o, più generalmente, tra passato e presente), che spesso sono alla base dell’identità di una nazione o di una comunità; • il valore dell’integrazione fra gruppi etnici diversi e dell’apertura verso l’altro; • la funzione del diritto in regime di democrazia e in regime di dittatura; • il carattere di margine e di eccentricità (nel senso di “fuori dal centro”) evidente in tutti i personaggi, gli eventi, le idee di avanguardia e di innovazione; • il carattere, anch’esso positivo, della marginalità (come scrigno di conoscenze tradizionali) delle culture popolari; • il ruolo della contaminatio fra culture diverse; • la demarcazione fra la normalità e la “a-normalità”; • il valore euristico del dettaglio, che, talvolta in un’opera d’arte può configurarsi come rivelatore in maniera più proficua dell’aspetto macroscopico; • il confine fra il gioco come piacere e il gioco come malattia; • il tasso potenziale di innovazione insito in un’operazione di traduzione, intesa come “tradurre”, “tramandare”, “tradire”, in una parola, riscrivere, reinterpretare, transcodificare e dunque personalizzare in maniera originale e irripetibile un testo; • il superamento del limite come propensione verso la conoscenza; • il concetto matematico di limite come valore al quale tendere; • il processo, nella ricerca scientifica, “per tentativi e per errori”. La Direzione e la Redazione di Lyceum Lyceum Dicembre 2009 7 Strumenti/Liminarismo Manifesto of Liminarism 8 In light of contemporary society, complex and dynamic stratification, we believe the time is right to pay attention - at a methodological level - not only to the general concrete structure of a phenomenon but also to its internal, subtle, almost imperceptible parts. These are always subject to modifications and new interpretations, and are linked at a deep level by means of a network of lines corresponding to both “threshold” (limen) and “boundary” (limes). According to this vision of the world (which we call Liminarism), it is intriguing to study the transitions between eras, phenomena, and concepts, and to analyze the following: - the sense of both limit and threshold, constantly crossed and/or displaced through the stages of a life understood as “formation” and “construction”, in the context of a vision which, while certainly subject to change, is not merely relativist; - the sense of cultural engagement as the search for a horizon of values and of meaning in actions: the crisis of contemporary society can be attributed to a failure to find any meaning to give to things; - the connections among diverse or contrasting phenomena (for example, between religion and magic or between high culture and popular culture, or, more generally, between past and present) on which national or community identity is frequently based; - the value of integration among diverse ethnic groups and openness to the other; - the function of law within both democratic and dictatorial regimes; - the marginal, eccentric character (“eccentric” in the sense of “outside the center”) which appears in all persons and events and in avant-garde or innovative ideas; - the marginal character of folk-cultures (which may in fact be a positive advantage) as repositories of traditional knowledge; - the role of contaminatio among differing cultures; - the line between normality and “ab-normality”; - the interpretive and investigative importance of details, which may sometimes yield richer insights into a work of art than its macroscopic aspects; - the boundary between play as a form of pleasure and play as a form of illness; - the potential for powerful innovation implicit in the act of translation, understood as “translating” [tradurre], “handing down” [tramandare], and “betrayal” [tradire] - in a word, rewriting, reinterpreting, recodifying, and hence personalizing a text in a deeply original and unrepeatable form; - the crossing of boundaries as a movement towards knowledge; - the mathematical concept of limits as a value to be striven for; - the process of “trial and error” in scientific research. The Directors and Editors of Lyceum La traduzione in lingua americana del Manifesto del Liminarismo è stata realizzata dal Prof. John McLucas, Capo del Dipartimento di Lingue Straniere all’Università “Towson” di Baltimora. 9 Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua araba dalla Prof.ssa Maria Albano dell’Università di Macerata Lyceum Dicembre 2009 John C. McLucas Chair Department of Foreign Languages Towson University - USA Obama The Liminar President M y country can seem strange at times, even to me. Here in the United States, we have always lived a double life: we are both a heterogeneous immigrant people – a brilliant mosaic of endless variety – and a nation almost naively willing to align itself behind a powerful symbolic system of icons and idols. Just wave the flag, sing “The StarSpangled Banner,” mention September eleventh for the millionth time, and we respond automatically with a sense of unity and shared experience, the psychological equivalent of fried chicken and apple pie. Our national unity takes special force from our bizarre dislike of foreigners – and I call it “bizarre” because almost all of us arrived here from abroad. We like to define ourselves as not foreign, not newcomers on this continent, and we look with suspicion on the rest of the world, which seems (or so we tell ourselves) to envy our liberty and prosperity and which simply doesn’t get us. The united front we present against the foreign Other unfortunately doesn’t prevent the persistent survival of prejudice and injustice against Lyceum Dicembre 2009 11 Strumenti/Liminarismo the domestic Other. Often we hear Americans ask plaintively, “Why can’t we all be just Americans, not “hyphenated Americans.” This exasperated and defensive question is usually posed by white, conservative, economically advantaged Americans in the face of social protests by minorities, ethnic or demographic groups which feel excluded or marginalized by mainstream American culture. Among the many voices of protest, perhaps the most deeply-rooted in historical wrong is that of Americans of color, who must live with the painful, centuries-old legacy of slavery. 12 Enter a man of color, actually half-white – and recall that early in his political rise there were questions as to whether he was “black enough” – who, quite apart from his ambiguous racial status, enjoys immense popularity abroad. “Abroad” in this context means not just the classic “abroad” of Old World Europe; it means the nonwhite “abroad” of Africa, Asia, and South America. He is indeed idolized by large majorities of Americans, and his public demeanor shows an almost preternatural calm and dignity. His words breathe an eloquence which is solemn without being pompous, and he calls us to dream again our noblest dreams of liberty and solidarity. Some even claim that his election marks an end to all barriers of color; thanks to him, we are now living in a post-racial society. This too-quick and too-optimistic assertion masks, but cannot conceal, the deeply unresolved nature of our national dialogue on civil rights. The announcement of the new president’s Nobel Peace Prize evoked an immediate public outcry: “Does he deserve it? Is he worthy? Isn’t it too soon? What has he done, really?” I find this a strange response – as if all other Peace Prize laureates had actually created world peace. And what kind of country would not break into spontaneous paeans of joy that its leader had been awarded such an honor? Recently there has been a lot of talk about Obama’s behavior in the wake of the fratricide rampage of a Muslim-American psychologist at Fort Hood. While the president’s remarks at the memorial service for the victims were praised by many – including the families of the military dead, people generally expected to belong to the political right – he has also been criticized for not expressing his outrage with sufficient passion. This conversation simply shows how virtually impossible it is to make the American public happy. How can a president express the nation’s collective grief without seeming to single out for blame a minority population, 3,000 of whom are serving in our armed forces? Don’t forget that many on the right wing claim that Obama was not born in the United States, and – because of his middle name, “Hussein” – accuse him of being Muslim himself. How can a president place this appalling tragedy in perspective when the nation faces even more tragic wars and deprivations, while simultaneously acknowledging and affirming the special trauma this episode represents for the military? How can he react when one of our own soldiers shows himself so horrifyingly Other, without blaming all those of the killer’s faith, and without falling into the bland political correctness which would forgive any ethnic minority for anything simply because they are a minority? Our first “hyphenated-American” president – our first liminar president – must not only face all the crises in today’s world (economic, military, diplomatic), but must also rise to the challenge of helping us formulate new definitions of our national identity. One can hope that these definitions will be ever more generous and more creative. L'OPINIONE/ J. MCLUCAS Obama S Presidente liminare trano paese il mio. Qui negli Stati Uniti abbiamo sempre vissuto una doppia realtà: un popolo eterogeneo di immigrati, vero e proprio mosaico di inesauribile diversità, siamo anche una nazione quasi comicamente unita dietro a un forte sistema simbolico di icone e di idoli. Basta sventolare la bandiera, cantare l’inno nazionale, invocare per l’ennesima volta l’undici settembre, per suscitare un senso di un’identità e una vita condivise – e la mente corre in modo spontaneo al pollo fritto o alla crostata di mela, cibi emblematici dell’americanità. Tutto questo acquista particolare forza da una strana xenofobia – dico “strana” perché siamo quasi tutti arrivati su queste sponde dall’Oltreoceano – che ci incoraggia a definirci come non stranieri, non provenienti dall’estero, e a guardare con profondo sospetto il resto del mondo che forse – o almeno così ci diciamo – ci invidia la nostra libertà e prosperità e che non ci capisce. Questa solidarietà di fronte all’Altro esterno non esclude, purtroppo, la lunga sopravvivenza di pregiudizi e di ingiustizie sociali contro l’Altro interno. Spesso ci chiediamo, “Perché non possiamo essere americani punto-e-basta, americani ‘senza trattino’” (non “italo-americani,” “africani-americani,” etc.). Questa domanda leggermente stizzosa e difensiva viene posta quasi sempre da americani bianchi, conservatori, e relativamente benestanti, di fronte alle contestazioni di entità demografiche che si sentono escluse o sottovalutate dalla società della stereotipata maggioranza. Tra le voci di protesta, nessuna ha lo spessore storico-culturale di quella del popolo americano di colore, erede di lunghe sofferenze e di memorie secolari di schiavitù. Entra in scena un uomo mezzo-bianco (spesso Lyceum Dicembre 2009 13 Strumenti/Liminarismo 14 accusato, agli esordi della sua carriera politica, di non essere “nero abbastanza”) che in più gode di un’immensa popolarità all’estero – e non solo quell’estero classico del Vecchio Mondo europeo, ma anche dell’estero non-bianco: l’Africa, l’Asia, il Sud America. Viene idolatrato da grandi maggioranze del popolo americano, e si comporta con una dignità quasi sovrannaturale. Le sue parole respirano un’eloquenza solenne senza pomposità, che ci chiama a sognare di nuovo i sogni più nobili della libertà e della solidarietà. Alcuni pretendono che con la sua elezione alla Casa Bianca abbiamo superato tutte le barriere del colore, che viviamo ormai in una società “postrazziale.” Questa dichiarazione troppo affrettata e troppo facile può velare – ma non nascondere – la profonda i r re q u i e te z z a che continua a segnare il nostro discorso nazionale sui diritti civili di persone di colore. All’annuncio del Premio Nobel del nostro nuovo Presidente, si è subito scatenata una polemica: “Se lo merita? Ne è degno? Non è per caso troppo presto? Che ha fatto finora, in così poco tempo, veramente?” Strano discorso quello, come se gli altri vincitori del premio avessero tutti recato pace al mondo. Strano che i cittadini di un qualsiasi paese non cantino Osanna per un onore del genere offerto al loro leader. In questi scorsi giorni, si è parlato molto del comportamento di Obama rispetto alla strage fratricida compiuta da uno psicologo islamicoamericano su una base militare del Texas. Il suo in- tervento alle cerimonie funebri è stato fortemente apprezzato da molti – anche dalle famiglie delle vittime, persone di solito piuttosto conservatrici in politica – ma anche criticato per insufficiente passione. S’intravvede in queste polemiche la quasi impossibilità di accontentare il pubblico di un paese come il nostro. Come esprimere il lutto collettivo senza inveire contro un gruppo di cittadini americani già troppo spesso perseguitati, di cui 3.000 servono perfino nelle forze armate nazionali? (Da ricordarsi anche il fatto che molti americani di destra, che non credono neanche che Obama sia nato negli Stati Uniti, l’accusano di essere musulmano, grazie al suo secondo nome “Hussein”). Come sdrammatizzare quest’orrendo evento nel contesto di guerre e miserie vieppiù allarmanti, ma senza minimizzare il trauma alla classe militare; come reagire quando uno dei “nostri” soldati si rivela così atrocemente Altro, senza darne la colpa a tutti i suoi cofedeli e senza cascare nella vacuità della correttezza politica che perdona tutto a tutti purché siano di minoranze etniche? Il primo presidente “americano-trattino” – dunque, liminare – deve affrontare non solo le tantissime sfide del mondo di oggi – economiche, militari, diplomatiche, sanitarie – ma anche la scommessa di aiutarci a formulare nuove definizioni, che possiamo sperare sempre più generose e più originali, della nostra identità nazionale. John C. McLucas Chair Department of Foreign Languages Towson University - USA letteratura italiana Aspetti liminari della Commedia Stazio alter ego di Dante I Nel Purgatorio, mondo della soglia e del passaggio, fondamentale è la posizione privilegiata di Stazio: in lui Dante vede rispecchiata la propria posizione liminare, che giudica il passato e costruisce il futuro. l limen della Commedia. Dante varca la soglia del mondo terreno per esplorare ciò che a nessuno era stato dato di vedere. Prima di lui Enea era disceso agli Inferi e San Paolo era asceso al Paradiso, ma Dante è l’unico uomo che attraversa in carne ed ossa i tre regni dell’Oltretomba. La missione del poeta al ritorno dal suo pellegrinaggio è condividere l’esperienza del superamento del limite con il resto dell’umanità. L’esperienza liminare di Dante-uomo si trasforma nell’opera di Dante-poeta, un’opera anch’essa liminare nell’impegno a cercare nuovi valori morali per una società in crisi. Da un punto vista storico-letterario Dante si trova al confine tra la tradizione classica latina e la nascente tradizione letteraria italiana. Consapevole di tale posizione privilegiata, Dante usa una prospettiva liminaristica per reinterpretare e sorpassare la cultura che lo ha preceduto. Un episodio esemplare del liminarismo di Dante è costituito dall’incontro con il poeta epico latino Stazio in Purgatorio. Con l’Eneide di Virgilio, le Metamorfosi di Ovidio e la Farsalia di Lucano, la Tebaide di Stazio costituiva uno dei maggiori poemi classici inseriti nel curriculum delle scuole medievali di grammatica. Sebbene la presenza di Stazio nella Commedia di Dante non dovrebbe dunque sorprenderci, ci sorprende tuttavia il fatto che il poeta non è relegato all’Inferno, bensì fa la sua entrata nel canto XXI del Purgatorio. Stazio 15 si presenta a Dante-pellegrino come un’anima cristiana in cammino verso il Paradiso. Mentre il grande Virgilio è condannato a passare l’eternità nel Limbo, a Stazio è concessa l’eterna salvezza. Seguendo una leggenda medievale, o, come altri studiosi hanno suggerito, trovandone la prova nel testo stesso della Tebaide1, Dante fa di Stazio un cristiano o, meglio, un pagano convertitosi alla religione cristiana in segreto per sfuggire la persecuzione. Che esistessero o meno una leggenda medievale o una prova della conversione di Stazio nel testo stesso della Tebaide, il ruolo rivestito da Stazio nella Commedia è indubbiamente di gran rilievo nel cammino di Dante verso la sua salvezza personale. Il carattere altro dell’allegoria in Stazio e in Dante. Era pratica comune nel Medioevo leggere la poesia classica in chiave allegorica, alla ricerca di un significato morale nella scriptura paganorum. Il commento alla Tebaide redatto da Fulgenzio fornisce un’interpretazione allegorica del poema epico di Stazio, in cui Polinice ed Eteocle diventano allegorie, rispettivamente, dell’ava- Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 16 rizia e dell’opulenza2. È molto probabile che Dante conoscesse questa interpretazione morale della Tebaide, dal momento che il commento di Fulgenzio era molto popolare e costituiva parte fondamentale del curriculum scolastico, ed è ancora più probabile che Dante ne condividesse lo stesso punto di vista3. Dante era, del resto, un promotore della lettura morale e allegorica di ogni poema, inclusa la sua Commedia4, e spesso citava passi dall’Eneide, dalle Metamorfosi, dalla Farsalia e anche dalla Tebaide di Stazio, a dimostrazione di verità morali universali5. Malgrado la natura cruenta dell’argomento, la Tebaide guadagna, grazie all’esegesi morale, il prestigio di un testo didattico che può essere impiegato da Dante a buon diritto tanto quanto altri testi classici. Ciò non spiega, tuttavia, la presenza centrale di Stazio nella Commedia. Riferimenti e allusioni ai poemi di Ovidio e di Lucano abbondano, ma i poeti stessi sono relegati nel limbo e non hanno l’opportunità di rivestire un ruolo di spicco nella Commedia. Come ben sappiamo, Virgilio è la guida di Dante attraverso l’Inferno e parte del Purgatorio. Le ragioni di Dante per questa scelta sono evidenti: il poeta latino è non solo il modello per lo stile poetico, ma anche il poeta della Roma imperiale6. Ciononostante, Virgilio non avrebbe potuto convertirsi alla religione cristiana poiché morì prima dell’avvento di Cristo, e il presunto valore profetico della quarta ecloga non gli procura l’entrata al Paradiso. Ammettiamo pure che Dante credesse alla tarda conversione di Stazio al cristianesimo, è pur tuttavia difficile accettare che tale conversione possa giustificare la presenza di Stazio e il suo discorso nel Purgatorio, a meno che il poeta non ricopra un ruolo più determinante di quello che la conversione solamente potrebbe procurargli. Alcuni studiosi7 hanno assegnato a Stazio la funzione di mediatore fra la ragione umana rappresentata da Virgilio e la rivelazione rappresentata da Beatrice, il poeta stesso in qualità della ragione umana illuminata dalla fede. Stazio diventerebbe, dunque, secondo questa interpretazione, una figura allegorica come i personaggi della sua Tebaide diventarono nelle mani degli esegeti medievali. Non possiamo dimenticare, tuttavia, che Stazio non fa da guida a Dante. Indubbiamente si prende cura di spiegargli quello che Virgilio non comprende appieno, ma d’altro canto, molti altri spiriti incontrati da Dante nel suo cammino si fanno portavoce della verità. La lezione di Stazio nel canto XXV del Purgatorio si concentra sulla generazione degli uomini e della loro anima nelle sue parti vegetativa, animale e intellettuale. Stazio è chiaramente un vettore di conoscenza per Dante e anche per Virgilio, e così facendo inverte i ruoli di maestro e discepolo, ma la sua lezione non porta a Beatrice. Il mistero del personaggio Stazio. Le informazioni offerte da Stazio completano la conoscenza del Purgatorio, ma non contribuiscono ad avvicinare il pellegrino alla sommità del monte8. Stazio, come Dante, è un pellegrino in cammino verso la salvezza. Le sue parole non rappresentano istruzioni ad un discepolo, bensì la condivisione della propria conoscenza con Dante-pellegrino. Lungi dall’essere una guida, Stazio è un compagno di viaggio per Dante. Entrambi i poeti hanno peccato e hanno visto la luce grazie a Virgilio. Dante è stato tratto in salvo da Virgilio dalla selva oscura, dove l’incontinenza, l’avarizia e l’orgoglio della mondanità lo tenevano in pugno. Stazio, come dichiara egli stesso nel canto XXII del Purgatorio, è stato illuminato da alcuni versi dell’Eneide sulle conseguenze nefaste della fame dell’oro, e si è ravveduto9. Alla luce di questo punto in comune, sembra doveroso condurre un’analisi approfondita sulla natura delle possibili ulteriori relazioni tra le figure dei due poeti, a partire da una più precisa definizione del peccato commesso da Stazio. Nel quinto cerchio del purgatorio sono espiate le colpe di avarizia e prodigalità. Stazio dichiara di aver peccato in prodigalità, correggendo così la supposizione di Virgilio che lo aveva tacciato di avarizia (Purg. XXII, 34-42). Stazio si riferisce al suo peccato con il termine ‘dismisura’, e attribuisce a tale vizio la sua penitenza in quella determinata terrazza del Purgatorio. Procediamo considerando innanzitutto il presunto peccato di prodigalità. Seguendo un comune errore commesso dagli storici medievali, Dante fa confluire le due figure storiche di Publio Papinio Stazio e Lucio Stazio Ursulo, un retore di Tolosa dell’epoca di Nerone. Tale confusione derivava dalla menzione di Stazio il retore nel Chronicon di San Girolamo10. Il riferimento al suo successo, combinato con il riferimento alle sue povere condizioni economiche nelle Satire di Giovenale, aveva portato gli studiosi medievali a credere che Stazio avesse sperperato tutti i guadagni derivati dalla sua lucrativa attività di insegnante di retorica. L’ipotesi meta-poetica e il “doppio” Stazio. Tale spiegazione potrebbe essere ragionevole, ma vale la pena considerare un’altra possibile prospettiva. I canti XXI e XXII rappresentano una celebrazione della poesia e l’incontro con Stazio anticipa e prefigura l’incontro con le notevoli figure di poeti in vernacolo, quali Forese Donati, Bonagiunta Orbicciani, Guido Guinizelli e Arnaut Daniel. Allo stesso modo, il dialogo tra Stazio e Virgilio (Purg. XXI, 82-102) rappresenta non solo un’esaltazione di Virgilio, ma metapoeticamente rimanda alla poesia stessa. Stazio, infatti, si riferisce alla sua fama di poeta con una perifrasi che sottolinea l’onore e l’eternità della poesia. Continua, poi, con un riferimento al suo dolce spirito vocale che gli procurò la gloria del mirto. Il poeta indubbiamente dimostra il suo orgoglio per la longevità della sua opera e ne celebra l’ispirazione che ha trovato in Virgilio. Stazio, inoltre, attribuisce la sua conversione alla quarta ecloga di Virgilio, conferendo così alla poesia non solo eterna gloria sulla terra, ma anche un potere salvifico (Purg. XXII, 64-73). Considerata la dimensione poetica dei canti XXI-XXII e in particolare delle parole di Stazio, è possibile collocare il peccato di dismisura nella stessa cornice letteraria. Stazio potrebbe aver peccato di profusione stilistica allontanandosi dalla corretta misura artistica, e di abuso poetico non avendo diretto il potere della sua poesia verso la verità. Poiché Dante confondeva erroneamente l’autore della Tebaide con il retore Ursulo e attribuiva al primo anche la professione del secondo, nessuna colpa avrebbe potuto descrivere in modo così appropriato la vita di Stazio retore prima della conversione all’epica. Stazio considera l’Eneide di Virgilio alla stregua di una madre, capace di offrirgli con la sua poesia una nuova vita illuminata dalla conversione (Purg. XXI, 97; XXII, 64-73). Alla luce della doppia dimensione di poesia e redenzione che domina i canti XXI e XXII, è facile comprendere come Virgilio e la sua opera poetica offrano un modello che è allo stesso tempo stilistico e morale. Così come la guida spirituale rappresentata da Virgilio deve essere intesa in modo allegorico, allo stesso modo deve essere inteso il peccato di 17 Stazio. Nella sua risposta riguardo alla natura della sua colpa, Stazio stesso allude all’importanza di riconoscere la verità nascosta dietro alle false apparenze (Purg. XXII, 28-30)11. Sebbene il peccato di prodigalità o dismisura abbia destinato Stazio al quinto cerchio del purgatorio, ciò che lo ha salvato dalla dannazione eterna all’inferno è stato il messaggio morale della poesia di Virgilio, che ha diretto il potenziale artistico di Stazio verso la verità. Lungi dall’indulgere nei vuoti eccessi stilistici della retorica, la missione del poeta deve essere un messaggio di salvezza. R itorniamo ora ai versi dell’Eneide che condannano l’avarizia. Quale ruolo rivestono tali versi che ricordano l’omicidio di Polidoro per mano di Polimnestore, nella conversione di Stazio? Il commento virgiliano sul potere nefasto della fame dell’oro potrebbe avere ispirato a Stazio Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 18 l’argomento della Tebaide, dal momento che, in base all’esegesi morale del poema, in voga nel Medioevo, Eteocle rappresenterebbe l’avarizia e Polinice l’opulenza. Dante sembra rintracciare una stretta connessione tra le due vicende e non manca di metterla in luce. L’episodio dell’omicidio di Polidoro e della sua mancata sepoltura è ricordato indirettamente nel canto XXX dell’Inferno, in cui Ecuba, la madre di Polidoro, funge da esempio del furore che ben descrive la punizione dei dannati in questo girone infernale. La metamorfosi di Ecuba in una cagna rabbiosa, dopo aver perso la ragione per il dolore provocatole dalla sorte del figlio, era stata resa famosa dalle Metamorfosi di Ovidio, il quale sottolineava inoltre l’avarizia di Polimnestore e il lusso della sua corte. Avarizia e opulenza appaiono strettamente legate e connesse al potere, il medesimo tema al centro della Tebaide12. Dante crea un collegamento tra l’episodio di Polidoro e la Tebaide aprendo il canto con un riferimento al ciclo tebano, ovvero con la menzione della furia di Atamante, provocata dalla rabbia di Giunone nei confronti di Semele, che lo porta ad uccidere i propri figli. Il canto continua con la inquietante immagine di Ecuba, e passa poi a presentare le anime dei dannati puniti in questo girone, la cui furia è equiparata a quella delle Furie tebane. Con questa tessitura di riferimenti, Dante inserisce l’omicidio di Polidoro ad opera di Polimnestore in un contesto tebano, suggerendo un legame con il mutuo fratricidio di Eteocle e Polinice. L’avidità, lo stretto legame tra avidità e potere, e le conseguenze della degenerazione sociale sono al centro sia della Tebaide che della Commedia. Nella Tebaide Eteocle e Polinice, spinti da una insensata avidità di potere, combattono fino a dimenticare il sacro vincolo fraterno, e portano Tebe alla rovina. Nella Commedia Dante identifica nell’avarizia la causa della corruzione sociale13. Stazio alter ego di Dante. Se scrivere la Tebaide, con la valenza salvifica del suo messaggio allegorico, ha salvato l’anima di Stazio, e Virgilio è stato l’ispiratore di questa nuova missione poetica, ebbene potremmo chiederci perché questo ruolo rivestito da Virgilio non gli conferisca una maggiore importanza di quella conferita a Stazio stesso. La differenza cruciale tra i due poeti risiede nella loro coscienza poetica. Nonostante sia l’Eneide che la Tebaide abbiano una valenza salvifica, Virgilio è un profeta inconsapevole della grandezza del proprio messaggio, mentre Stazio dimostra una completa consapevolezza, che ha potuto raggiungere mediante l’esperienza del peccato e del pentimento. La coscienza poetica di Stazio lo rende un compagno di viaggio per Dante, un poeta altrettanto consapevole della propria missione nella stesura della Commedia. Entrambi redenti dal potere della poesia, Dante e Stazio condividono un passato macchiato da un peccato da intendersi in senso letterario. Come Stazio deplora il suo passato da retore per gli eccessi stilistici, ma soprattutto per non aver diretto la sua attenzione verso la verità, allo stesso modo anche Dante guarda indietro al suo passato poetico che lo ha condotto alla selva oscura e si redime scrivendo la Commedia. Oltre all’esperienza comune del peccato e della redenzione che ha condotto Stazio e Dante ad una maggiore consapevolezza della propria missione poetica, e oltre alla profonda attenzione all’avidità quale fonte principale della crisi sociale, Dante e Stazio condividono un ulteriore aspetto fondamentale strettamente connesso alla percezione poetica della propria opera. Dante è profondamente consapevole della sua posizione all’interno della tradizione letteraria d’Italia e pone se stesso e la propria opera al limite estremo di una scia letteraria che parte dai poemi epici latini 14. Ad un’attenta analisi della Tebaide l’espressione più diretta della coscienza poetica di Stazio è offerta dai versi conclusivi, oltre che dalla ricca relazione di intertestualità che l’intero poema stabilisce con la tradizione epica che lo precede. Nell’envoi finale al proprio poema Stazio raccomanda alla sua opera di vivere e di non competere con l’Eneide, bensì di seguirla a distanza e adorarne sempre le orme (Tebaide XII, 810-819). Questa raccomandazione finale pone il poema non solo in una posizione di successore del poema virgiliano, ma anche in una posizione di sfida e superamento del modello mediante una critica indiretta all’Eneide15. Infatti, l’immagine evocata da Stazio a chiusura della Tebaide è un’evidente allusione all’episodio di Creusa che, osservando la raccomandazione del marito, lo segue a distanza nella fuga da Troia e così facendo scompare dalla vita di Enea e dalla storia (Eneide II, 71). Stazio sfida e supera l’Eneide dando voce a ciò che l’epica di Virgilio aveva messo a tacere. Una simile immagine è evocata da Stazio nel Purgatorio, nel paragonare Virgilio a “quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte” (Purg. XXII, 67-69). Stazio è stato illuminato dal messaggio di Virgilio proprio grazie alla sua posizione di successore che ne ha seguito le orme. In questo senso essere ultimo diventa una posizione privilegiata da cui il poeta può guardare indietro alla tradizione precedente, ma allo stesso tempo da cui può partire e muoversi in una nuova direzione. Lo Stazio di Dante si considera l’erede della tradizione epica latina nella sua missione morale contro la corruzione del mondo. Per questa ragione Dante gli assegna una posizione privilegiata nella Commedia, poiché lo stesso Dante è profondamente consapevole della propria posizione liminare, erede della tradizione epica latina e, proprio come Stazio, in grado di 19 valutare il passato e muoversi in una nuova direzione. “Elli givan dinanzi, e io soletto / di retro, e ascoltava i lor sermoni, / ch’a poetar mi davano intelletto.” (Purg. XXII, 127-129). Margherita Pampinella-Cropper Assistant Professor of Italian Department of Foreign Languages Towson University USA Bibliografia di riferimento 1 Nel XV secolo Poliziano propose una ragione filologica per spiegare la rappresentazione dantesca di Stazio quale un’anima cristiana. Secondo Poliziano, Dante potrebbe aver interpretato l’invocazione di Tiresia al “triplicis mundi summum, quem scire nefastum” (Tebaide IV, 516) come un riferimento al Dio cristiano. Per un’analisi dettagliata degli studi di Poliziano sulla presenza di Stazio nella Commedia, si veda M. Pastore Stocchi, “Il cristianesimo di Stazio (Purg. XXII) e un’ipotesi di Poliziano” in Miscellanea di studi offerti a Armando Balduino e Bianca Bianchi per le loro nozze (Padova, Seminario di Filologia Moderna dell’Università, 1962) e S. Mariotti, “Il cristianesimo di Stazio in Dante secondo il Poliziano” in W. Binni et al., Letteratura e critica: Studi in onore di Natalino Sapegno (Roma, Bulzoni, 1975) II, pp. 149-161. M. Scherillo (“Il cristianesimo di Stazio secondo Dante” in Atene e Roma, V [1902], 497-506) pensava che il discorso di Apollo nel libro IX, 650-662, e specialmente la descrizione dell’ara Clementiae nel libro XII, 481-518, potrebbero essere stati interpretati da Dante come un segno della conversione dell’autore alla religione cristiana. Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 20 2 Fabii Planciadis Fulgentii, Opera, accedunt Fabi Claudii Gordiani Fulgentii, De aetatibus mundi et hominis, et S. Fulgentii Episcopi Super Thebaiden, ed. Rudolfus Helm, Stuttgart, Teubner, 1970, pp. 182-186. Tebe è l’anima umana governata dal santo Laio e dalla casta Giocasta, Edipo rappresenta la lascivia che porta alla corruzione dell’anima, i sette re sono le arti liberali guidate da Ipsipile alla fonte della conoscenza secolare che non è in grado di spegnere la loro sete, Creonte rappresenta la conoscenza mondana e infine Teseo, id est deo, è colui che libera l’anima dal peccato. 3 Per l’allegorizzazione medievale della Tebaide si veda G. Padoan, “Il mito di Teseo e il cristianesimo di Stazio” in Lettere italiane, IX , 1959, pp. 432-457. 4 Dante spiega nel Convivio (II, I) i quattro sensi allegorici dei testi: letterale/storico, allegorico, morale e anagogico. Nell’esposizione del senso allegorico Dante usa le Metamorfosi di Ovidio per illustrare come Orfeo sia un’allegoria dei poeti. Nella epistola XII a Cangrande della Scala, Dante fornisce delle linee guida per leggere ed interpretare la Commedia a diversi livelli di significato. 5 Nel Convivio sono presenti vari esempi tratti dalla Tebaide: Edipo che si strappa gli occhi per nascondere la sua vergogna diventa la prova vivente degli occhi come specchio delle proprie virtù (Conv. III, VIII, 10 – Tebaide I, 47); la reazione di Adrasto al ricordo dell’oracolo di Apollo è l’esemplare perfetto di stupor (Conv. IV, XXV, 6-10 – Tebaide I, 782-492); infine, la modestia di Argia e Deifile dimostrano il comportamento appropriato per giovani donne (Tebaide I, 536-539). 6 Le idee politiche di Dante sono espresse principalmente nel trattato politico Monarchia, in cui il poeta rivendica la legittimità dell’Impero in Italia. Virgilio appare nel Monarchia come il poeta dell’Impero dotato di capacità profetiche. L’Eneide assume perciò implicazioni politiche e Virgilio funge da autorevole testimone della superiorità dell’istituzione imperiale. Per una discussione dettagliata della prospettiva politica di Dante in relazione al mondo classico si veda A. Renaudet, “Le second humanisme de Dante: la cité antique, Rome et l’empire” in Dante humaniste, Paris, Les belles lettres, 1952, pp. 477-532. 7 Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di C.H. Grandgent, revisione a cura di C.S. Singleton, Cambridge, Harvard University Press, 1972, p. 495. Si veda anche P. Renucci, Dante disciple et juge du monde gréco-latin, Paris, Les belles lettres, 1954, p. 337 e J. F. Mahoney, “The role of Statius and the Structure of Purgatorio” in 79th Annual Report of the Dante Society, 1961, pp. 11-38. 8 D. Heilbronn, “The prophetic role of Statius in Dante’s Purgatory” in Dante Studies, XVC, 1977, p. 55. 9 Eneide, III, vv. 56-57 “Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames?”. In questi versi Virgilio commenta l’omicidio di Polidoro per mano di Polimnestore spinto dal desiderio dell’oro. I versi sono chiaramente diretti contro il vizio dell’avarizia. Molto è stato scritto sull’interpretazione di Stazio di questi versi come una condanna del vizio opposto, la prodigalità. Per una discussione dettagliata delle possibili interpretazioni di Stazio si veda P. Baldan, “Stazio e le possibili ‘vere ragion che son nascoste’ della sua conversione” in Lettere italiane, XXXVIII, 2, 1986, pp. 149-165. 10 Ad Olymp. 208,4 = 56-57 p. Chr. “Statius Ursulus Tolosensis celeberrime in Gallia rhetoricam docet.” Per un’analisi completa della ricostruzine medievale della figura di Stazio si veda G. Brugnoli, “Lo Stazio di Dante in Benvenuto” in Benvenuto da Imola lettore degli antichi e dei moderni. Atti del Convegno Internazionale, Imola, 26-27 maggio 1989, a cura di P. Palmieri e C. Paolazi, Ravenna, Longo, 1991, pp. 127-137. 11 C. Kleinhenz, “The Celebration of Poetry: A Reading of Purgatory XXII” in Dante Studies, CVI, 1988, pp. 21-41. 12 Il corpo insepolto che la madre desidera onorare con una tomba è un altro elemento della storia che ricorda da vicino la Tebaide, così come la punizione inflitta a Polimnestore da Ecuba, strappandogli gli occhi dalle orbite con le proprie mani, non può che farci pensare alla furia di Edipo. 13 Nel canto d’apertura dell’Inferno, quando Dante incontra le tre fiere, la lupa che rappresenta l’avarizia è definita la più spaventosa delle tre (Inf. I, 31-60), e Dante cerca l’aiuto di Virgilio proprio contro di lei (Inf. I, 88-90). Virgilio viene in soccorso di Dante definendo la lupa, e perciò l’avarizia, con parole che indubbiamente ci ricordano la natura bestiale e feroce degli eventi della Tebaide di Stazio (Inf. I, 92-99). 14 T. Barolini, “Epic resolution” in Dante’s Poets. Textuality and Truth in the “Comedy”, pp. 188-286, e in particolare pp. 270-271: “{Dante] is an epic poet in that he sees himself as fulfilling and completing a poetic itinerary that begins with the Aeneid and that finds in the Comedy – also a long narrative with social, historical, and prophetic pretensions – its last and highest form of expression.” 15 S. G. Nugent, “Statius’ Hypsipyle: Following in the Footsteps of the Aeneid” in Scholia, 1997, pp. 70-71. Filosofia e Diritto Non basta il diritto positivo Il limes fra DEMOCRAZIA e DITTATURA a concezione personalistica della socialità umana. Il Manifesto del Liminarismo mi è piaciuto e mi ha interessato molto. A cominciare dal fatto che mi è apparso come una articolazione coerente della mia concezione della socialità umana: personalistica e non individualistica, naturale e non contrattuale (concezione che si è formata sui banchi dell’Università Cattolica sotto la guida di grandi maestri di dottrine filosofiche, giuridiche ed economiche, quali Oliati, Amirth e Fanfani). Ma poi, specificamente, perché vedo che il Manifesto -consapevole della strutturale condizione di mutevolezza, in perenne “divenire”, della persona umana e quindi della sua socialità- si propone come un progetto per indagare sistematicamente sul confine (il limes) e sulla soglia (il limen), in cui si collocano e si percepiscono “le interne, sottili e spesso impercettibili parti” di quel “divenire“, cioè dell’evoluzione della società. E mi interessa ancora di più il proposito di indirizzare l’indagine sui “passaggi da un’epoca all’altra” e, in particolare, “da una concezione all’altra”. Sarà un gran bel lavoro! Molto impegnativo: per molti cervelli e per molto tempo. Io vorrei dare il mio piccolo, flebile (date le ridotte capacità fisiche e intellettuali che mi restano) contributo a questa indagine facendo qualche riflessione su uno dei quindici punti indicati dal Manifesto: “la funzione del diritto in regime di democrazia e in regime di dittatura”. È mia convinzione che, per poter comprendere e valutare la funzione del diritto nelle democrazie e nelle dittature, è necessario partire dalla definizione della concezione della società, nella quale e per la quale si elabora e si fa funzionare il diritto. Per me è evidente che, se la società non è concepita come la condizione naturale della persona umana (l’νθρπς πλιτικν ων di Aristotele), ma come il prodotto di un accordo fra individui (il contratto sociale di Rousseau) che dalla loro natura Lyceum Dicembre 2009 J.J. Rousseau L Le leggi sono giuste e possono pretendere di essere rispettate da tutti, solo se e in quanto riconoscono e interpretano le leggi della natura umana. 21 Strumenti/Liminarismo Hobbes meramente materiale sono portati al belluino homo homini lupus di Hobbes, le regole (il diritto) per la convivenza fra tali individui possono esser fissate o da un accordo fra molti (lo stato repubblicano) o da un’imposizione del più forte (il “leviatano”). 22 I limiti della concezione individualisticocontrattualista. Nella concezione individualistico-contrattualista non sono -non possono essere- regole che interpretino le esigenze della convivenza di persone naturalmente sociali e che le esprimano in norme scritte, promulgate e sancite; ma possono essere soltanto regole che vengono scritte (e promulgate e sancite) per rendere possibile la convivenza di individui naturalmente conflittuali. Costituiscono il diritto positivo, che ignora, non ammette l’esistenza di un diritto naturale. Ma, non avendo alcun fondamento nella naturale socialità dell’uomo, sono necessariamente arbitrarie. La loro legittimità non è fondata su “valori” -universali e perenniconcepiti dalla razionalità delle persone, ma solo sulla volontà -contingente e particolare- del potere che regge lo Stato, repubblicano o monarchico, democratico o dittatoriale che sia. Ne consegue che negando il diritto naturale -fondato sui “valori” universali della natura umana- si assolutizza il diritto positivo -fondato esclusivamente sull’arbitrio del legislatore. Si crea la sovranità assoluta dello stato, che si concreta nello statalismo -“tutto nello stato, tutto dallo stato, tutto per lo stato” - e degenera nella statolatria, nella sottomissione religiosa, la “venerazione”, all’Assoluto. Tutto ciò è l’effetto del prevalere dell’antropologia individualistica su quella personalistica e, sul piano filosofico, del prevalere del soggettivismo (proprio di tutta la filosofia moderna) sul realismo della filosofia classica. Soggettivismo filosofico e individualismo antropologico che hanno prodotto sul piano sociale ed economico concezioni e comportamenti che hanno funestato la vita privata e pubblica del mondo moderno. A cominciare dall’egoismo -che l’individualismo, appunto, giustifica ed alimenta- che avvelena non solo i rapporti sociali, ma anche i rapporti interpersonali. Perché, chiudendo l’individuo in sé, si rende difficile e spesso conflittuale la vita di relazione con l’altro, che è propria della natura non solo fisica ma anche razionale dell’uomo -dire persona vuol dire relazione, “la persona è relazione”!- e nella quale nasce la solidarietà, indispensabile alla convivenza pacifica degli uomini, in contrapposizione all’egoismo istintivo e irrazionale, che produce conflittualità, sopraffazioni, ingiustizie d‘ogni genere: i veleni mortali della vita sociale. Basti vedere come l’egoismo, con l’incapacità di “aprirsi all’altro”, oggi condizioni gli approcci alla sfida epocale dell’integrazione fra gruppi etnici diversi. Le conseguenze negative dell’individualismo empirista e materialista. Dall’individualismo empirista e materialista è nato l’utilitarismo, che ha sostituito ai principi del bene e del male quello dell’utile e del denaro, sovvertendo le basi stesse della morale personale e sociale, e portando all’economicismo, cioè alla teoria (e alla prassi), che considera l’economia non solo come un mezzo molto importante, indispensabile per la vita umana, ma la sua essenza stessa. E quindi il suo unico fine, cui tutto il resto -politica, diritto, religione, arte, scienza, scuola, mass-media- viene subordinato e strumentalizzato. Riduce l’uomo a produttore e consumatore, prescindendo totalmente dalla “qualità della vita”, cioè dei motivi per cui produce e consuma, degli altri più importanti fini della vita. E si deve aggiungere che legge fondamentale di codesta economia è il profitto che, non ammettendo leggi morali limitative, nella prassi diventa il massimo profitto, il profitto ad ogni costo. Con le conseguenze devastanti che si stanno verificando in tutti i campi della vita sociale ed in particolare nell’educazione, nello stile di vita, nel costume. Ma la negazione del diritto naturale ha come Il rischio delle leggi ingiuste. Si deve ancora aggiungere un altro effetto deleterio dei soggettivismo e della conseguente negazione del diritto naturale: se le regole che lo stato si dà -il diritto positivo - non hanno riferimento ad una realtà obiettiva, ma dipendono totalmente ed esclusivamente dall’arbitraria volontà del legislatore, se la sua sovranità è assoluta, c’è il rischio inevitabile che siano leggi ingiuste: che costituiscono soltanto lo ius quia iussum e non affatto lo ius quia iustum. Quindi ingiustizie, spesso gravissime, che producono effetti disastrosi, inumani, nella vita personale e sociale degli uomini. Tali da far reclamare, anche da molti di coloro che negano il diritto naturale, il rispetto dei “diritti umani” che vengono violati non solo da comportamenti e azioni individuali ma dalle stesse istituzioni pubbliche costituite e rette con quelle leggi. Eppure non si vuol riconoscere che questi tanto invocati -oggi- diritti umani sono tali perché derivano da una realtà oggettiva -la natura umana- e non certo dalle scelte soggettive, singole o collettive che siano. Costituiscono, appunto, il diritto naturale. Si deve aggiungere anche che la sempre più diffusa intenzione di porre rimedio ai disastri della “conflittualità permanente” fra gli stati, cioè alle guerre militari ed economiche, con regole universali accettate e rispettate da tutti, può essere realizzata solo se tali regole sono fondate su una realtà che è di tutti gli uomini, sui diritti propri della natura umana stessa. Insomma, soprattutto il diritto positivo universale può essere elaborato, accettato, promulgato e sancito solo se lo si concepisce come la codificazione del diritto naturale. La sostanziale incapacità dell’ONU (che era stata creata proprio per tentare di evitare alle nuove generazioni l’esperienza tragica della seconda guerra mondiale) di realizzare il suo prin- 23 cipale obiettivo di impedire le guerre e poi anche quello di tutelare i diritti umani gravemente lesi in tanti suoi stati membri, è dovuta precisamente al fatto che i validi principi del “Preambolo” della sua Carta fondativa (dignità della persona, uguaglianza uomo-donna, giustizia sociale, usare lo sviluppo economico per il progresso sociale, ecc.) non sono stati riconosciuti da tutti come diritti naturali e perciò universali e cogenti per i rispettivi diritti statali. Il limen nel passaggio dalla democrazia alla dittatura. Infine, last but not least, le conseguenze del soggettivismo filosofico e del positivismo giuridico esistono anche nel passaggio -nel limenda democrazia a dittatura. E sono pesanti, e tutte a rischio per la democrazia. Il sistema di leggi -non solo in Hegel Marx conseguenza soprattutto l’inversione del rapporto Società-Stato: non è più la società -realtà naturale- che produce e organizza lo stato, ma viceversa è lo stato che crea la società e se la organizza arbitrariamente, senza riferimento ai “valori” naturali della società. Al punto che le altre forme naturali di società -la famiglia, la scuola, la chiesa, le associazioni culturali e sindacali, le aggregazioni locali- devono lottare strenuamente e spesso invano per poter esistere autonomamente, cioè per non essere ridotte a mere articolazioni della struttura statale. E c’è di peggio: il soggettivismo nella sua forma della dialettica hegeliana e marxista è arrivato a teorizzare la “conflittualità permanente” come spiegazione e legittimazione della guerra fra gli stati e delle lotte socio-economiche fra i cittadini. Con le conseguenze estreme della esaltazione della guerra come la migliore occasione di affermazione delle capacità individuali (e addirittura come “igiene dell’umanità”!); e della degenerazione della “lotta di classe” in guerra civile e in miseria economica. Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 24 materie economiche e sociali ma anche in campo politico e amministrativo- che non abbia altra fonte e fondamento che la volontà arbitraria, le sovranità assoluta del legislatore non può dare alcuna garanzia all’affermazione e al consolidamento del regime democratico. Infatti norme valide solo perché dettate dal legislatore possono facilmente legalizzare il passaggio dalla democrazia alla dittatura: sia repentinamente (con un colpo di Stato, con una rivoluzione), sia gradualmente, subdolamente (con una serie di provvedimenti limitativi delle libertà democratiche). Per evitare questo rischio, il positivismo giuridico è ricorso al costituzionalismo, cioè ha subordinato la produzione di tutte le leggi ad una “legge fondamentale”, il Grundgesetz dei tedeschi, in cui talora -ma non sempre, anzi solo ultimamente in quella italiana del ‘48 e nella tedesca del ‘59, e poi anche nel “Progetto di Costituzione per l’Europa” del 2003, bloccato dal referendum franco-olandese nel 2005- si premette un “Preambolo” di valori, che si ritengono condivisi e che devono orientare tutta la produzione legislativa. Si tratta indubbiamente di un apprezzabile intenzione di codificare nei diritto positivo alcuni importanti punti del diritto naturale. Sennonché le costituzioni conservano tutta la autoreferenzialità e precarietà del positivismo giuridico. Infatti in Italia la Costituzione stessa prevede le procedure formali per cambiare o anche eliminare quei valori (e c’è già chi si propone di farne modificare non solo la seconda ma anche la prima parte, in cui quei valori sono codificati). Dunque il diritto -se concepito e attuato solo come diritto positivo- non è sufficiente a distinguere sostanzialmente il regime democratico da quello dittatoriale, e neanche a impedire le degenerazione dell’uno nell’altro. Infatti, può accadere che proprio con leggi appropriate si apra la via a questa degenerazione. Per esempio: basta una legge elettorale (l’elezione diretta del Capo del governo) per creare le condizioni per trasformare di fatto -con quella che ora si chiama la “Costituzione materiale”- il sistema democratico parlamentare -sancito dalla “Costituzione formale”- in un sistema presidenziale, in cui più facilmente si può imporre quell’autoritarismo che con l’insofferenza per il parlamento e la corte costituzionale, che costituiscono i “contrappesi” che sono indispensabili nei sistemi presidenziali- diventa normalmente l’anticamera della dittatura. (Ecco un punto importante su cui si può applicare l’impegno del Liminarismo per studiare e cercar di individuare le “parti interne e impercettibili” -il Limen e il Limes- del rapporto democrazia-dittatura e delle funzioni del diritto in tale rapporto.) Le leggi come interpreti della natura umana. Io rimango nella convinzione che si può evitare quella degenerazione solo se le leggi dello stato democratico saranno ancorate alla legge della natura umana e non pretenderanno di creare “etiche” di settore o di categoria, particolari e mutevoli, ma esprimeranno l’unica, fondamentale “moralità” di tutti gli uomini. Solo se il diritto positivo sarà concepito e attuato come ispirato e subordinato al diritto naturale. Solo se lo ius quia iussum riconosce e interpreta lo ius quia iustum. Ed è iustum ciò che attribuisce a ciascuno il “suo” (iustitia est suum cuique tribuere), ciò che gli appartiene per natura. E da questo iustum che nasce la regola generale per i comportamenti umani, la legge morale universale. In conclusione, deve esser chiaro che lo stato con le sue leggi positive fa formalmente il cittadino, ma non fa l’uomo, che è sostanzialmente prima, e indipendentemente, dello stato stesso. Ciò significa che le sue leggi sono giuste e possono pretendere di essere rispettate da tutti, solo se e in quanto riconoscono e interpretano le leggi della natura umana. Solo se si fondano sui “valori” universali e perenni del diritto naturale. È per questo che la “Buona novella” ci dice che magis oportet oboedire Deo quam hominibus. Paolo Barbi Filosofo e saggista Tra Filosofia, Arte, Antropologia idee Sulla soglia dei sette peccati Superbia Allegorizzati nelle fiere dantesche, creature di confine, poste a marcare la soglia tra la salvezza e la perdizione, i sette vizi capitali potrebbero essere liminarmente trasformati in elementi “positivi”. S medievale e nell’iconografia sacra ed hanno la 25 citazione più celebre nella Divina Commedia, dove Dante personifica la lussuria, la superbia e la cupidigia in tre fiere: la lonza, il leone, la lupa. Loro, creature di confine, poste a marcare Avarizia uperbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia sono i sette peccati più gravi per la religione cattolica, che Gregorio Magno ha redatto in questa sequenza nel VI sec. Vengono tramandati congiunti all’aggettivo “capitali” che, dal latino capitale riferito a un delitto (facinus) meritevole della pena di morte, è passato a denunciare la morte dell’anima e la condanna all’Inferno. Sono stati fonte d’ispirazione nella letteratura Ira Lyceum Dicembre 2009 26 la soglia tra la salvezza e la perdizione, tra il simbolismo della luce solare e l’oscurità della valle infernale, allettanti nell’aspetto (come la lontra dalla gaietta pelle) o tanto paurose da far tremar le vene e i polsi, impediscono al peccatore Dante il passaggio verso il bene sulla vetta irradiata dal sole respingendolo in basso loco. La valenza liminare investe più aspetti dei sette peccati: l’interscambio lessicale tra vizio e peccato; il rapporto tra morale cattolica e concezione umanistica; l’antitesi tra connotazione profana e correlazioni con la religione o tra vizi e virtù. Sia nei testi sacri sia nell’uso comune è frequente l’omologazione dei termini “vizi” e “peccati”, pur essendo diversi non solo per la provenienza geografica, ma anche nella sostanza. Questo interscambio, pertanto, altera la differenza tra gli elementi caratteriali della persona, che fanno parte dell’antropologia, e la pratica di azioni vietate dalle religioni. I vizi, infatti, traggono origine da bisogni naturali dell’uomo che, oltrepassando il margine del soddisfacimento essenziale, diventano desideri smodati. A incentivare tali desideri, ossia a produrre il plusva- lore dei bisogni, provvede il consumismo che, nella sua provocazione dell’eccesso, si scontra con la morale cristiana, portatrice del messaggio della rinuncia e della mortificazione del corpo. Nell’attuale società, l’offerta consumistica è così incisiva che i vizi propendono a diventare tendenza collettiva e a mimetizzarsi come valori della modernità. La morale cattolica, com’è tipico delle religioni, addita nei peccati il venir meno a un obbligo verso Dio prima che verso i propri simili, perciò prospetta la loro punizione nell’eternità ultraterrena. La concezione morale umanistica li pone in una prospettiva laica e solleva il problema delle loro ripercussioni nelle relazioni interpersonali. Procedendo sul doppio binario della religione e dell’etica laica, i sette vizi si fanno portatori di evocazioni sacre e profane, di citazioni infernali e di problematicità sociale. L’aspetto liminare più inquietante risiede nel rapporto tra vizi e virtù. I vizi, infatti, sono componenti della natura umana dalle diverse potenzialità, che si attualizzano non solo per la forza congenita che hanno nella persona, ma Accidia Invidia Strumenti/Liminarismo Gola Lussuria anche per l’incidenza ambientale e per la repressione che li radicalizza. Considerandoli in questa dimensione, in un suo attuale ciclo pittorico l’artista pugliese Enrico Meo li rappresenta al femminile per denunciare l’educazione repressiva tradizionalmente subita dalla donna. Dopo secoli di netta contrapposizione vizi/ virtù, l’Illuminismo ha abbattuto il confine che li separava e li ha omologati negli effetti del benessere sociale. Immanuel Kant fa del vizio un tratto del carattere umano e Sigmund Freud li trasferisce dal territorio della morale a quello della psicopatologia. Ognuno dei sette vizi, tramite la moderazione, potrebbe trasformarsi in un elemento positivo: la superbia nell’elevata reputazione di sé, l’avarizia nella parsimonia, la gola e la lussuria nel gusto e nella gioia del vivere, l’invidia nell’emulazione dei migliori, l’ira nell’affermazione della propria personalità, l’accidia nell’amore del silenzio e della solitudine. Questa analisi dimostra che viviamo sulla soglia del peccato, perché, senza la giusta misura, ogni tratto innocente della nostra personalità rischia di degradare nel male. L’insegnamento filosofico In medio stat virtus continua ad essere il segno liminare capace di assicurare alla persona l’equilibrio e al credente la permanenza nella rettitudine. Secondo gli epicurei, questi sette vizi (invece della superbia figura l’amore dell’elogio) con i loro eccessi impediscono all’uomo di raggiungere l’atarassia, cioè la serenità che loro considerano il sommo bene. Nonostante la prospettiva del danno in sede di religione, di etica, nella società, i sette vizi sono componenti dell’umanità che stimolano l’agire quotidiano, nei bisogni basilari, come nutrirsi, ma anche nelle aspirazioni, nella difesa, nell’affermazione della personalità. Il problema è il confine sottile che, varcato, ci trasferisce dalla pratica virtuosa delle azioni sul terreno del vizio. Vittoria Butera Saggista e scrittrice Falerna Marina (CZ) Il ciclo pittorico dai 7 vizi capitali è stato realizzato dall'artista Enrico Meo Bibliografia di riferimento U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, 2006 Francine Prose, Gola, Raffaello Cortina Editore, 2006 Enrico Meo, pugliese d’origine, vive a Cosenza dove insegna nell’Accademia delle Belle Arti. Pittore, scultore, ceramista, sperimenta nuovi linguaggi artistici e utilizza le varie espressioni figurative in installazioni e performance. Numerose le sue mostre su tutto il territorio nazionale; le sue opere sono presenti in vari musei. Lyceum Dicembre 2009 27 Strumenti/Liminarismo TRA ORIENTE E OCCIDENTE Sono abitante della Terra 28 L Intervista esclusiva a Maram Al Massri, poetessa liminare tra Siria e Francia iminare per eccellenza è l’intellettuale che vive lontano dalla propria patria e si sente cittadino del mondo. È quanto emerso dall’intervista alla poetessa siriana Maram Al Massri, che abbiamo incontrato in occasione del Progetto Arabo “Viaggio nel Maghreb e nel Medio Oriente”, tenutosi a Cava e organizzato dalla Prof. ssa Maria Albano dell’Università di Macerata. Nata a Latakia (Siria), di famiglia musulmana benestante, Maram Al Massri si è formata sulla poesia di Hikmet, Gibran e Tagore. All’età di sedici anni iniziò a scrivere le prime liriche “rimate e ritmate”, sentimentali e patriottiche. Nel 1982 si è trasferita a Parigi, dove, nonostante si sia ben inserita, avverte una profonda nostalgia per gli affetti lasciati in Siria. Per questo ha cominciato di nuovo a scrivere nella lingua madre e a raccontare il suo mondo e il ricordo della sua patria. Il testo che segue è quello dell’intervista che lei, gentilmente, ci ha rilasciato in lingua francese. Un tema ricorrente delle sue liriche è quello dell’Amore. Qual è il concetto che lei ha di questo sentimento? Per me esso è molto reale ed è legato alle esperienze della vita. Esso porta via tutte le parole inutili e le catene che ci hanno imprigionato per secoli e secoli. Come vive la sua condizione di siriana, trasferita a Parigi? Vivo a volte un po’ male; ma, nonostante le difficoltà emozionali, ci sono bei momenti, perché Parigi è una bella città, che mi ha dato dei diritti, dignità che alcuni Paesi non concedono. Quali pensa siano gli elementi che uniscono e quelli che differenziano la cultura occidentale da quella orientale? Certamente, ci sono molte differenze tra queste due aree del mondo, ma con la cultura, la tradizione e la tolleranza penso che esse si possano avvicinare. Viviamo sulla stessa riva del Mediterraneo, dividiamo lo stesso amore e lo stesso sole. Le difficoltà stanno nella religione e nelle culture che ad essa sono collegate, ma con un po’ di umanità, di amore e di tolleranza, c’è la possibilità di una comunicazione. Oriente o Occidente? A quale si sente di appartenere di più? La mia infanzia è araba, ma io sono abitante della Terra, mi sento universale, sono dappertutto, Quali poeti l’hanno ispirata? Appena ho cominciato a scrivere, fin da piccola, sono stata influenzata dalla poesia di Hikmet e Gibran. Non appartengo a una scuola letteraria precisa, ma appartengo alla modernità della poesia. anche in Giappone, dove non sono mai stata. Adesso siamo cosmopoliti, perché non viviamo più solo nel nostro Paese; tutti i Paesi ormai sono legati da un destino comune. A volte mi sento molto orientale, a volte molto occidentale: dipende dalle circostanze nelle quali mi trovo. Il suo stile poetico non si può facilmente inquadrare in una precisa corrente letteraria. Ha dei modelli ben precisi, a cui si è ispirata durante la sua formazione letteraria? Non ho veramente molti esempi a cui mi ispiro, tranne l’esempio della libertà, l’esempio delle cose che abbiamo imparato a scuola, delle rime, dei tropi, degli studi classici. Io penso a un momento della mia vita quando avevo un fratello che mi ha spinta a liberarmi di questa catena, perché lui ha una profonda esperienza nel trasmettere emozioni attraverso le rime. E io mi sono liberata del mio stile originario, della forma, per dare sfogo alla fantasia e trasmettere sogni e sensazioni. Lei è stata identificata come una poetessa della naïveté. Si identifica in questo gusto letterario? Si, appartengo a questa tendenza linguistica. Penso che essa sia il miglior mezzo per avvicinare la poesia alla vita. Mi interessa trasmettere la mia poesia e le mie idee nella forma più immediata e più pura. Quali sono gli elementi essenziali delle sue liriche? Sono la vita, l’osservazione, io stessa, voi, tutti gli esseri umani. Salvatore Falanga 29 Marianna Pagano Nel prossimo numero di Lyceum saranno pubblicate l'intervista in francese e una poesia (in italiano e in arabo) di Maram Al Massri. Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo LETTERATURE COMPARATE 30 Il viaggio dell’ulisside tra arethê ed entropia planetaria L’inattingibile limen di un centro ‘periferico’ L ’equinozio di primavera dell’anno 1300 segna l’incipit del viaggio dantesco nell’oltretomba: trionfano temerarietà ed ulissismo, che non sono affatto leitmotiv del Vate, bensì topoi di plurimillenaria matrice, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Come non ricordare, prima ancora dell’Ulisse omerico e dantesco, l’epopea di Gilgamesh? Mitico re della città di Uruk nel terzo millennio a. C., è il protagonista di gesta memorabili, il faustiano precursore di un’illimitata sete di conoscenza, di un’inquietudine – tratto tipico dell’antieroe novecentesco – blandita dalla ricerca di una forma ancestrale di sapienza e di immortalità. Il poema omerico, dunque, che canta l’uomo polýtropos e fragile al contempo, eredita gli stilemi di un epos mesopotamico già consolidato su basi aurali e formularie. Il viaggio dantesco poi è solo la variante di un’antichissima e gigantesca metafora della conoscenza, di fiabe, di miti e di folclore orali, di cicli epici mediorientali, in cui al centro di un’avventura si colloca sempre lo schema della visione, fedelmente riprodotta dal pellegrino medievale, che attinge a piene mani all’enciclopedismo laico e mistico. Lo schema del viaggio era, infatti, ben presente a Dante, vorace lettore del Libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva, del De Ierusalem coelesti et de Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona, dei romanzi cavallereschi del ciclo bretone e dell’Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura da Bagnoregio. L’epopea del viaggio in Dante è solo l’inizio di un percorso straordinario: gli eroi-antieroi della conoscenza del ventesimo secolo scandaglieranno ansie e psicologismi del voyage within, sperimentando catarsi e redenzione nell’ascesi dell’esilio, della guerra, del silenzio creativo, della follia alienante – e penso a James Joyce, Giuseppe Ungaretti, Luigi Pirandello, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Thomas Stearns Eliot, solo per citarne alcuni. Il viaggio scandisce il cammino di un uomo, ma anche la sua dipartita, i suoi ‘riti di passaggio’, ossia i mutamenti esistenziali nello spazio rispetto alle transizioni epocali della storia, della politica, dell’economia e del costume. Il viaggio, insomma, marca un mutamento continuo, radicandosi in un’esigenza familiare e ordinaria per sradicarsi e fluttuare nel dominio del perturbante (heimlich vs unheimlich). Si parte per conquistare saggezza, si ritorna, se si ritorna, con la consapevolezza di un’esperienza che ha comportato fatica, pericoli, astuzie, inganni: Gilgamesh incise l’intera storia della sua peregrinatio su una pietra; Ulisse vide e conobbe le città di molti uomini e la loro mente, ma entrambi patirono il dolore di un’erranza spossante. Lo spazio privilegiato dell’eroe antico e medievale è uno spazio fantasmatico, che non conosce la cartografia e la toponomastica moderna e contemporanea: c’è sempre un centro – la città, il castello, il bacino del Mediterraneo, insomma lo spazio percorribile ed accessibile all’uomo - , e c’è sempre un decentramento verso la periferia di uno spazio bestiale e disumano, che rasenta l’orrido, il barbarico, l’occulto, il prodigioso, tutto quanto non sia di facile conoscenza ed accesso. Il centro, in Omero come in Dante, coincide con la definizione del limite umano, è un confine culturale più che spaziale; la periferia, invece, simula la ferinità, la dimensione selvaggia e dionisiaca del vivere, la trasgressione dell’uomo che lascia il suo centro e aspira a diventare un semidio. Abbiamo forse dimenticato che in Grecia l’ombelico del mondo era Delfi con l’oracolo della Pizia e che le feste dionisiache si celebravano originariamente in Frigia, ossia in territorio ‘barbaro’ per i Greci? E dopo i Greci, i Romani conquistarono il mondo: Roma fu caput mundi, centro dell’universo e di tutte le tradizioni religiose. E Gerusalemme? Le crociate ci hanno insegnato che il centro della cristianità era diventato anche il vessillo centrifugo di ariosteschi giganti e di cavalli alati. L’orientamento spaziale dei popoli antichi risponde all’esigenza del vivere associato, dell’identità collettiva su basi antinomiche – centro vs periferia – e su basi cosmologiche, astronomiche – l’asse oriente-occidente descrive il percorso giornaliero del sole per i popoli antichi, la direzione est-ovest incarna l’immaginario collettivo a partire dalla civiltà egizia fino a tutto l’evo greco-romano. Dante (Pd., XI) celebra l’apoteosi del Santo povero, Francesco, con una lunga perifrasi geografica per 31 additarne il luogo di nascita: se proprio si vuole indicarlo, ribadisce il poeta, che si dica «ascesi», «oriente» e non «Assisi». ‘Oriente’, da ‘orior’, designa il sorgere del sole agli estremi confini della Terra: Dante ha indubbiamente assimilato l’ ‘oriente’ degli antichi. Il Medioevo verticalizza e metaforizza, su basi cristiane, la rappresentazione di uno spazio diviso tra cielo e inferno. In ogni caso, la rappresentazione di un ordine stabilito dagli dei o da un solo Dio è pur sempre l’allegoria cosmologica dell’unheimlich attraverso gli archetipi dell’ignoto – la foresta, il mare, l’isola, l’oltretomba - : per riconoscersi in quell’ordine, ed eventualmente accettarlo o violarne le premesse, è necessario spostarsi lungo l’asse spaziale e viaggiare con tutti i mezzi possibili ed immaginabili. Per l’eroe antico, il viaggio è una condizione di sofferenza e di spoliazione, è un desiderio di conquistarsi la fama come unica forma di immortalità concessa ad eroi o a dei, è la forza inconscia di affrontare pericoli immani pur di attingere ad una maggiore conoscenza di sé. Il viaggio denuda Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 32 l’eroe, esponendolo al nuovo e disancorandolo dai consolidati diaframmi della terra del noto: il primo distacco dagli affetti e dalla terra è necessario per acquisire quell’autonomia emotiva ed intellettuale, quella che i moderni chiamano, con straordinaria valenza transfrastica, «dissociazione della sensibilità»; successivamente, le difficoltà e le privazioni sono funzionali alla capacità di cogliere le diversità etno-antropologiche; l’arrivo, con la conseguente integrazione, spiazzano, ma sono anche la premessa indispensabile per una ridefinizione psicologica e sociale dell’identità. Il viaggio cavalleresco medievale tende all’accettazione dell’ignoto come valore positivo; l’eroe antico, invece, accetta l’ignoto come perdita, spossamento e fatica immane, ma affronta il rischio con stoicismo pur di guadagnarsi la fama e la gloria: consunzione e logoramento fisico intridono le costellazioni semantiche del ciclo epico mesopotamico e del ciclo omerico. Gilgamesh affronta il mostro Humbaba della foresta dei cedri solo per procurarsi la legna necessaria all’edificazione dei sacri recessi; Odisseo è giovane e forte, ma è spezzato dalle innumerevoli sventure quando arriva nella terra dei Feaci. Per i cavalieri arturiani, invece, la foresta è sì l’ignoto, ma non perché ricca di insidie da superare per dimostrare la propria valentia: essa diventa il regno del caso e del prodigioso, in cui è bello scoprirsi e conoscersi. La selva «aspra» e «selvaggia» di Dante non è forse una prodigiosa tappa intermedia, che innesca la navigatio vitae del pellegrino nel regno «che solo Amore e Luce ha per confine»? I cavalieri medievali non sono forse uomini ‘liberi’, in quanto dotati di armi ed aventi il diritto di partire in qualsiasi momento per una nobile causa? La quest dell’eroe bretone e carolingio è infinita, labirintica, pluriprospettica: il Furioso dell’Ariosto è una tela infinita di avventure nobili, è il macrocosmo armonico del microcosmo intimistico dell’uomo moderno ben diverso dall’eroe antico. Nel poema il viaggio si tesse in solitudine e disinteressatamente: non più i sublimi affreschi tragici e corali di partenze eclatanti e collettivamente sofferte in nome dell’arethê, ma la solitudine dell’individuo già attraversato dallo spleen e dall’ansia di stabilire un confine tra finito ed infinito, umano e divino. L’eroe antico non fa differenza tra un ordine umano e un ordine divino; se lo fa, è per avvicinarsi alla condizione divina, non per riflettere sulla discrasia cielo-terra. L’eroe antico non avverte la spaccatura romantico-cristiana, che lacera Foscolo e Leopardi, perché è olimpicamente proteso verso l’immortalità ed agisce da ‘immortale’ (si pensi agli eroi pindarici). L’eroe moderno avverte la sua ‘finitezza’, perché l’avvento del Cristianesimo ne ha fatto un homo novus, ne ha trasformato la ratio e la psicologia di essere caduco e frale. La quest dell’eroe ‘al di qua’ del Medioevo è scandita dal desiderio di rintracciare nell’ignoto i segni distintivi della paura e del prodigio: il pelago dell’Ulisse dantesco è il simbolo dell’inconoscibile pauroso e della folle corsa verso i limiti del mondo conosciuto, del finito. L’eroe contemporaneo accetta positivamente il ‘nuovo’, in quanto possibilità di fuga dal presente corrotto dai lumi della civiltà e di ritorno all’autenticità della natura, nonché desiderio di trasgressione delle norme e ricerca del piacere: spesso la fuga implica il rifiuto della convenzionalità borghese, della professione, della routine lavorativa, insomma di un mondo stabile ed ordinato che opprime, schiaccia la creatività. Gli eroi-antieroi pirandelliani e sveviani rifiutano il codice ‘borghese’ e le sue opprimenti norme sociali, avvertono ‘umoristicamente’ la ‘contrarietà’ del vivere quotidiano, la frammentarietà di un io scisso e polimorfo. Siamo alle soglie della frantumazione dell’io di Hegel: l’uomo è «uno, nessuno, centomila», il suo viaggio traccia percorsi inesplorati, fino ai limiti dell’impossibile, aurorale accordo tra uomo e natura. L’uomo è scisso dal cosmo, stravolto dai venti di guerra e dal tramonto delle salde certezze metafisiche: intraprende un viaggio farneticante, diventa un funambolo joyciano colpito dal bagliore di gocce argentee sulla spiaggia (epifania di Stephen), un capocomico incapace di far recitare il copione già visto ai suoi attori ‘scorporati’. Il viaggio talvolta si configura come Sehnsücht, desiderio del desiderio, smania indecifrabile del vivere: accade all’artista del ‘900, che ha raggiunto il culmine espressivo della forma, ha scandagliato tutte le possibilità del mezzo artistico che gli è proprio, ha teso tutte le sue forze fino allo spasimo, ha coltivato la ‘forma’ artistica con ascetico ritualismo, insomma è all’occaso della sua stagione creativa. L’artista è allora al culmine dell’estenuazione, deve ricercare la novità, la diversità per poter ricominciare. Spesso la diversità risiede nel viaggio (l’esotismo romanticodecadente di marca estetizzante ed orientaleggiante), nell’esplorazione di luoghi anonimi e marcescenti, di città splendide per il loro passato artistico e mortifere al contempo. Accade a D’Annunzio, protagonista del bel mondo romano, squallido e corrotto dai fasti del Regime, candido visionario di scene diafane e nivali, torbido spettatore-attore di una digitale purpurea; accade a Thomas Mann, che fa partire Aschenbach per una Venezia lussureggiante e degradata; accade a Oscar Wilde, che investe nel viaggio metaforicamente inteso tutta la personalità di Dorian Gray, l’eterno femminino ritratto sulla tela, ma soggetto all’usura del tempo. Ulisse è l’eroe-antieroe metamorfico di tutta la letteratura odeporica occidentale: l’Ulisse omerico è l’eroe del nóstos, l’Ulisse moderno è l’antieroe della fuga. Già in Omero Ulisse-Odisseo rinuncia all’immortalità offertagli da una dea; l’itacese concentra in sé tutte le virtù dell’uomo europeo: viaggiatore polýtropos e reso esperto dai dolori per mare, abilissimo costruttore – ideatore del cavallo e del suo letto nuziale - , retore finissimo e, dunque, maestro del bel dire e della persuasione. Con la sua affabulatoria favella da aedo, Ulisse incarna, per il mondo greco arcaico e classico, il modello supremo della conoscenza e della poesia. Il fascino di Ulisse non risiede soltanto nella fiaccola della ‘conoscenza’, che tanto onoratamente ha portato nei secoli, ma anche nella sua misteriosa morte, profetizzata dall’indovino tebano Tiresia durante il viaggio all’Ade. Il contenuto della profezia è di straordinaria importanza, tanto che Ulisse, ritornato ad Itaca, avverte il bisogno di parlarne con Penelope, prima ancora di ricongiungersi alla sua donna nel talamo nuziale. L’eroe, dopo il suo ritorno, dovrà affrontare ancora un altro viaggio: con un remo sulle spalle, dovrà camminare fin quando non arriverà in un paese in cui le genti «non conoscono il mare,/non mangiano cibi conditi con sale,/non sanno le navi dalle guance di minio,/ né i maneggevoli remi che son ali alle navi» (Od., XI, vv. 122-125). In quel luogo, un viandante scambierà il suo remo per un ‘ventilabro’: allora dovrà placare l’ira di Poseidone-Ennosigeo compiendo altri sacrifici, dopo i quali potrà definitivamente tornare a casa ed esser colto da morte serena. Tiresia gli profetizza una morte quanto mai 33 ambigua, una ‘morte dal mare’, una morte dolce ‘da una serena vecchiezza’: non si capisce se la morte verrà dal mare o lontano dal mare. Intorno a questo dubbio si agita tutta la letteratura classica, che ha plasmato infiniti e leggendari vagabondaggi legati alla morte di Ulisse: Seneca si chiede se l’eroe si sia effettivamente arrestato alle colonne d’Ercole, Tibullo parla di un ‘mondo nuovo’ esplorato dal temerario. Ulisse diventa il simbolo della pazienza e della sagacia, oltre che della temerarietà, gli Ellenisti e i Romani ne fanno un campione di riflessività e non solo di azione, di sapienza teoretica e di ricerca. Dopo l’età ellenistica e l’età greco-romana, è Dante a rileggere, in maniera dirompente diremmo, l’ultimo viaggio di Ulisse, ispirando per secoli sottili e complessi giochi intertestuali, che fanno costante riferimento al canto XXVI dell’Inferno: il ‘mondo nuovo’ emerso dalle esplorazioni geografiche del XV secolo attraversa il mito di Ulisse in maniera originale, poiché le connotazioni del «folle volo», dell’oscurità che avvolge la navigazione nell’altro emisfero, della «montagna Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 34 bruna» scambiata per «nova terra», il «turbo» e il naufragio, insomma tutto quanto connoti l’altro mondo, spariscono di colpo. Restano solo alcuni riferimenti danteschi, quali «l’ardor a divenir del mondo esperto», «la foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi», la rotta «di retro al sol»: l’altro mondo cede al nuovo mondo, ossia alle nuove realtà geografiche scoperte da Colombo, Diaz, Magellano e de Gama. Risuona altissimo, per l’homo novus del Rinascimento, il monito ulissiaco: «Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza». L’uomo del ‘500 è ‘politropo’ come Ulisse, è un eclettico principe delle arti belle, dunque della retorica e del gusto, è colui che osa perché padrone dei suoi mezzi, è l’uomo che circumnavigherà l’Africa come Vasco de Gama, che oltrepasserà le ‘colonne d’Ercole’: anche Ludovico Ariosto ne è convinto, quando mette in bocca ad Andronica la profezia del ‘mondo nuovo’. Se il viaggio ulissiaco connota l’audacia e l’intelligenza dell’uomo rinascimentale, con il Romanticismo assistiamo ad un’ennesima trasformazione della figura di Ulisse: il suo viaggio è aspirazione al superamento di un limite, è l’ansia di attingere ad un quid inafferrabile; il desiderio di conoscenza coincide con un viaggio infinito al di là del confine del pensiero umano, fino all’annichilimento dell’essere. Alfred Tennyson, il poeta vittoriano dall’estenuata e gracile sensibilità decadente e preraffaellita, cristallizzò l’esperienza di Ulisse in un omonimo poemetto del 1833: il viaggio è sete di esperienza, ma l’esperienza fa sempre baluginare una nuova luce per poi farla svanire; la luce che balugina è come una stella che sprofonda oltre il confine del pensiero umano, quella luce è desiderio di conoscenza. E chi se non Dante ci insegna che il viaggio è luce, ascesa, compenetrazione della «vigilia dei sensi» – la vita sensibile (Inf., XXVI, 114-115) – e della «forma general di paradiso» – Pd., XXXI, 52 - ? Il viaggio dantesco è soprattutto questo: ascesa luministica dalla schiavitù del peccato alla libertà della grazia divina («Tu m’hai di servo tratto a libertade/per tutte quelle vie, per tutt’i modi/che di ciò fare avei la potestate», Pd., XXXI, 85-87). Nell’Ottocento, la metamorfosi di Ulisse ricalca, da un lato, il topos dell’indeterminatezza e della tensione all’infinito – l’evasione e l’esotismo sono due punti cardine della poetica romantica d’oltralpe - , dall’altro l’ulissismo, inteso quale desiderio di esplorazione e di conoscenza, viene deriso e messo alla berlina dall’iconoclasta Leopardi: per il recanatese, è bello ‘immaginare’ l’ignoto e farne poesia senza alcuna mediazione intellettualistica, è bello ‘naufragar’, ma è fondamentale restare ‘fanciulli’, guardare il mondo con occhi aurorali. Non appena l’esploratore moderno fissa confini e limiti su carte geografiche, si scopre l’‘arido vero’, tutto diventa uguale, il nulla si spalanca, cessano le infantili fantasticherie. Per Leopardi il viaggio è evasione, l’evasione è poesia, immaginazione, non scienza o numerologia cartografica: le peregrinazioni di Ulisse sono diventate materia poetica ‘metamorfica’, nella misura in cui hanno ispirato sull’onda lirica del sentimento poetico, non per le implicazioni ‘scientifiche’ – i grandi viaggi e le esplorazioni del XV secolo, la trasfigurazione eroica di Colombo, che lo stesso Leopardi celebra nella canzone Ad Angelo Mai, del 1820. Ulisse, campione della poesia e della scienza nell’età classica, incarna, nel XIX secolo, la galileiana frattura tra raziocinio e slancio fideistico: l’odissea dell’uomo moderno sfiora accenti apocalittici, l’unica vera scienza che si ricava dal viaggio è la consapevolezza del mondo come oasi di dolore e di tedio. Ci attende la morte, l’unica forma possibile di conoscenza è l’inabissamento nelle acque dell’ignoto – si pensi a Il viaggio di Baudelaire). Ulisse naviga per i mari di tutti i pianeti nel XX secolo con frequenza impressionante, rivivendo nel vitalismo superomistico delle Laudi dannunziane e nel catastrofismo nichilista di pascoliana memoria: l’Ulisse dannunziano è l’eroe classico che sfida «nembi» e «fati» e «iddii sempiterni», perché la sua anima «d’uom perituro» abbia immensa eco. L’Ulisse pascoliano è, invece, l’antieroe che riparte alla volta del canto delle Sirene, per ripercorrere il suo glorioso passato, per ridefinirsi: lo vediamo solcare un «mare liscio come un cielo», mirare «alla punta dell’isola fiorita le Sirene» dalle «ciglia molli», interrogarle nel gesto omerico e foscoliano di uomo caduco, che vuole rivivere nella forza dirompente delle illusioni poetiche. Ettore avrà «onor di pianti», nell’epopea foscoliana dei Sepolcri; Ulisse, nel suo muto colloquio con le Sirene, si vedrà circondato da un «grande mucchio d’ossa d’uomini», si renderà conto che il prezzo da pagare per la conoscenza è la morte. Non che non vi sia riscatto in L’ultimo viaggio pascoliano, tratto dai Poemi Conviviali: è che si avverte, al di là della forza del bel canto, il destino di un uomo solo, lo spleen di Kierkegaard e di Schopenauer. Con Salvatore Quasimodo, l’ ‘ultimo viaggio’ di Ulisse rivive ancora in chiave miticosimbolica: la Sicilia è l’ «isola di Ulisse» nata dal fuoco celeste, «nel rombo di rive lunari» si avverte ancora «il tempo delle mutazioni», che però non cambia l’ «antica voce» dell’isola (Isola di Ulisse, in Erato e Apollion). Il mito di Ulisse è così manipolato che diventa pure motivo di dissacrante ironia: in fondo, che senso ha l’ ‘ultimo viaggio’, se simula l’insensato moltiplicarsi di viaggi tutti volti alla ‘fine’ dei viaggi? L’ebreo prigioniero ad Auschwitz, in Se questo è un uomo di Primo Levi, è colto dall’improvvisa intuizione del suo trovarsi in quel lager: è il suo ultimo viaggio dantesco, come tenta di spiegare ad un suo compagno di pena. L’‘ultimo viaggio’ è la morte, il nulla, preferibili forse a tutto, soprattutto dopo aver gustato le gioie di un’esistenza mortale: la ninfa Calipso che, nella rivisitazione pascoliana (Calypso, 1904), accompagna il feretro di Ulisse, che aveva rifiutato un tempo «le vesti eterne» della dea, esclama: «Non esser mai! Non esser mai! Più nulla,/ma meno morte, che non esser più!» (vv. 51-2). Umberto Saba sospinge il suo non «domato spirto» verso quella «terra di nessuno», ove brillano come smeraldi «isolotti a fior d’onda»: è il suo testamento spirituale, l’altissima consacrazione della sua terra e della sua missione poetica, scandita dall’inesausta ricerca di conoscenza (Ulisse, 1946). La fine del viaggio non è più solo l’annichilimento dell’ignoto dell’antieroe novecentesco, ma anche la fine di qualsiasi possibilità di evasione offerta dal diverso e dal nuovo: i massicci fenomeni turistici di massa e l’imponente sviluppo di vie di comunicazione hanno svilito il significato stesso dell’esplorazione, ormai alla portata di tutti. Il silenzio dei mari polinesiani è stato violato da massicce portaerei, le bidonvilles rodono l’Africa, l’aviazione miliare viola le vergini foreste americane, i viaggi svelano il lurido volto della contaminazione. La Ter- 35 ra non ha più segreti per l’uomo del XX secolo, non è più uno scrigno prezioso che racchiude fantastiche promesse utopiche, ma solo una molecola battuta in lungo e in largo, con sinistri presagi distopici! Esplorare l’ignoto diventa, allora, un’ardua impresa, poiché bisogna reinventarlo, magari fantasticando negli spazi interplanetari o nelle viscere della Terra (si pensi a Jules Verne ed al romanzo fantascientifico). Mitiche frontiere dello spazio e del tempo popolano viaggi avveniristici e futuristici di robot, lanciati nello spazio e nel tempo per verificare, con positivistica precisione anatomica, gli effetti prodotti dalla selezione darwiniana e dalla marxiana lotta di classe: la conclusione di questi ‘congegni’del tempo e dello spazio, però, non è meno lugubre dell’ ‘ultimo viaggio di Ulisse’. Il pianeta Terra è destinato all’entropia, a forme di regressione animalesca ed antropofaga – H. G. Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 36 Wells, La macchina del tempo, 1895. Forse l’unico, affascinante risvolto del viaggio è l’esilio-profezia di uomini illustri, che vanno incontro al nulla pur di affermare il proprio credo artistico o ideologico, anche quando la segregazione coincida con la più sovversiva spinta anarcoide o con il più moderato ‘senso comune’ tacciato di anarchismo in pieno regime totalitario. Gli esempi nella letteratura e nella storia sono plurisecolari ed innumerevoli, bastino pochi nomi: Catone Uticense, Dante Alighieri, Torquato Tasso, James Joyce, Ignazio Silone, Palmiro Togliatti, l’ultimo rampollo di casa Savoia accolto in territorio italiano, i boss della ‘camorra’ e della ‘ndrangheta’. In ogni caso, si abbandonano le cose «dilette» e gli affetti più cari, come quelli additati dal trisavolo di Dante, Cacciaguida, nel XVII del Paradiso: siamo nel cielo degli spiriti combattenti, il destino del poeta è associato a quello dei ‘martiri’ per una giusta causa. Dante dovrà lasciare Firenze, ma la sua poesia sarà «vital nodrimento» per il mondo intero: nel cielo di Marte si profetizza l’esilio di Dante, ma anche la sua solenne investitura come poeta. Il viaggio di Dante «giù per lo mondo sanza fine amaro» e «per lo monte del cui bel cacume li occhi della mia donna mi levaro», si conclude nel paradiso con la consapevolezza di un esilio amaro, ma fonte di verità: il poeta rac- conterà tutto quanto ha testimoniato, la sua voce sarà «molesta» inizialmente, poi sarà «digesta», assimilata da tutti quelli che ameranno la luce della verità. La sua poesia immortalerà dannati e non, denuderà le aberrazioni di Bonifacio VIII, che ha mercanteggiato il suo esilio cospirando con i civili, scuoterà «le più alte cime» come un vento innovatore. In effetti, quando Dante si accinse alla stesura del Paradiso, l’esperienza dell’esilio era ormai lontana, il poeta aveva abbandonato la speranza di un ritorno a Firenze, scrivendo nella prospettiva eterna della gloria poetica. Attraverso il dialogo con l’avo, che in realtà è il suo alter ego, Dante riconferma a se stesso le ragioni di una scelta di vita improntata al rigore di una scelta morale e ad un amore della verità senza cedimenti o compromessi. Perso con l’esilio, e per sempre, il luogo più caro, il poeta rinuncia a qualsiasi altra protezione, fregiandosi della solitudine di chi «fa parte per se stesso»: la contropartita del suo viaggio senza ritorno e senza ‘Penelope’ sarà la gloria eterna, la fama «tra coloro/che questo tempo chiameranno antico» (Pd., XVII, 120). Gabriella Carrano Liceo Classico ‘Marco Galdi’ Cava de’ Tirreni e Università di Salerno LETTERATURA E TEATRO Tra memoria storica e fantasia emotiva Il mare grosso e una leggera foschia imperversavano davanti alla Torre del Serpe. Nei paraggi si muovevano i pescatori con i visi bruciati dalla fatica e dal sole. A largo hanno visto le galee turche. Ed ecco la consapevolezza e la paura prenderli al cuore (Maria Corti, L’ora di tutti, 1962). A passeggio per la città Una calda e ventilata mattina di fine luglio, una passeggiata nel centro storico della più bella cittadina del Salento, con monumenti, piazze, vicoli, negozi e ristoranti, con i bastioni che affacciano sul porto e verso il mare, con il lungomare e la spiaggia sabbiosa a ridosso della via di passeggio; un incontro inaspettato, due inviti per la sera, uno alla Festa della luce, percorso di musica, video e parole, con esposizione di libri Spirali, nella piazzetta presso la Biblioteca Antonio Corchia, l’altro alla rappresentazione di un’opera popolare, L’ora di tutti, di Maria Corti (1915-2002), nel fantastico scenario dei Fossati del Castello Aragonese della città più orientale d’Italia, il cui porto le fece assumere il ruolo di ponte fra oriente ed occidente, in quanto importante scalo di commerci tra Venezia, la Dalmazia, l’Italia meridionale e Costantinopoli. Due inviti per la stessa sera e alla stessa ora e il problema della scelta, risolto grazie alla magia da sempre esercitata da un castello, fonte di ispirazione per celebri romanzi come quello di Horace Walpole che, nel 1764, scrisse The Castle 37 ” ...la terra d’Otranto suona vivissima e si trasforma in terra di passioni più vere ” of Otranto, dalla critica valutato come il primo esempio di romanzo gotico. Si decide, dunque, per L’ora di tutti, o meglio per la trascrizione scenica del libro della Corti, un capolavoro della narrativa italiana sull’attacco subito da Otranto nel 1480 da parte dei Turchi Ottomani di Maometto II. Un testo che, come afferma Giorgio Caproni, i lettori sentono Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 38 vivo e vicino perché la scrittrice, seguendo il filo conduttore della battaglia, è riuscita a comporre un ordito descrittivo, quasi uno spartito musicale, dove la terra d’Otranto suona vivissima e diventa la terra delle passioni più vere. Quelle stesse passioni di cui è intrisa la vita della scrittrice. Una vita travagliata che l’ha costretta, dopo la morte prematura della madre e la lontananza del padre per motivi di lavoro, ad un lungo periodo di collegio, ma che l’ha vista tuffarsi nello studio, conseguire due lauree, in Lettere Classiche ed in Filosofia, insegnare nelle scuole secondarie, impegnarsi nella ricerca e nell’insegnamento universitari a Lecce e a Pavia, e dedicarsi anche alla scrittura creativa. Molte le raccolte di saggi e numerosi gli studi sugli autori delle origini ma anche su autori contemporanei che spesso frequentava personalmente, come nel caso di Eugenio Montale. Fondatrice e direttrice di riviste, collaboratrice de la Repubblica e, soprattutto, accademica della Crusca e creatrice del Fondo manoscritti di autori moderni e contemporanei presso l’Università di Pavia. E tanto amore, di una donna milanese, per la Puglia e per gli otrantini, ai quali ha fatto omaggio affettuoso del libro e sui quali così si è espressa: “Che uomini questi popolani. Come farà la storia a non perderne di vista nessuno?” Dal libro allo spettacolo Otranto, l’antica città greca di Hydrús, fondata da coloni cretesi, poi municipio romano con il nome latino di Hydruntum, al centro del Mediterraneo e per questo facile preda di Bizantini, Longobardi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Veneziani e Francesi, è descritta attraverso il racconto di cinque personaggi reciprocamente intrecciati: il pescatore Colangelo che, di guardia sulle mura della città, per difenderla sacrificò la propria vita; il capitano Zurlo, anche lui morto nell’intento di difendere la propria terra; Idrusa, secondo la leggenda la donna più bella di Otranto, uccisa mentre cercava di salvare un bambino catturato da un soldato turco; Nachira, uno degli ottocento otrantini che morirono decapitati e ai quali è dedicata la Piazza dei Martiri; Aloise de Marco, che racconta il ritorno alla vita dopo la liberazione dai turchi. E lo spettacolo, intreccio di un soggetto essenzialmente recitato e di parti cantate da solisti e coro, è quasi metafisico con quel suo mostrare un Salento nuovo ed enigmatico, con quel suo gusto per l’esplorazione di un mondo arcaico senza tempo, quasi un quadro che come per magia mette insieme attori (oltre cento giovani sotto i trent’anni su un palco di mille metri quadrati) e pubblico, protagonisti di un dramma avventuroso metatemporale e metaspaziale. Otranto, infatti, è ricostruita come luogo non solo della memoria ma anche della fantasia, per la presentazione di un fatto che è avvenuto nel passato e che viene ricreato nelle emozioni del presente. Ciò che più sorprende è il fatto che non si ha paura dei turchi, ma si può aver paura dell’ invasione, di quello che potrebbe modificare il corso della vita, costringere in prigionia, o addirittura uccidere. Si ha paura, insomma, di ciò che non si conosce. Ed è per questo che ci si chiede, sia scorrendo le pagine del libro che assistendo allo spettacolo, ma se legassimo alle storie dei protagonisti le nostre voluttà, miserie e paure, riusciremmo a restare noi stessi, con i nostri valori, in una situazione così drammatica? E se avessimo solo un’ora, la nostra ultima ora, quale sarebbe la reazione di ciascuno di noi insieme agli altri, ma allo stesso tempo solo con se stesso? Quali i pensieri dominanti, i ricordi ricorrenti, quali i sentimenti dell’ultima ora, fissati un attimo prima di smettere di esistere e intrappolati dalle macerie della tragedia? Domande sgorgate, più che dalla mente, dallo sguardo di chi, lettore o spettatore che sia, è sempre pronto a cogliere con tenero affetto i pensieri che si agitano den- tro i protagonisti mai abbandonati a se stessi, destinati ad essere eroi, martiri, temerari o vili, e a cancellare confini spazio-temporali nel tentativo di rivivere il drammatico evento storico su uno sfondo quasi verista di sorpresa per l’attacco, attesa snervante, ansia non sempre controllabile perché non si sa quale sarà la propria fine. Estetica senza confini E’ indubbio che il libro e la trascrizione scenica dello stesso rappresentano due generi diversi, ma è altrettanto indubbio che come la forza descrittiva delle parole della Corti riesce a far seguire la battaglia nel suo tumultuare di galeoni, scimitarre e bombarde, così la regia di Fredy Franzutti, le coreografie del Balletto del Sud, sintesi di tradizioni popolari locali respira, si e di elementi di danze orientali, le musiche di Francesco Libetta, gli arrangiamenti di Angelo Privitera e soprattutto la supervisione di Franco Battiato sono riusciti a fondere teatro, musica, danza, luci, effetti sonori in multidiffusione con speciali videoproiezioni, che riproducono sulle grandi mura del castello una scenografia virtuale ispirata alle opere pittoriche di Nino Della Notte, uno dei più famosi pittoripoeti salentini che ha saputo raccontare una terra bella, accogliente e carica di suggestioni. Stetti a guardarla, pensai che era bella come una donna minuta e ben fatta, in cui uno trova tutte le bellezze: costruita di pietra bianca, porosa e robusta insieme…Vista dal mare, Otranto appare ancora una fortezza…ma dietro la vuota abbondanza di mura e torrioni, un prodigio di viuzze bianche in salita, in discesa, di casette bianche, di palazzotti ” tufacei (Maria Corti, op. cit.), ma soprattutto di tanta storia che si respira, si sente, si vive. Storia che si para dinanzi agli occhi e che trasuda da opere architettoniche che non si sono lasciate oltraggiare dalla cruda violenza dell’uomo. Opere quali la splendida Cattedrale, costruita fra il 1080 e il 1088, col suo pavimento a mosaico risalente agli anni 11631165, per mano del monaco basiliano Pantaleone, e dove vennero benedetti i dodicimila Crociati che, guidati dal principe Boemondo I d’Altavilla, partivano per liberare e per proteggere Otranto è storia che si il Santo Sepolcro; il Monastero di S. sente, si vive Nicola di Casale, 39 dove era custodita una ricca biblioteca consultabile da ragazzi provenienti da tutta Europa per studiare presso l’Università che era stata da poco istituita, Monastero famoso anche per i Codici, ora custoditi nelle migliori biblioteche d’Europa, da Parigi a Londra, da Berlino a Mosca; la Chiesa bizantina di S. Pietro, la più antica della città; la piccola Chiesa dedicata alla Vergine degli Abissi; le mura angione; il già citato Castello aragonese; e, simbolo dei simboli, la Chiesa di Santa Maria dei Martiri, in cui ogni anno si ricorda il giorno del martirio ma anche la ferma volontà dei sopravvissuti di ricominciare a vivere a partire da quell’evento, assunto come confine dalla duplice valenza, in quanto passaggio dalla vita alla morte e dalla morte alla vita. Angelina Rainone Lyceum Dicembre 2009 ” Strumenti/Liminarismo Il “Liminarismo” nel cinema di Tornatore: PROIEZIONI D’AUTORE 40 È possibile fare storia del costume, della politica, della gente comune nell’ultimo secolo del nostro Paese, sganciandosi dal parametro storiografico o cronachistico, per far giungere un messaggio all’uomo di oggi attraverso una lettura “liminare” e meta temporale delle gioie, passioni e dolori che hanno caratterizzato l’immutabilità strutturale della provincia siciliana e meridionale in genere? Tornatore, da par suo, ci prova. E ci riesce insegnandoci qualcosa sulla libertà. D iscussione liminare Il liminarismo non è esclusivamente la “considerazione” del limite nella sua complessità, quanto anche (credo) la “discussione” sul limite in generale e sul suo senso. Per questa ragione la sezione sul liminarismo di Lyceum si è sempre posta come un grande “abbraccio” alla dimensione dell’indefinito in tutte le forme che la Ragione umana può scovare e approfondire. La sua espansione diventa sfida al raggiungimento di un orizzonte, piuttosto che al suo solo manifestarsi, per così dire, “fenomenico”. Possiamo, in questa direzione di ricerca, inserire anche il cinema? Credo di si. E quello di Giuseppe Tornatore, con il suo ultimo lavoro, appare come l’occasione giusta per aprire una discussione su tematiche fondamentali per la vita umana. Baarìa Oltre la trama Senza togliere allo spettatore il gusto della visione e, quindi, tralasciando lo sviluppo narrativo della pellicola, sarebbe interessante, in questa sede, fermarsi sui messaggi liminari del lavoro di Tornatore e sui contenuti che essi potrebbero trasmettere. “Potrebbero”. Eh si: perché la grande novità di Baarìa sta nell’estrema libertà interpretativa che ognuno può darsi del significato legato ai momenti fortemente meta-temporali del film e, conseguentemente, liminari, dal mio punto di vista. L’aspetto liminare più evidente del lavoro di Tornatore è riscontrabile nella felice intuizione di raccontare una Bagheria trasversale ai tempi che vanno dal ventennio fascista ai giorni nostri. Il tutto filtrato dallo sguardo, idealista e spassionato, di un militante comunista che abbraccia il marxismo come reazione all’ingiustizia di una società rurale che non da’ speranza a chi nasce nell’indigenza, per continuare, poi, la sua personale avventura politica, fino all’approdo riformistico. La storia individuale del protagonista è intrisa di meta-temporalità (dunque liminare), a differenza di quella relativa ad una Bagherìa che, negli anni, resta sempre uguale a sé stessa, con la sua gente indifferente o rassegnata, le sue discussioni vivaci e sempre inutili (come immortalato in un famoso quadro del grande Renato Guttuso, nativo della cittadina siciliana) e che, in fondo, fa da cornice ad una vita che è il vero “quadro” dell’opera tornatoriana, a sua volta, però, affrescata anche per filtrare altri messaggi che non siano esclusivamente quelli socio-politici: qual è il significato sibillino, ad esempio, della mosca che fuoriesce (incredibilmente viva) dalla trottola di legno del protagonista, spaccata nel gioco di strada dagli altri ragazzi? Il ruolo del grottesco Villa Palagonìa: dimora patrizia usata come set cinematografico da grandi registi e attori, da sempre ornata di statue grottesche e orrorose che, numerose, punteggiano ingresso e giardino. Il piccolo protagonista del film apprende, nell’occasione della lavorazione di una pellicola tra le sue mura, che anche il viale d’accesso alla tenuta era contornato da centinaia di figure raccapriccianti poi sparite nel buio dei secoli; ma, con la fantasia, egli riuscì ad immaginare l’arcana struttura passata con il tempo e, davanti ai suoi occhi, si materializzò una teoria di quelle antiche immagini scomparse. Poco alla volta, fra quelle icone di pietra, plastica traduzione dell’interazione liminare tra mondi apotropaici, cominciarono a far capolino altre figure grottesche ma vive, e cioè gli sconcertanti abitanti “diversi” di Bagherìa: ipodotati, storpi, alienati; tutto quel mondo di emarginati che, normalmente, viene considerato foriero di nulla di buono per i cosiddetti “normali”. Eppure, nella visionaria struttura narrativa di Tornatore, la chiave del messaggio più bello dell’intera pellicola, risiede nel gesto e nella “filosofia” di uno di questi reietti. La trottola La magistrale dissolvenza della scena relativa al viale dei mostri di villa Palagonìa che riporta lo spettatore in città, mette in contatto con uno di quegli stessi reietti così simile alle figure grottesche dell’antica residenza patrizia immaginate dal protagonista. Uno di questi infelici esegue lavori di falegnameria e costruisce, per il gruppetto di monelli che ha fatto irruzione nella sua bottega, trottole di legno, giocattoli fuori moda ma pieni di fascino. Prima di chiudere quella destinata al protagonista con il puntale di ferro che ne dovrebbe stabilizzare l’equilibrio in movimento, lo strano artigiano dà un suggerimento ai ragazzi: se all’interno della cavità ricavata nella trottola si fosse posta una mosca catturata mentre si librava libera nell’aria (e non appoggiata da qualche parte), anche la trottola avrebbe volato in libertà. Uno dei monelli del gruppetto afferra, appunto, una mosca in volo e il minuscolo insetto viene 41 chiuso nella trottola, sigillata dal puntale ferreo. La domanda del giovanissimo protagonista sulla sorte dell’insetto, se, cioè, esso sarebbe morto all’interno del giocattolo, resta in sospeso, senza risposta, mentre una nuova dissolvenza porta la storia su altri scenari con lo spettatore che quasi dimentica il piccolo, apparentemente insignificante particolare della mosca e della trottola. Lyceum Dicembre 2009 Interpretazioni metaforiche Alla fine del film, quando lo spazio narrativo cede il passo alla fantasia, all’interpretazione, al liminare, appunto, il particolare “senza importanza” di cui sopra, torna prepotentemente. E così, il protagonista, tornato bambino (dopo lo svolgimento della sua Strumenti/Liminarismo esistenza in una dimensione onirica dalla quale si sveglia tornando indietro nel tempo), si trova dapprima nell’attuale e caotica Bagheria; la città non è mai veramente mutata: nemmeno la casa dove abitava lui, perennemente in ristrutturazione, era sostanzialmente cambiata. E questa è davvero una trovata magistrale del regista per cristallizzare, in un solo istante, nell’immediatezza dei tempi cinematografici, l’immutabilità di eventi nonostante la loro ciclicità quasi “nietzescheiana”. Poi, il bambino corre in direzione opposta a quella da lui stesso percorsa all’inizio della pellicola fino ad incontrare il proprio alter-ego in una riproposizione paradossale degli eventi iniziali che si presentano, ora, come conclusione, laddove erano stati, precedentemente, i fatti con cui tutto aveva avuto luogo inizialmente. 42 La mosca A questo punto, protagonista e compagni riprendono il gioco interrotto all’inizio del film. Tutto sembra essere tornato alla normalità, ed anche nello spettatore comincia ad insinuarsi il dubbio che la dimensione onirica della pellicola sia predominante, quando, all’improvviso, uno dei monelli spacca in due la trottola del protagonista; il giocattolo di legno, frantumato, tremola qualche istante nella strada polverosa e poi si ferma, mentre la telecamera indugia qualche istante sul “cuore” dell’oggetto: ed ecco che dalla cavità centrale, zampettando lentamente, ne esce fuori, viva, la mosca che vi era stata rinchiusa tanti anni (o forse solo pochi istanti?) prima. “Rinchiudici una mosca libera ed essa girerà libera”, aveva detto più o meno l’artigiano al bimbo. Ora quella mosca libera, esce viva dal suo sarcofago ligneo pronta ancora a levarsi in alto; la Libertà, quella con le ali, quella con la elle maiuscola, può essere rinchiusa in un giocattolo di legno o essere messa a margine negli anni bui di una dittatura, ma prima o poi qualcosa (una guerra, una resistenza, nuove consapevolezze o semplicemente un gioco?) giungerà a frantumare l’involucro che la tiene costretta contro la sua volontà ed essa, forse un po’ stordita, disorientata, ma sempre vitale, potrà riprendere di nuovo il volo. Ineluttabilmente. Guido Iorio Dip. di Latinità e Medioevo Università degli Studi di Salerno LETTERATURA ITALIANA/1 Il “comico” liminare della Comedía: 43 I Personaggi comici che non ridono e beati che indulgono al turpiloquio l riso si accompagna alla nascita della letteratura romanza anche nei generi più inaspettati: sembra singolare che il pubblico delle canzoni di gesta, così amante dell’epica, potesse essere incline ad apprezzare l’ironia o la burla. Eppure frequentemente già in questi poemi, massime in quelli franco-italiani, la derisione e lo scherzo trovano ampio spazio, fino ad entrare in concorrenza con la vena epica che li dovrebbe maggiormente caratterizzare. Il comico non è conciliabile con l’esaltazione e richiede un distacco critico rispetto alla materia cantata, una mancata condivisione dei valori e della visione del mondo. Come afferma Bergson: “E’ necessario che chi ride non si lasci coinvolgere emotivamente dalla scena che lo diverte”. Ecco allora che anche i paladini possono trovarsi in situazioni più o meno ridicole come avviene nell’”Entrée d’Espagne”, il cui unico manoscritto è conservato alla Marciana e viene fatto risalire al Trecento, e nei cantari il cui pubblico apprezzava sia le imprese degli eroi che scene meno impegnative e più divertenti. Il riso non era solo quello che ci si aspettava dai fruitori, ma anche quello dei protagonisti e per lo più non era espressione d’allegria o di divertimento, ma piuttosto strumento di derisione, di “gab” nei confronti del proprio nemico o avversario. La risata di Orlando di fronte allo spavento del patrigno Gano, quando riceve l’incarico di recarsi dal re Marsilio di Saragozza per trattare la pace, è un’aperta sfida e come tale viene percepita dal signore di Maganza che incomincia già in quel momento a tramare la vendetta e il tradimento. Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 44 Gli eroi sono anche inclini al turpiloquio e offendono a sangue i loro nemici prima dello scontro: ricorrono spesso espressioni come “fils à putain” e “culvert”. Anche nel cosiddetto “ciclo bretone” siamo in presenza di scene ridicole e di personaggi che ridono, come sottolinea P. Ménard in Le rire et le sourire en France dans le roman courtois au Moyen Age. Dante conosceva bene questa materia e sicuramente ne è influenzato anche nella composizione della Commedia, non solo in singoli episodi, come nel V dell’Inferno, ma anche nella concezione del poema che alla fine acquista i tratti di una vera e propria Danteide, ma mantiene comunque la presenza del livello “comico”. Umberto Eco ne Il nome della rosa” ha ben presente, da profondo conoscitore del Medio Evo, tutta la problematica sul comico e sul riso. Tre sono le dispute tra il protagonista, Guglielmo di Baskerville, e Jorge Burgos, benedettino cieco e omicida per estirpare la piaga del riso e del peccato. Verba vana aut apta risui non loqui: Jorge Burgos così irrompe sulla scena e apostrofa i confratelli ricordando la regola che bisogna evitare le parole vane o atte al riso, quando tutti stavano scherzando nello “scriptorium” su alcune immagini ridicole. In questo episodio e più in generale nel romanzo vi è una rete di rimandi alla Commedia, non saprei quanto voluti dall’autore: l’apparizione improvvisa di Jorge, che sorprende i frati in una situazione secondo lui sconveniente, richiama l’episodio di Casella che riesce a fuorviare tutte le anime, Dante e Virgilio compresi, cantando Amor che nella mente mi ragiona; il motivo del riso e la responsabilità della letteratura (qui il secondo libro della Poetica di Aristotele) rinvia al racconto di Francesca nel V canto dell’Inferno. Si noti anche che è la sola volta che occorre nella prima cantica la parola “riso”: il “desiato riso” è la bocca ridente di Ginevra che attira irresistibilmente Lancillotto. Alla recisa condanna dell’intransigente frate Guglielmo ribatte che talvolta le immagini marginali inducono al riso a scopo educativo. Nella seconda disputa Jorge riparte da dove la prima era stata interrotta, ribadendo la sua riprovazione anche per i “marginalia”: i discepoli non possono lasciarsi attrarre da discorsi illeciti. Guglielmo ribatte con le parole scherzose che S. Lorenzo avrebbe pronunciato durante il martirio: “Manduca iam coctum est”. Il santo si sarebbe così rivolto ai suoi carnefici mentre veniva arrostito. Ovviamente il suo avversario inizialmente non capisce la battuta perché, come ancora sostiene Borges, “il riso cela sempre un senso nascosto di intesa, direi di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie che siano”. E, quindi, queste parole sono più rivolte ai confratelli che hanno un po’ di “sense of humor” che all’anziano e rigido monaco. Nell’ultima il contrasto riguarda la possibilità che Cristo abbia mai riso. Comunque per l’anziano monaco bisogna condannare le commedie e le favole che muovono al riso, infatti Gesù si è servito solo di parabole. Tutto ruota attorno alla poetica di Aristotele e alla possibilità che anche il comico abbia un suo spazio lecito. Platone, come è noto, aveva condannato il riso, salvando solo quello che si può avere durante i banchetti tra un ristretto gruppo di intellettuali. Per Aristotele, invece, la questione è più complessa: la commedia rappresenta uomini peggiori di noi non perché più brutti fisicamente ma perché ridicoli; comunque la condanna è meno netta. Dante ha soprattutto presente l’Ars poetica di Orazio, popolare e chiara sintesi delle tesi di Aristotele e degli Aristotelici, come risulta evidente del De vulgari eloquentia (II, IV, 6): Si vero comice, tunc quandoque mediocre quandoque humile vulgare sumatur. Il registro comico, perciò, ammette non solo la presenza di vocaboli bassi, ma anche di un lessico medio. Ancora più chiaro è un passo dell’Epistola a Cangrande: Similiter differunt in modo loquendi: elate et sublime tragedia; comedia vero remisse et humiliter, sicut vult Oratius in sua Poetria, ubi licentiat aliquando comicos ut tragedos loqui, et sic e converso. E’ ammesso che talvolta i comici adottino lo stile tragico e viceversa. Quello che nei testi teorici appariva una sorta di eccezione, la mescidanza degli stili, diventa la regola nella “Commedia”, dove il turpiloquio e l’utilizzo di vocaboli bassi non è solo prerogativa dei dannati. D’altro canto nell’Inferno, la cantica dello stile comico per eccellenza, nessuno ride; “riso” compare solo nel canto V quando Francesca ricorda la bocca ridente di Ginevra. Il riso ricorre spesso nel Paradiso associato a Beatrice: raggiandomi d’un riso / tal, che nel foco faria l’uom felice (Par., VII, 17-18), dentro a li occhi suoi ardeva un riso” (Par., XV, 34), O dolce amor che di riso t’ammanti, / quanto parevi ardente in que’ flailli (Par., XX, 13-14), tanto, col volto di riso dipinto, si tacque Beatrice (Par., XXIX, 7-8), lo rimembrar del dolce riso / la mente mia da me medesmo scema (Par., XXX, 25-26). Parlare di liminarismo in Dante può portare a farsi irretire dalle sirene delle interpretazioni esoteriche presentate da Pascoli e dal suo allievo Valli, per citare solo due esempi noti. Ma si può anche evitarne i rischi, affrontando la questione non dal punto di vista di letture “extravaganti” del testo dantesco, ma da quello più stilistico e letterario della unicità del comico della Commedia. Il “comico” è sempre stato visto con sospetto e con sufficienza dalla cultura ufficiale che, talvolta, ha rivalutato solo dopo la morte il lavoro e l’arte di autori e attori che in vita erano stati considerati spesso esponenti di un genere facile e popolare. Alludo a Charlie Chaplin, ma anche a Totò; mi riferisco ad Eduardo De Filippo, come a Jerry Lewis. La grandezza dell’autore o attore comico ha sempre avuto riconoscimenti tardivi, se non postumi. Come nota Borsellino, sono sempre stati più apprezzati i “generi” alti, quelli più rigidi dove i “topoi” sono fissati: l’autore tragico spesso si rivolge a un pubblico che già conosce la storia, da Edipo a Oreste, e non si aspetta grandi innovazioni: il “movere” ha delle leggi fisse e non richiede grande creatività. Il comico, invece, ha tutte le stimmate del liminarismo: l’autore è spesso emarginato o misconosciuto; talvolta in odore di stregoneria come Luigi Pulci; talvolta tende a infrangere leggi o tabù come Cecco Angiolieri. Bisogna, però, sottolineare che il comico non è unito inscindibilmente con il riso e l’allegria. La vena malinconica di Cecco emerge chiaramente ad esempio nel sonetto Il cuore in corpo mi sento tremare: Il cuore in corpo mi sento tremare, sì fort’è la temenza e la paura, ch’i’ ho vedendo madonna in figura, cotanto temo di lei innoiare. E non porìa in quel punto parlare: così mi si dà meno la natura, ched i’ mi tengo in una gran ventura quand’i’ mi posso pur su’ piei fidare. Infino a tanto che non son passato, tutti color che me veggiono andando, sì dicon: - Ve’ colui, ch’è smemorato! Ed io nulla bestemmia lor ne mando, ch’elli hanno le ragioni dal lor lato, però che ‘n ora in or vo tramazzando. Qui troviamo sì il linguaggio basso (“bestemmia”), ma anche scelte lessicali che avvicinano il Senese a Dante e alla cerchia dei poeti stilnovisti. Ad esempio “natura” in rima può ricordare “Chi guarderà già mai sanza paura” dell’Alighieri e i due sonetti sembrano ispirarsi entrambi a “Meravigliosamente” di Giacomo da Lentini (lì la rima è “pintura” / “figura”). Nell’età comunale nasce una categoria di poeti capaci di giocare su due scacchiere: di attingere all’aulico o al ridicolo nello stesso tempo; di essere fedeli d’Amore, ma anche autori giocosi. In Dante sono presenti due livelli di comicità: quella scurrile e grossolana amata anche da Cecco, e quella più fine che può sostituire il genere alto. Se, quindi, in certi passi dell’Inferno, il registro basso sembra attingere al tragico, allo stesso modo i beati del Paradiso possono esprimersi con un linguaggio dimesso dal lascia pur grattar dov’è la rogna di Cac- Lyceum Dicembre 2009 45 Strumenti/Liminarismo ciaguida al fatt’ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza di S. Pietro, coinvolgendo sensi diversi da quelli nobili e “alti”, la vista e l’udito. Se le anime del Paradiso possono usare il Latino, lingua grammaticale e superiore, sanno anche, presi dall’indignazione, lasciarsi andare a un linguaggio più basso, ma molto più efficace nei confronti dei fedeli quando parlano della corruzione mondana. Si può, quindi, avere l’azzeramento, o quasi, 46 della distanza che separava il Latino di San Clemente dal turpiloquio degli scherani che cercavano di catturarlo. Una comicità del significante, insomma, non del significato, realizzata attraverso un linguaggio realistico intessuto di più registri stilistici, tale da avvicinarsi anche nel Paradiso a Fili de le pute, traite. Carlo Pica Docente di Lettere Liceo Scientifico “Ugo Morin” - Mestre La più sublime storia d’amore della letteratura mondiale è nata tra il Nord e il Sud dell’Italia. Solo dopo è stata consacrata dal genio di Shakespeare. I racconti-canone di Masuccio e Da Porto si muovono tra confini labili e suggestivi: Amore e Morte, velamenti e disvelamenti, luci ed ombre, eccezionalità quotidiane e misteri carnascialeschi. letteratura italiana/2 La liminare storia di Giulietta e Romeo Gli arcani labirinti di Amore e Morte. Il binomio AmoreMorte, il cui confine interno è labile e sottile, ha colpito la fantasia degli scrittori in maniera ossessiva lungo tutto il corso dei secoli XV e XVI. Esso ha preso spesso la forma di una costante narratologica, incentrata sull’amore contrastato di due giovani, sul loro matrimonio segreto, sugli ostacoli che li separano e sulle vicissitudini, le quali per dei fraintendimenti o imprevisti portano entrambi gli amanti a morte atroce e miseranda. Canovaccio questo, che ha dato vita ad uno degli immortali capolavori della letteratura mondiale: Romeo and Juliet, scritta da William Shakespeare proprio negli ultimi anni del XVI secolo. Ma i narratori che, coniugando Amore e Morte, hanno inventato il mito di Giulietta e Romeo sono due italiani: il salernitano Tommaso de’ Guardati, detto Masuccio, autore della Novella 33 del suo Novellino, pubblicato postumo nel 1476, e il vicentino Luigi Da Porto, autore della novella Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti, scritta intorno al 1530. A questi due racconti, che inaugurano una lunga serie di opere letterarie su tale tema, si è poi ispirato il grande drammaturgo inglese. L’ambiguo avvio dell’azione. Cominciamo dagli inizi delle due novelle. Masuccio, che chiama Mariotto Mignarelli e Ganozza Saraceni i due protagonisti senesi del suo racconto, giovani peraltro di non uguale estrazione sociale, entra fin dall’inizio nel vivo del racconto. Infatti, in poche righe iniziali lo scrittore concentra l’innamoramento -che comunque sembra esser durato per un lasso di tempo abbastanza lungo- e il matrimonio segreto fra i Lyceum Dicembre 2009 47 Strumenti/Liminarismo due giovani, ottenuto con la complicità di un frate “corrutto per dinare”. Questi, non indicato nemmeno per nome, svolge un ruolo del tutto secondario nella novella del Salernitano, a differenza di quella di Da Porto. Quest’ultima inizia con la descrizione della rivalità fra le due famiglie, entrambe nobili: si tratta delle famose casate veronesi dei Cappelletti e dei Montecchi, da cui provengono appunto i protagonisti, che recano nel racconto daportiano già i celeberrimi nomi di Giulietta e Romeo. Dopo questa introduzione, la novella prosegue con un lungo inserto narrativo, in cui l’ammiccamento alla sfera del Mistero comincia a far capolino fra le notazioni apparentemente asettiche ed oggettive di Da Porto. Lo scrittore infatti ci trasporta magicamente nello straniante clima di una festa da ballo tenuta a Carnevale in casa Cappelletti, a cui si reca anche il giovane Romeo. L’umbratile mistero della festa. Durante la festa Romeo se ne sta appartato con molto sospetto”, atteggiamento che lo pone già in luce, anzi in un’ombra, sfumata e misteriosa. Emerge dall’ambiente dell’azione tutto il carattere conturbante del tipo di festa in cui sono calati i personaggi: il Carnevale, che è la festa liminare per eccellenza, proprio per la presenza anomala della maschera. “Le maschere di Carnevale -scrive Paolo Toschi- sono esseri del mondo degli Inferi, demoni e anime dei morti. Il Carnevale è una festa propiziatoria della fertilità della terra e dell’abbondanza delle messi. L’amore è Ora, per generare un incontro la nuova spiga o di occhi la nuova pianta, il Luigi da Porto 48 ” ” seme deve trascorrere un periodo più o meno lungo sotto terra. Là, nel buio delle plaghe inferne, stanno le potenze della generazione, le divinità sotterranee, i demoni, le anime degli avi che nella giornata fatidica del ricominciamento dell’anno, dell’eterno ritorno del ciclo produttivo, evocati da appositi riti, compaiono sulla terra e vi esercitano la loro forza”. L’aspetto sotterraneo e infernale del Carnevale richiama, nell’interpretazione succitata, un altro tema tipico di questa novella rinascimentale: la dialettica Vita/Morte, caratteristica di un altro rituale, tipico delle arcaiche comunità umane: l’iniziazione. Con esso il giovinetto veniva introdotto nella comunità della tribù, di cui diveniva membro effettivo: durante questo rito, effettuato mediante torture e mutilazioni, il fanciullo moriva alla vita precedente e risuscitava come uomo nuovo. Tutta la “arcaica” vicenda di Amore e Morte di Giulietta e Romeo (nella versione daportiana) è un “racconto di iniziazione”, in virtù degli elementi che qui evidenziamo: - Il non padroneggiare momentaneamente se stesso. In senso lato, questa condizione, nella novella del Vicentino, è anticipata dallo sconvolgimento che l’amore determina in Giulietta, la quale sente di più non esser di lei se stessa. - Il travestimento. Durante la scena del ballo questo tema assume l’aspetto di un vero e proprio capovolgimento fisiologico-sessuale, dal momento che Romeo non solo si presenta alla festa travestito da ninfa, ma addirittura offusca, con il suo fascino tra l’efebico e l’asessuato, la bellezza anche delle donne presenti (per la sua bellezza quella di ogni donna avanzava). - La maschera, la larva e il disvelamento. Romeo rivela ad un certo punto la sua identità, in quanto in un momento della festa si toglie la maschera, innescando in tal modo quell’aura di fascino “ambiguo”, di cui abbiamo parlato sopra. La maschera in tal modo svolge il suo ruolo -tipico della dimensione carnascialesca- di liberare la parte più occulta e forse più vera dell’Io e di capovolgere anche gli status sociali, trasformando il potente in misero, l’uomo in donna e viceversa. - La danza e il potenziamento dei sensi. Durante il ballo, i sensi dei due giovani vengono eccitati e potenziati. Due sono le azioni che dominano sovrane: il vedere e il toccare, che hanno delle sfumature chiaramente erotiche. La prima, segnata dal senso più alto, la vista appunto, crea un dominio dell’occhio e una rete di segrete intese e di ammiccamenti furtivi (non fu occhio che a rimirar non volgesse Romeo, il quale viene subito veduto da Giulietta, a cui non sembra di esser più padrona di se stessa proprio in seguito al primo incontro dei loro occhi). La seconda invece, segnata dal senso più basso, il tatto appunto, celebra il suo trionfo durante il ballo, che è impostato sul toccarsi le mani da parte dei danzatori. E proprio da uno di questi “contatti”, sottilmente erotici ed occulti, scaturisce la scelta amorosa di Giulietta, la quale, quando è stretta durante la danza, dalla mano del giovane nobile Marcuccio Guertio, la sente fredda sì che agghiaccia, mentre avverte come calda quella di Romeo. Se teniamo presente che la mano fredda è comunemente intesa come segno del rigore della morte, ci rendiamo conto dell’emergenza di un binomio Amore/Morte. Esso è esplicitamente affermato questa volta da Romeo, che sul fatidico balcone, dopo avere tentato di rifugiarsi -come scrive il Da Porto- nell’ombra, proferisce, a mo’ di profetica e sconvolgente anticipazione del loro destino, una serie di espressioni rivelatrici: Perché son anco in ogni altro luogo così presso alla morte come qui, procaccio di morire più vicino alla persona vostra che io possa. Il matrimonio segreto, gli ostacoli, la misteriosa pozione. Dopo il lungo preambolo dell’innamoramento dei due giovani, compare in Da Porto una figura, che si presenta come più complessa di quella che descrive Masuccio: frate Lorenzo. Infatti, oltre al ruolo -provocatoriamente liminare, assegnatogli dal Vicentino- di “mezzano” dell’amore fra i due innamorati, egli sembra incarnare certi aspetti del tipico intellettuale rinascimentale: egli è filosofo grande e sperimentatore di molte cose, così naturali come magiche. Dopo il matrimonio segreto dei due giovani, in entrambe le novelle, si presenta un ostacolo al rapporto d’amore fra i due amanti; ed anche questa volta è rappresentato da un evento di Morte: infatti il masucciano Mariotto, condannato perché ha ucciso un cittadino, fugge ad Alessan- 49 dria d’Egitto, mentre il daportiano Romeo viene bandito in perpetuo da Verona, poiché ha ucciso Tebaldo Cappelletti, che tra l’altro appartiene alla stessa famiglia della sua amata. Dopo questo episodio, che interrompe il clima idilliaco che si è creato fra i due amanti, in entrambe le novelle segue uno stato di prostrazione psicologica e di desiderio di morte da parte della protagonista femminile. Di fronte a tale situazione il frate elabora una soluzione per far uscire i protagonisti dal vicolo cieco in cui si sono cacciati. Il frate, rivelando delle precise conoscenze in campo “chimico-farmaceutico”, somministra una pozio- Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 50 ne a Giulietta, la quale entra in una condizione di morte apparente (di soglia tra vita e morte), che non è molto dissimile dalla “morte momentanea” di cui parlava Propp a proposito della iniziazione, perché è adesso che scattano le vere “prove” che gli amanti, perennemente sospinti sulle soglie della Morte, devono superare. A questo punto entra in gioco un secondo, più grave, ostacolo alla incolumità e alla libera espressione dei propri sentimenti per i due amanti: l’imprevisto. In Masuccio si verifica un procedere parallelo, ma in direzioni opposte, dei due amanti: Ganozza, come abbiamo detto, si dirige verso l’Egitto, però con forte ritardo, a causa di un estremo rallentamento di rotta registrato dalla nave, fatto a cui si accoppia l’uccisione di un servo, che avrebbe dovuto informare Mariotto. Perciò quest’ultimo, informato nel frattempo in modo sbagliato riguardo alla morte della propria donna, ritorna a Siena, disposto a morire. Questa fase dell’azione è l’ultima ad essere presente anche in Da Porto: infatti, la lettera inviata da frate Lorenzo non giunge a Romeo, che, nel frattempo, informato da un servo in maniera erronea circa la dipartita di Giulietta, ritorna a Verona. La soglia tra vita e morte. D’ora in poi le vicende, come sono presentate dai due narratori, prendono strade diverse. Nell’opera dello scrittore campano Mariotto viene sorpreso in chiesa, mentre tenta di forzare il sepolcro vuoto di Ganozza -che intanto è ad Alessandria d’Egitto- e, arrestato, viene decapitato. Nella narrazione del narratore vicentino, invece, la trama prende una piega più articolata. Innanzitutto Romeo riesce a giungere presso la “tomba” della sua donna e a vedere lei in preda ad una morte apparente. Si ripresenta, dunque, una serie di azioni -come è stato riscontrato all’inizio della novella- dominate dalla vista e dall’”occhio” in modo specifico. Romeo avanza nel buio, munito di una lanterna, definita cieca -come “ciechi” sono in genere i maghi e i profeti- quasi che la caratteristica di tale oggetto indicasse l’incapacità a “vedere”, che è poi la traslazione a livello di simbolo inconscio dell’impossibilità a porre in atto il rapporto d’amore. Poi i riflettori (per rimanere nella metafora della luce e della vista) vengono puntati su Giulietta, che intanto si sta svegliando dal suo stato di confine tra morte apparente e vita. Il dramma dello straniamento e l’enigma del mezzano. In questa fase del racconto, che risulta essere il momento culminante del dramma, mentre Romeo sta prendendo il veleno che lo condurrà in breve tempo alla morte (vera), si intrecciano le due tematiche che ossessivamente hanno siglato le vicende narrate dal Da Porto: la dialettica Caldo/Freddo e il dominio della Vista, questa volta miscelata all’enigma dell’inganno e del non-essere. Infatti, mentre la fredda virtù della polvere svanisce nel corpo di Giulietta e il freddo della morte si impadronisce di quello di Romeo, un processo di straniamento sembra deformare le capacità cognitive della giovane. Costei stenta a padroneggiare i suoi sentimenti (quasi fuor di se stessa era), per cui non crede che colui che la sta abbracciando sia Romeo ancora vivo e lo scambia con un’altra persona: frate Lorenzo. Questo, invero, è uno degli elementi non facilmente spiegabili dell’intera storia narrata dal Da Porto. Certo, come abbiamo già rimarcato, la figura del frate è circonfusa (e confusa) di un’aura di vago erotismo, creata all’origine dai due protagonisti: da Romeo (che grido fuori mandandolo, sosembra avere delle pra il morto corpo si rese. intese segrete con Se però lo spazio dedicato lui) e da Giulietta al trapasso della giovane (che lo vede come è stranamente ridotto (di il “mezzano”, il quale contro alle divagazioni, che deve fare in modo invece, abbastanza corpose, che il padre di lei a caratterizzano l’intero testo questo accordo condaportiano), un’ulteriore sentisse). e non breve aggiunta alla Invero, anche storia dei due amanti infelici quando l’equivoco figura nella novella dello è chiarito, i latenti scrittore vicentino. lacciuoli di Amore e Masuccio inventò la variante Innanzitutto l’autore della storia in cui l’antenata Morte non allentano di Giulietta si lascia morire di dolore dell’Historia riporta alla riballa loro avvinghiante ta il personaggio di frate Lorenzo, che, sorpreso presa, perché paradossalmente -proprio nel dagli sbirri vicino alla tomba aperta e interrogato momento della dipartita di Romeo- frate Losul motivo della sua presenza in un luogo sacro renzo gioca appieno il suo ruolo di “mezzano”. È che appare violato, all’inizio mente, sostenendo un “baccanale” di sguardi, una fantasmagoria di di essere lì per pregare; ma, messo alle strette, scene che si imprimono come magnetiche luci deve raccontare tutta la verità che egli ben di flash scattati in una conturbante penombra: conosce. Ma, in secondo luogo, dopo che tutti i Lorenzo vede Giulietta scapigliata, la quale a sua misteri sono stati svelati, ci si avvia alla concluvolta apostrofa il proprio padre (non presente) sione del racconto attraverso l’inserimento di un 51 invitandolo a vedere il cadavere di Romeo nel personaggio, che è nuovo fino ad un certo punto suo grembo. E, mentre il frate dice a Romeo: (perché la novella si è aperta all’inizio proprio con “Vedi la tua Giulietta, che ti prega che la miri”, il il suo nome): Bartolomeo della Scala, il Signore giovane, alza, per poi rinchiuderli per sempre, i di Verona. Egli vuole innanzitutto “vedere” di suoi “languidi occhi”. E anche in quell’aggettivo persona i corpi morti dei due amanti e poi con la finale languido non va sottaciuta la compresenza sua autorità innesca il meccanismo della riappacidell’elemento amoroso (il languore d’amore) e ficazione fra le due famiglie, che, da doppia pietà dell’elemento funereo (il languore inteso come vinte, pongono fine alla lunga inimicizia. condizione di qualcosa che giace nell’attesa Questo personaggio, che sembra solo estedell’estinzione e della decomposizione). riore e quasi inserito forzatamente nell’evolversi degli eventi, si carica di significati inconsci e Il tragico epilogo e il trionfo del capovolgimento. E siamo così giunti all’epilogo delle due novelle. Masuccio con la sua drammatica laconicità conclude il racconto in poche battute: Ganozza, prostràta dal dolore in seguito alla scoperta della decapitazione del marito, si lascia rinchiudere in un monastero a piangere la sua sorte sventurata, finché la coltre della morte non ammanta i suoi miserrimi giorni. Misteriosa e non ben spiegata è invece la morte della Giulietta di Da Porto, la quale, diliberando di più non vivere, raccolto a sé il fiato, ed alquanto tenutolo, e poscia con un gran Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 52 doppi. È il caso di ricordare come la storia di questa novella si snodi tutta all’insegna del tema del Padre. È il padre del narratore, che è un “doppio di se stesso” -come riferisce l’autore all’inizio- ad avergli raccontato i tragici fatti; è il padre di Giulietta ad essere il principale ostacolo al coronamento del sogno d’amore dei due giovani; sono i padri di questi ultimi, che abbracciandosi pongono fine alle ostilità, instaurando dei rapporti di rispetto e di amicizia; è frate Lorenzo, padre anomalo e invischiato nei fatti, a costituire la molla dell’azione complicandola o risolvendola; ed è infine Bartolomeo -”padre” super partes ed esterno ai fatti- a seppellire, oltre che gli sventurati giovani, il loro amore fallito e gli inutili odi dei loro parenti, in un bel monimento, cioè in un maestoso monumento sepolcrale, che funga (come è tipico di un padre affettuoso ma al tempo stesso autorevole) anche da “ammonimento” per le future generazioni. Il capovolgimento (come positivizzazione) della figura del Padre rientra in un processo più ampio, che può essere così sintetizzato: la Paura resta come incubo, ma è confinata nei sotterranei Territori di Coloro che non esistono più. Franco Salerno MUSICA LIMINARE Giuseppe Martucci Un compositore “alternativo” del tardo Ottocento italiano I l 2009 è stato un anno ricchissimo di anniversari nella storia della musica. Sono stati commemorati Henry Purcell (1659, trecentocinquantesimo della nascita), Georg Friedrich Haendel (1759, duecentocinquantesimo della morte), Felix Mendelssohn (1809, duecentesimo della nascita) e Franz Joseph Haydn (1809, duecentesimo della morte), Ottorino Respighi (1879, centotrentesimo della nascita), Giuseppe Martucci (1909, centenario della morte), Nino Rota (1979, trentennale della morte). Tra questi, Giuseppe Martucci è senza dubbio l’autore meno noto al grande pubblico, che solo in rarissime occasioni riesce ad ascoltare le sue creazioni nelle sale da concerto. Nato a Capua il 6 gennaio 1856, fu compositore, eccellente pianista ed eclettico direttore d’orchestra. Il suo liminarismo va ricondotto alla sua grande personalità di compositore “strumentale” (non operistico) in un periodo, quello a cavallo tra Otto e Novecento, dominato in Italia dal “gigantismo” melodrammatico di Verdi e Puccini. Sotto questo aspetto egli fu senza dubbio il più grande precursore della Generazione dell’Ottanta, cioè di quei musicisti (Respighi, che fu allievo di Martucci a Bologna, Pizzetti, Malipiero e Casella) che si fecero promotori di una rinascita della musica strumentale italiana sulla scia della tradizione sinfonica e cameristica europea, soprattutto francese e tedesca, 53 al fine di spezzare l’isolamento imposto alla cultura musicale italiana dall’imperante melodramma. Martucci studiò a Napoli, dove dal 1880 insegnò al Conservatorio. Nel 1886 ottenne la direzione del Liceo Musicale di Bologna, ricoprendo anche la carica di Maestro di cappella in San Petronio. Ritornò poi (1902) al Conservatorio di Napoli come direttore. Morì il 1° giugno 1909. Pianista apprezzato anche da Liszt e Anton Rubinstein, fu infaticabile organizzatore di eventi musicali (diresse la Società del Quartetto e la Società Sinfonica di Napoli) e si adoperò intensamente per la diffusione in Italia delle composizioni sinfoniche dei romantici tedeschi e anche dell’opera di Wagner, di cui diresse nel 1888 a Bologna la prima rappresentazione italiana del Tristano. Martucci fu uno dei pochissimi esponenti del sinfonismo italiano del periodo tardoromantico e nelle sue creazioni, soprattutto in quelle formalmente più riuscite in ambito sinfonico e cameristico, è evidente l’influsso di Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo 54 Schumann, Mendelssohn, Liszt e soprattutto Brahms (in misura minore Beethoven e Wagner), influsso “dominante”, che lascia emergere lo stile di una personalità autonoma solo in modo parziale. Emblematiche di questa produzione “epigonica” del Nostro sono composizioni di grande bellezza, come le due sinfonie in re minore (1895) e in fa maggiore (1904), i due concerti per piano e orchestra – soprattutto il secondo in si bemolle minore (1885), virtuosistico e ricchissimo nella elaborazione tematica – e il Quintetto per pianoforte e archi in do maggiore (1878). Dove il Maestro napoletano riesce invece a esprimersi con stile più autenticamente originale, è nelle molte pagine per pianoforte solo, brani spesso elegiaci e malinconici, talvolta addirittura “miniature”, con atmosfere ora brillanti ora crepuscolari. I pezzi più riusciti sono stati successivamente orchestrati dallo stesso Martucci e, in questa versione, hanno raggiunto anche una discreta popolarità. E’ il caso della luminosa Giga op. 61 (1883), la misteriosa Novelletta op. 82 (1905), la briosa Tarantella op. 44 (1875) e il “sentimentale” Notturno op.70 n.1 (1888). Soprattutto l’orchestrazione degli archi nobilita questo brano, che risulta essere di grande presa emotiva: la sua cantabilità e la sua struggente espressività sono un commosso omaggio, stavolta peraltro molto personale, al Tristano e sembrano addirittura in sintonia con il crepuscolarismo di alcuni adagi mahleriani. Questa sintonia risulta forse più evidente in quello che può essere considerato il capolavoro del Nostro. Si tratta del “poemetto lirico” La Canzone dei ricordi, composto nel 1887 per mezzosoprano e pianoforte e dedicato alla cantante modenese Alice Barbi, apprezzata interprete dei Lieder di Brahms. Martucci nel 1899 orchestrò il brano arricchendolo tematicamente con numerosi richiami alla linea melodica della voce, con una tecnica che a tratti ricorda il Leitmotiv wagneriano. Tale “ispessimento” del tessuto orchestrale, rispetto all’originale per piano, fa pensare all’analoga operazione di trascrizione-approfondimento realizzata nello stesso periodo da Mahler nel ciclo liederistico Des Knaben Wunderhorn. La Canzone dei ricordi mette in musica i versi del poeta Rocco Emanuele Pagliara (1856-1914) che ricopriva in quegli anni il posto di bibliotecario del Conservatorio di Napoli. E’ una composizione della durata di poco più di mezz’ora, che attua un’ originalissima sintesi tra le atmosfere nostalgico-pascoliane del testo, la vocalità italiana e l’eredità del liederismo tardoromantico tedesco (che si spegnerà nel doloroso tramonto del Das Lied von der Erde mahleriano). A dispetto del titolo, che suggerisce un’unica canzone, il “poemetto lirico” è in realtà un unico ciclo liederistico organizzato in sette canzoni, collegate sia nel testo che nella musica. La trama dell’opera ruota attorno al composto dolore di una donna che, immersa nella natura, ricorda l’amore perduto. La settima canzone è un richiamo abbreviato della prima e chiude in maniera circolare un percorso nel quale il triste ricordo dell’amato si traduce in un’immagine onirica, indefinita, che sparisce. Nel centenario della morte, l’Orchestra Sinfonica di Roma, diretta da Francesco La Vecchia, ha registrato su 4 CD tutte le composizioni orchestrali di Martucci (trascrizioni comprese), offrendo un’interpretazione profonda e rigorosa. La lodevole iniziativa della casa discografica (“ovviamente” non italiana) ha così voluto ricordare la figura liminare di Martucci, musicista nato in pieno Ottocento nella patria dell’opera lirica e, ciò nonostante, autenticamente alternativo. Ruggero Prospero Stipendium Bayreuth 1992 Docente di Filosofia e Storia Liceo “G. Bruno”- Mestre Teorie liminari Il Lotto: regole del gioco Modelli e strategie per massimizzare le probabilità di vincita e minimizzare i rischi. Il Lotto è un gioco molto semplice che consiste nel pronosticare uno o più numeri che vengono estratti a sorte ogni martedì, giovedì e sabato sulle ruote di 10 città italiane. Le città (o ruote, come sono chiamate in gergo) sono Bari, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia. Nel Lotto ci sono 90 numeri (dal numero 1 al 90), cinque dei quali possono essere estratti su ognuna delle ruote. I numeri non possono ripetersi nella singola estrazione di una ruota ma possono essere estratti su ruote diverse. I pronostici possibili sono l’estratto semplice, l’ambo, il terno, la quaterna, e la cinquina. Il giocatore può indicare nella schedina fino a 10 numeri diversi scegliendo la combinazione alla quale intende riferirsi e la ruota presa in considerazione (si può scegliere anche più di una ruota o addirittura si può scommettere su tutte le ruote) e su tale combinazione può puntare una somma di denaro (puntata). Probabilità delle combinazioni vincenti Riferendosi ad una cinquina di numeri estratti su di una singola ruota esistono diverse combinazioni vincenti. Consideriamo per semplicità una singola ruota. Siamo nel caso in cui n=90 elementi vengono estratti in gruppi di k=5. Nella 55 singola estrazione un numero non può essere estratto due o più volte quindi non ha senso considerare gruppi con elementi ripetuti. Inoltre non conta se un numero viene estratto per primo o per ultimo, per cui non ha senso considerare gruppi in cui gli stessi elementi vengono disposti diversamente. Siamo perciò nel caso in cui dobbiamo considerare le combinazioni. Schedina per giocare al Lotto Sulla sinistra i numeri su cui puntare e sulla destra il tipo di puntata da effettuare. Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo Tutte le possibili combinazioni sono perciò: 90·89·88·87·86 90! C90,5= = = 18·89·22·29·43 = 43949268 5·4·3·2·1 (90-5)!5! Questo numero rappresenta tutte le cinquine che possono essere estratte. Si realizza la combinazione vincente chiamata estratto, quando si riesce nel pronostico ad indovinare un numero tra quelli estratti sulla ruota. Supponiamo di puntare su m. Dobbiamo chiederci, di tutte le possibili cinquine, quante contengono il nostro numero m. Il numero m è fissato e poi dobbiamo considerare degli 89 numeri rimasti tutte le loro combinazioni a 4 a 4 da affiancare ad m per fare la cinquina. 89 elementi a gruppi di 4 possono essere combinati secondo il coefficiente: 89! 89·88·87·86 C89,4= = = 89·22·29·43 = 2441626 (89-4)!4! 4·3·2·1 56 Queste sono tutte le combinazioni, per noi, vincenti in quanto contengono il nostro estratto. Per cui la probabilità di indovinare l’estratto è data dal numero di combinazioni (cinquine) per noi vincenti C89,4 diviso per il numero di cinquine possibili C90,5. P1= C89,4 C90,5 = 89! 89! 85! · 5! 89! 5 · 4! 5 1 85! · 4! = · = · = = = 0.0556 90! 85! · 4! 90! 4! 90 · 89! 90 18 85! · 5! Cioè la possibilità di indovinare l’estratto è all’incirca il 5,6%. L’ambo si ottiene quando si riescono ad indovinare due numeri tra quelli estratti sulla ruota. Supponiamo di puntare su k ed h. Dobbiamo Punteggio Estratto (1) Ambo (2) Terno (3) Quaterna (4) Cinquina (5) chiederci, di tutte le possibili cinquine, quante contengono i nostri due numeri. Gli altri 88 numeri rimasti devono essere affiancati ai nostri due numeri k ed h in gruppi di 3 per ottenere una cinquina. 88 elementi a gruppi di 3 possono essere combinati secondo il coefficiente: 88·87·86 88! C88,3= = = 88·29·43 = 109736 3·2 (88-3)!3! Queste sono tutte le combinazioni, per noi, vincenti in quanto contengono i due numeri del nostro ambo. Per cui la probabilità di indovinare l’ambo è data dal numero di combinazioni (cinquine) per noi vincenti C88,3 diviso per il numero di cinquine possibili C90,5. P2= C88,3 C90,5 = 2 801 = 0.002497 Pertanto la possibilità di indovinare l’ambo è all’incirca lo 0,25%. Analogamente si può verificare che le probabilità del terno, della quaterna e della cinquina sono P3= C87,2 C90,5 = 1 11748 , P4 = C86,1 C90,5 = 1 511038 e P5 = C85,0 C90,5 = 1 43949268 Il Lotto non è un Gioco Equo Il gioco del lotto paga un numero di volte la posta giocata a seconda del punteggio totalizzato. Indovinando un estratto, puntando su di una singola ruota, si vince 11,232 volte la posta giocata, mentre per l’ambo si ottiene 250 volte la posta giocata. Quindi se giochiamo 1€ sull’ambo Premio (K) 11,232 Probabilità (P) 1/18 Speranza matematica - Premio atteso per la giocata unitaria (K·P) 0,6240 Guadagno del Banco (G=1-K·P) 0,3760 250 2/801 0,62422 0,37578 0,383044 0,616956 0,234816 0,765184 0,136521 0,863479 4500 120000 6000000 1/11748 1/511038 1/43949268 Per ogni punteggio sono riportati la vincita, la probabilità di ottenerlo, la speranza matematica, che rappresenta anche il premio atteso sulla giocata unitario di €1, e la percentuale di guadagno del banco (in questo caso lo Stato) sulle puntate di quel punteggio. per una ruota, indovinando la combinazione, potremmo vincere 250€. I premi per ognuno dei punteggi sono riportati nella Tabella 1 insieme con la probabilità di ottenere quel punteggio. Un gioco si dice equo quando il premio K per una combinazione vincente è pari all’inverso della probabilità P della combinazione vincente. In tal caso il prodotto KP (la speranza matematica) è pari ad 1. La speranza matematica è la vincita media attesa per la singola giocata di 1 €. Se tale prodotto è minore di 1 allora il gioco non è equo ed è sfavorevole per il giocatore, in quanto un giocatore in media si aspetta di vincere, per ogni puntata di 1 €, una somma minore di 1 €. La speranza matematica mostrata in Tabella 1 è sempre inferiore ad 1, per qualsiasi tipo di combinazione vincente. Questo vuol dire che il Lotto non è un gioco equo. L’ultima colonna ci indica il guadagno del Banco (che è rappresentato dallo Stato) che risulta maggiore sulle giocate con premi superiori, che sono proprio quelle più appetibili per i giocatori. Quindi su una puntata di €1 sull’ambo, il giocatore può aspettarsi di incassare in media €0,62, meno di quanto ha puntato, mentre il Banco può guadagnare circa €0,38, sulla cinquina può incassare in media circa €0,14, mentre il Banco ne incassa circa €0,86. Numeri ritardatari Da parte di molti giocatori è invalso l’uso di puntare sui “numeri in ritardo”: se un numero non viene estratto su una certa ruota da molte settimane, su di esso si concentrano le puntate dei giocatori. Tale strategia non ha alcun fondamento razionale in quanto ad ogni estrazione la probabilità che un numero venga estratto è sempre: P1= C89,4 C90,5 = 1 18 anche se quel numero non esce da parecchie settimane. Andiamo ad illustrare da dove nasce questo equivoco. La probabilità che un numero non venga estratto è pari a: Pnon1= 1 - P1= 1 - 1 = 18 17 18 Siccome due estrazioni sono due eventi indipendenti allora, per il teorema della probabilità composta, la probabilità che un numero non sia estratto per due estrazioni di seguito è: Pnon1= (2 estr) = Pnon1 · Pnon1 = (Pnon1)2 Di conseguenza per n estrazioni avremo: Pnon1= (n estr) = Pnon1 · Pnon1 · ... · Pnon1 = (Pnon1)n n volte Si nota come, all’aumentare del numero delle estrazioni, tale probabilità diventa sempre minore. Per esempio: ( 1718) = 0.057 → 5.7% 17 =( ) = 0.003 → 0.3% 18 Pnon1= (50 estr) = (Pnon1 )50 = Pnon1= (100 estr) = (Pnon1 )100 50 100 Quindi vediamo che la probabilità che un numero non esca per 100 estrazioni di seguito è lo 0.3%. 57 Chiariamo ora questo storico equivoco dei “ritardi”. Supponiamo che il numero 73 non esca da 100 estrazioni: questo significa che, sebbene tale avvenimento (che il 73 non uscisse dall’urna per 100 volte di seguito) fosse molto improbabile, esso è comunque avvenuto. Tuttavia questo non significa che la prossima volta il 73 avrà maggiori possibilità di uscire: la probabilità sarà sempre 1/18. In pratica, con questo tipo di probabilità, possiamo solo giudicare se ciò che è avvenuto in passato (il 73 non è stato estratto 100 volte di seguito) era poco o molto probabile, ma non possiamo far cambiare la probabilità che esso esca nella prossima estrazione perché essa è sempre 1/18 in quanto il 73 sarà di nuovo con tutti gli altri numeri nell’urna e solo 5 di loro verranno estratti. Emiliano Barbuto Istituto Magistrale “De Filippis” - Cava de' Tirreni Emiliano Barbuto è autore del testo Teoria dei giochi. Modelli e strategie per massimizzare le probabilità di vincita e minimizzare i rischi, Edises, Napoli, 2007. Lyceum Dicembre 2009 Strumenti/Liminarismo L’ evoluzione di una lingua “morta” La conoscenza del Latino e del Greco alla base di alcune professioni M 58 olte volte i ragazzi decidono di non iscriversi al liceo classico, perché lo reputano poco adatto, se si desidera affrontare, in futuro, studi diversi da quelli classici. Questo ragionamento è falso a priori. Da sempre sostengo con orgoglio che l’indirizzo classico è il più completo in assoluto, perché dà ai ragazzi una formazione culturale a tutto tondo, creando dei prerequisiti indispensabili per ogni tipo di cursus studiorum che si vuole intraprendere. È ovvio che il docente di materie classiche deve dare un contributo determinante perché un discente possa comprendere che il latino e il greco non sono affatto lingue “morte”, ma “fondamenta di cemento” per la propria cultura e per la vita (ripeto: per la vita!). Se ad un ragazzo venisse insegnato che Ulisse, Enea ed Ettore non furono solo eroi partoriti dal mito, ma icone di civiltà, allora tutto cambierebbe. Va sottolineato, infatti, che questi tre personaggi rappresentano tipologie modernissime di uomini: ancora oggi come allora c’è chi desidera viaggiare per apprendere, chi è costretto a farlo per “ripartire” e chi deve combattere perché la patria è in grave pericolo. Un retroterra culturale del genere dà la possibilità di colmare molti vuoti presenti nei nostri giovani, i quali comprenderebbero, per esempio, perché ritornare in bare coperte da un tricolore non debba suscitare solo pianto e rabbia, ma anche l’orgoglio di essere italiani (Ettore docet!). Ritornando al tema del nostro articolo (l’evoluzione di una lingua “morta”), c’è da segnalare che qualche tempo fa è stato pubblicato sulla rivista specialistica Schola uno studio condotto dalla dottoressa Francesca Capellini, che ha svolto una ricerca sulla storia del linguaggio medico, evidenziando l’importanza della conoscenza del greco (dell’odiato greco!), per esempio, per un medico. Ha chiarito ancora una volta che le parole di origine greca formano la maggioranza dei termini medici attuali: alcuni ancora in uso senza mutazioni, altri parzialmente innovati, altri creati ex novo nel corso dei secoli. Davvero interessante è cogliere sul piano storico lo sviluppo e l’”evoluzione” della terminologia medica greca partendo dalla fase più antica, che inizia con Ippocrate, fino all’età contemporanea. Punto di partenza fondamentale per la storia del linguaggio medico è il Corpus Hippocraticum, poi, nel V secolo, si sviluppa l’indagine filosofico-scientifica sull’organismo e la terminologia si adegua ai progressi fatti: si tratta, però, di un linguaggio ancora in via di formazione, perché esso viene a fissarsi scientificamente solo con un certo Galeno. Le grandi novità si verificheranno nel Rinascimento, che rappresenta la fase storica che fornisce il nucleo più vistoso e ancora oggi determinante della terminologia medica, soprattutto nelle branche della macroanatomia e della patologia. Alcuni esempi potrebbero essere i nomi di malattie che risalgono a questo periodo, come “alopecia”, “aneurisma”, “artrite”; nomi anatomici come “epididimo” e “perone”, e nomi di medicinali come “antidoto”, “clistere”, “collirio”. Pertanto la lingua medica contemporanea (e non solo questa lingua!) deve a quella antica tantissimo, non soltanto per i singoli termini, anche se numerosi, ma soprattutto per il meccanismo dei suffissi e prefissi e per la capacità del greco a formare composti. Gli stessi Romani non producono opere scientifiche originali, ma ne traducono in grande quantità dal greco. Famosi traduttori e rielaboratori sono stati Celso, Plinio il Vecchio, Aureliano e tanti altri, che riprendono forme greche adattate morfologicamente al latino, fanno calchi semantici riferiti all’ anatomia esterna e agli organi interni. Tra le forme greche adattate, troviamo “arteria”, “emorragia”. Esempi di calchi semantici sono “infiammazione”, “intestino cieco” e “pupilla”. Invece, sono parole latine “cute”, “febbre”, “mano”, “occhio”. Nel periodo che va dalla caduta dell’impero romano all’anno Mille la produzione scientifica è costituita da traduzioni e sillogi, che si riferiscono solo alle branche della patologia e della farmacologia. Dopo l’anno Mille, le discipline rifioriscono, per cui ci sono nuove traduzioni di testi medici greci e latini, e viene eseguita la volgarizzazione di libri di medicina di scrittori arabi, che avevano studiato e tradotto a loro volta i greci. Dalla seconda metà del Quattrocento e nel Cinquecento viene rifondata la terminologia medica anatomica, riprendendo lo studio dei classici greci e latini e distruggendo tutti gli arabismi (ne sopravvivono solo alcuni come ”nuca”, “caviglia”). Anche nei secoli XVII e XVIII la terminologia medica continua ad essere fondata sulle lingue greche, pur subendo un grandissimo arricchimento per l’applicazione del microscopio. Gli scienziati riprendono termini di grande forza evocativa, come: “glomerulo”, “ovaio”, “placenta”, etc. Infine c’è da aggiungere che liste di termini medici sono state realizzate anche nel Novecento, soprattutto per le terminologie settoriali della medicina, e anche in questo caso si è attinto moltissimo dalle lingue classiche, basti pensare ad espressioni latine del tipo “in situ” (nella parte anatomica), “cutis laxa” (pelle rilasciata), “bacillus rigidus” (bacillo rigido), oppure ai numerosi suffissi greci, tra i quali si possono ricordare “a/an-”; “ana-“, “anti-”, “apo-”, “cata-“ e così via. Fanno parte, certamente, della lingua medica esiti latini correnti nelle lingue 59 romanze, come, per l’italiano, “cuore”, “petto”, “piede”. In ogni modo, c’è anche da dire che sono presenti nel nostro vocabolario medico vocaboli non coniati sulle lingue classiche, come: “allele”, “antigene” e così via. Dunque, appare evidente che le lingue classiche sono tuttora attuali e rappresentano ancora un mondo pieno di tradizioni, dalle quali attingere a piene mani se vogliamo che la nostra vita sia migliore. In una società dove regna il caos, i giovani devono far riferimento a certezze consolidate, a mondi reali, ad esempi memorabili e tutto questo si può cercare e trovare, in gran parte, nelle opere degli autori greci e latini. Una cosa l’abbiamo certamente appresa: un buon medico deve conoscere il Latino e il Greco. Ad maiora. Giuseppe Robustelli Bibliografia essenziale Riflessioni tratte da opere di Ippocrate, Galeno, Plinio il Giovane e Celso. Rivista letteraria di riferimento: Schola. Lyceum Dicembre 2009 Percorso Il bicentenario della nascita di C. R. Darwin e il 150° de L’origine delle specie sono stati ricordati dal “T. L. Caro” di Sarno con il progetto “ L’evoluzione dell’evoluzione”, strutturato in due momenti. Il primo, una sorta di laboratorio, in cui alunni ed insegnanti del Liceo Classico, Scientifico e Brocca hanno prodotto svariati lavori, confluiti in questa sezione, che evidenziano aspetti particolari di una teoria variamente interpretata e che ha avuto moltissime applicazioni. Ci confrontiamo, infatti, con il rapporto Darwin-scienziato e Darwin-uomo, con i tratti salienti che lo allontanano da Linneo, con il Lamarkismo. Vi rintracciamo, poi, uno storyboard per raccontare la terra, il fascino della ricerca sull’origine della vita, dell’uomo, del mondo; ma anche il problema della datazione della creazione, le difficoltà di definire una specie, il tema del Disegno Intelligente, l’annosa domanda sulla possibilità di conciliare evoluzionismo e creazionismo. E, ancora, l’evoluzione e le sue applicazioni in biologia ed in particolare al sistema scheletrico; e poi un “battito” lungo 600 milioni di anni ed una favola per raccontare la terra e le sue meraviglie… Il secondo, un convegno svoltosi il 30 novembre scorso presso il Centro sociale di Sarno sul tema “L’Evoluzionismo di Darwin: certezze scientifiche, effetti culturali e dubbi teologici”, coordinato con competenza e professionalità dalla Prof.ssa Rosa Maria Aliberti, introdotto dal D. S. Prof. Giuseppe Vastola, che ne ha dato un’interpretazione metodologico-didattica, e impreziosito dall’intervento del Prof. Aldo Masullo, docente di Filosofia morale presso l’Università Federico II di Napoli, e del Prof. Alfonso Langella, teologo laico dell’Accademia Pontificia Mariana di Napoli. L’argomento del prossimo Percorso è: La Cultura della pace L’ Evoluzionismo di Charles Darwin UN CONVEGNO-EVENTO N Certezze scientifiche, effetti culturali, dubbi teologici el 2009 la comunità scientifica festeggia la doppia ricorrenza del bicentenario della nascita di Charles Darwin e del 150° anniversario della pubblicazione della sua più grande opera: “L’Origine delle specie per selezione naturale” In essa il grande naturalista espose la sua teoria dell’evoluzione, per selezione naturale del più adatto, in grado di offrire una interpretazione complessiva del mondo naturale. Contrariamente al successo che la teoria ebbe tra i naturalisti dell’800 ed alla sua ancora attuale forza esplicativa in ambito scientifico, la stessa incontra ancora difficoltà di penetrazione nella scuola. Questa istituzione, invero, rappresenta, per la maggioranza delle persone, l’unica sede e l’unica occasione di un contatto approfondito con l’evoluzione del mondo naturale, uomo incluso. Ed appunto il Liceo Classico “T. L. Caro”di Sarno ha inteso partecipare ai festeggiamenti stimolando una riflessione su questo tema. Gli alunni e i docenti dei tre plessi della scuola, il Liceo classico, il Liceo scientifico “G. Galilei” ed il Liceo maxi-sperimentale “Brocca”, hanno sviluppato un progetto “L’Evoluzione dell’Evoluzione” che ha ripercorso le tappe fondamentali attraverso le quali si è modificato l’evoluzionismo, grazie all’osservazione del mondo naturale e, più di recente, agli esperimenti genetici a livello molecolare. Inoltre l’approfondimento di questa tematica ci ha permesso di interagire tra le discipline 63 curricolari (scienze, religione, filosofia, italiano), in modo da tendere verso una conoscenza trasversale efficace, scevra dei limiti che impone la settorialità. La teoria darwiniana, così come le scoperte astronomiche di Galileo Galilei, il 2009 è anche l’anno galileano, o anche la teoria eliocentrica di Copernico, vanno ben oltre il piano puramente scientifico, investendo anche quello filosofico e persino teologico. Questi scienziati rivoluzionari hanno, infatti, spostato l’uomo dal centro dell’universo e hanno modificato definitivamente il suo rapporto con la natura, attribuendogli un nuovo ruolo e nuove responsabilità. Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin 64 A conclusione di questo percorso di studio è stato organizzato, grazie anche al patrocinio del Comune di Sarno, un incontro-dibattito su “L’evoluzionismo di C. Darwin: certezze scientifiche, effetti culturali e dubbi teologici”. Abbiamo pensato di mettere a confronto un comunicatore scientifico, prof. Bruno Bertolini, docente di citologia e anatomia comparata, Università La Sapienza di Roma, un filosofo, prof. Aldo Masullo, Università Federico II di Napoli ed un teologo, prof. Alfonso Langella, docente aggiunto di Teologia dogmatica, Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia meridionale. Sono intervenuti, anche, il sindaco avv. Amilcare Mancusi e il prof. Luigi D’Amico, segretario ANISN, sez. di Napoli, ha moderato l’incontro la scrivente, prof. Rosa Aliberti, docente di Scienze Naturali di questo liceo. Questo dibattito è stato pensato sia come momento conclusivo del lavoro affrontato con i ragazzi, che come contributo a diffondere l’idea che la Scienza e la Teologia rappresentano differenti campi di analisi e di interpretazione. Solo una seria riflessione filosofica può aiutare entrambe, indicando potenziali punti di convergenza e il modo in cui questi due campi d’analisi possono integrarsi. La manifestazione, rivolta anche alla cittadinanza, ha riscosso un sorprendente successo (il Centro sociale era pressoché gremito!) sia tra gli alunni, che si sono mostrati, in alcuni casi, addirittura entusiasti, che tra le persone intervenute, numerose, dall’esterno. Il risultato ottenuto, in un momento in cui molti assecondano scelte poco faticose, dove è richiesto poco impegno, impone una riflessione approfondita da parte delle istituzioni ed un obbligo della scuola a proporsi come agenzia di cultura e volano di conoscenza e di rottura del fronte della mediocrità Dobzhansky e della omologazione. Dobzhansky, un genetista russo che poi si trasferisce negli Stati Uniti, rimasto sempre legato alla Chiesa ortodossa, in una lettera allo storico Green, chiarisce il suo pensiero dicendo: “Io sono convinto che l’evoluzione non sia una vaudeville del diavolo, ma sia in qualche modo un muoversi verso; io spero un muoversi verso una qualche città di Dio”. E l’idea affascinante che l’evoluzione sia in qualche modo un muoversi verso una qualche città di Dio è, se mi permettete, bellissima. Il biologo evolutivo Francisco J. Ayala, dell’Università della California a Irvine, ha definito l’evoluzione un design without a designer, ”un disegno cieco”, che si realizza da sé, ironizzando sugli sforzi che ancora oggi alcuni teologi compiono per screditare la teoria dell’evoluzione. Scriveva Ayala nel 2001: ”Darwin ha completato la rivoluzione copernicana, definendo dal punto di vista biologico la natura come sistema di materia in movimento guidato da precise leggi, che può essere spiegato con il ragionamento, senza ricorrere a entità sovrannaturali”. Inoltre, il fatto che tutte le forme di vita condividano un’origine comune è un utile sprone all’umiltà. ”L’uomo porta ancora impresso nella sua struttura fisica il marchio indelebile della sua umile origine”: scriveva Darwin in L’origine dell’uomo, pubblicato nel 1871. In ogni caso, il lascito più importante di Darwin può senz’altro essere individuato nell’enorme quantità di ricerche e teorie che prendono spunto dai suoi scritti e che approdano in ambiti sicuramente inimmaginabili per Darwin. La comprensione dei meccanismi evolutivi ha favorito lo sviluppo di nuove tecnologie nei settori più disparati:dalla sanità alla sicurezza, dall’ecologia all’informatica, dalla robotica alla legalità. Questa impresa è stata possibile grazie all’Amministrazione comunale, che fattivamente ha contribuito alla realizzazione di questa manifestazione, ai relatori, che con i loro interventi hanno delineato in modo puntuale e approfondito il tema proposto, al dirigente scolastico, che mi ha supportato e sostenuto nell’iniziativa e al team di docenti, in particolare il mio collega di scienze Francesco Annunziata, il cui impegno è stato quanto mai prezioso e fondamentale per la buona riuscita del progetto e dell’incontro. Alla fine, ma non in ordine di importanza, un grazie personale va agli alunni, che in vario modo, ma sempre da protagonisti, e senza risparmio di energie, hanno partecipato alla realizzazione di ogni fase dei lavori. Rosa Maria Aliberti Referente del Progetto 65 Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin Intervista al Prof. Aldo Masullo, relatore al Convegno su Darwin La Cultura è madre non di scontri, ma di incontri Colloquio con un Maestro del pensiero su Scienza, Filosofia e Modernità N 66 el corso dell’interessantissimo Convegno “L’Evoluzionismo di Darwin: certezze scientifiche, effetti culturali e dubbi teologici” abbiamo incontrato il Professor Aldo Masullo, uno dei più grandi intellettuali italiani. Parlare con Lui è stato tremendamente ammaliante… Che ruolo ha la Filosofia nella Società contemporanea? “La Filosofia non è ’Scienza’ nel senso tecnico di conoscenza verificabile, fondata su metodi convenuti, ma è ’Sapienza’, cioè maturazione dell’esperienza attraverso cui l’uomo perviene ad una più piena consapevolezza di sé, dei suoi limiti, dei suoi problemi e cerca di conoscere se stesso. Ricordate l’Oracolo di Delfi? ’Conosci te stesso’. La Filosofia, dunque, è obiettivo comune a tutte le culture umane, è un principio unitario che accomuna e non divide.” C’è il pericolo di appiattimento e di massificazione soprattutto tra le giovani generazioni? “Il pericolo del momento è l’equivoco della tecnica. C’è chi tenta di risolvere tutto con la tecnica; e chi, invece, abolendo del tutto la tecnica. Nessuno dei due atteggiamenti è completamente giusto. La tecnica è coessenziale alla vita dell’uomo. Il pensiero umano è produttore di tecnica. Ad esempio, è tecnica la matematica che è organizzazione di procedure mentali: l’intuizione mentale non si consuma, ma si organizza in un, per così dire, ’manuale’. E’ tecnica anche la lingua umana. Tecnica, in greco, significa ’abilità’; è una prefigurazione dell’azione per soddisfare i bisogni umani, non solo materiali, ma anche e, forse soprattutto, esistenziali.” Da che cosa è caratterizzato l’Uomo? “Dall’insicurezza. ’Sicuro’ deriva dal latino ’sine cura’, cioè ’senza preoccupazione’. Ma se l’uomo sa, ad esempio, di dover morire, di poter perdere l’amore…come fa a non essere insicuro? Il vero suo problema è rispondere a questa insicurezza, perché l’insicurezza produce la paura che produce l’aggressività, che produce a sua volta la competizione senza limiti, che infine produce la guerra.” La Filosofia, dunque, come può aiutare l’Uomo? “La Filosofia deve far prendere atto all’uomo della sua condizione ed avere un ruolo di raccordo delle tecniche di cui egli dispone per arrivare alla soddisfazione dei suoi bisogni e delle volontà umane. La Filosofia non deve portare a degli scontri, ma alla concordia.” E che cosa pensa Lei delle tesi darwiniane? “Le Scienze sono vere finché non vengono superate da altre Scienze. La Scienza è storica, è relativa. Il termine ’Natura’ viene da ’nascor’; Vico parlava di ’nascimento delle cose’. Essere nel tempo come specie significa non fermarsi alle cose come ci appaiono, ma avere consapevolezza di un processo che ha avuto una sua origine e può avere un suo termine.” Su quali campi le teorie darwiniane hanno avuto dei riflessi? “Sulla conoscenza del mondo vivente, sull’evoluzione delle specie con conseguenze di carattere culturale generale. Grazie alle teorie darwiniane, abbiamo capito che non esistono razze superiori e razze inferiori; e ciò è fondamentale da tutti i punti di vista: culturale, sociale, etico, morale.” Viridiana Myriam Salerno La lectio magistralis del Prof. Aldo Masullo sarà pubblicata integralmente in apertura del prossimo numero di Lyceum per il suo spessore culturale profondo e altamente scientifico. 67 Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin LECTIO MAGISTRALIS/1 L’evoluzione, qualche riflessione didattica I 68 l mio intervento vuole rivolgersi soprattutto agli insegnanti e vorrei proporre alcuni spunti di riflessione e di discussione sul tema dell’evoluzione, o meglio sul tema dell’evoluzione nell’insegnamento della biologia, e metterne in evidenza alcune difficoltà o possibili carenze. internazionale tenutasi nel marzo 2009 presso la Pontificia Università Gregoriana, mi pare, evidentemente lecito, basta non confondere i piani. Il titolo di questo convegno era “L’evoluzione biologica: fatti e teorie” e sul termine “teorie”, al plurale, vorrei dire qualcosa. Anzitutto, come fa notare Telmo Pievani, nei programmi della scuola primaria e secondaria di primo grado del 2007 non compaiono mai le parole “evoluzione biologica”“evoluzione umana” “Darwin”“selezione naturale”“origini dell’uomo”, sostituite invece da giri di parole e indicazioni vaghe e complicate, mentre fino al 2004 erano presenti indicazioni ben precise. Questa autocensura certamente non impedirà agli insegnanti più avveduti di trattare di evoluzione nel modo che riterranno più opportuno, ma potrebbero influire sugli editori di libri di testo e sappiamo come i libri influenzino i programmi realmente svolti in classe. Queste prudenze da parte dei consiglieri ministeriali sono eccessive e intendono rendere ossequio ad atteggiamenti pseudoreligiosi, più che conservatori, direi reazionari. Che d e l l ’e vo l u z i o n e biologica si possa discutere anche dal punto di vista filosofico o teologico, come si è fatto Telmo Pievani nella Conferenza Oggi i biologi sono concordi su di una teoria: la teoria “neodarwiniana”, con tutte le addizioni di nuovi concetti e nuove conoscenze derivanti dalla biologia molecolare, dalla biologia dello sviluppo, dalle teorie della complessità, eccetera. Non ci sono teorie alternative, accettate dalla comunità scientifica. Il nucleo della teoria (discendenza con modificazioni, selezione naturale) è tuttora considerato valido. Naturalmente sappiamo che alla selezione naturale si sono aggiunti altri meccanismi evolutivi, non previsti da Darwin, la deriva genetica, l’isolamento geografico, l’effetto fondatore, la teoria neutrale di Kimura… Parlare di “teorie”, invece che di “teoria”, sembra voler insinuare un’ombra di dubbio sul fatto che la teoria dell’evoluzione darwiniana sia la maggiore teoria unificante che informa tutto lo status epistemologico della biologia. I detrattori della teoria dell’evoluzione insistono spesso sulla disparità di opinioni, sulle discussioni che nascono tra i ricercatori in biologia evoluzionistica, su aspetti particolari della teoria, su interpretazioni di dati vecchi e nuovi, sull’interpretazione di nuove scoperte, come se questi dibattiti, invece di dimostrare la vitalità della teoria, come strumento interpretativo, ne minassero le fondamenta. Infine vorrei discutere sul significato stesso che viene dato al termine “teoria”, che è parola in un certo senso polisemica. Se consultiamo un vocabolario della lingua italiana, troviamo molte definizioni di questa parola, tutte collegate fra loro, ma differenti riguardo all’“uso” o “intenzione” delle diverse accezioni. Teoria è termine del linguaggio scientifico: indica un complesso di concetti, di conoscenze, di ipotesi, che descrivono e spiegano in maniera coerente un ampio campo della realtà. Teoria indica anche un insieme di precetti che servono di guida alla pratica, e, nel linguaggio comune, si osserva spesso una contrapposizione tra i due termini di quest’ultima accezione. Teoria, contrapposta alla pratica. In teoria si potrebbe fare questo e quello, ma in pratica… Da qui viene l’accezione spregiativa del termine teoria, come inutile insieme di regole, o addirittura come insieme di speculazioni astratte e cervellotiche, senza fondamento concreto. Questa accezione del termine è spesso usata dai detrattori della teoria dell’evoluzione: è solo una teoria, non è una conoscenza basata su fatti concreti. Oppure, è una teoria come tante altre, altre teorie possono, o meglio devono avere la stessa dignità scientifica, devono avere pari spazi nell’insegnamento. Questo è quanto sostengono gruppi religiosi integralisti, protestanti, musulmani, cattolici, che danno una lettura letterale dei libri sacri, spesso legati alla destra, come nel sud degli Stati Uniti, o alla destra estrema, come in Italia. Quindi sarà bene discutere, con gli studenti, delle diverse accezioni del termine “teoria”, chiarire che la teoria dell’evoluzione è una teoria scientifica, e che è l’unica teoria che oggi accetta la stragrande maggioranza della comunità scientifica. Come ha scritto Dobzhanski: ” Niente ha senso in biologia se non alla luce dell’evoluzione”. Un secondo punto che vorrei trattare è l’immagine della teoria dell’evoluzione che spesso forniamo agli studenti, e che è parte del proble- ma più generale dell’immagine della scienza che costruiamo a scuola. Una trattazione storica della teoria dell’evoluzione ha senza dubbio il pregio di presentare la scienza come una costruzione umana, come un’impresa sociale, legata al più ampio contesto della storia, e non come un insieme di fatti rivelati dal libro di testo. Spesso, però, i ragazzi ne ricavano l’idea di un’impresa compiuta, di una grande e complessa costruzione ormai terminata, da ammirare, e poi passare a 69 qualcosa di più moderno. E invece la teoria dell’evoluzione non è una costruzione definitiva. È vero che il nucleo della teoria (discendenza con modificazioni, selezione naturale) è tuttora considerato valido, ma gli studi continuano ad andare avanti. La teoria va vista non soltanto come un corpus di conoscenze, di concetti, di spiegazioni, ma anche come “progetto di ricerca”, nel senso di Lakatos. Non possiamo insegnare soltanto le idee codificate, accettate dalla comunità scientifica, ma anche quello che avviene al confine della conoscenza scientifica, per far comprendere che la scienza non è solo un insieme più o meno coerente di concetti, principi, conoscenze, procedure, ma anche un work in progress, un’attività umana che viene portata avanti da una comunità di ricercatori. Un paio di esempi di work in progress, da sviluppare, e cioè l’Evo-Devo, e in particolare l’evoluzione dell’arto dei Tetrapodi e la cosiddetta Evoluzione sperimentale. Evo-Devo è una sigla che indica la Evolutionary Developmental Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin 70 Biology, cioè la Biologia dello Sviluppo Evolutiva, campo di ricerca evidentemente interdisciplinare, molto in voga oggi. Nella storia che vi racconterò per sommi capi, vedremo una delle caratteristiche della ricerca moderna, e precisamente la convergenza di più discipline per cercare di risolvere il medesimo problema. Caratteristica questa della scienza moderna che va messa in risalto nel campo dell’educazione scientifica. Cominciamo con i dati che ci offre la Geologia. Nel periodo Devoniano, grosso modo tra 400 e 350 milioni di anni fa, la Pangea si sta dividendo in due supercontinenti: Laurasia a nord e Gondwana a sud. Le terre emerse sono delle brulle distese di rocce e sabbie e la Paleobotanica ci descrive una rada vegetazione di muschi e licheni, di pianticelle sparse. Le acque scorrono in fiumare, dai fondi e dalle rive instabili. Pian piano le piante vascolari conquistano l’ambiente terrestre e sorgono vere e proprie foreste di felci arboree, equiseti, licopodi giganti, alti fino a venti, trenta metri. Solo verso la fine del Devoniano compaiono le prime gimnosperme, delle protoconifere. Lo sviluppo della vegetazione produce il deposito di materiale organico, che per opera di una comunità di detritivori e di decompositori viene trasformato in humus. I fiumi vengono stabilizzati dalla vegetazione ripariale e, nelle pianure, formano meandri che finiscono per distaccarsi dal corso principale, formando stagni e paludi. Il Devoniano è detto era dei pesci, che rappresentano le forme dominanti. Pesci agnati, cioè senza mandibola, che evolvono pesanti corazze dermiche per difendersi dalla predazione di grandi scorpioni d’acqua, gli euripteridi. Pesci gnatostomi, cioè forniti di mandibole, efficienti predatori che si irra- diano in un’enorme varietà di forme. Tra queste, pesci a scheletro ossificato, che possono essere distinti in due taxa principali, quelli con pinne a ventaglio, gli attinopterigi, che sono oggi i pesci dominanti nel mare e nelle acque dolci, e pesci con pinne carnose, fornite di una loro muscolatura intrinseca e con un robusto scheletro basale. Sono appunto questi pesci, detti sarcopterigi, cioè a pinne carnose, che dovremo prendere in considerazione per descrivere la conquista dell’ambiente terrestre da parte dei vertebrati. Le pinne pari di questi pesci sono formate da un robusto elemento basale, articolato sul cinto, paragonabile all’omero, o al femore, da due elementi distali, simili a radio e ulna e tibia e fibula, su cui si articolano piccoli elementi ossei che sorreggono le lunghe e sottili bacchette ossee, i lepidotrichi, di origine dermica, che formano la pagaia per nuotare. Come modello di questi pesci si propone di solito Eusthenopteron, un grosso pesce di acque profonde, buon nuotatore. Intanto gli estuari e le acque interne sono colonizzate da un’abbondante fauna di origine marina e i pesci sarcopterigi conquistano anche gli stagni e le paludi. Si tratta però di acque basse, ingombre di vegetazione, eutrofizzate, frequentemente in debito di ossigeno. Nel Devoniano medio si osserva una trasformazione di questi pesci: divengono appiattiti, per adattarsi alle acque basse, e le loro pinne pari diventano più robuste, per spingersi nell’intrico della vegetazione, per sollevare la testa fuor d’acqua e respirare. Si tratta, infatti, di pesci polmonati. Insomma, un modo di vita simile a quello degli attuali coccodrilli. Le testimonianze fossili sono abbondanti, Panderictidi, Tiktaalik, ed in queste forme le pinne divengono sempre più adatte a “camminare” nell’ambiente acquatico. Poi, improvvisamente, nel Devoniano superiore compaiono i primi tetrapodi. Ma cosa vuol dire “improvvisamente”? Questi animali, Acanthostega, Ichtyostega, Hynerpeton, sono ancora assolutamente animali acquatici, molte caratteristiche del loro scheletro lo dimostrano, e sono ancora per molti versi simili ai loro antenati pisciformi, ma hanno dei veri e propri arti. Omero e femore, radio, ulna e tibia e fibula sono pressoché identici a quelli dei pesci sarcopterigi, ma non c’è più la sottile membrana sostenuta dalle bacchettine ossee dei lepidotrichi, ci sono invece vere e proprie dita. Non che questi arti siano già adatti a camminare speditamente sulla terra, questo avverrà nel Carbonifero, quando compariranno gli antenati dei rettili, i cosiddetti rettilomorfi. Sono, come si è detto, piedi acquatici, fatti per camminare sul fondo delle acque, e forse, solo occasionalmente, per camminare sulla terra. Ripeto la domanda: cosa vuol dire “improvvisamente”? Si conoscono ormai molti fossili di transizione tra pesci sarcopterigi e tetrapodi, ma non si conoscono forme di transizione tra pinna e arto. La parte basale è sempre estremamente simile, ma la parte distale, la mano o il piede, l’autopodio, come si dice in anatomia comparata, è presente soltanto nei tetrapodi. Si tratta di lacune nella documentazione fossile, o c’è qualche altra spiegazione? Ecco che qui entra in campo la Biologia dello Sviluppo. Evo-Devo, come dicevamo, una disciplina che integra Paleontologia, Anatomia comparata e Biologia dello Sviluppo, e che si serve degli strumenti recentissimi offerti dalla Genetica dello Sviluppo. Lo sviluppo della pinna e dell’arto è sotto il controllo di una serie di geni, i geni Hox. In una prima fase i geni Hox della base dell’abbozzo dell’arto e della pinna determinano lo sviluppo dell’omero, o del femore. In una seconda fase, una seconda serie di geni Hox determina la formazione di radio e ulna, o tibia e fibula. I pesci si fermano qui, e all’estremità dell’arto si formano le sottili bacchettine ossee dei lepidotrichi. Nei tetrapodi, una terza serie di geni Hox, in una terza fase determina lo sviluppo della mano e del piede. Ebbene, mentre nelle prime due fasi c’è una complessa rete di interazioni geniche che controlla lo sviluppo, la terza fase è sotto il controllo di un unico enhancer, un gene capofila che controlla l’attività di tutta una serie di geni a lui sottoposti. Possiamo suggerire quindi la ragionevole ipotesi che una singola mutazione, in un gene qualsiasi, abbia potuto trasformare questo nel gene di controllo della terza fase. Cioè una singola mutazione in un sarcopterigio abbia potuto manifestarsi nei suoi discendenti come acquisizione di piedi da tetrapodo. L’ipotesi è formulata in maniera un po’ semplicistica, ma è suggestiva e plausibile. Ma… nella scienza ci sono spesso dei ma. Dei dubbi costruttivi che portano alla ricerca di nuovi dati. Queste ricerche sul controllo genico 71 dello sviluppo dell’arto sono state condotte su alcuni sistemi modello, come si usa dire, cioè su specie standard che si sono rivelate le più adatte a condurre certi tipi di studi. In questo caso, soprattutto sul pesce zebra, sul pollo e sul topo. Nel pollo e nel topo abbiamo l’espressione dei geni Hox che controllano le tre fasi dello sviluppo successivo dei tre segmenti dell’arto. Nel pesce zebra, solo le due prime fasi. Il pesce zebra è un pesce osseo molto evoluto. Alcuni ricercatori si sono chiesti se la stessa situazione si sarebbe ritrovata in pesci più primitivi, e hanno studiato il pesce spatola, Polyodon, che vive nei fiumi del Nord America. Ebbene, nel pesce spatola, durante lo sviluppo delle pinne, si attiva anche la serie dei geni Hox della terza fase, anche se non si forma un piede. Cosa significa questo? Significa che la potenzialità di formare un piede era presente nei pesci primitivi, che è andata perduta in quelli più evoluti, e che non si esplica nei pesci perché i meccanismi di controllo di questi geni sono differenti da quelli che compariranno nei tetrapodi. Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin Experimental Evolution: esempi di esperimenti di selezione naturale su microrganismi (interessanti anche per la loro applicazione pratica, evoluzione della resistenza agli antibiotici, chimica delle fermentazioni, controllo e recupero dell’ambiente…) Il 15 febbraio del 1988, un ricercatore americano, Richard Lenski, ha cominciato un esperimento di selezione. Dodici campioni prelevati dalla stessa coltura del batterio Escherichia coli furono fatti crescere in dodici recipienti identici, contenenti un mezzo di coltura semplice, con glucosio come unica fonte di carbonio. Ogni giorno, l’1% di ogni popolazione era trasferito in un nuovo recipiente. Per questo batterio, il mezzo di coltura utilizzato, era un ambiente nuovo, cui era scarsamente adattato. I batteri si riprodu- cono molto velocemente e nelle 24 ore, in queste condizioni, si ottenevano 6,6 generazioni. Ogni 100 generazioni, un campione prelevato da ogni cultura era congelato e conservato, così come era stato fatto per un campione della coltura di partenza. Le dodici popolazioni erano geneticamente identiche all’inizio, e l’unica fonte di variazione su cui poteva agire la selezione naturale era la mutazione. L’adattamento di ogni popolazione all’ambiente fu saggiato paragonando direttamente i batteri che si erano evoluti nelle successive generazioni con la cultura originale. Si fecero cioè crescere in competizione, nella stessa coltura, campioni delle colture evolute e campioni della coltura originale. Dopo un certo tempo, fu misurato il rapporto tra i tipi originali e quelli evoluti, per valutare l’adattamento delle linee evolute relativamente ai loro antenati. Nel 1994 furono pubblicati i primi risultati che mostrarono che l’adattamento delle dodici popolazioni sperimentali era aumentato di circa il 40% e che tra queste popolazioni c’erano delle differenze e che quindi il caso e la contingenza, come anche la selezione naturale avevano un ruolo importante nell’evoluzione di queste popolazioni. Vorrei concludere infine con un cenno ad una visione più generale, e che ci riguarda direttamente. L’uomo si è evoluto sulla Terra attraverso una catena di eventi assolutamente improbabili, irripetibili, imprevedibili. Chi avrebbe potuto prevedere che tra le tante strane forme presenti negli argilloscisti di Burgess del Cambriano, il più antico protocordato noto, la Pikaia, avrebbe avuto una discendenza, che ha portato fino ai vertebrati? Chi avrebbe potuto prevedere che le moR. Lensky 72 Ma questo non basta. Di recente, in Russia, sono stati ritrovati esemplari molto ben conservati di quel antenato pisciforme dei tetrapodi che abbiamo già nominato, Panderichtys. Lo studio, mediante tomografia computerizzata ai raggi X, di questi scheletri fossili ha rivelato che un osso posto distalmente all’ulna, nella pinna anteriore, e che era stato considerato come un unico grosso ulnare, in realtà era formato da un piccolo ulnare e da una serie di bacchette ossee che possono essere considerate delle dita. Ma allora, non è vero che le dita sono assolutamente la novità evolutiva che compare nei tetrapodi. Erano presenti, anche se in forma ancora rudimentale almeno in qualcuno dei loro antenati pesci crossopterigi. Morale della storia: i quadri della scienza possono sempre essere sottoposti a verifica, devono essere possibili delle verifiche. Le certezze scientifiche esistono, e non possiamo neanche dire che siano sempre provvisorie, nel senso che non meritino fiducia, ma se ci sono dei ragionevoli dubbi, vanno sottoposte a revisione. E anche questa è una caratteristica della scienza che è importante mettere in risalto nella costruzione di un’educazione scientifica. se ne possono dare delle interpretazioni scientifiche. A priori i fatti dell’evoluzione non sono prevedibili, né a partire da leggi generali, né dalla considerazione della situazione immediatamente precedente. Come scrive Stephen Jay Gould: “Noi siamo figli della storia e dobbiamo seguire il nostro cammino in questo, che è il più diverso e interessante degli universi concepibili: un universo che è indifferente alla nostra sofferenza, e che ci offre quindi la massima libertà di avere successo, o di fallire sulla via che abbiamo scelto”. Bruno Bertolini Dip. Biologia Animale e dell’Uomo Università “La Sapienza” - Roma Stephen Jay Gould dificazioni ecologiche del Devoniano avrebbero prodotto le opportune condizioni e la spinta evolutiva perché dai sarcopterigi ripidisti si evolvessero i tetrapodi basali, che pian piano conquistarono l’ambiente terrestre? E l’improbabile collisione con un asteroide che avrebbe prodotto l’estinzione dei dinosauri, aprendo ai mammiferi la possibilità di un’immensa radiazione evolutiva? E la crisi climatica che ha costretto gli antenati degli ominidi a lasciare la foresta per la savana, e a cominciare quel lungo viaggio che ha portato fino a noi? L’evoluzione è un fenomeno storico, cioè un fenomeno in cui ogni passo condiziona i passi successivi, ma è anche un fenomeno pieno di casualità, di imprevedibilità, anche se a posteriori 73 Riferimenti bibliografici Pievani T., Quelle strane autocensure su Darwin a scuola, http://associazione31ottobre.it/pievani.darwin.pdf Pontificia Università Gregoriana, III Conferenza internazionale STOQ, “L’evoluzione biologica: fatti e teorie”, Roma 3-7 marzo 2009, http://evolution-rome2009.net Shubin N., C. Tabin e S. Carroll, Deep homology and the origin of evolutionary novelties, Evolution, Nature Insight, 818-823, 2009. Buckling A., R. Craig Maclean, M. A. Brockhurst e N. Colegrave, The Beagle in a bottle, Evolution, Nature Insight, 824-829, 2009. Bertolini B., Specificità della biologia e immagini della scienza, in “Scienza, valori, educazione”, (a cura di G. Del Re e Ezio Mariani), Istituto per Ricerche e Attività Educative, Napoli 15-16 novembre 1991, pp 51-60. Gould, S. J., La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano, 1990. Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin LECTIO MAGISTRALIS/2 74 La teoria evoluzionista nella visione della Chiesa L ’evoluzionismo, teorizzato da Charles Robert Darwin (1809 – 1882), dopo il viaggio attorno al mondo a bordo della nave Beagle, compiuto dal 1831 al 1836, i cui risultati furono pubblicati in L’origine delle specie per selezione naturale (1859), e poi estesi all’evoluzione dell’uomo in L´origine dell´uomo e la scelta in rapporto al sesso (1871), a distanza di centocinquant’anni dalla sua prima formulazione e nella molteplicità delle sue versioni (che si adeguano continuamente grazie all’apporto delle nuove scoperte dell’embriologia e della genetica, della paleontologia e della biogeografia, come dell’anatomia comparata), continua a suscitare un acceso dibattito circa il valore teologico, oltre che scientifico e filosofico, che scaturisce dalle sue conclusioni. Che cosa dice la Bibbia a proposito dell’evoluzionismo? L’apparente contraddizione tra le tesi delle teorie dell’evoluzionismo e la rivelazione ebraicocristiana scaturisce dal fatto che la Bibbia riferisce che Dio creò successivamente tutti i viventi «secondo la loro specie» (cf. Genesi 1, 11-12. 21. 24. 25), concezione da cui deriva il creazionismo. Tuttavia la Genesi non si esprime nel senso della creatio ex nihilo di tutte le singole specie viventi, dato che essa dichiara che nei sei giorni della creazione Dio prima comanda che «la terra produca germogli, erbe da seme e alberi da frutto» (Gen 1, 11-12), poi che «le acque brulichino di esseri viventi» (Gen 1, 20) e che «la terra produca esseri viventi» (Gen 1, 24); che anche l’uomo, infine, fu creato dal Signore, che lo «plasmò con la polvere del suolo» (Gen 2, 7): in questo modo non appare estranea alla concezione della Genesi l’idea che la vita sorga da una materia preesistente. La creazione “dal nulla”, invece, viene affermata per la prima volta nei testi biblici intorno al II secolo a. C. nel Secondo libro dei Maccabei, allorché una madre ebrea esorta i figli a non tradire Cosa dice il magistero della Chiesa? L’evoluzionismo non è mai stato ufficialmente condannato dal magistero della Chiesa, a parte il pronunciamento negativo del 1860 (un anno dopo la pubblicazione dell’Origine della specie) da parte di sei vescovi tedeschi nel sinodo provinciale di Colonia, che dichiarò la falsità delle nuove teorie, ritenute inconciliabili con i racconti biblici della creazione. Una forte perplessità, comunque, è apparsa tra i cattolici fino al 1950, quando, finalmente, l’Humani generis di Pio XII (1950)1 riconobbe che «il magistero della chiesa non proibisce che in conformità dell’attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussioni da parte dei competenti in tutti e due i campi, la dottrina dell’evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull’origine del corpo umano, che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente da Dio)». quando – ma secondo molti questo non è ancora il caso dell’evoluzionismo – esse sono concordemente accettate dalla comunità degli scienziati. Del problema si sono occupati, anche i papi più recenti, da Paolo VI2 a Giovanni Paolo II3, fino a Benedetto XVI, che, prima da vescovo, poi da papa, ha affrontato l’argomento4. Papa Ratzinger riconosce che la teoria evoluzionistica non è assolutamente in contrasto con la fede in Dio – per cui non esiste un contrasto tra scienza e fede –, a patto che essa rimanga quello che è, cioè una teoria scientifica, che come tale fornisce una spiegazione delle “modalità” attraverso le quali hanno avuto origine gli esseri viventi ed è aperta ad ulteriori chiarificazioni e anche alla possibilità di essere superata eventualmente da altre teorie; essa non deve sconfinare nella 75 filosofia, trasformandosi in un evoluzionismo metafisico, che presume di dare una spiegazione onnicomprensiva della realtà, rifiutando ogni elemento soprannaturale e spirituale: in questo caso esso non si porrebbe solo contro la fede (se negasse l’origine trascendente della realtà e la dimensione spirituale della vita dell’uomo), ma Per questo, secondo papa Pacelli, a partire dall’antropologia dualista di matrice greca, che vede l’uomo distinto in anima e corpo, in linea di principio è possibile affermare che, mentre le anime degli uomini sono create direttamente da Dio, per spiegare l’origine del corpo umano si possa ricorrere alla teoria dell’evoluzionismo. In realtà, la Chiesa non ha il compito di decidere della fondatezza scientifica delle scoperte; essa piuttosto deve trarre le conclusioni teologiche dalle teorie scientifiche, Lyceum Dicembre 2009 Pio XII la fede davanti alle minacce di morte del tiranno greco e li invita a confidare nel Dio creatore: «Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l’origine del genere umano» (2 Mac 7, 28). Benedetto XVI Percorso/Speciale Darwin 76 anche contro la dignità dell’uomo (che sarebbe ridotto a materia e in balia della casualità delle mutazioni genetiche: se l’irrazionale è all’origine di tutto e non c’è un progetto che dia senso all’esistenza, la ragione perde di ogni valore poiché essa stessa dipende dall’irrazionale; anche l’etica potrebbe allora essere fondata sui valori della sopraffazione e della competizione piuttosto che sulla solidarietà). Al contrario se l’evoluzionismo è assunto come una teoria scientifica esso produce una migliore comprensione dell’attività creatrice di Dio, il quale può essere pensato non semplicemente come un artigiano che compie una volta per tutte la sua opera (così come appare nella teoria creazionista), ma come il pensiero creatiG. Galilei vo che accompagna in ogni istante in una creazione continua la realtà a cui egli stesso ha dato inizio; ma lascia intatta anche la dignità della persona umana, capace di sottrarsi al caso e alla necessità delle leggi dell’evoluzione mediante la sua libertà5. È possibile conciliare l’evoluzionismo e le altre teorie scientifiche sull’universo con il racconto biblico della creazione? L’evoluzionismo è solo una delle teorie scientifiche degli ultimi secoli che mettono apparentemente in discussione la verità del racconto di Gen 1-2. Prima di Darwin anche la struttura eliocentrica del cosmo ipotizzata da Copernico e da Galilei fu contestata in nome della struttura geocentrica ritenuta presente anche nei racconti biblici; e dopo Darwin, la teoria del «big bang» sull’origine dell’universo (cosmogonia) e la sua datazione a 13,5 miliardi di anni fa, sembrò annullare definitivamente la narrazione della creazione di tutte le cose in soli sei giorni (databili, secondo i complicati calcoli di alcuni biblisti ingenui, nel 4004 a. C.). Occorre, pertanto, domandarsi se e come è possibile conciliare l’evoluzionismo e le altre teorie scientifiche con i dati delle sacre Scritture. È da escludere, innanzi tutto, la possibilità che esista una «doppia verità», quella scientifica e quella religiosa, ipotesi formulata proprio all’alba della rivoluzione scientifica del XVI-XVII secolo, ma evidentemente irrazionale. Sono pure da scartare i tentativi operati da alcuni teologi del passato di “concordare” i dati scientifici con quelli biblici, interpretando, ad esempio, i sei giorni della creazione come altrettante ere geologiche; così come non sono accettabili alla luce della fede cattolica le posizioni riduttive di chi considera i racconti della Genesi puramente mitici o poetici, privi cioè della dignità di testi ispirati da Dio. Allo stesso modo non può presumere di avere validità scientifica né teologica l’ipotesi formulata da qualche decennio negli Stati Uniti sul «Disegno intelligente», che, facendo leva su alcune delle questioni ancora irrisolte nell’evoluzionismo, introduce l’idea di un Essere supremo che interviene per guidare l’evoluzione, producendo una profonda confusione tra il piano scientifico e quello teologico, che devono rimanere distinti, e riducendo Dio ad un tappabuchi, che agisce per correggere gli errori prodotti dal processo meccanicistico dell’evoluzione6. La strada che la teologia cristiana oggi percorre, invece, si fonda sull’acquisizione di due premesse: la prima riguarda la distinzione tra le finalità dell’indagine scientifica e le finalità della rivelazione biblica; la seconda, invece, riguarda il significato del concetto di ispirazione biblica. Distinzione, non opposizione tra scienza e fede In primo luogo, dunque, occorre riconoscere che la scienza, non essendo chiamata ad occuparsi del mondo soprannaturale, opera unicamente all’interno dell’ambito della realtà fenomenica, formulando ipotesi che vengono poi verificate sperimentalmente, ma che restano falsificabili in qualche punto, in modo da poter lasciare il posto a nuove ipotesi, e consentendo così il progresso della scienza stessa, che non produce mai dogmi irreformabili. Essa, inoltre, propone risposte esaurienti alle domande sulle “modalità” in cui opera la natura, oppure sui perché più immediati circa la spiegazione dei fenomeni (le “cause seconde” della filosofia aristotelica e scolastica), domande del tipo: “come è nato l’universo?”, “come è nata la vita sulla terra?”, “come si è sviluppato l’uomo?”, “come è fatto il cosmo?”, “perché l’uomo pensa?” eccetera. La teologia, invece, assieme alla filosofia, ma a partire dalla rivelazione, si rivolge soprattutto alle domande di senso, che riguardano il fine ultimo delle cose, l’”altro perché”, quello radicale sulle motivazioni profonde dell’esistenza: “perché esisto?”, “perché si nasce se poi si deve morire?”, “perché sento il bisogno di farmi simili domande?”. Lo stesso Galileo Galilei, profondamente cattolico, benché costretto a rinnegare le sue tesi, riferendosi a un’espressione del cardinale Cesare Baronio spiegava a coloro che ritenevano che le sue scoperte contraddicessero i dati biblici che «la Bibbia vuole dirci come si vada ai cieli, non come vadano i cieli». Per questo le risposte della scienza sono complementari a quelle della teologia e non in opposizione: l’evoluzionismo, il «big bang» e le teorie sulla struttura dell’universo, spiegano “come” è fatto il mondo, mentre la rivelazione biblica, che è oggetto della riflessione teologica spiega “perché” esiste il mondo. Ecco perché se esistono scienziati evoluzionisti atei, per i quali l’evoluzione si situa «come un lampo fra due nulla», ci sono anche validi evoluzionisti credenti, come, ad esempio, Francisco Ayala o Francio Collins, oltre al famoso gesuita Theilard de Chardin (1881-1955) che scorgono un finalismo nell’evoluzione, rivelatore del senso che Dio ha dato alla storia dell’universo con la quale interagisce. Il concetto di ispirazione biblica L’altra questione riguarda il concetto di ispirazione biblica. Se la Bibbia è parola di Dio e, dunque, non può sbagliare, come si può affermare che il mondo non sia stato creato in sei giorni o che l’uomo non sia stato plasmato dalla polvere? In realtà, come afferma il Concilio Vaticano II nella Costituzione su «La divina rivelazione», i testi sacri, pur trasmettendo la parola di Dio, sono stati scritti da «uomini nel pieno possesso delle loro facoltà e delle loro capacità», che hanno agito «come veri autori»,7 con le conoscenze relative al tempo in cui essi operarono. Dio non ha attuato una sorta di “dettatura verbale” delle cose che intendeva rivelare, ma, secondo il principio della “condiscendenza”, ha consentito agli uomini di esprimere le verità da lui ispirate con il linguaggio limitato che essi possedevano. Il testo del documento del Concilio continua affermando che «poiché tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi affermano è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture»8: Dio, dunque, non ha voluto farci conoscere verità scientifiche, lasciando all’uomo la libertà di progredire nella ricerca delle meraviglie dell’universo e dell’uomo; Egli, piuttosto, mediante le Scritture, ha voluto rivelarci ciò che serve «per la nostra salvezza», perché la nostra vita abbia un senso. Così non si devono cercare nella Bibbia le conferme o le smentite alle teorie scientifiche che di volta in volta l’uomo è capace di elaborare, ma si deve riconoscere che Dio, nella sua misericordia, ha voluto darci le «buone notizie» 77 che illuminano la nostra esistenza. Ad esempio, ci ha rivelato che Egli è all’origine di tutte le cose, indipendentemente da come le ha fatte e continua a farle, per indicarci che anche nei momenti dell’angoscia e della solitudine possiamo ricordarci che esistiamo non perché siamo frutto del caso, ma perché Uno ci ha voluti, e anche se la mia nascita fosse stata originata da uno “sbaglio” dei miei genitori e anche se tutti mi abbandonassero, Egli continua ad amarmi da Padre. Inoltre, ci ricorda che il mondo nel quale viviamo è «cosa buona/bella» (Gen 1, 4. 10. 12. 18. 25. 31), che l’uomo è chiamato a custodire e curare per conservarne la bellezza. Infine, ci ha mostrato che l’uomo ha una dignità altissima nella creazione: la Bibbia afferma che egli è l’unico ad essere creato da Dio «a sua immagine e somiglianza» (Gen 1, 27) e questo ci induce a rispettare la dignità di ogni persona, senza alcuna discriminazione, a riconoscere l’immenso valore dei doni che il Padre fa all’uomo, ad accettare che anche nell’uomo più malvagio resta impressa questa nascosta santità originaria che deve venire fuori, ad ammettere che tutti gli esseri umani Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin sono legati da una connaturata solidarietà. Anche i tempi lunghissimi trascorsi dall’inizio della creazione all’apparire della vita (circa 4,5 miliardi di anni fa) e, poi, all’apparire dei primi esseri umani della specie Homo sapiens sapiens (circa 40.000 anni fa), lungi dallo svilire il valore dell’uomo nella creazione – come riteneva, ad esempio, Benedetto Croce, che contestava a Darwin di sostenere «la vergogna di origini animalesche» dell’umanità – rivela la cura amorevole, l’attenzione sapiente, l’eterna potenza, la lunga preparazione di Dio nel produrre il capolavoro tra tutte le sue opere: «Se guardo la luna, il cielo e le stelle, che cosa è l’uomo, perché tu, o Signore, ti ricordi di lui? Eppure lo hai fatto poco meno degli angeli, lo hai rivestito di onore e di gloria» (dal Salmo 8). Alfonso Langella Teologo Accademia Pontificia Mariana di Napoli 78 Pio XII, Enciclica Humani generis, 12 agosto 1950, in AAS 42 (1950) 561-577. Paolo VI, Discorso dell’11 luglio 1966, in Insegnamenti di Paolo VI, IV, LEV, Città del Vaticano 1966, 364-367. 3 Giovanni Paolo II, Allocuzione all’Assemblea plenaria dell’Accademia delle Scienze, AAS 85 (1993) 764-772; Idem, Allocuzione alla Pontificia Commissione Biblica, AAS 86 (1994) 232-243; Idem, Allocuzione alla Pontificia Accademia delle Scienze, 22 ottobre 1996, AAS 88 (1994): in questo discorso il papa, richiamandosi al Discorso citato di Paolo VI, ribadì che l’evoluzione non è «una mera ipotesi», ma una «teoria che si è progressivamente imposta all’attenzione della ricerca». 4 Il card. Schönborn, nella prefazione al libro sul Convegno di Castelgandolfo Un convegno con Papa Benedetto XVI a Castel Gandolfo, a cura di S. O. Horn e S. Wiedenhofer, Bologna, Edizioni Dehoniane, 2007, cita cinque testi di Ratzinger: un intervento alla Süddeutsche Rundfunk nel 1968, la prefazione a R. Spaemann, R. Löw, P. Koslowski, Evolutionismus und Christentum, VHC, Weinheim 1986, un discorso alla Sorbona del 27 novembre 1999 e due interventi al Convegno di Castel Gandolfo (si tratta di un commento alla relazione di Peter Schuster e di un commento a tutte e quattro le relazioni a Castel Gandolfo). A questi si deve aggiungere il Discorso al clero delle diocesi di Belluno e Treviso, tenuto ad Auronzo nel luglio del 2007, ove riconobbe che «ci sono tante prove scientifiche in favore dell’evoluzione che appare come una realtà che dobbiamo vedere e che arricchisce la nostra conoscenza della vita e dell’essere in quanto tale». 5 Cf. l’intervento di G. Auletta, «La riflessione di Joseph Ratzinger sull’evoluzionismo», al Convegno svolto dal 3 al 7 marzo 2009 a Roma su «L’evoluzione biologica: fatti e teorie – Una valutazione critica 150 anni dopo l’Origine delle specie, di Charles Darwin», organizzato dalla Pontificia Università Gregoriana e dalla Notre Dame University. 6 Nel 1981 il governatore dell’Arkansas, con l’Atto 590 aveva stabilito l’obbligo di insegnare nelle scuole l’equivalenza sul piano scientifico di creazionismo ed evoluzionismo: la teoria del Disegno intelligente veniva proposta per dare validità scientifica alle affermazioni religiose. Ma nel 1982 l’atto fu dichiarato illegittimo, proprio perché il creazionismo non può essere considerato un’ipotesi scientifica, poiché presuppone principi metafisici nella spiegazione della realtà. 7 Concilio Vaticano II, Costituzione Dei Verbum, 18 novembre 1965, n. 11. 8 Ibidem. 1 2 Un uomo chiamato Charles R. Darwin T «It is a cursed evil to any man to become as absorbed in any subject as I am in mine.» Charles Robert Darwin utti noi conosciamo chi fosse Charles Darwin, e con diversi livelli d’interesse abbiamo studiato il suo lavoro. Sappiamo come fosse un eminente naturalista, e del suo viaggio sul Beagle. Abbiamo studiato che i suoi lavori principali, quali L’origine delle specie e la Teoria della selezione naturale, sono stati una pietra miliare per la biologia e la scienza tutta. E ci siamo chiesti, forse non una volta sola, quando eravamo costretti ad imparare la tassonomia biologica delle specie viventi, come facessero questi scienziati ad appassionarsi ed a lavorare con quelle centinaia di classificazioni, nomi spesso difficili anche solo da ricordare. Che tipo di persone potevano mai essere questi uomini (e donne)? Ebbene, attraverso diverse fonti, tra le quali spicca per me il resoconto del viaggio di Charles Darwin, Viaggio di un naturalista intorno al mondo, ho voluto andare oltre il Darwin scienziato, e cercare di comprendere come fosse il Darwin uomo: che tipo di persona fosse, quale metodo di studio applicasse, e così via. Ho cercato di comprendere quale fosse la personalità di un eminente scienziato, naturalista, biologo, geologo, zoologo e botanico (perchè era tutte queste cose insieme), e di come una mente di questo tipo avesse addirittura ispirato un notevole personaggio di romanzi storici, il Dottor Maturin di Patrick O’Brian (romanzi dai quali è stato tratto il film Master and Commander). Iniziamo con un po’ della sua biografia. Il 79 giovane Charles era un ragazzo di buona famiglia inglese, figlio di un medico, originario di Shrewsbury. Sembra che fin da piccolo fosse rimasto affascinato da un libro all’epoca popolare del naturalista Gilbert White, ed avesse già cominciato a collezionare minerali ed insetti. Frequentò ottime scuole, dove rimase affascinato dalla matematica e cominciò a trascurare i classici della letteratura, trovandoli fondamentalmente noiosi. Già allora Darwin presentava spiccate doti d’autodidatta, che non lo aiutarono poi nel sistema scolastico: iniziò a praticare esperimenti di varia natura in casa, e sembra fosse stato bandito dal padre nel capanno degli attrezzi, dove gli odori nauseabondi dei suoi “giochi” non potessero dare fastidio. Venne inviato all’Università di Edinburgo a frequentare la facoltà di Medicina, come il suo genitore, ma presto l’abbandonò. Il padre, deluso, lo mandò allora a Cambridge a studiare teologia, sperando in una carriera ecclesiastica, ma commise quello che poi ai suoi occhi dovette sembrare un grosso errore: al Christ’s College Charles conobbe Whewell ed Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin 80 Henslow; ulteriormente influenzato da queste personalità scientifiche, nonchè incoraggiato dal cugino, approfondì i suoi studi scientifici, in particolare di geologia, studiando solo lo stretto necessario per superare gli esami non di suo interesse (rivelandosi ancora per l’autodidatta che era). Dopo una breve esperienza come geologo in Galles, a Darwin venne presentata l’occasione della sua vita: il viaggio con il Beagle. In realtà, Charles Darwin non era ancora un nome così conosciuto da attirare l’attenzione della Regia Marina per una spedizione scientifica. Per nulla. Fu addirittura la terza scelta del Capitano Fitzroy, solo dopo che i primi due avevano declinato l’offerta, e solo su raccomandazione di Henslow (che era stato la prima scelta) e Peacock. Si trattava di una spedizione cartografica di cinque anni lungo le coste del Sud America, ed il giovane Capitano, terrorizzato dall’idea della solitudine che aveva portato il Capitano Stokes, suo predecessore, al suicidio, cercava un ospite, un commensale e forse un amico. Quando partì, Darwin era molto giovane: aveva solo ventidue anni; la sua mente scientifica ed il suo metodo di ricerca ed analisi non erano ancora pienamente maturati, e per lo scienziato questa spedizione ebbe proprio il significato di un viaggio della vita e, al momento del ritorno, sarebbe stato profondamente cambiato dall’esperienza vissuta. Il Darwin poco più che ventenne non era il barbuto e posato personaggio che i fotografi vittoriani ci hanno tramandato, il teorico dell’evoluzione e della lotta per l’esistenza, ma un giovane energico amante della vita all’aria aperta, dei cavalli e della caccia, uno studioso, certo, acuto osservatore e collezionista quasi ossessivo, maniacale, ma che non esitava a sporcarsi le mani viaggiando ed esponendosi in prima persona anche a situazioni pericolose: spesso, leggendo il Viaggio, lo si trova alle prese con banditi, stermini di indiani ed animali, mareggiate, paesaggi inospitali, febbri tropicali, sommosse civili e militari. E, di fronte a tutto questo, Charles Darwin coniugò l’imperturbabilità dell’englishman vittoriano ad una mentalità sconvolgentemente moderna. Si mescolò senza problemi a gauchos argentini e vagò per Tahiti o nel Nuovo Galles con gli indigeni locali e, se da un lato non perse mai il distacco vittoriano (come quando scrisse “Santa Fe è una cittadina tranquilla, pulita ed ordinata... La stabilità di questo governo è dovuta alla sua indole tirannica; a questi peasi pare si addica più la tirannia che la repubblica. L’occupazione preferita del governatore è quella di andare a caccia di indiani: poco tempo fa ne trucidò quarantotto e ne vendette i bambini a tre o quattro sterline l’uno”), dall’altro dimostrò una linea di pensiero non conformista sull’umanità che sarà propria del secolo successivo, il XX, quando riportò: “La posta era comandata da un tenente negro nato in Africa: va detto in suo onore che tra il Colorado e Buenos Aires non c’era forse nessun’altra dimora tenuta così scrupolosamente pulita e in ordine... Non ho mai incontrato un uomo più civile e cortese di questo negro; mi faceva quindi una gran pena vedere che non sedeva nè mangiava con noi”. Durante il viaggio Darwin dovette imparare, tra le prime cose, a “scrivere”, trasmettere cioè in un resoconto sufficientemente curato sulle esperienze che viveva, e sviluppare le sue capacità teoriche di astrazione. In una lettera alla sorella Caroline il 29 aprile 1836, ormai sulla via del ritorno, scrive: “Solo ora comincio a scoprire quanto sia difficile esprimere le proprie idee su carta. Finchè si tratta di fare soltanto delle descrizioni è piuttosto facile, ma dove entra in gioco il ragionamento, quando si tratta di trovare un collegamento azzeccato, essere chiaro o anche solo moderatamente scorrevole, come ho detto, diventa per me molto più difficile di quanto non supponessi”. E chi non condividerebbe questo pensiero? Ma con il tempo, in quei cinque anni, Darwin imparò a lasciare impronte indelebili sulla carta, riuscendo perfino nell’uso di accurate metafore, scegliendo di descrivere il suo viaggio in termini visuali, a lui più congeniali, come una sorta di trasmissione dall’occhio del corpo (“eye of the body”) all’occhio della mente (“eye of reason”). Questa trasformazione continuò anche dopo il suo ritorno in Inghilterra; a tale proposito scrive: “Se mi volgo indietro, posso vedere come il mio amore per la scienza abbia gradualmente preso il sopravvento su qualsiasi altro interesse. Nei primi due anni la vecchia passione per la caccia sopravvisse quasi immutata... Ma a poco a poco rinunciai al fucile, fino a cederlo al domestico, perchè la caccia interferiva con il mio lavoro...” Il Charles Darwin uomo di fede resistette poco durante il viaggio. Sebbene di famiglia di liberi pensatori, Darwin credeva nella Bibbia, ed era convinto dell’argomento teologico di William Paley, secondo il quale il progetto finalistico della natura sarebbe la dimostrazione della volontà di Dio, e quindi della sua esistenza. Tuttavia, con gli studi naturalistici e la sua formazione geologica, iniziò dapprima a comprendere come la Terra fosse molto più vecchia dei seimila anni indicati nella Bibba. Successivamente, si chiese come mai Dio avesse creato tante specie d’animali, alcune così poco differenti tra loro, e come mai queste creature si evolvessero, se Dio aveva creato gli esseri perfetti già dall’inizio. Queste idee lo portarono a dubitare, e, sebbene non si staccò subito dalla fede religiosa, maturò la sua teoria dell’evoluzione che, orrore a dirsi, comprendeva anche l’uomo. In verità, nel suo lavoro, Darwin parla quasi esclusivamente di animali, lasciando solo uno sfugg e vo l e ce n n o all’uomo, forse per non sollevare un vespaio o forse per rispetto nei confronti della moglie Emma, donna dal forte senso religioso. Ad ogni modo, il vespaio si è sollevato successivamente, e tutt’oggi perdura: può essere difficile a credersi, ma anche ai nostri tempi esistono movimenti che vogliono togliere la Teoria dell’evoluzione dall’insegnamento scolastico, in quanto sarebbe in contrasto con la religione. E mentre il dibattito in alcuni ambiti prosegue, la Chiesa Anglicana si è scusata formalmente 81 con Darwin nel bicentenario dalla sua nascita, in una sorta di riconciliazione con l’uomo che giace a Westminster Abbey, al fianco di Sir Isaac Newton. Dario Pica Studente di Informatica Università di Venezia Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin La tecnica dell’evoluzione e l’evoluzione della tecnica N 82 el tempo evolutivo, nonostante siano gli individui a subire gli effetti della selezione naturale, a cambiare sono i geni e le popolazioni; il cambiamento a livello molecolare delle sequenze del DNA e delle proteine è l’evoluzione molecolare. Essa, partendo dai fondamenti teorici della genetica delle popolazioni, spiega come si evolvono le molecole di DNA e proteine e in che modo geni e organismi sono evolutivamente collegati. A partire dagli anni ’70 e ’80 la biologia ha potuto disporre di un’abbondanza di strumenti e di parametri dovuti all’evoluzione della tecnologia, che ha permesso la nascita della biologia molecolare. Negli anni è stato così chiarito che i genomi possono essere studiati per identificare le dinamiche dietro i processi evolutivi e per ricostruire le cronologie dei cambiamenti; tutto ciò ha facilitato anche la classificazione dei viventi secondo vere relazioni filogenetiche tanto da ridefinire i regni della vita, ridotti ora a tre:Eubatteri, Archaea e Eucarioti. Tutto ciò è stato possibile grazie all’avvento dell’ingegneria genetica che utilizza la tecnologia del DNA ricombinante(combinazioni nuove di sequenze di DNA, unendo frammenti di DNA di origine anche diversa in una singola molecola) e della PCR (amplifica in modo specifico e selettivo una piccola regione del genoma) per lo studio dei genomi. La diffusione di tali tecniche nella nostra società ha prodotto ampie applicazioni nel campo medico e nell’agricoltura, rivoluzionando molti settori, quali l’antropologia, l’industria e la medicina legale; esaminiamone qualcuno. Le investigazioni criminali Anche nelle investigazioni criminali vengono utilizzate ampiamente le tecniche di ingegneria genetica che permettono di svelare lo svolgimento di avvenimenti storici. Importante è stata l'applicazione del concetto di orologio molecolare, secondo il quale un filamento di DNA accumula mutazioni a un ritmo sufficientemente regolare da poter misurare il tempo trascorso dal momento in cui due specie si sono diversificate a partire da un antenato comune. In questo modo, è stato possibile risolvere casi giudiziari, in cui lo studio della filogenetica è risultato indispensabile. Negli anni ottanta i genetisti scoprirono che regioni di DNA umane evolvono molto più rapidamente di altre e furono subito sfruttate come marcatori genetici; gli individui vennero identificati in maniera ancora più precisa che con le impronte digitali , dimostrando soprattutto l'innocenza di un sospettato se non c'è corrispondenza tra i suoi marcatori e quelli dei campioni ritrovati sulla scena del delitto, grazie al fingerprinting o impronta molecolare. La filogenetica e l’ambito sanitario La tecnica dell'orologio molecolare può essere applicata anche a un gruppo di specie imparentate per dedurne l'albero genealogico. Si sa che gli agenti patogeni – batteri, virus, funghi – si sono evoluti di pari passo con l’uomo guidando l'evoluzione del nostro sistema immunitario ed evidenziandone le sue capacità di adattamento. Capire i meccanismi dell'evoluzione significa riconoscere le cause delle mutazioni e il ruolo della selezione naturale e degli eventi casuali nell'origine e persistenza di certe mutazioni ereditarie. La storia terribile delle epidemie di influenza umana e le conoscenze sempre più approfondite che abbiamo sull'evoluzione dei virus dell'influenza esemplificano alcuni di questi punti. Abbiamo così scoperto, dall'analisi filogenetica dei geni dei virus dell'influenza, che gli uccelli selvatici ne sono una fonte primaria e che i maiali domestici spesso sono gli ospiti intermedi fra uccelli e uomo. Quindi le autorità sanitarie hanno raccomandato di tenere in luoghi separati pollame e maiali, al fine di prevenire il contatto con gli uccelli selvatici; così come hanno chiesto un'attenta sorveglianza per una varietà altamente patogena nota come influenza A, ceppo H5N1 e altri ceppi identificati filogeneticamente. I genomi dell'influenza A presentano otto segmenti unici che possono essere mescolati e ricombinati tra ceppi di specie ospiti diverse. Tale ricombinazione, associata alla mutazione casuale che avviene nelle sequenze di DNA, fa sì che i virus si configurino ed eludano l'immunità sviluppatasi in precedenza e quindi ci costringono a mettere a punto nuovi vaccini. Mettendo insieme la campionatura geografica con la filogenesi di specifici segmenti e di mutazioni, causa di forte patogenicità, noi possiamo prevedere meglio la diffusione della malattia e identificare il materiale adatto da usare nella produzione di vaccini. Solo acquisendo nuove conoscenze in materia potremmo ridurre al minimo il rischio sia dell'attuale che delle future pandemie, che con certezza si verificheranno in avvenire. Un nuovo interessante approccio è, attualmente, l'integrazione della scienza evoluzionistica nei corsi di medicina e sanità pubblica; il medico può fare una medicina personalizzata, determinando i farmaci e i dosaggi per singoli pazienti in base a particolari tratti genetici. Ciò significa che una persona deve essere schedata geneticamente e ciò potrebbe essere motivo di preoccupazione per le persone stesse che potrebbero essere soggette ad un trattamento ingiusto in ambito lavorativo, per esempio, o essere discriminati in quanto appartenenti ad una razza con particolari caratteristiche genetiche. La manipolazione genetica Dalla conoscenza dell’evoluzione naturale i ricercatori hanno tratto spunto per accelerare il cambiamento evolutivo, rimescolando interi genomi tra popolazioni di microbi selezionati, usando l’evoluzione diretta. Alterando intenzionalmente i geni, i biologi producono le proteine, per le quali questi codificano, selezionandole per le loro prestazioni. Per selezionare i geni adatti a questo obiettivo è importante scoprire le loro relazioni filogenetiche. Come risultato di tali procedure possiamo citare l'ottenimento in laboratorio della versione migliorata della proteina umana 83 p53, coinvolta nella diminuzione della crescita del tumore; attualmente si sta lavorando per trasferire questo risultato ottenuto in laboratorio ai malati con proteine p53 compromesse. Oggi l’uomo sta provocando cambiamenti ambientali tali da far sorgere forti preoccupazioni sulla conservazione della biodiversità. Diventa dunque essenziale fare l’inventario delle risorse disponibili. Bisogna fare una campionatura genetica della biodiversità così che, con le informazioni ricavate dalle analisi filogenetiche di questi campioni, si possa determinare la specificità di gruppi di organismi e delineare le unità evolutive ai fini della conservazione. Le analisi del DNA hanno rivelato anche specie ancora non conosciute. La metagenomica Dopo aver scoperto nuovi microrganismi, attraverso le analisi filogenetiche di cui al punto precedente, i biologi stanno raccogliendo attualmente il DNA da un'intera comunità di varie specie in un preciso luogo, dando vita a una nuova Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin 84 scienza che è la metagenomica. Essa dovrebbe consentire di scoprire migliaia di microrganismi precedentemente sconosciuti, nonché nuovi enzimi e proteine per uso medico e industriale, e nuovi modi per impiegare i batteri al fine di combattere l’inquinamento. Il DNA estratto da un dato ambiente viene inserito all’interno di un plasmide di espressione, allo scopo di creare una biblioteca “metagenomica”; poi la fase finale consiste nello sperimentare funzionalmente il DNA espresso per una molteplicità di attività. In ambienti interni all'uomo, come un tratto intestinale, l'analisi metagenomica ha rivelato forme di vita microbiche di grandi diversità genetiche e molti geni sconosciuti e forme di vita impossibili da coltivare. È stato evidenziato come diverse patologie sono accompagnate da modifiche radicali nella composizione della flora microbica, per cui, per la cura della malattia, occorre capire meglio come si verificano tali modifiche e come queste influenzano il funzionamento dello stesso ecosistema e il progredire della malattia. La ricerca sulla metagenomica fino a questo momento si è incentrata però prevalentemente su batteri di rilevanza medica, mentre gli organismi “ecologicamente importanti” (ad esempio, quelli coinvolti nella produzione e nel consumo di metano) non hanno ricevuto la stessa attenzione. Si sa che i batteri costituiscono più della metà della materia vivente della Terra, e svolgono ruoli essenziali in numerosi cicli ambientali. Trasformano l’azoto dell’aria in una forma utilizzabile dalle piante, producono circa la metà dell’ossigeno del pianeta, scompongono i minerali e contrastano l’inquinamento. Infine, da tutto ciò si può desumere che i sistemi basati sulla metagenomica potrebbero monitorare la salute dell'ambiente e tenere sotto controllo i patogeni, sia essi di origine naturale che introdotti artificialmente; ma, a fronte delle moltissime informazioni metagenomiche fino ad oggi raccolte, c'è una carenza di strumenti per analizzarle. Quindi il problema da risolvere sta nell’innovazione tecnologica e dei suoi successivi metodi di applicazione. Francesco Annunziata La sistematica filogenetica molecolare Il tentativo di “classificare” i viventi secondo l’evoluzione L ’evoluzione è quel processo mediante il quale la selezione naturale -favorendo determinati individui- concorre all’affermazione di diversificati corredi genetici che, nel corso del tempo, manifesteranno differenziazioni tali da spiegare l’isolamento riproduttivo degli organismi cui essi sono correlati (speciazione). Pertanto, la teoria di Darwin (anche nelle accezioni più recenti) risulta essere la teoria della discendenza ovvero l’affermazione che tutti gli attuali organismi viventi (piante, animali, funghi, etc.) si sarebbero sviluppati attraverso cambiamenti nella forma e nel modo di vita di alcuni progenitori primordiali più semplici. A sostegno di tale teoria c’è la constatazione della fondamentale coincidenza delle basi molecolari dei principali processi vitali esplicati dagli organismi viventi (duplicazione del DNA, modelli di trascrizione e di traduzione, respirazione cellulare, fotosintesi, etc.); inoltre, ulteriori conferme provengono dalla documentazione fossile fornita dalla paleontologia (zoo- e fito-paleontologia), dall’affermata gerarchia dei grandi piani strutturali che si riscontrano in piante, animali, funghi, etc., come anche dalla riproducibilità sperimentale di alcuni processi di microspeciazione. La sistematica è quella branca delle scienze naturali che studia le parentele esistenti tra le specie o i gruppi di specie mediante il confronto di caratteri morfologici, fisiologici ed, ultimamente, anche l’analisi genetico-molecolare. In base a tali studi, i ricercatori sono stati in grado di classificare i viventi e di delimitare diversi taxa ovvero i vari gruppi in cui essi vengono classificati. La classificazione degli organismi viventi rappresenta il tentativo effettuato dall’uomo di 85 sistematizzare le proprie conoscenze ovvero di riunire i diversi tipi di organismi in differenti gruppi, in base a specifici criteri; tali criteri possono essere artificiali (classificazione artificiale), cioè scelti arbitrariamente, oppure più o meno naturali (classificazione naturale), rispettando le affinità “biologiche” dei gruppi. Peraltro, l’evoluzione storica della sistematica e quindi dei sistemi di classificazione dei viventi, intesi come modelli di interpretazione della complessa realtà biologica (basati sullo “studio della somiglianza dei caratteri”), segue di pari passo lo sviluppo delle differenti linee di indagine e dei metodi di analisi. Recentemente, si è affermata la concezione di una sistematica che, basandosi sulle differenze Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin 86 evolutive dei viventi, ripercorresse le tappe significative del loro sviluppo ovvero la loro filogenesi; quest’ultima, infatti, può essere intesa come “il processo di ramificazione delle linee di discendenza durante l’evoluzione della vita”. Pertanto, la ricostruzione della filogenesi risulta essere di fondamentale importanza per una sistematica che voglia ricostruire le relazioni di parentela evolutiva sia tra gruppi tassonomici di organismi, sia all’interno di uno stesso gruppo. Un sistema di classificazione naturale dovrebbe idealmente riprodurre la filogenesi delle forme viventi ovvero basarsi sul come, dal punto di vista storico, le stirpi e le popolazioni - intese come “comunità evolutive spazio-temporali” siano variate in seguito a modificazioni del patrimonio genetico. Pertanto, tale sistema dovrebbe raggruppare le diverse specie in varie categorie (taxa) a seconda delle affinità derivanti dalla loro storia evolutiva. Nel corso della storia si sono avvicendati diversi tentativi di classificazione dei viventi. Inizialmente, vennero adottate due differenti logiche classificatorie: la prima, di tipo aristotelico, consisteva nell’utilizzare divisioni dicotomiche prestabilite che, procedendo dall’universale al particolare, consentivano di distinguere -nell’insieme degli organismi viventi- differenti gruppi definibili in base alla conformità a specifici criteri, precedentemente prefissati1; la seconda, utilizzando un “procedimento per raggruppamento”, consentiva di giungere all’universale partendo dal particolare, ovvero permetteva la distinzione di diversi gruppi, in base alla conformità a criteri di somiglianza, definiti in seguito ad un rigoroso studio morfologico-comparativo delle caratteristiche delle singole specie. Le due logiche, come è facile intuire, portavano a risultati differenti; infatti, nel primo caso i criteri erano prefissati, mentre nel secondo subordinati all’osservazione comparativa degli organismi viventi. Tuttavia, nel corso del tempo, si comprese che l’operazione fondamentale da porre in essere nei sistemi classificatori consisteva nel riunire le specie in generi; nasceva, in tal modo, la nozione dei livelli gerarchici di rango (taxa) che corrispon- devano alla successione delle distinzioni dei diversi gruppi identificati con la classificazione. Fu Carlo Linneo (1707-1778) il primo studioso che codificò i principali taxa - ovvero i ranghi tassonomici fondamentali - e che formulò per le specie la necessità di indicarle con una nomenclatura binomia (ad esempio, per l’albero di faggio la denominazione della specie è Fagus sylvatica, denominazione costituita da due termini, il primo indicante il genere, il secondo l’epiteto della specie2); attualmente i taxa utilizzati in sistematica sono: regno, divisione o phylum, classe, ordine, genere, specie (Fig. 1). Come è facile intuire un sistema di classificazione non può ritenersi definitivo ed univoco, in quanto esso rappresenta la formulazione scientifica ritenuta più plausibile, in base allo stato delle conoscenze di un determinato periodo storico. Pertanto, un sistema di classificazione naturale dovrebbe basarsi: 1) sulla individuazione delle forme viventi che mantengono costanti le proprie caratteristiche fondamentali nelle successive generazioni (concetto di specie); 2) sul presupposto della speciazione ovvero che le specie si siano diversificate tra di loro a partire da un comune progenitore ancestrale; Fig. 1 - La struttura del sistema tassonomico di tipo “gerarchico inclusivo” che consente di classificare i viventi secondo i taxa: Regno, Divisione o Phylum, Classe, Ordine, Famiglia, Genere, Specie. 3) sull’individuazione del possibile percorso seguito dalle specie nella loro diversificazione (percorso filogenetico). Ogni specie risulta essere una miscela di caratteri sia ancestrali (plesiomorfi), ovvero rimasti invariati rispetto ai remoti progenitori, sia derivati (apomorfi) cioè evolutisi più recentemente e risultanti differenti da quelli di origine; pertanto, sembra evidente che organismi aventi un insieFig. 3 – Rappresentazione grafica delle relazioni filogenetiche tra i viventi me di caratteristiche genetiche simili, dei domini Bacteria, Archea ed Eukarya secondo recenti acquisizioni scientifiche basate su analisi genetico-molecolari. possano considerarsi discendenti di proposti (in questa sede) per i vegetali terrestri, un comune progenitore ancestrale, in ciascun gruppo sistematico non risulta derivato possesso di tali caratteristiche. da un altro gruppo ma i gruppi posti all’estremità Lo studio delle affinità e delle differenze, di rami adiacenti dovrebbero aver condiviso un analizzate in una ottica evolutiva, consente la antenato comune. costruzione di alberi filogenetici ovvero di moNegli ultimi decenni la sistematica è stata delli teorici (riportati sinteticamente sotto forma rivoluzionata dall’applicazione delle tecniche di grafici) in grado di rappresentare l’evoluzione molecolari ed è diventata sistematica molecolare. delle forme viventi e la loro stessa vicinanza o Infatti, è possibile ipotizzare parentele ed affinità lontananza genica. filogenetiche studiando le corrispondenze e/o le 87 Ad esempio, se si volessero distinguere i differenze tra le sequenze di amminoacidi costivegetali terrestri in base alla presenza di sistemi tuenti le proteine e tra le sequenze di nucleotidi di conduzione della linfa grezza ed elaborata (xicaratterizzanti gli acidi nucleici di diversi organilema e floema) si otterrebbe la separazione netta smi viventi; pertanto, lo sviluppo delle tecniche di tra i muschi e le piante dotate di radici, fusto e foanalisi molecolare ha consentito la comparazione glie ovvero di felci, gimnosperme (pini, abeti, etc.) dei viventi a livello del gene (DNA) o dei suoi ed angiosperme (pioppi, querce, noccioli, platani, prodotti di espressione (RNA e proteine). etc.); peraltro, se si aggiungessero altre variabili Attualmente, sono state determinate le sedistintive quali la presenza di semi e quella dei quenze degli acidi nucleici di una enorme varietà fiori si otterrebbe una più netta separazione tra di specie e le informazioni sono state immagazi gruppi sistematici (Fig. 2). zinate in database computerizzati; ciò ha reso Come si evince dagli alberi filogenetici ripossibile la comparazione evolutiva tra i differenti taxa. Ad esempio, i risultati delle analisi delle sequenze delle molecole di RNA ribosomale (presenti nella subunità minore del ribosoma) hanno condotto i ricercatori a ripartire i viventi in tre principali domini e cioè in Bacteria (procarioti che rappresentano i “classici” batteri), Archea (procarioti di ambienti Fig. 2 – Rappresentazione grafica delle relazioni filogenetiche tra i diversi taxa delle piante: a sinistra il carattere che sostiene il modello è estremi) ed Eukarya cioè l’insieme di l’assenza o la presenza di xilema e floema; a destra i caratteri utilizzati tutti gli eucarioti (Fig. 3). sono anche la presenza o assenza di legno, semi e fiori. Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin Fig. 4 – Rappresentazione della classificazione dei viventi proposta da Whittaker (1967). Questa esemplificazione evidenzia come l’analisi delle sequenze del materia genetico applicata agli organismi viventi - classificati, in un determinato contesto storico, quali ap- partenenti ad uno specifico taxon - possa portare a conclusioni tali da costringere gli stessi scienziati a rivedere le precedenti impostazioni classificatorie. Infatti, mentre nel 1967 Whittaker, un botanico dell’Università della California (USA), proponeva una classificazione dei viventi basata su cinque Regni (Fig. 4), attualmente tale sistema appare obsoleto e non soddisfa più ciò che discende dalle recenti acquisizioni scientifiche. Si assiste, pertanto, al continuo cambiamento dei sistemi classificatori e specialmente per particolari gruppi di organismi viventi; ciò se da un lato concorre ad una migliore conoscenza dei fenomeni caratterizzanti l’evoluzione di determinate specie o gruppi di organismi, dall’altro apporta ulteriore “complicatezza” al sistema/ modello interpretativo della stessa evoluzione. Per dirla in breve ciò che era vero alcuni anni fa, non è completamente vero oggi! Emanuele Roca 88 1 Seguendo tale logica, ad ogni tappa del processo classificatorio si giungeva ad una divisione dicotomica, in cui una delle parti veniva quasi sempre definita in termini negativi rispetto all’altra (ad esempio, piante con fiori/ piante senza fiori). 2 Al fine di semplificare l’argomento è stata omessa l’indicazione dell’autore che per primo ha descritto la specie; tale indicazione segue sempre il binomio scientifico della specie. Genetica dell’Evoluzione I “A un secolo dalla pubblicazione de L’origine delle specie, gli strumenti della genetica permettono di indagare la selezione naturale, e ne confermano il ruolo centrale nell’evoluzione degli esseri viventi.” Edoardo Boncinelli l concetto di selezione naturale, che opera su mutazioni casuali scegliendo le più vantaggiose, è una delle basi della teoria dell’evoluzione, ma è anche quello storicamente più discusso. I progressi della biologia e la nascita della genetica hanno via via confermato e arricchito la teoria elaborata da Darwin. In particolare le ricerche, i dibattiti e le riflessioni di questi ultimi decenni hanno reso sempre più evidente il contributo centrale del caso all’andamento del processo evolutivo. Nel 1859 Charles Darwin, attraverso una teoria dell’evoluzione biologica, concretizzò le sue idee sulla storia della vita. La sua proposta si articolava in due affermazioni: • Tutte le specie viventi derivano da uno stesso gruppo di organismi primitivi vissuti circa 3,8 miliardi di anni fa • Il processo di differenziazione è avvenuto per variazione (mutazione) e selezione (naturale) Una mutazione deriva da un errore più o meno esteso nella sequenza del DNA, che costituisce il patrimonio genetico di un organismo, una copiatura sbagliata del DNA al momento della sua replicazione. Invece la selezione naturale è il meccanismo con cui avviene l’evoluzione delle specie e secondo cui sopravvive l’organismo più “forte” e, quindi, il più adatto. Un primo precursore delle affermazione di Darwin fu Lamarck, il quale aveva avanzato una teoria sull’evoluzione dei viventi, riguardante l’eredità dei caratteri acquisiti. Il naturalista francese, sebbene avesse ipotizzato un meccanismo errato per spiegare come un essere vivente passerebbe alle generazioni successive le facoltà acquisite durante la sua esistenza, aveva visto giusto nel sostenere che gli organismi si possono evolvere e che da una data specie ne possono derivare altre. Naturalmente non conosceva come i caratteri si trasmettessero da una generazione all’altra né sapeva nulla dell’esistenza dei geni e dei relativi meccanismi 89 di mutazione. La riscoperta, nei primi decenni del ‘900, delle ricerche sull’ereditarietà da parte del monaco austriaco Gregor Mendel gettò nuova luce sulle teorie darwiniane e approdò alla formulazione delle leggi della segregazione dell’assortimento indipendente. Il monaco, incrociando piante eterozigoti, per esempio individui Pp (P= allele dominante, p=allele recessivo), si accorse che la progenie presentava il rapporto fenotipico 3:1. La ragione di tale rapporto costante è che la probabilità di ottenere individui PP, Pp, pp, sono rispettivamente del 25%, 50% e 25%. Dal momento che individui PP e Pp hanno lo stesso fenotipo, il 75% di tutti gli esemplari ha caratteristiche uguali da cui il rapporto fenotipico di 3:1. Il metodo del quadrato di Punnett consente di prevedere nella discendenza le percentuali di PP, Pp, pp, quelle stesse percentuali che Mendel osservò nei suoi esperimenti. Il metodo si basa sull’assunto che tutti i gameti, sia maschili sia femminili, hanno uguale probabilità di fecondare e di essere fecondati. Grazie al progressivo approfondirsi della Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin 90 conoscenza della biologia molecolare e della struttura degli acidi nucleici, Watson e Crick nel 1953 proposero una struttura per la molecola di DNA, con straordinarie implicazioni per la nostra comprensione della natura fisica dell’eredità e della variazione. Il DNA ha una struttura a doppia elica, simile cioè ad una scala di corda fatta ruotare a un’estremità in modo che si avvolga a spirale. Più in dettaglio la scala è costituita da due lunghe catene di nucleotidi legati covalentemente tra loro; le due catene sono unite da legami a idrogeno. I nucleotidi sono composti ognuno da uno zucchero, da un gruppo fosfato e da una base azotata: adenina (A), citosina (C), guanina (G) e timina (T). Queste basi son tra loro complementari, cioè solo alcuni appaiamenti sono tra di loro possibili (A-T e C-G). La successione degli zuccheri e dei gruppi fosfato delle due catene nucleotidiche forma i montanti della scala, ossia le parti esterne verticali; le basi, invece ne costituiscono i pioli. Durante la replicazione (il meccanismo molecolare attraverso cui viene prodotta una copia del DNA cellulare), possono avvenire degli errori di appaiamento delle basi (mutazioni). Per esempio, la differenza tra il colore nero e il colore giallo dei cani Labrador nasce dalla mutazione di un’unica base, che inattiva un recettore nelle cellule del pigmento dei cani color crema. Un chiaro esempio della grande influenza delle mutazioni genetiche delle piante è l’attuale pianta di mais completamente diversa dal suo gracile antenato selvatico teosinte. Molte delle principali differenze strutturali tra il mais e il teosinte sono legate a poche regioni-chiave dei cromosomi. La mutazione di un’area di regolazione di un unico gene che controlla la divisione cellulare durante lo sviluppo dello stelo è responsabile di gran parte della differenza tra un aspetto cespuglioso e un unico gambo centrale. La mutazione di un secondo gene, attivo durante lo sviluppo del seme, aiuta a trasformare il seme rivestito da una buccia dura e mineralizzata in chicchi morbidi e indifesi del mais. Esempi di mutazione si sono verificati anche ai giorni nostri come hanno dimostrato i ricercatori dell’Università Americana del Kentucky, i quali hanno individuato una proteina anticancro. Sono risaliti al gene che la produce e hanno scoperto e dimostrato che quest’ultimo rende immuni da qualsiasi forma di cancro. L’èquipe ha creato delle cavie (topi) con il gene Par-4. Per cui introdotto il gene in un ovocita, impiantato in una madre surrogata, dopo due generazioni è nata la nuova super-stirpe. I topolini biotech crescono normalmente non presentando anomalie genetiche e non ammalandosi di cancro. Il codice genetico, in conclusione, è universale, anche se “arbitrario”: infatti, potrebbe funzionare benissimo anche se fosse diverso. L’esistenza di un codice universale dimostra che tutti gli organismi sono imparentati fra loro. Una verifica sperimentale di tale teoria è rappresentata dall’utilizzo di una particolare tecnica biologica, che consiste nell’appaiare filamenti di DNA, prelevati da due specie diverse, in modo da evidenziare somiglianze e differenze nel materiale genetico analizzato. Tale tecnica conferma l’esistenza di rapporti di parentela tra gli individui. Inoltre vi sono proteine talmente importanti da essere presenti pressoché in tutti gli organismi viventi. È il caso di una proteina chiamata “citocomo c” che è essenziale alla respirazione cellulare. Tale proteina presenta una struttura leggermente diversa nei diversi gruppi degli organismi: alcuni tratti della catena non sono costituiti dei medesimi amminoacidi. Questo, però, non influisce sul funzionamento della proteina, perché i tratti in questione non sono importanti per la sua specificità. Pertanto, le somiglianze e le differenze del citocromo c di specie diverse riflettono i rapporti di parentela i quali vengono dedotti con i metodi, più tradizionali, dell’anatomia comparata. Tutte queste scoperte e molte altre ancora hanno messo in luce l’incredibile unitarietà degli esseri viventi. È importante rendersi conto del fatto che gli organismi superiori non nascono adulti, ma divengono tali attraverso un lungo ed elaborato processo di sviluppo ed è questo anzitutto che evolve: l’evoluzione è in primo luogo evoluzione dei processi dello sviluppo. La teoria dell’ evoluzione si è così precisata e arricchita di nuovi dettagli (neodarwinismo), ma l’impianto concettuale è rimasto sorprendentemente quello postulato da Darwin. Ines Balestrino Stefania Coppola Sara De Filippo Stefania Iermano Valentina Perano Sabrina Serino IV B - Liceo Scientifico “G. Galilei” Docente referente: 91 Rosa Maria Aliberti Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin San Francesco e Darwin Ipotesi liminari Ad una superficiale considerazione, sembra che collegare l’artefice della moderna teoria evolutiva, Charles Darwin, e San Francesco, il santo di Assisi, possa essere un paradosso, tanto distanti sono i periodi in cui sono vissuti ed altrettanto le loro esperienze di vita e visione della realtà. Invece, da un’analisi più approfondita, in questi due grandi personaggi storici emergono alcune importanti affinità. Chi era San Francesco 92 San Francesco nacque ad Assisi nel 1182, era figlio di Pietro Bernardone, un agiato commerciante che aveva voluto così chiamarlo a causa della sua grande ammirazione per i francesi, con i quali intratteneva fitti rapporti d’affari. Francesco si rivelò ben presto molto dotato: fisicamente delicato ma non fragile, possedeva una vivace attitudine per il commercio e conosceva, oltre il latino, anche il provenzale La sua giovinezza fu spensierata quanto quella di ogni giovane di agiata famiglia, e ricca di sogni di gloria. Nel 1202 Francesco, ventenne, prese parte alla battaglia di Ponte S. Giovanni, che vedeva opposte le milizie di Assisi alle schiere perugine. A seguito dello scontro, risoltosi in una pesante sconfitta per i soldati di Assisi, Francesco fu tenuto prigioniero a Perugia per oltre un anno e fu liberato solo grazie alla grande influenza del padre. Una grave malattia, poi, ne mutò il carattere spensierato e nella primavera del 1205, mentre si accingeva a partire per un’altra spedizione militare, ebbe la prima visione che lo invitava a scegliere se servire gli uomini oppure Dio. Da quel momento iniziò la conversione di Francesco, segnata dall’imitazione appassionata di Cristo attraverso la via della povertà e del servizio ai più emarginati. Nello stesso anno Francesco iniziò il restauro della Chiesa abbandonata di S. Maria degli Angeli, la Porziuncola, nei pressi di Assisi, dove, come narrano le biografie ufficiali, conversava con un crocifisso di legno che gli suggeriva le azioni da compiere. Pietro Bernardone, tuttavia, irritato per il comportamento così mutato dell’unico figlio, lo rinchiuse in casa e lo citò in giudizio dinanzi alle autorità civili e religiose della città per diseredarlo. Allora Francesco, secondo l’esempio evangelico dell’abbandonare tutto per seguire Cristo, restituì al padre perfino le vesti, restando nudo sulla piazza di Assisi: Scelse il silenzio e la meditazione tra le campagne e le colline di Assisi. San Francesco e Darwin: che cosa può accomunare questi due grandi personaggi storici? Sembra impossibile, anche in considerazione dei cenni biografici suesposti, pensare a dei collegamenti tra di essi. Eppure, secondo la mia opinione, esistono alcune importanti affinità, che potrebbero essere oggetto di ulteriori approfondimenti. In San Francesco d’Assisi c’è una capacità di sublimare un’intuizione terrestre con enorme semplicità e chiarezza; in Charles Darwin è presente un desiderio di ricerca della conoscenza che è simile all’intuizione divina dell’altro, ed in entrambi permane lo stupore della ragione davanti alle meraviglie della natura. San Francesco è protagonista di molteplici aneddoti riguardanti il suo rapporto di amore verso la natura e gli animali. La sua compassione verso gli animali rappresenta una eccezione nella storia della Chiesa. Nel suo Cantico delle creature, il Santo di Assisi si rivolge agli elementi naturali col nome di Fratello o Sorella: manifesta un sentimento di identificazione con il creato e di amore per tutte le creature o elementi della natura (rocce, fuoco, sassi, ecc.), indipendentemente dalla loro sensibilità. Il suo è un amore estatico, e per il santo di Assisi l’uomo è una creatura della natura, che non si pone come un dominatore della Terra, ma è componente alla pari di tutti gli altri esseri viventi. Darwin e la teoria evolutiva Charles Robert Darwin, naturalista inglese, quinto di sei figli, nacque nel 1809 in Inghilterra in un’agiata famiglia borghese di Shrewsbury. Iniziò gli studi di medicina e poi di teologia, ma la sua vera passione furono le scienze naturali. Nell’ottobre del 1825 si iscrisse all’Università di Edimburgo per studiare medicina, pensando di seguire le orme del padre. Nel periodo trascorso ad Edimburgo studiò gli invertebrati marini sotto la guida di Robert Grant, uno dei primi naturalisti convinti della realtà della trasformazione delle specie. Darwin capì ben presto di non essere adatto agli studi di medicina e quindi si dedicò agli studi naturalistici. Durante il suo viaggio durato cinque anni (1831-1836) sul brigantino inglese Beagle, Darwin osservò le somiglianze tra organismi viventi e fossili e la diversità della vita sulle isole Galápagos. Nel suo libro L’origine delle specie per selezione naturale (The origin of species by means of natural selection, 1859), punto d’arrivo della polemica sette-ottocentesca fra creazionisti ed evoluzionisti, Charles Darwin formulò la teoria dell’evoluzione degli esseri viventi attraverso una selezione naturale che favorisce, negli individui, le variazioni utili alla lotta per l’esistenza; variazioni che vengono trasmesse ai discendenti e quindi rafforzate; la selezione naturale è alla base dei meccanismi dell’evoluzione. Darwin osservò che gli organismi di tutte le specie: • hanno la tendenza a produrre prole in eccesso, con un numero di individui superiore a quello che l’ambiente può sostenere; • variano in molte caratteristiche individuali che possono essere ereditate; • possono sopravvivere in dipendenza, almeno in parte, dalle caratteristiche ereditate dai genitori; • adattandosi meglio all’ambiente, hanno maggiore probabilità di sopravvivere e riprodursi; • in seguito alla selezione naturale, presenteranno le caratteristiche vantaggiose sempre più frequentemente nelle generazioni successive, mentre quelle sfavorevoli lo saranno sempre meno. Darwin trovò prove convincenti a sostegno della sua teoria osservando i risultati della selezione artificiale, cioè la coltivazione e l’allevamento selettivi di piante e animali, e nella documentazione fossile, ossia la serie ordinata di fossili che affiorano dagli strati di rocce sedimentarie. Un supporto ulteriore alla teoria dell’evoluzione è stato fornito, oggi, dalla biologia molecolare, la disciplina che, tra l’altro, paragona sequenze di DNA e proteine in organismi differenti: Le specie viventi che risultano strettamente correlate hanno in comune una percentuale di DNA e di proteine maggiore rispetto alle specie non imparentate. La teoria dell’evoluzione di Darwin rappresenta un complesso di conoscenze vasto e articolato, che ha fecondato la ricerca in numerosi rami della scienza naturale, ricevendone conferme, occasioni di nuovi sviluppi e correzioni. Anche per il futuro l’evoluzionismo potrà rappresentare il filo conduttore in grado di garantire l’interpretazione dell’immensa quantità di dati raccolti dalla ricerca genetica e in altri rami della scienza. Lyceum Dicembre 2009 93 Percorso/Speciale Darwin 94 La molteplicità degli esseri viventi è l’espressione multifor me del buon Dio. Questo ha un’unica, fondamentale, conseguenza: essi sono tutti positivi alla luce della visione di San Francesco. Non esiste una creatura negativa. Tutti gli esseri viventi hanno un loro proprio valore, la loro propria bontà. Ogni oggetto, sia esso una stella o una pietra, una pianta o un albero, un animale o un uomo, rispecchia, a suo modo, la perfezione e la bontà di Dio. Tutte le creature hanno il proprio valore come pure la propria attività. La dottrina della creazione giustifica quindi completamente una visione positiva della Creazione e di tutte le sue manifestazioni e di tutti i suoi livelli. La teoria evoluzionista, indipendentemente dalla conciliabilità tra fede e scienza, accomuna tutti gli esseri viventi, da quelli microscopici all’uomo, non da un punto di vista spirituale, ma da un’ottica materiale: tutte le specie esistenti presentano parti più o meno grandi di mate- riale genetico, di Dna identico, e sono tutte il risultato della storia della vita, attraverso le grandi ere geologiche, a partire dai primitivi procarioti: le specie viventi, animali e vegetali, in misura maggiore o minore, sono imparentati da antenati comuni. Dunque, le molteplici specie viventi, come pure l’uomo, sono accomunate, per Darwin, materialmente e per San Francesco, anche, spiritualmente, nel grande quadro dell’ecosistema Terra, dove ogni entità vivente, microscopica o macroscopica che essa sia, ha un proprio valore ed una propria funzione, ed è in stretta relazione con la componente abiotica, determinando un grande e meraviglioso equilibrio, che assolutamente l’uomo non può e non deve sconvolgere in modo irrazionale. Non volendo discutere ulteriormente di un casualismo o di un determinismo della realtà, di scienza e fede, è pur vero che questi sono alcuni punti comuni importanti tra questi due grandi personaggi della storia dell’umanità. Raffaele Annarumma Lieco Scientifico “Sensale” Nocera Inferiore L’origine della vita I problemi principali dell’evoluzionismo su cui bisogna soffermarsi sono due : l’origine della vita e l’origine dell’uomo. Sotto diversi punti di vista essi sono due episodi molto significativi che hanno segnato la storia della terra. L’origine della vita ha portato all’evoluzione organica svoltasi sul nostro pianeta, condizionando l’attuale fisionomia della terra. L’origine dell’uomo è stata importante non solo per gli uomini ma per l’evoluzione stessa in quanto ne ha realizzato un nuovo modello: l’intelligenza, l’apprendimento, la comunicazione e la cultura. L’origine della vita: ipotesi e dati sperimentali Sull’origine della vita del mondo inorganico si è discusso molto e tuttora si discute. Anticamente si credeva possibile che da sostanze inorganiche o da sostanze organiche in decomposizione si potesse generare qualche specie di origine animale di organizzazione elevata(mosche, topi, anguille, ecc…). È infatti famosa la ricetta data Le tappe principali del lungo processo dell’evoluzione: da Francesco Redi al RNA World da Virgilio nelle Georgiche per procurarsi delle api: uccidere un giovane torello e attendere che dal suo corpo in putrefazione nascessero delle api . Nel XVII secolo Van Helmont affermava che bastava lasciare alcuni stracci vecchi e sudici in soffitta perché da questi nascessero topi. L’ipotesi della generazione spontanea era ammessa da filosofi e naturalisti. Per generazione spontanea o abiogenesi si intende la credenza per cui la vita potrebbe nascere in modo “spontaneo” dalla materia inerte o inanimata, tramite l’effetto di flussi vitali. L’esperimento di Redi ”(1626-1698) 95 Il primo a trattare il problema in modo scientifico fu il medico e poeta aretino Francesco Redi. Francesco Redi nel 1668, per determinare se esistesse o meno la generazione spontanea, effettuò un esperimento, da molti considerato come il primo, vero esperimento scientifico nelle Scienze Biologiche. Redi riuscì a dimostrare che dalla carne in putrefazione potevano nascere Come si vede dal timeline, la vita si è formata assai presto sulla terra ed è stata dominata da Archaeobatteri ed Eubattei praticamente per più di un miliardo e mezzo di anni, mentre gli Eucarioti compaiono relativamente tardi, sola circa 2 miliardi di anni fa. Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin larve di mosca solo se l’insetto adulto vi deponeva le uova. Egli preparò due serie di barattoli di vetro contenenti carne in putrefazione; chiuse ermeticamente la prima serie, mentre lasciò aperti i barattoli del secondo gruppo. Attese alcuni giorni, quindi verificò che solo nei barattoli rimasti aperti erano presenti larve di mosca, dal momento che gli insetti avevano potuto raggiungere la carne per deporvi le uova. Nonostante la correttezza dell’esperimento, alcuni colleghi obiettarono a Redi che la chiusura ermetica dei barattoli aveva impedito alla vis vitalis di favorire la generazione delle larve. Redi eseguì allora una nuova prova, coprendo i barattoli con della garza a maglie molto fini, in modo che la carne potesse venire a contatto con l’aria, ma non con le mosche. Questi esperimenti aprirono la strada alla teoria della biogenesi, ovvero che la vita si genera da altra vita. 96 John Needham (1745-1750) Permanevano tuttavia alcuni scettici, convinti che ciò che valeva per le mosche non doveva essere necessariamente valido per tutti gli organismi viventi. Uno di questi, l’inglese J. Needham, nel secolo successivo, volle dimostrare la teoria della abiogenesi almeno per quelle forme di vita microscopiche che egli osservava al microscopio. A tale scopo mise del brodo di carne in matracci di vetro con l’imboccatura aperta e lo fece bollire per parecchi minuti, in modo da far morire eventuali microorganismi presenti. Osservato al microscopio dopo la bollitura, il brodo non presentava alcuna forma di vita; chiusi i matracci con dei tappi di sughero, potè dimostrare che il giorno dopo il brodo pullulava di microscopiche forme di vita. Lazzaro Spallanzani (1729-1799) Fortunatamente i sostenitori della biogenesi continuarono a progettare nuove sperimentazioni. Alcuni anni più tardi, Lazzaro Spallanzani, non convinto delle conclusioni di Needham, condusse degli esperimenti simili con diverse variazioni, applicando un metodo più rigoroso. Innanzitutto, egli sottopose ad ebollizione di un’ora le zuppe, poi sigillò le beute di vetro che contenevano il brodo fondendo le aperture delle beute. Il brodo ottenuto era sterile e non si rilevò la crescita di microrganismi nemmeno dopo diversi giorni. In un gruppo di controllo, bollì il brodo solo per alcuni minuti e osservò che in queste beute crescevano microorganismi. In un terzo gruppo bollì il brodo per un’ora, ma chiuse le beute con tappi di sughero (che erano larghi abbastanza per il passaggio dell’aria) ed anche in queste osservò lo sviluppo di microrganismi. Spallanzani concluse che, mentre un’ora di bollitura sterilizzava la zuppa, pochi minuti non erano sufficienti per uccidere i batteri inizialmente presenti ed inoltre che i microorganismi potevano essere anche trasportati dall’aria, come era avvenuto nelle beute del terzo gruppo. Questi risultati accesero un’animata discussione tra Spallanzani e Needham riguardo alla sterilizzazione come metodo per confutare la generazione spontanea. Needham affermò che l’eccessiva bollitura del brodo usata per sterilizzare i contenitori aveva ucciso la “forza vitale”, mentre la breve ebollizione non era stata sufficientemente gravosa per distruggerla, cosicché i batteri erano ancora capaci di svilupparsi. Disse, inoltre, che i batteri non potevano svilupparsi nei contenitori sigillati, poiché si impediva l’ingresso della forza vitale. Contrariamente, nei contenitori aperti, l’aria fresca poteva entrare, dando così l’avvio alla generazione spontanea. Louis Pasteur (1822-1895) Louis Pasteur, attraverso un semplice esperimento, riuscì a confutare la teoria della generazione spontanea. Egli impiegò per i suoi esperimenti dei matracci a collo d’oca, che permettevano l’entrata dell’ossigeno, elemento indispensabile allo sviluppo della vita, ma impedivano che il liquido all’interno venisse a contatto con agenti contaminanti come spore e batteri. Egli bollì il contenuto dei matracci, uccidendo così ogni forma di vita all’interno, e dimostrò che i microrganismi riapparivano solo se il collo dei matracci veniva rotto, permettendo così agli agenti contaminanti di entrare. Attraverso questo semplice, ma ingegnoso esperimento, Louis Pasteur fu in grado di confutare definitivamente la teoria della generazione spontanea e, come egli stesso disse in una serata scientifica alla Sorbona di Parigi: “Mai la teoria della generazione spontanea potrà risollevarsi dal colpo mortale inflittole da questo semplice esperimento.” Le teorie dell’origine della vita (J. B. S. Haldane 1954) La generazione spontanea non venne ancora del tutto annullata in quanto sembrava l’unica spiegazione dell’origine della vita sulla Terra, anche se il termine generazione spontanea, carico di sottintesi filosofici, viene evitato nella biologia moderna, sostituito con abiogenesi. Le teorie sull’origine della vita si possono classificare in quattro categorie: 1) secondo Arrhenius la vita è sempre esistita e quindi non ha mai avuto origine nell’universo perché è una proprietà della materia; i corpi celesti quando siano divenuti abitabili sono “colonizzati” da “semi” vitali provenienti dallo spazio. 2) La vita ha avuto origine da un evento soprannaturale che le scienze naturali non sono in grado di definire e quindi si sottrae al controllo umano. 3) La vita è avvenuta grazie a reazioni chimiche riproducibili in laboratorio mediante un lento processo di evoluzione. 4) La vita è il risultato di un evento improbabile che comunque era”quasi” certo che accadesse in un periodo di tempo conveniente e con una quantità di materia necessaria . Nella prima categoria non c’è alcuna soluzione al problema, anche se oggi attraverso la biologia spaziale si può pensare di raccogliere dati su questo problema. Nella seconda categoria, accettata dai creazionisti, c’è poco di scientifico e non è possibile osservarla attraverso esperimenti. La terza e la quarta ipotesi sono riducibili l’una all’altra e poi possono essere sottoposte a controllo sperimentale, anche se con molte difficoltà soprattutto per la quarta. Haldane, nel 1929, affermò che nell’atmosfera terrestre c’era pochissimo ossigeno, ma conte- neva ammoniaca, idrogeno e metano e pensò anche che sotto l’azione dei raggi ultravioletti si fossero formate le molecole organiche. Secondo la teoria di A. I. Oparin (1894-1980) l’atmosfera primordiale della Terra era composta da metano, ammoniaca, idrogeno ed acqua (sotto forma di vapore) e da questi composti ebbero origine le molecole organiche che diedero origine alla vita. Egli riuscì a dimostrare un modo in cui molecole organiche semplici si riorganizzavano in sistemi microscopici detti coacervati (forse i precursori delle membrane cellulari) in cui probabilmente una vita primitiva avrebbe potuto svilupparsi. Stnaley Miller (1953 –57) La possibilità della formazione di composti organici come gli amminoacidi è dimostrata sperimentalmente da S. Miller. Egli sottopose una miscela di sostanze piuttosto semplici, come acqua e idrogeno, metano e ammoniaca, a una scintilla elettrica prodotta da una corrente ad alta frequenza per un periodo di parecchi giorni, ottenendo la formazione di molecole complesse: 97 amminoacidi, acidi organici diversi, urea. Con l’esperimento di Miller sembrava, ormai, che la teoria dell’origine della vita fosse spiegata, però sorsero dei dubbi in quanto non si riusciva a spiegare il passaggio da semplici molecole organiche a polimeri complessi e sistemi in grado di fare copia di sé. Sydney Fox ” (1960) Fox riuscì ad ottenere, in assenza di acqua e a temperatura molto elevata, catene di polipeptidi, cioè molecole filamentose composte dalla successione di molti amminoacidi. Tali prodotti ottenuti artificialmente furono chiamati proteinoidi. Essi tendono facilmente ad aggregarsi, formando microsfere di circa 2 micron di diametro che ricordano la struttura cellulare. Con un sistema simile, un altro autore, C. Ponnamperuma, è riuscito a ottenere degli amminoacidi e loro polimeri sottoponendo la miscela a raggi ultravioletti, invece mettendo l’acido fosforico ha ottenuto gli acidi nucleici, che sono le molecole più importanti degli organismi, su cui è scritta l’informazione genetica. Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin 98 RNA World I composti realizzati sperimentalmente rientrano in uno stadio della biogenesi o biopoiesi che si chiama prebiotico, poi si arriva ai protobionti, ovvero aggregati plurimolecolari che hanno le proprietà degli esseri viventi, ma il passaggio è ancora oscuro. Più complesso ancora è il problema della costituzione dei veri e propri organismi in cui vi è un’associazione fra acidi nucleici, ai quali è affidato il messaggio genetico quindi la riproduzione, e proteine a cui spetta svolgere le funzioni del metabolismo, cioè l’assunzione di sostanze dall’esterno per assimilarle. Nel 1986 Walter Gilbert ha formulato l’ipotesi che le prime forme di vita fossero costituite da corte catene di RNA, formatesi spontaneamente; i corti polimeri di RNA, dotati di azione autocatalitica, sarebbero stati capaci di autoriprodursi e di sintetizzare proteine, che a loro volta sarebbero state in grado di fungere da catalizzatori, favorendo la formazione di doppie eliche di DNA, che poi si sarebbero ulteriormente evolute e diversificate. Lo stesso Gilbert ha introdotto il termine RNA World (mondo a RNA), ad indicare il mondo primigenio confermato dalla scoperta dei ribozimi. Evoluzione della vita Le primitive unità viventi, dotate delle proprietà di riprodursi e quindi di andare soggette a mutazioni e di metabolizzare, saranno poi entrate in competizione reciproca dando così inizio al processo evolutivo guidato dalla selezione naturale. Un momento molto importante dell’evoluzione è stato indubbiamente l’avvento della fotosintesi clorofilliana. Ciò ha permesso agli organismi di rendersi indipendenti dalla fonte di nutrimento rappresentato dalle molecole organiche esistenti nell’ambiente e di provvedere direttamente alla sintesi di prodotti organici a partire da sostanze inorganiche. È questo un episodio molto importante per l’evoluzione per due motivi: primo perché da esso dipenderà d’ora in poi l’esistenza di tutti i vegetali e gli animali; secondo perché, con la liberazione di ossigeno, la fotosintesi determina un profondo cambiamento nell’atmosfera, la quale si arricchisce di questo gas, che oggi ne costituisce il 21% in volume. Da riducente, l’atmosfera diventa ossidante; si rende così possibile la respirazione, cioè la liberazione di energia utilizzabile per i processi metabolici di sintesi e si stabilisce il sistema energetico dominante nell’attuale biosfera. III MS Docente referente: Anna Luisa Fiore prima di darwin/1 Linneo e Darwin Mentre per Linneo esistevano discontinuità e separazioni fra i vari esseri viventi, per Darwin le separazioni erano solo apparenti. “S e non conosci il nome, muore anche la conoscenza”: è questa una delle frasi più note e significative di Carl Nilsson Linnaeus, divenuto Carl von Linné in seguito all’acquisizione di un titolo nobiliare, inventore del sistema di classificazione binomiale degli esseri viventi. La passione per le scienze naturali gli venne trasmessa dal padre Carl, interessato alla botanica tanto da adottare come cognome Linnaeus, ovvero la latinizzazione della parola linn (tiglio) traendo spunto da un grosso tiglio situato nei pressi della sua casa a Rashult, in Svezia. Fin da piccolo abituato a classificare giocattoli, da studente a classificare i suoi amici di scuola e, nella sua opera, persino i suoi colleghi botanici, Linneo fu l’ideatore della tassonomia, branca della biologia che si occupa di classificare gli esseri viventi. Nella sua opera Systema Naturae (1735) propose, per primo, un sistema di classificazione basato su raggruppamenti disposti gerarchicamente (regno, phylum, classe, ordine, famiglia, genere, specie). Infatti, fino ad allora, per descrivere un essere vivente era utilizzata un classificazione alquanto problematica per nome del genere e descrizione della specie, inoltre, dovendoli far rientrare in un determinato raggruppamento, dovette utilizzare dei criteri: mentre nelle piante erano le differenze tra le parti sessuali, negli animali a distinguerli erano 99 le caratteristiche anatomiche interne. Egli utilizzò una nomenclatura binomia, tuttora in uso. “Dio ha creato, Linneo organizzato”: così commentava la sua classificazione. Introdusse per la prima volta il concetto di specie, intendendo la tipologia di individui che possono riprodursi generando una discendenza fertile. “Tante sono le specie oggi esistenti quante furono quelle create al principio dall’Ente infinito” è la dimostrazione che egli riteneva il concetto di specie come qualcosa di non stabilito convenzionalmente, ma come qualcosa di eterno ed immutabile,quindi originariamente creato da Dio. Darwin, dopo un secolo, cercò di disfare questa conquista del sapere, negando l'esistenza stessa della specie. Insomma, mentre per Linneo esistevano delle discontinuità fra i vari esseri viventi, delle separazioni che impedivano – per esempio – la mescolanza fra cani e gatti, per Darwin le separazioni erano solo apparenti e, come si poteva passare da una razza a un'altra, così si era passati e si stava passando da una specie a Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin un'altra. Per Darwin, cani e gatti provenivano da un progenitore comune ed erano discendenti di due razze via via divaricatesi, mentre le attuali razze di cani non erano altro che «specie in via di formazione». Per la sua classificazione Linneo si basò su studi precedenti di molti La descrizione a grandi linee uomini che si occudelle sue idee circa la classificazione gerarchica del parono di botanica: mondo naturale, avviene nel 1735 tra questi figurano con Systema Naturae. Aristotele, che diede il primo input alla classificazione degli esseri viventi, riunendo in una determinata classe gli animali, utilizzando come criterio il modo di 100 locomozione e l’ ambiente in cui si muovono; Teofrasto, allievo dello stesso Aristotele, autore di due trattati sulla botanica, il primo “Storia delle piante”, il secondo “Causa delle piante”, che definì in queste due opere la differenza tra animale e vegetale; e Gaspard Bauhin, botanico svizzero che introdusse, per primo, la nomenclatura binomiale. Pur restando sempre in Svezia, dove amava fare escursioni con i suoi discepoli, riuscì a classificare più di 13000 individui, grazie ai campioni portatigli dai suoi allievi in giro per il mondo, assegnando nomi specifici alle circa 4200 specie di animali e alle circa 7700 specie di piante. Attraverso, proprio questi campioni, Linneo arrivò alla conclusione che ci fossero quattro categorie, nelle quali far rientrare tutti gli esseri viventi: quella dei mammiferi, degli uccelli, dei pesci ed infine quella dei vermi. È proprio grazie a Linneo, che raggruppò gli organismi terrestri, e a Darwin, con le sue teorie evoluzionistiche, che è nata la classificazione scientifica: è stato l'intelletto di questi due grandi uomini a risolvere uno dei più complessi problemi della scienza e ad esaltare l'istinto umano di ordine e di curiosità. Claudia Marciano, Antonio Gaito, Ferdy Gatti Junior, Chiara Serafino, Margherita Esposito, Pasquale Nunziata, Sebastiano Antonio Marciano e Francesco Vergati III B - Liceo Scientifico Docenti referenti: Rosa Maria Aliberti Anna Cristina Crescenzi prima di darwin/2 Il lamarckismo J ean Baptiste de Lamarck(1744-1829) fu un importante botanico del Jardin de Plates di Parigi. Dopo aver eseguito a 49 anni lo studio degli invertebrati, verso la fine della sua vita fu il primo scienziato a concepire ed esporre la prima teoria sull’evoluzione dei viventi: il lamarckismo. Prima di Lamarck si pensava che le specie fossero immutabili, cioè che erano così già dalla loro creazione. Ma questa tesi fu messa già in discussione, alla fine della sua vita, da Linneo, ipotizzando che tramite l’ibridazione si potessero formare nuove specie. Su questo si attestò Lamarck e nel 1809 pubblicò l’opera “Philosophie zoologique”, dove sostenne l’ereditarietà dei caratteri acquisiti, l’origine non casuale o fortuita delle variazioni evolutive e la loro stretta dipendenza rispetto alle variazioni ambientali. Ipotizzò che vi è una spinta interna in tutti gli esseri viventi al cambiamento, che li trasforma progressivamente da esseri semplici a complessi tramite “l’uso e/o il disuso di parti del corpo”e “l’ereditarietà dei caratteri acquisiti”. Cioè, per Lamarck, usando o meno una parte del corpo, l’essere tende a sviluppare caratteristiche che verranno t ra m a n d a te di generazione in generazione. Quindi nessuna specie era più antica della natura ma era il risultato di una progressiva trasformazione. Questo dunque è il concetto alla base delle teorie evolutive che può essere spiegato secondo quattro principi: • I viventi sono prodotto della natura che li ha formati in fasi successive. • Gli organismi semplici si formano dalla materia inanimata e si complicano man mano che l’ambiente li favorisce. • L’ambiente determina un graduale sviluppo dei loro organi, generati da variazioni adattive. • Le specie non sono fisse ma in continua 101 e incessante evoluzione. Tre esempi classici della teoria di Lamarck riguardarono l’allungamento del collo e delle gambe delle antilopi primitive,la sparizione degli arti delle lucertole primitive, e la formazione di una membrana palmata in alcuni antichi uccelli. Quello che più è stato utilizzato nel lamarckismo è proprio l’esempio della giraffa, che sarebbe dovuta derivare dall’antilope primitiva. Un’antilope, ipotizza Lamarck, in mancanza di cibo, cercava di allungare il più possibile collo e gambe per brucare le foglie più alte degli alberi. Questo sforzo continuo, necessario per la sopravvivenza, avrebbe fatto sviluppare in lunghezza collo e gambe di questi animali. Queste caratteristiche, essendo vantaggiose per la sopravvivenza, vennero ereditate dalle generazioni successive. Le antilopi, avrebbero quindi sviluppato nel tempo, grazie all’uso, le caratteristiche collo-lungo, gambelunghe, fino a trasformarsi nelle attuali giraffe; stesso discorso per le zampe palmate poiché gli uccelli primitivi, a furia di nuotare sull’acqua, avevano teso la pelle tra dito e dito formando una Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin ampia membrana palmata. Fino ad ora abbiamo visto trasformazioni dovute all’uso di parti del corpo, però, come abbiamo prima enunciato, vi sono trasformazioni dovute anche al disuso di queste parti. Questo è il caso dei serpenti che, sempre secondo Lamarck, derivano da antiche lucertole che presero l’abitudine di strisciare tra sassi o in cunicoli allungando molto il corpo, e le zampe vennero utilizzate sempre meno perché inutili o addirittura d’impaccio, fino a ridursi dando origine ai serpenti. La tesi di Lamarck fu in seguito resa falsa da due studiosi: Georges Couvier e August Weis- 102 sman. Il primo affermando che la teoria non spiegava da cosa erano dovute le modificazioni non prodotte da sforzi come la pelle mimetica e maculata delle stesse giraffe. Il secondo provando l’improbabilità della trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti, col famoso esperimento dei topi, dove tagliò la coda ad un topo e alla sua prole per molte generazioni e non riscontrò cambiamenti sulla lunghezza della coda. Nicola Langella II C - Liceo Classico Docente referente: Annamaria De Masi PRIMA DI DARWIN/3 La ragazza che studiava i dinosauri Prima di Darwin? C’ erano due ragazze Mary Anning e Elizabeth Philpot… La storia dell’evoluzione La paleontologia è la scienza che studia la storia dell’evoluzione. Per poter fare questo , ci si serve dei fossili, resti mineralizzati delle tracce di vita preistorica, siano essi scheletri o impronte. Il processo di fossilizzazione di una creatura è qualcosa di lento e rarissimo: dopo la morte dell’animale, nel caso sia acquatico, il cadavere si deposita sul fondo e i sedimenti lo ricoprono e permettono che non venga intaccato dalle forze naturali; nel caso sia terrestre, il processo è molto più raro, perché bisogna tener conto di tutte quelle forze naturali presenti solo sulla Terra (lava, uragani, terremoti e meteoriti perché nella vita tutto può succedere). I fossili vengono osservati da sempre: basti pensare ai draghi cinesi e alle famose medicine a base di “denti di drago” ridotti in polvere. Nella Grecia del IV secolo a.C. già il filosofo Senofane, vedendo le conchiglie di molluschi affiorare nell’entroterra, ipotizzò che 103 Tutte le scoperte di Mary Anning raccolte in un acquerello Henry De La Beche (1830). Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin fossero i resti di antiche creature marine. Eratostene studiò proprio il ritiro dei mari, utilizzando come materiale primario i fossili di molluschi. Ma nel Medioevo, epoca estremistica e buia, i fossili erano stati bollati come scherzi della natura, rocce dalla forma strana. Nel Rinascimento, geni del calibro di Leonardo cercarono di far luce sulla natura organica dei fossili, opponendosi duramente alla cecità reduce dal Medioevo. Ma sul finire del ‘700, un barone francese di nome Georges Cuvier (1769-1882), zoologo e tra i primi paleontologi, iniziò a pubblicare saggi sui mammiferi preistorici, nel 1808 classificò in Maastricht il rettile marino Mosasaurus, e in Bavaria il rettile volante Pterodactylus. Fondatore dell’anatomia comparata, Cuvier appartiene alla generazione successiva a Lamark ed è uno dei pochi a dichiarare esplicitamente convinzioni creazionistiche. Comprende che i fossili non rappresentano scherzi della natura ma sono resti di specie estinte da tempo. Sostiene una teoria catastrofica della successione della specie, secondo la quale la storia della vita è stata contrassegnata da diverse grandi catastrofi, ciascuna delle quali ha portato alla scomparsa della vita, seguite dalla creazione di nuove specie. Ogni creazione, inoltre, rappresenta un progresso rispetto alla precedente. Questa teoria sarà contrastata da Lyell. Successivamente erede di Cuvier si considerò Owen. Nato a Lancaster il 20 luglio 1804, è Chi era Mary Anning 104 Mary Anning è nata nel 1799 da Richard e Mary a Lyme Regis, situata sulla sponda meridionale della Gran Bretagna. Le scogliere di Lyme Regis sono tuttora ricche di fossili spettacolari provenienti dai mari del periodo giurassico. Quand’era poco più di una poppante, Mary venne colpita da un fulmine. La donna che la teneva fra le braccia e le due ragazze che erano al suo fianco morirono ma lei sopravvisse. I suoi genitori ebbero ben dieci figli, ma solo due di questi bambini, Mary e Joseph , raggiunsero la maturità. Richard era un falegname e nel tempo libero collezionava fossili, purtroppo morì nel 1810 lasciando la sua famiglia fortemente indebitata. Questa sua abilità di trovare fossili fu tramandata alla moglie e ai figli, i quali la utilizzarono come uno sporadico sostegno economico per la famiglia; la vera ricaduta di tale ricerca, si è avuta, però, nel campo della paleontologia. La famiglia Anning visse in povertà e in anonimato, tanto che, Birch, colonnello dell’ esercito inglese, per sollevare le sorti degli Anning decise di aiutarli ricorrendo ad un’ asta della loro bella collezione di fossili. Mary Anning si definì come “occhio acuto e anatomista compiuta della famiglia” infatti a questa piccola donna nel 1811, quando aveva appena 10 o 12 anni, è stata accreditata la prima scoperta di fossili di ittiosauro. In realtà, tutta la famiglia Anning fu coinvolta nella ricerca di fossili, ma l’abilità di Mary e la sua dedizione a tale attività l’hanno portata ad essere una delle fossiliste più famose. Ma forse il suo più importante fossile, da un punto di vista scientifico, è stato la scoperta del plesiosauro. La passione per i fossili rese amiche Mary Anning ed Elizabeth Philpot, sua compaesana. Quest’ultima, però, non restò solo fedele alla ragazzina, ma la protesse anche dai cacciatori di fossili, dagli avventurieri e dallo stesso colonnello Birch, militare dritto e sicuro, che infranse il cuore di Mary. Con il passare del tempo, Mary Anning e la sua famiglia, a causa della mancanza di adeguata documentazione delle sue speciali abilità, sono state dimenticate sia dalla maggior parte degli storici che dalla comunità scientifica. Molti scienziati contemporanei di Anning non riuscirono a credere che una giovane donna, vissuta in un contesto così deprivato, avesse potuto possedere le conoscenze e le competenze adatte alla ricerca e al ritrovamento di fossili. Nel 1824 Lady Harriet Sivester ha scritto nel suo diario, dopo aver visitato Mary Anning: “ …La cosa straordinaria di questa giovane donna è la sua abilità nelle conoscenze scientifiche e nel riconoscimento di ossa alla tribù di appartenenza. Mary fissava le ossa su una struttura di cemento e poi faceva disegni e le incideva…”. È chiaro, tuttavia, che Anning non era solo una collezionista, ma era una vera scienziata- fossilista tanto da riscuotere il rispetto degli scienziati del suo tempo, infatti le sue scoperte sono state importanti per ricostruire il passato del mondo e la storia della sua vita. Durante l’attività di ricerca di questa giovane donna la geologia è alle primissime armi e la paleontologia è inesistente perché c’è una radicata visione biblica della storia della Terra. Ma sono proprio i ritrovamenti, come quelli di Mary, che cominciano a indirizzare le menti degli scienziati verso ‘pericolosi’ interrogativi: qual è la natura degli enormi esseri riportati alla luce? Qual è la relazione con gli strati geologici? Qual è il ruolo delle estensioni nella storia della Terra? Darwin, come molti altri scienziati, si è beneficiato di queste scoperte per elaborare la teoria dell’evoluzione. Mary Anning sarebbe morta nel 1847 all’età di 48 anni. stato un biologo e paleontologo britannico, ha studiato anatomia comparata e ha partecipato a molti dibattiti che seguirono alla pubblicazione del trattato “L’origine delle specie” di Darwin, entrando spesso in polemica con questi per motivi di rivalità personale e non per il contenuto del trattato. Owen rappresentò la massima autorità scientifica inglese per anni: infatti coniò il termine Dinosauro per un particolare gruppo di rettili terrestri del mesozoico, fu consigliere di re, regine e principi e difensore dell’ortodossia religiosa contro l’eresia evoluzionistica riuscendo a costruire il Museo di Storia Naturale a Londra . Nel tempo coltivò una passione per le creature antiche, tanto da riuscire a trovare varie specie di rettili marini e volanti; le sue scoperte vennero classificate come “mostri antidiluviani” e iniziarono a scuotere l’Inghilterra ottocentesca. Nel 1822, un medico inglese di nome Gideon Mantell, ispirato dalle scoperte della signorina Anning, iniziò a cercare fossili, fino a quando non trovò il primo resto di dinosauro documentato: i denti di Iguandon. Due anni dopo, il geologo William Buckland rinvenne la mascella di Megalosaurus, primo dinosauro a ricevere un nome scientifico. Era fatta: era nata una scienza, la Paleontologia, così etichettata da un giornale francese nel 1822. Dopo la scoperta di altri dinosauri, come Hylaeosaurus, l’anatomista inglese Owen conierà il termine Dinosauria, indicante un nuovo ordine di rettili. Trent’anni dopo veniva scoperto l’Archaeopteryx, il primo dinosauro piumato mai scoperto, vera dimostrazione delle teorie di Darwin. Sebbene sia poco conosciuta, il contributo maggiore alla ricerca dei fossili è stato offerto da Mary Anning. Alessandro Carbone Cristina Crescenzi Giannantonio Carbone Ilaria Martorelli Aristide Rendina Alessandra Tiene Carmela Fiore Mariele Saggese III B - Liceo Scientifico Lyceum Dicembre 2009 Docente referente Rosa Maria Aliberti 105 Percorso/Speciale Darwin Evoluzione del pensiero darwiniano I Taccuini di Darwin Fra taccuini e libri, come il pensiero darwiniano sia andato crescendo nel tempo L a formazione di un’idea è un processo graduale: Darwin, prima di arrivare alla stesura de ”L’origine delle specie”, passa per i suoi Taccuini. Tra il 1836 e il 1844 Darwin compone i Taccuini rosso, B ed E. Il primo dà una soluzione di tipo saltazionista cioè, manca un passaggio graduale da una specie all’altra, mentre, già in quello B, si delinea l’albero dell’evoluzionismo darwiniano. I Taccuini. Ma che cosa sono questi Taccuini? 106 Rappresentano un insieme di disegni, schemi, dati da ricordare, informazioni da cercare, citazioni di personaggi interessanti reperiti nelle sue letture e domande da fare ai suoi consulenti e corrispondenti. A ciò si aggiungono i pensieri su quella che egli già definisce “la mia teoria” e gli appunti sulla gestazione, accurati e minuziosi. Decifrare tutto ciò è stato difficile; sia per l’intimità di questi documenti, Darwin scrive in modo poco comprensibile e senza badare alla forma, sia per la mancanza di alcune pagine. Ispirato da Malthus. Per di più nella sua formazione ha contribuito in modo determinante l’economista Malthus, che descrive nella sua opera Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società, un primo esempio della lotta per la sopravvivenza. Questo pensiero influenzerà molto Darwin, come possiamo notare già in alcune pagine dei suoi appunti: ”Quando si moltiplicano [le nuove specie] richiedono la morte della specie [antecedente] per tenere il numero delle forme in equilibrio. Ma c’è una ragione per supporre che il numero delle forme sia in equilibrio? Questo potrebbe essere il motivo di continue suddivisioni e differenze tali da rendere il numero delle forme costante”. Lo stesso concetto lo ritroviamo rifinito anche nel terzo capitolo de L’origine delle specie: ”Inevitabilmente una lotta per l’esistenza consegue al veloce ritmo col quale tutti gli organismi viventi tendono ad aumentare di numero…Quindi siccome nascono più individui di quanti ne possano sopravvivere, in ogni caso vi deve essere una lotta per l’esistenza, sia tra gli individui della stessa specie, sia tra quelli di specie differenti” (Taccuino B, p. 21). Disputa con Lamarck. Inoltre Darwin, durante il suo viaggio sul Beagle, arricchisce i suoi appunti con nuove teorie: “I cambiamenti non dipendono dalla volontà degli animali, ma dalla legge dell’adattamento” e ancora “si potreb- be dire che esiste una forza come di centomila cunei che cerca di spingere ogni genere di struttura adatta nelle lacune dell’economia della natura, o piuttosto di formare lacune spingendo fuori i più deboli. La causa finale di tutta quest’azione dei cunei deve essere quella di vagliare la struttura appropriata ed adattarla al cambiamento”. In queste ultime possiamo già scorgere i germi di quella che sarà poi la selezione naturale, in chiara antitesi con le teorie evoluzionistiche precedenti, come ad esempio quella di Lamarck, il quale enuncia che le specie hanno la facoltà di variare in base alla necessità. Evoluzione del pensiero. Come se non bastasse una delle grandi modifiche apportate da Darwin è stata quella del passaggio da un’evoluzione saltazionista ad una più graduale come possiamo notare anche in questo passaggio del taccuino B:“l’organizzazione è rappresentata da un albero irregolare ramificato, alcuni bracci più lontani da altri”. Disputa teologica. Infine Charles nei suoi appunti inizia con un’innocente provocazione quello che sarà il futuro dibattito fra lui e il mondo religioso: ”il mondo deve essere più antico di quanto pensano i geologi”. Con questa prima zampata, esaminando le conoscenza a sua disposizione, il naturalista mette in discussione e critica l’idea che voleva la terra nata, secondo un passo della Bibbia, solo nel 4004 a.C. Ciò avvalorava ulteriormente la sua tesi, d’altro canto la selezione naturale non avrebbe mai potuto agire in un arco di tempo così breve, nè tanto meno si sarebbe potuta formare una tale variabilità genetica come quella ancora oggi visibile (Taccuino B, p.19). Epilogo. Come abbiamo avuto modo di vedere, il percorso, arduo e tortuoso, che porta Darwin dalla scrittura dei Taccuini, alla stesura de L’origine delle specie, è costellato di ipotesi, talvolta riprese e talvolta cadute nel vuoto, di speranze ed illusioni e tutto ciò va a confluire in quello che resta, perché alla fine non ci insegnano a ricordare gli uomini, ma le idee, anche se l’idea non ha passato, non ha presente né futuro, l’idea è soltanto un tessere discorsi che esistono finché ci sarà qualcuno pronto ad ascoltarli. Christian Basile Gaetano Russo Mariarosaria Di Nardi Angela Martorelli Esperanza Pappacena 107 Anna Esposito III A - Liceo Scientifico BIBLIOGRAFIA Darwin Charles, Origine della specie, Newton,1872. Darwin Charles, Taccuino Rosso, Taccuino B, Taccuino E, Laterza, 2008. Malthus Thomas Robert, Saggio sui principi della popolazione, Tecalibri, 1798. Lamarck Jean-Baptiste, Philosophie zoologique, pubblico, 1809. Lyceum Dicembre 2009 Docente referente: Rosa Maria Aliberti Percorso/Speciale Darwin scienza, arte & letteratura La trottola dei saperi Uno story-board per raccontare la Terra... 108 U n’esperienza insolita tra scienza e letteratura, tra arte e creatività hanno vissuto gli allevi della Terza D del Liceo Scientifico di Sarno, collaborando al progetto Darwin. Esso intende celebrare l’anniversario dei 150 anni della scoperta che ha rivoluzionato gli studi sull’evoluzione, contribuendo a creare le basi di un progresso negli ultimi decenni nel campo della genetica e delle altre scienze ad essa correlate, che ha sicuramente migliorato la qualità della vita in genere. Tutti i 22 alunni, durante le 3 settimane precedenti la presentazione del 30 novembre al Centro sociale di Sarno, si sono impegnati moltissimo trascorrendo anche interi pomeriggi dedicandosi proprio a questo progetto, che inizialmente voleva realizzare un cartone animato partendo dal primo racconto delle Cosmicomiche di Italo Calvino, nel quale appunto è raccontata in modo fantastico-scientifico la nascita della Terra e la sua evoluzione. Una rappresentazione grafico creativa di un testo scomposto in sequenze, che ha poi determinato lo storyboard di un percorso che in futuro cercheremo di realizzare anche come video. Inizialmente gli alunni si sono divisi in 2 gruppi,ma si che dovevano rappresentare, si sono resi conto che era un po' difficile, ma pian piano sono riusciti a capire come fare. In definitiva, queste 3 settimane di intenso lavoro hanno portato un ottimo risultato,che si spera sarà gradito,e con i complimenti da parte dei professori. Così gli alunni si sono sentiti orgogliosi e soddisfatti del proprio lavoro, ma soprattutto hanno capito che si può imparare tanto anche divertendosi e sfruttando le proprie competenze; se un compito ci sembra noioso, la creatività te lo rende leggero e piacevole. 109 Leggere è alla base di ogni sapere che diventa nelle competenze e nelle conoscenze un saper essere e saper fare! Chissà se Darwin sono resi conto che era un lavoro che dovevano fare tutti insieme. Per avere un risultato più veloce ed efficace, i ragazzi si sono divisi i compiti, anche secondo le proprie abilità artistiche: c’era che scriveva,chi disegnava,chi colorava, altri che, anche con piccole cose, hanno dato il loro contributo,e chi fotografava quei momenti per non dimenticare il tempo trascorso con gli amici. Questo progetto ha portato i ragazzi a lavorare anche in classe,dato che non tutti erano disponibili nel pomeriggio. Colui che ha dato tutto se stesso nella realizzazione del disegno,grazie anche alle sue doti artistiche,è stato l’alunno Domenico Raffone. Durante il lavoro gli alunni, leggendo il racconto sarebbe stato contento di noi! Non lo sapremo mai, ma certo chi verrà a vedere il nostro lavoro saprà dirci se siamo stati capaci di coniugare scienza e creatività! Mariangela Trani 3D - Liceo Scientifico Docente referente: Antonella Esposito Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin L’EVOLUZIONE DELL’EVOLUZIONE “E sopra il mondo m’assale il pensier di come tutto ciò che vedo c’è“ La cosmogonia è sempre stata argomento di studio e di ricerca. A parlare per la prima volta di tale argomento fu Esiodo, seguito poi da numerosi filosofi. Gli scienziati moderni hanno ripreso i concetti degli antichi filosofi introducendo nuovi concetti e affascinanti teorie. 110 T Esiodo, iniziatore della teoria cosmogonica utti, almeno una volta, si sono posti l’affascinante domanda di come ciò che ci circonda si sia formato, di come il Tutto abbia avuto origine; magari guardando un paesaggio mozzafiato, un cielo stellato, o semplicemente riflettendo sulla vita e sui suoi processi. Innegabile escludere che ciò avvenisse anche in epoche passate, e proprio in passato vennero esposte le primissime teorie riguardo l’evoluzione e lo studio di tale argomento che fu poi denominato Cosmogonia. Partendo dall’antichità e dalle credenze che il mondo in sé sia stato il frutto di unioni divine si arriva alle peculiari riflessioni filosofiche che attestano la creazione mediante vari metodi, per poi giungere infine alle odierne teorie scientifiche. Colui che diede impulso alle teorie riguardanti la nascita del cosmo fu Esiodo, che pubblicò numerose opere su tale argomento; dopo di lui si susseguirono numerosi filosofi che si dedicarono a questo ragionamento e non solo. Uno di questi fu Eraclito, che nacque ad Efeso nel V secolo a.C., e fu noto in antichità per la sua cripticità; egli sostenne che la nascita di ogni cosa era legata al fuoco; un fuoco puro che, tramite la condensazione, diveniva acqua e poi terra e rarefacendosi poi tornava nuovamente acqua e poi di nuovo fuoco. Dopo Eraclito un altro filosofo che formulò allettanti teorie sulla nascita del cosmo fu Empedocle, che nacque in Sicilia nel 490 a.C. e fu di una personalità unica tanto che la sua figura e la sua morte misteriosa si trasformarono presto in leggenda. La realtà ai suoi occhi appariva divisa in quattro radici, ovvero l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco che non hanno origine e possono modificare le loro caratteristiche sotto la spinta dell’Amore unificatore, o della Discordia disgregatrice: due forze che reggeranno la terra per l’eternità. Il mondo gli si configurava avente origine dall’“empiria”, ovvero da quel mondo in continua trasformazione e soggetto ad una vicenda ciclica che attraversa varie fasi: dapprima, con il prevalere dell’Amore unificatore, le quattro radici sono unite; durante il passaggio tra l’Amore e l’Odio si assiste alla nascita del mondo e dei viventi; infine, con la prevalenza dell’Odio, le quattro radici sono completamente Cosmogonia, Giulio Tamburini (1978) divise. Empedocle ci fornisce in tal modo una sua cosmogonia particolare e avvincente. Posteriore ad Empedocle è Anassagora, che nacque a Clazomene nel 496 a.C., si interessò particolarmente alla natura e fu accusato di empietà per le sue opinioni riguardanti il Sole e la Luna, ritenuti rispettivamente una massa incandescente e un globo roccioso, anziché delle divinità. Anassagora reputava che la Terra fosse collocata al centro dell’universo e avesse forma discoidale, mentre gli altri pianeti apparivano masse incandescenti e rocciose con un movimento rotatorio uguale alla Terra. Il mondo, secondo Anassagora era passato da un “chaos” iniziale a un “Kosmos” ordinato grazie all’intervento di una forza spirituale detta “nous”, ovvero l’ intelligenza; egli sosteneva inoltre che l’universo fosse infinito come gli elementi che lo compongono. Questo pensiero è rimasto ben noto in una sua massima che attesta che in ogni cosa si trova parte di ogni cosa eccetto che dell’intelligenza, ma vi sono cose nelle quali è presente anche l’intelligenza. Il discorso di Anassagora fu ampliato da un ulteriore grande filosofo: Democrito. Democrito nacque a Abdera, 460 a.C. Fu atomista e scrisse molte opere, le quali trattavano vari argomenti, ma principalmente alla base dei suoi studi c’era la ricerca di una spiegazione casuale degli aspetti del mondo. Democrito chiama gli atomi e il vuoto rispettivamente “essere” e “non essere” e tramite l’atomismo si propone di spiegare il cosmo. Essendo gli atomi infiniti, saranno poi anche infiniti i mondi che si formeranno dalla loro unione; gli atomi vagano in maniera casuale e a volte si scontrano e tutti questi movimenti avvengono nel vuoto che è fondamentale per il nascere di mondi. In questo modo è possibile spiegare sia la nascita dei 111 mondi sia la nascita degli esseri viventi con i loro processi biologici. Democrito fu definito poi da Dante come “colui che il mondo a caso pone” poiché è come se per lui tutto andasse a caso senza uno scopo finale; ma per Democrito invece tutto cambia e dipende da individuo a individuo. Lo studio e l’amore per la conoscenza portarono questi filosofi a formulare esclusive teorie che circolarono in ambienti sempre poco inclini ad accoglierle: le salde credenze religiose e il pensiero comune furono spesso il freno alla piena e rapida diffusione di alcune riflessioni filosofiche. Non si dimentichino le innumerevoli condanne per empietà inflitte a filosofi come Anassagora, Democrito e Socrate. La critica ad un pensiero ritenuto “diverso” e “malefico” non salvò neppure quel grande studioso di fisica, di filosofia, di matematica e di astronomia, ricordato come il padre della scienza moderna: Galileo Galilei, e tanti altri ancora, i quali furono attaccati per le loro concezioni considerate immorali. Possiamo infine affermare che malgrado le Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin numerose disapprovazioni, questi grandissimi pensatori non si arresero e per amore del sapere continuarono il loro percorso; dando vita a splendide teorie sulla nascita del mondo, del cosmo e della vita, rispondendo anche a quelle famose domande che l’uomo ha sempre sentito il bisogno di porsi. Sebbene questi pensieri filosofici possano apparire privi di qualsiasi base scientifica, bisogna tener conto soprattutto del’epoca in cui questi personaggi elaborarono le loro 112 argomentazioni, e apprezzare le loro intuizioni sulla nascita del mondo, le quali appaiono come fondamento primario dell’evoluzione e senza di esse oggi non potremmo affermare pienamente e con certezza scientifica questo argomento che affascina l’uomo da millenni e sempre lo stupirà con i suoi meravigliosi processi. III G - Liceo Scientifico Docenti referenti: Gabriella Penta Anna Rosa Berardi D arwin nella sua teoria sull’evoluzione ci ha indicato l’origine e la moltiplicazione delle specie, tra cui la nostra. La definizione di specie deve tener conto dell’enorme variabilità esistente fra gli individui e del fatto che i gruppi possono appartenere a specie distinte anche se molto simili. Nel 1942 E. Mayr definì il concetto di specie biologica come gruppi di popolazioni in grado di incrociarsi tra di loro e isolati riproduttivamente da altri gruppi simili. Tale concetto di specie, però, è una definizione ingannevole in quanto non si applica agli organismi a riproduzione asessuata (batteri, alcuni funghi e anche alcune piante), né agli organismi estinti. Il concetto di specie biologica,inoltre, non si applica sempre nemmeno agli organismi che si riproducono per via sessuata. In definitiva potremmo dire che le specie sono entità biologiche, indipendenti dalle definizioni che possiamo darne, anche se a volte sono difficili da definire. I taxa superiori, cosi come le sottospecie e le razze, sono raggruppamenti ancora più soggettivi. La concezione di specie quindi è cambiata nel tempo. La teoria dell’evoluzione di Darwin è stata sempre in conflitto con il racconto biblico della creazione e con l’essenzialismo; oggi la teoria evoluzionistica viene ampiamente confermata perché è stato analizzato il DNA delle diverse specie, ricostruendo in tal modo l’origine delle specie per discendenza da un antenato comune. Il dibattito sulla definizione di specie, è tutt’altro che concluso, visto che gli organismi sono in continua evoluzione. Pur non avendo una definizione esauriente di specie, e nessuna disciplina sembra essere in grado di darla, ciò non ha impedito la classificazione delle stesse specie. Si deve a Linneo(18° secolo) una classificazione scientifica degli esseri viventi e la standardizzazione della nomenclatura (doppio nome latino). Tale approccio è superato, ma la classificazione linneana è ancora oggi usata dai biologi . Da approcci diversi sia alla filosofia che alla biologia e ai problemi evolutivi, possiamo definire la specie in diversi modi. Dalla visione platonica che intendeva gli individui di una specie come copie più o meno imperfette dell’archetipo della specie stessa, passiamo alla definizione essenzialista,che Perché è difficile definire una specie? 113 definisce la specie come un gruppo di organismi sufficientemente simili gli uni agli altri; questa definizione non tiene conto delle modificazioni concettuali introdotte dalla teoria di Darwin nella biologia. Un’altra definizione è quella isolazionistica o biologica, che definisce la specie come gruppi di organismi interfertili. In seguito è stata introdotta la definizione di riconoscimento, molto simile alla precedente che esamina i gruppi di organismi che si riconoscono come partner sessuali. Abbiamo poi altre definizioni come quella coesionale o ecologica, che tiene conto dell’interazione degli organismi con la loro nicchia ecologica; vengono incluse anche specie Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin a riproduzione non sessuale in relazione al loro ambiente e questo è un fatto importante spesso trascurato. La definizione evolutiva poi tiene conto delle specie presenti attualmente sulla Terra, che nel tempo si sono evolute separatamente dalle altre specie e quindi viene spostata l’attenzione sulla diacronia (la progressione nel tempo) sottolineando che il mondo attuale non è solo ciò che appare ai nostri occhi, ma ciò che si è modificato nel corso del tempo. Infine abbiamo la definizione più completa, cioè quella della cladistica: la specie è definita come un insieme di individui che mostrano una coesione sessuale all’interno del gruppo e che seguono una linea evolutiva ben precisa. In conclusione l’impianto concettuale della biologia evolutiva non può che essere un evento storico.La maggior parte degli organismi ha in 114 comune la stessa biochimica cellulare e la stessa tecnologia di informazione sotto forma di DNA e RNA.Quindi tutti discendono da un unico antenato.Questa complessità crescente, dovuta alla storia evolutiva, è il progresso; questo progresso non implica che l’evoluzione sia progettata per produrre organismi di complessità crescente,cioè non ha nessun obiettivo da raggiungere.Un contributo a sostegno di quest’idea ci viene dato dal paleontologo e scrittore S.Jay Gould.Quindi questo nostro mondo sembra sia composto da organismi che si sono evoluti nel tempo e discendenti da un antenato vissuto oltre 3,5 miliardi di anni fa, sopravvissuti a catastrofi e distruzioni provocate dalla selezione naturale. IV C - Liceo Scientifico Docente referente: Francesco Annunziata Tra Evoluzione e Creazione: il Disegno Intelligente F orse è dalla rivoluzione copernicana che il dibattito su evoluzione e creazione tira avanti. Con numerosi passi avanti, l'argomentazione dell'una e dell'altra tesi si va a fare sempre più accesa e, nel corso dei secoli, alimenta polemiche di non poca portata, destabilizzando sicuramente la condizione d'equilibrio interiore di chi si è ormai convinto che le due strade hanno lo stesso inizio. Purtroppo è inquinato da posizioni politiche, oltre che ideologiche, e ciò non giova a una serena discussione. Nel dibattito, infatti, certe affermazioni di gruppi fondamentalisti americani hanno fatto riemergere nell’ambiente scientifico posizioni scientiste, tipiche della cultura ottocentesca. “I Fondamentalisti vogliono prendere alla lettera le parole della Bibbia”, che non hanno “dimostrazione scientifica”. Il Vaticano, da anni, ha accettato le teorie dell’ evoluzionismo, con la sola premessa che la spiegazione scientifica dei “passaggi” attraverso cui è avvenuta l'evoluzione dell' universo e il cammino per tappe, che ha portato all' uomo, non debba a sua volta tramutarsi in una specie di religione positivista con l’obbligo di credere nella nascita della materia dal nulla. Dio, insomma, resta creatore dell’universo, perché ha dato origine al tutto, ma non agisce come un meccanico che interviene a mettere un bullone qua e là. E nemmeno come l’orologiaio che pianifica a tavolino il prodotto, secondo un’immagine dei neofondamentalisti americani che propagandano il cosiddetto “Intelligent Design”. “Quando la Genesi nel primo capitolo ci parla dell’origine del mondo - spiega Poupard quello che interessa è la lezione che ci viene da questi testi. E cioè, che l’universo non si è fatto da solo e ha un creatore. Ma sulla modalità della creazione la discussione è aperta da secoli e continuerà tuttora”. Per i credenti, ha continuato Poupard, è importante capire come la scienza vede le cose. Citando il pensatore cristiano Pascal, il porporato ha sottolineato che “scienza e teologia agiscono in campi diversi, ciascuno nel proprio”. Monsignor Basti, direttore del Progetto Stoq promosso dal pontificio Consiglio per la Cultura (il progetto vuole costruire un ponte filosofico tra scienza e teologia), è ancora più netto. La posizione dei creazionisti è “falsa”, afferma convinto. “Dire che il principio di evoluzione è contro il principio di creazione non sta né in cielo né in terra”. Il prelato ricorda le parole di Giovanni Paolo II, quando affermò che “il principio dell’evoluzione è più che un’ipotesi”, per rilevare che ormai si tratta di una “teoria scientifica abbastanza consolidata”. La conclusione è senza ombre: “Il principio di evoluzione e il principio di creazione 115 possono convivere, essendo su due piani completamente diversi”. Sulla stessa linea anche il biblista Gianfranco Ravasi, per il quale “è ovvio che l’evoluzione esiste, non si possono ignorare i risultati della scienza”; inoltre Ravasi ha spiegato che teologi, filosofi e scienziati si muovono in “terreni diversi”, “ma l’importante è che la linea di demarcazione non sia una ‘muraglia cinese’ o una ‘cortina di ferro’, oltre la quale non si guarda per disprezzo o per non-desiderio”. Allo scopo di fare luce è utile porsi un interrogativo: “C'è spazio per la creazione e per un progetto di Dio?”. Giovanni Paolo II risponde così: “Una fede rettamente compresa nella creazione e un insegnamento rettamente inteso dell’evoluzione non creano ostacoli… L’evoluzione Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin 116 suppone la creazione, anzi la creazione si pone nella luce dell’evoluzione come avvenimento che si estende nel tempo, come una creatio continua”. “La creazione non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta, Dio ha creato un mondo in stato di via verso la sua perfezione ultima. Questo divenire nel disegno di Dio con la comparsa di certi esseri la scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto”. Durante l'udienza alla Pontificia Accademia delle Scienze, tenutasi il 31 ottobre del 2008, il papa Benedetto XVI si mostrava concorde con il suo predecessore, Giovanni Paolo II, e afferma che “In un'ottica di fede, leggere l'evoluzione è come leggere un libro la cui storia, la cui evoluzione, il cui 'essere scritto' ed il cui significato, noi 'leggiamo' in base ai diversi approcci delle scienze”. “La verità scientifica – ha concluso ricordando un intervento di Giovanni Paolo II del 2003 –, che è di per sé una partecipazione alla verità divina, può aiutare la filosofia e la teologia a comprendere ancor più pienamente la persona umana e la Rivelazione di Dio sull’uomo, una rivelazione che è stata completata e perfezionata in Gesù Cristo». Nemmeno uno dei più famosi scienziati, come Albert Einstein, ha potuto negare l’esistenza di un essere superiore che ha dato vita a tutto. Ad Einstein una volta Count Kessler disse: “Professore! Ho sentito che Lei è profondamente religioso”. Con calma e grande dignità, Einstein replicò: “Sì, può ben dirlo. Provi a penetrare con i nostri limitati mezzi i segreti della natura e troverà che, dietro ogni discernibile concatenazione, rimane qualcosa di sottile, intangibile e inesplicabile. La venerazione per questa forza che sta al di là di tutto ciò che può essere compreso è la mia religione. In tale senso, io sono religioso”. In conclusione, per citare le parole di Fiorenzo Facchini, possiamo dire che non siamo uomini per caso e neppure per necessità, e che la vicenda umana ha un senso e una direzione segnate da un disegno superiore. Lucia Gatti IV B - Liceo Scientifico Docenti referenti: Rosa Aliberti e Giovanna Vaccaro Evoluzionismo e creazionismo: una conciliazione possibile? O Edoardo Boncinelli ltre la sostanza di una forma, chiara e definita, oltre la pelle, concreta e tangibile, oltre i tessuti, dentro la più piccola cellula del nostro corpo dominano, nella regione di confine tra l’esistenza e l’inorganicità, i frammenti infinitesimali della vita, invisibili, custodi di una storia dimenticata di migliaia di anni: i geni. Nella loro struttura estremamente complessa, caratterizzata da processi velocissimi pressoché infallibili di duplicazione del DNA, queste schegge d’eternità racchiudono in sé il codice ancora criptico e umbratile della vita, determinano, come un corso d’acqua carsico sotto il velo del tempo, la periodica apparizione entro forme contingenti e mortali dei diversi caratteri esteriori ereditati e ricombinati nelle stagioni delle varie generazioni. Sarebbero passati circa cento anni per l’intuitiva scoperta della struttura del DNA ad opera di Watson e Crick da quando nel 1859 il biologo inglese Charles Darwin pubblicò la sua rivoluzionaria opera “On the origin of species by means of natural selection”. Eppure, già allora la sua ipotesi, formulata sulla base dell’osservazione sperimentale diretta della distinzione morfologica all’interno di una stessa specie, presupponeva un meccanismo di trasmissione di determinate caratteristiche dai genitori ai figli. La spiegazione di tali differenziazioni all’interno di una specie e tra le specie era da ricercare, per lo studioso inglese, nella comparsa di mutazioni casuali (oggi sappiamo nel corredo genetico) su cui l’ambiente esterno agiva da elemento discriminante attraverso il meccanismo della selezione naturale, in base alla quale solo gli individui con caratteristiche più favorevoli alla vita in un determinato habitat nell’ancestrale e istintiva lotta per la vita avrebbero primeggiato 117 raggiungendo l’età adulta e trasmettendo le proprie caratteristiche ai discendenti. Un moderno “dio” dal duplice aspetto, quello dell’evoluzione, si rivela così alle menti addormentate dei suoi moderni adepti, che riuscirono a spiegare con la sua presenza i dati della paleontologia contemporanea, il ritrovamento, cioè, in strati superiori di resti fossili animali, il cui scheletro presentava sensibili modifiche rispetto a quelli degli strati inferiori più antichi. Ma, fin dai suoi primi ed entusiastici passi, la teoria evoluzionistica -che scaraventa dal suo illusorio piedistallo di grandezza e unicità l’uomo, inserito nel quadro poco piacevole della lotta contro tutti, piegato a meccanismi casualiha provocato accese tensioni con la cultura religiosa creazionista, che, con la Bibbia alla mano, afferma che tutto ciò che esiste nell’universo sia stato creato dal nulla per volontà di Dio in forma via via più perfetta e immodificabile. L’opposizione è netta: due wel- Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin tanschauung, due sistemi con i propri “dogmi” e le proprie convinzioni, come due giganti costretti a stare in un mondo troppo stretto, si scontrano campeggiando su posizioni antitetiche e negandosi a vicenda. Almeno questo è apparso agli occhi dell’uomo, vistosi improvvisamente precipitato dalla sua bella posizione di privilegio nell’universo, vacillante per la caduta, dimidiato tra l’evidenza dell’esperienza e le sue aspirazioni trascendenti. Ma, quando la certezza sembra perdersi e la coscienza annullarsi, ecco che giunge in aiuto la sua eterna compagna: la ragione. L’esperienza ci suggerisce continui esempi di variabilità dei caratteri e mutazioni soprattutto negative (malformazioni); del resto, anche ammettendo che l’uomo sia stato creato così com’è, si deve riconoscere che da allora abbia subito delle modifiche e che si sia evoluto (dal momento che Adamo non poteva essere contemporaneamente di pelle chiara, scura, gialla o olivastra). Tentenna quindi la concezione “fissista”; ferito, ma non vinto, il creazionismo, preso atto della validità dell’evoluzione, tenta di adeguare ad essa 118 i suoi principi. Si sente parlare così di Intelligent Design e evoluzione teista, correzioni dei due modelli, che, basandosi sulla grande complessità delle attuali forme di vita, ne ricollegano le origini ad una entità intelligente creatrice, negando la generazione casuale. Soprattutto esse nascono come reazione alla semplificazione, entro schemi puramente meccanicistici, dell’uomo, spina nel fianco della selezione naturale, con i piedi nell’animalità e con gli occhi rivolti alle stelle, capace di sopprimere nella regione dell’inconscio gli istinti primordiali e definire il mondo con la propria razionalità, che non può, né vuole essere ridotto ad una probabilità. L’idea di causa e quella di finalità gli sono necessarie, connaturate, vitali. Già il neonato, a pochi mesi, è spinto a ricondurre l’origine di ogni movimento ad un agente causale; solo a tre anni acquista l’idea di fine e attribuisce un’azione ad una mente intelligente che vuole e progetta. Queste doti sono così ben radicate in noi che si possono considerare “innate”, quasi derivate dalla stessa spinta evolutiva che ci porta a far credere, come afferma Edoardo Boncinelli, “che tutto abbia una causa e uno scopo”, compresa la nostra esistenza. È per questo che l’evoluzione, dopo aver perfettamente modellato le caratteristiche umane, nei secoli è stata beffardamente guardata con diffidenza dall’uomo stesso, che non accetta nei suoi meccanismi la mancanza di cause, ma allo stesso tempo la sente una spiegazione più concreta e verosimile dei fenomeni che riguardano gli esseri viventi. L’incertezza resta. La Scienza avanza scortata dal Dubbio. L’uomo con la sua morale, con il suo atteggiamento altruistico che va al di là del naturale istinto di conservazione inscritto nei suoi geni “egoisti”, sfugge alle regole della selezione. La sua coscienza, il suo senso del bene e del male, nonostante la fioritura delle neuroscienze, si possono spiegare solo con i modi sempre più raffinati e sublimati dell’evoluzione? E se dell’evoluzionismo, che resta pur sempre una teoria non dimostrabile sperimentalmente poiché agisce in milioni di anni, si accogliesse solo il significato fondamentale, quello di evoluzione di esseri viventi? Il problema sarebbe: chi ha posto gli esseri viventi? Nunzia Carbone III B - Liceo Classico Docente referente: Franco Salerno “Il via” all’universo intero D a sempre l’uomo ha avvertito la necessità di indagare sulle proprie origini, come se questo fosse un bisogno insito nella sua essenza, ponendosi continuamente le stesse domande: “Chi sono?” e “Da dove vengo?”. Alcuni sono giunti alla conclusione che non può esserci altra spiegazione, se non quella per cui è stato Dio a creare il cosmo, il mondo e tutti gli esseri viventi, uomo compreso. Per altri, invece, noi siamo il frutto di un lungo e complesso processo evolutivo. Che ci si voglia appellare al creazionismo o all’evoluzionismo, un problema balza in primo piano quando proviamo a confrontarci, nel primo caso, con il livello cronologico. Dio avrebbe deciso di dare il via all’universo intero, ma quando? Varie sono le date assunte come emblematiche, ma è interessante soffermarsi sugli studi dell’arcivescovo irlandese James Ussher (1581- 1656) che cercò di calcolare, attraverso un accurato studio delle Sacre Scritture, la data della creazione del mondo. Il suo calcolo, contenuto nel libro Annales Veteris Testamenti, a prima mundi origine deducti (Annali dell’Antico Testamento, a partire dalla prima origine del mondo) è il frutto di un lavoro duro e complesso, a causa di grossi vuoti cronologici all’interno della Bibbia. In un suo articolo, il professore scozzese James Barr (1924-2006), ha identificato tre periodi storici con cui Ussher ha dovuto confrontarsi: i “Primi Tempi”(dalla creazione a Salomone), di cui la Bibbia fornisce una precisa e ininterrotta discendenza maschile; la “Prima Epoca dei Re” (da Salomone alla distruzione del Tempio di Gerusalemme e alla cattività babilonese), della quale la Bibbia riporta Ussher Stabilire l'anno esatto della creazione è uno degli obiettivi principali dei creazionisti. Tra le tante ipotesi, vi è quella dell'arcivescovo James Ussher, che ci propone un'innovativa interpretazione delle Sacre Scritture. solo, ambiguamente, la durata dei regni e che, pertanto, portò Ussher a operare un confronto tra le registrazioni bibliche e le date conosciute di personalità coeve; la “Tarda Epoca dei Re” (da Esdra e Neemia alla nascita di Gesù), della quale le Scritture non forniscono alcuna informazione, e che costrinsero l’arcivescovo a cercare un collegamento tra un evento noto del periodo e un evento databile di un’altra civiltà. Usando questi metodi, Ussher fu in grado di datare la creazione, approssimativamente, al 4000 a.C., data che anticipò al 4004 a.C. tenendo conto dell’errore di Dionigi Piccolo, creatore del sistema di numerazione dell’Anno Domini. Circa, Lyceum Dicembre 2009 119 Percorso/Speciale Darwin poi, la stagione in cui tutto ebbe inizio, contrariamente a molti studiosi, che ritenevano fosse la primavera, Ussher sostenne che si trattasse dell’autunno, che segnava l’inizio dell’anno ebraico. Infatti, affermò che la creazione era iniziata una domenica vicina all’equinozio d’autunno e, utilizzando, molto probabilmente, le Tavole Rudolphinae di Keplero, concluse che tale giorno era il 25 ottobre. Tuttavia, grazie alle equazioni moderne, possiamo stabilire che la data esatta dell’equinozio, oggigiorno utilizzata da molti creazionisti, fu domenica 23 ottobre 4004 a.C. Purtroppo, però, per quanto abbia cercato di essere minuzioso rivisitando continuamente le proprie deduzioni e i propri calcoli, Ussher non è riuscito a dare certezze, una volta per tutte, sul 120 mistero della creazione. Infatti, è davvero difficile esprimersi su una questione di così grande portata. Basti pensare che, ancora oggi, gli studiosi portano avanti un’incessante ricerca, sia in campo creazionistico che evoluzionistico, sperando di poter appagare la brama di conoscenza degli uomini con delle verità inattaccabili. Questo perché, seppur riconoscendo i propri limiti, l’uomo non può fuggire da se stesso, non può fuggire dalla propria esistenza, e diventa così inevitabile che cerchi un “come” e un “perché”. Anzi, la sua vita dipende proprio da queste domande. Loredana Gaudino II C - Liceo Classico Docente referente: Angelina Rainone I Evoluzione e speciazione l celebre naturalista inglese Charles Darwin, nato a Shrewsbury, in Inghilterra il 12 febbraio 1809, fu uno dei più importanti teorici dell’evoluzione. Nel 1831 salpò per il Sud-America e lungo le sue coste ebbe modo di osservare e studiare le diverse varietà di specie animali e vegetali del continente americano. La tesi evoluzionistica Darwiniana si fonda su due osservazioni fondamentali fatte durante il suo viaggio: la prima afferma che in una specie, il numero degli individui che nascono è maggiore del numero di coloro che possono rimanere in vita; la seconda dimostra che esiste una variabilità biologica tra gli individui di una stessa specie, i quali si differenziano per vari caratteri, fra cui quelli morfologici, fisiologici e comportamentali. Quindi solo gli organismi che si adattano meglio alle condizioni ambientali dell’areale raggiungono l’età adulta. Siccome le capacità di sopravvivenza e riproduzione sono ereditate dalle generazioni successive, questo comporta la formazione di una nuova specie dalla trasformazione della specie originaria. Nel 1859 Darwin pubblicò l’opera On the origins of species by means of natural selection, in cui sviluppò la sua teoria dell’evoluzione che, 121 contrapposta al fissismo (concezione fino ad allora accettata secondo cui le razze sono fisse e immutabili) presume la derivazione degli attuali organismi pluricellulari da altri esseri unicellulari primordiali. Il naturalista inglese ipotizzò l’esistenza in natura di un meccanismo in grado di selezionare i fenotipi capaci di procurare all’individuo un vantaggio per la sopravvivenza e la riproduzione, nonché un valore adattativo maggiore di altri. La selezione naturale, dunque, favoriva la permanenza e conservazione delle variazioni utili, procedendo allo stesso tempo alla cancellazione di quelle dannose. Oggi le migliaia di studi su specie animali e vegetali hanno dimostrato la validità delle scoperte darwiniane e i biologi e gli scienziati hanno dedotto che la selezione naturale può agire in tre modalità diverse: la selezione direzionale, stabilizzante e divergente. Nella selezione direzionale il fenotipo estremo di una popolazione diviene più diffuso di quello intermedio, es: la taglia del ghepardo è diminuita perché la selezione naturale ha favorito l’allele con un fenotipo più leggero e agile; l’uso degli insetticidi ha favorito le popolazioni Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin di insetti più resistenti; l’uso degli antibiotici ha favorito popolazioni di microrganismi più resistenti. La selezione stabilizzante, poi, favorisce la classe intermedia di una determinata specie eliminando, generazione dopo generazione, gli alleli portatori di caratteri estremi e recessivi, e ciò è evidente nella nostra specie in cui si manifesta principalmente un fenotipo intermedio per il carattere “altezza”. La selezione divergente, a differenza di quella stabilizzante, è caratterizzata dalla prevalenza di fenotipi estremi che predominano su quelli intermedi come per la farfalla Pseudocraea Eurytus, preda molto appetita degli uccelli, che ha una livrea simile a quella di altre due specie sgradite ai predatori, per cui gli individui che manifestano questo fenotipo sopravvivono più facilmente di quelli con il fenotipo intermedio. Il processo di adattamento all’ambiente avviene soprattutto per mezzo della speciazione che, tramite l’isolamento, porta alla formazione di nuove specie animali e vegetali per accumulo 122 di mutazioni. Distinguiamo quattro processi di speciazione: allopatrica, parapatrica, peripatrica e simpatrica. La speciazione allopatrica consiste nell’isolamento di una parte di popolazione da quella originaria e ciò può essere il risultato dell’emigrazione attiva di una piccola popolazione dall’areale di quella parentale, il risultato di un cambiamento di ambiente o il sorgere di barriere fisiche. A seguito della separazione una popolazione può sviluppare meccanismi di isolamento riproduttivo nei confronti della popolazione d’origine. Un esempio classico di speciazione allopatrica è quello dei fringuelli di Darwin. Egli, infatti, nel viaggio sulle isole Galapagos, che si trovano a circa 1000 km ovest dall’Ecuador, riscontrò che 14 specie di fringuelli differenti tra loro per la forma del becco avevano caratteristiche simili a una specie che si trovava solo sulle coste occidentali del continente. Studiandoli, Darwin intuì che fossero specie diverse derivate da un antenato comune, dal quale si sarebbero differenziate per la necessità di trovare cibo, quindi l’isolamento dalla popolazione originaria fece sviluppare delle caratteristiche necessarie alla sopravvivenza in quell’habitat. La speciazione parapatrica si verifica quando due popolazioni, pur separate geograficamente, continuano a mantenere un certo contatto spaziale e riproduttivo tra loro mediante una zona di confine detta zona ibrida. Condizioni necessarie per cui il fenomeno abbia successo sono il mantenimento di un debole flusso genico tra le due popolazioni ed una diversa pressione selettiva nelle due diverse zone. La speciazione peripatrica o speciazione per “effetto del fondatore” avviene quando un piccolo numero di individui costituisce una nuova popolazione ai margini dell’areale della specie di origine, ad esempio colonizzando una piccola isola vicina alla costa. La nuova popolazione può rapidamente evolvere in una nuova specie, sviluppando differenze biologiche dalla popolazione originaria. La speciazione simpatrica consiste nella formazione di nuove specie mediante isolamento riproduttivo all’interno della stessa areale senza che intervenga isolamento geografico. Essa si verifica quando, a causa di una o più mutazioni, una piccola parte della popolazione presenta una barriera che la isola riproduttivamente da quella d’origine. Un esempio di speciazione simpatrica che ha tempi molto brevi è quello degli organismi poliploidi cioè individui con un numero di cromosomi multipli rispetto a quelli della specie, spesso dovuto a una non disgiunzione dei cromosomi durante il processo meiotico o mitotico. Come visto fino ad ora, l’evoluzione può avvenire all’interno delle popolazioni e delle specie e in questo caso parliamo di microevoluzione, oppure interessa i livelli sistematici superiori a quelli della specie (generi, famiglie, classi) e questa è la macroevoluzione. Quest’ultima si occupa dell’evoluzione su vasta scala, prendendo in considerazione le modalità generali dei fenomeni evolutivi. Il processo di evoluzione ha due dimensioni: l’anagenesi è l’evoluzione all’interno di una linea di discendenza, la cladogenesi è la diversificazione che interviene sempre nell’ambito di una linea. La grande diversità del mondo vivente è il risultato dell’evoluzione cladogeneti- ca, che si verifica quando una linea filetica si divide in due o più linee. L’esteso campo della macroevoluzione si interessa degli eventi di formazione ed estinzione che si inseriscono nello studio delle linee evolutive, ossia le sequenze che hanno condotto dalle specie ancestrali a quelle discendenti. Prove a favore dell’evoluzione furono rilevate già nel Settecento: la scoperta di nuovi territori in Africa, Asia e America, indusse i naturalisti ad obbiettare l’ipotesi di una creazione statica grazie alla constatazione dell’ esistenza di enormi varietà di specie viventi. Dal confronto scaturì l’idea secondo cui gli organismi viventi derivassero da un unico progenitore comune. Contemporaneamente gli scavi condotti per la costruzione di strade, miniere e canali in quei territori portarono alla scoperta di strati diversi di rocce, all’interno dei quali si disponevano, secondo uno schema pressoché regolare, pietre dalle forme bizzarre, che risultarono in seguito essere fossili. Si rilevò, inoltre, a partire dagli strati più profondi in su, un graduale cambiamento di questi fossili in termini di complessità e di somiglianza agli organismi moderni. Tipi diversi di esseri viventi, dunque, erano esistiti in varie epoche del passato. La chiesa fino ad ora ha preferito non pronunciarsi riguardo alla tesi darwiniana, non avendo gli strumenti per giudicarne la valenza scientifica. Ci sono, tuttavia, autorevoli personalità che tentano di conciliare creazionismo ed evoluzionismo. Un illustre esponente della tesi conciliatrice è lo scienziato don Fiorenzo Facchini, docente di antropologia e paleontologia all’Università di Bologna, il quale ha dichiarato che “I sostenitori dell’Intelligent Design non negano l’evoluzione, ma affermano che la formazione di certe strutture complesse ha richiesto interventi particolari di Dio nel corso dell’evoluzione e risponde a un progetto intelligente”. A dispetto delle polemi- 123 che che circondano la figura di Charles Darwin, la sua teoria dell’evoluzione costituisce uno dei cardini della scienza moderna, ed è alla base del progresso. II A e II B Liceo Classico Docente referente: Giuseppe Crescenzo Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin L’evoluzione del sistema scheletrico L a teoria dell’evoluzione della specie è uno dei pilastri della biologia moderna. Nelle sue linee essenziali, essa è riconducibile all’opera di Charles Darwin (che vide nella selezione naturale il motore fondamentale dell’evoluzione della vita sulla terra) e alla genetica di Gregor Mendel. Per la teoria di Charles Darwin l’evoluzione della specie avviene attraverso la selezione naturale, che consiste nel fenomeno per cui organismi della stessa specie con caratteristiche differenti ottengono, in un dato ambiente, un diverso successo riproduttivo; di conseguenza 124 le caratteristiche che tendono ad avvantaggiare la riproduzione diventano più frequenti di generazione in generazione. Per la genetica di Mendel, invece, nell’evoluzione della specie concorrono le mutazioni, che consistono nella comparsa improvvisa, casuale, ed ereditabile nelle future generazioni, di caratteristiche non possedute dagli antenati degli individui che le presentano. Considerando specificamente l’evoluzione umana, essa riguarda l’emergere dell’uomo dagli altri primati. Questi ultimi, ripercorrendo un albero filogenetico che affonda le radici alle origini della vita sulla terra, discesero da esponenti insettivori appartenenti alla classe dei mammiferi. Proseguendo nel percorso evolutivo, dai primati si diramarono le attuali scimmie antropomorfe e da queste ultime i primi ominidi. Molti aspetti evolutivi si comprendono meglio se impariamo ad analizzare la struttura anatomica dal punto di vista funzionale magari raffrontandola con quella di altri gruppi di animali. Bisogna sempre tenere presente che tutti gli ordini di mammiferi, ad eccezione dei primati, svolgono la loro vita in funzione del cibo e dell’accoppiamento, per cui tutte le loro strutture anatomiche si sono evolute e specializzate per garantire il massimo successo possibile in questi due campi. Per una visione più semplice e globale, è conveniente distinguere lo scheletro della testa o cranio (suddiviso in neurocranio e splancnocranio) dallo scheletro propriamente detto o postcraniale ( suddiviso nella parte assile e in quella appendicolare). A questo punto è opportuno osservare l’evoluzione di ognuna delle parti che compongono lo scheletro. La colonna vertebrale si sviluppa in ciascuna specie animale in relazione alla locomozione; il rachide nei primati ha infatti un andamento pressoché rettilineo o leggermente arcuato a convessità dorsale, mentre nell’uomo assume delle curvature caratteristiche: due a cavità posteriore (tratto cervicale e lombare) e due a convessità posteriore (tratto toracico e sacrale). Questa particolare disposizione della colonna vertebrale permette l’ammortizzazione del peso corporeo durante la deambulazione ed evita in parte le patologie a carico dei dischi che ne potrebbero conseguire. Le vertebre coccigee formano la coda che nei primati arboricoli ad arrampicamento verticale tende a svilupparsi notevolmente e viene utilizzata da timone durante il salto e da bilanciere negli spostamenti sui rami. Nelle antropomorfe, nella bertuccia e nell’uomo si riduce, in seguito ad un non utilizzo, sino alla scomparsa totale. La gabbia toracica, invece, nei primati, salendo nella scala evolutiva dai lemuridi sino all’uomo, cambia forma; l’asse dorsoventrale tende a diminuire a favore dell’asse trasversale. In pratica si ha un allargamento progressivo a scapito della profondità del torace che raggiunge l’apice nell’uomo. Anche il cinto pelvico subisce notevoli modificazioni lungo l’albero evolutivo dei primati. Nelle forme più “basse” della scala filogenetica esso si presenta piuttosto allungato e del tutto simile a quello degli altri mammiferi; nelle antropomorfe esso tende ad accorciarsi e ad espandersi in senso mediolaterale. Nell’uomo si assiste ad un ulteriore accorciamento del bacino, l’ala iliaca aumenta la sua superficie incurvandosi, nella sua porzione posteriore, verso il basso e si dispone medio lateralmente. Queste modifiche del cinto pelvico si possono mettere in relazione con l’adattamento dell’andatura bipede. L’ampiezza della cavità pelvica, attraverso la quale dovrà passare il feto, che possiede già una notevole dimensione della testa, è massima nell’uomo. Cinti pelvici, partendo da destra: uomo, orango, macaco Lo scheletro appendicolare comprende gli arti toracici e quelli pelvici; l’arto toracico è formato dal cinto toracico o scapolare, dall’omero, dal radio e l’ulna, dal carpo e metacarpo ed infine dalle falangi. Il cinto scapolare assume nei primati una configurazione particolare presente in pochi altri gruppi di mammiferi; in essi, che necessitano di una maggiore mobilità dell’arto toracico, in relazione alla locomozione arboricola e ad un uso manipolativo della mano, il cinto toracico viene completato dalla presenza della clavicola. Nella scala evolutiva dei primati, la scapola tende progressivamente, procedendo verso l’uomo, a disporsi dorsalmente. Le ossa del braccio e dell’avambraccio tendono ad essere simili, per quanto riguarda la lunghezza, o più corti nei primati che si spostano per arrampicamento verticale, dei corrispettivi dell’arto pelvico. Nei lemuri, che utilizzano il salto per spostarsi tra i rami, sono decisamente più corti; nei primati che praticano invece la brachiazione l’arto anteriore si sviluppa notevolmente in lunghezza tanto che, ad un individuo posto in stazione eretta, tocca ampiamente il suolo. Nell’uomo lo sviluppo è intermedio per quanto riguarda la lunghezza, notevolmente inferiore si presenta la robustezza delle ossa lunghe, considerate in relazione alla minor dimensione della muscolatura delle braccia. Le ossa della mano, corrispondenti a carpo, metacarpo e falangi, seguono in specializzazione quelle del braccio, ossia assumono particolari forme che facilitano l’animale negli spostamenti quotidiani. Nelle scimmie quadrupedi, che si arrampicano verticalmente, non si presentano particolarmente sviluppate; nei lemuri, che si spostano mediante il salto, tendono ad ingrandirsi notevolmente; nei brachiatori le ossa del metacarpo e le falangi tendono ad allungarsi; queste assumono una forma arcuata ad “uncino”. Nell’uomo la mano si è mantenuta relativamente 125 indifferenziata; il pollice si è allungato favorendo la completa opponibilità, indispensabile per la manipolazione. L’arto pelvico è composto da femore, tibia, tarso, metatarso e falangi. In genere le specializzazioni più marcate si notano nei primati adattati al salto e nell’uomo che si è evoluto alla stazione eretta. Nei lemuridi l’arto posteriore tende ad allungarsi notevolmente rispetto a quello anteriore per aumentare la leva di spinta; nelle scimmie, data l’importanza della locomozione arboricola, gli arti inferiori sono molto meno sviluppati degli arti superiori. Nell’uomo l’arto inferiore si presenta fortemente specializzato: le ossa lunghe sono estremamente allungate e gli arti, in stazione, si dispongono a piombo con il suolo e non flessi come nelle antropomorfe. Il piede, a livello della pianta, presenta due curvature: una longitudinale e una, più lieve, trasversale. Questa conformazione aumenta l’ammortizzazione del peso corporeo durante il movimento. Il neurocranio racchiude il cervello per cui rappresenta un importante punto di riferimento Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin per la valutazione dell’evoluzione umana. Alcuni primati hanno sviluppato a livello di questa regione alcune escrescenze ossee che permettono l’inserzione dei potenti muscoli del collo per mantenere in equilibrio la testa. Al confine tra il neurocranio e lo splancnocranio troviamo le cavità orbitarie che subiscono, a partire dalle topaie e risalendo la scala evolutiva, modificazioni notevoli: in questi animali le orbite sono orientate lateralmente; procedendo con i lemuri, l’orientamento delle orbite tende ad essere più frontale; nel tarsio si ha una frontalizzazione delle orbite e la comparsa di un setto che divide la cavità orbitaria dalla fossa temporale. La frontalità della orbite e la loro separazione dalla fossa temporale si mantiene in tutti gli altri primati, compreso l’uomo. Lo splancnocranio ha subito notevoli mo126 dificazioni nella scala filogenetica dell’ordine dei primati; dalle proscimmie sino all’uomo e anche nell’ambito dell’evoluzione umana essa assume un importante valore distintivo per l’identificazione dei vari livelli evolutivi. Per un’analisi più schematica lo si può suddividere in tre gruppi: il blocco facciale, la dentatura, la mandibola. Uomo, gorilla, cebo cappuccino e lemure variegato Il blocco facciale comprende le ossa della faccia quali nasali, mascellari, palatine, etc. Fondamentalmente risalendo nella scala filogenetica dalle proscimmie all’uomo, esso ha subito un notevole accorciamento che ha influenzato sia l’olfatto che il numero dei denti che sono collegati alla conformazione del muso. I lemuri presentano un massiccio facciale notevolmente allungato. Negli altri primati il blocco facciale tende progressivamente ad accorciarsi e si perdono gran parte delle capacità olfattive. La dentatura segue l’andamento evolutivo del blocco facciale, nel senso che si è avuta una riduzione dentale dalle topaie sino all’uomo. Tra i carnivori, per esempio, i Canidi hanno una dentatura piuttosto completa mentre i felini ne hanno una piuttosto ridotta. Nei primati la riduzione non è stata così drastica, infatti nei lemuri il numero dei denti è 38, mentre nell’uomo, che tra i primati è quello che presenta il blocco facciale più corto, è 32. La mandibola nelle proscimmie è conformata come nella maggior parte degli altri mammiferi ed ha subito piccole modifiche correlate alla masticazione. V MSA Docente referente: Imma Ingenito Un battito lungo 600milioni di anni... “M i propongo di dare qui un breve compendio del progresso delle idee sulle origini della specie. Fino a poco tempo fa, la maggioranza dei naturalisti credeva che le specie fossero immutabili e che fossero state create l’una indipendentemente dall’altra. Alcuni naturalisti, invece, erano convinti che le specie subissero modificazioni e che le attuali forme di vita discendessero per generazione regolare da forme preesistenti”. Sono queste le parole con cui uno dei più geniali e rivoluzionari scienziati, Charles Darwin, esordiva nella sua opera più importante, “L’origine della specie”. Tutte le parti del corpo di un organismo vivente hanno subito, nel corso delle ere geologiche, mutazioni che hanno consentito un migliore adattamento ai mutabili ecosistemi; possiamo parlare di adattamenti e di conseguenti evoluzioni anche per quanto riguarda il cuore e il sistema circolatorio, ossia quel muscolo propulsore e quel sistema di vasi che hanno il compito di raccogliere e distribuire sostanze all’interno dell’organismo. Esso può essere distinto in due tipi: il sistema circolatorio aperto e quello chiuso. Gli insetti, i molluschi e tante specie di animali invertebrati, chiamati così in quanto mancanti di colonna vertebrale, sono caratterizzati dalla presenza di un sistema circolatorio aperto, definito tale perché il liquido in esso circolante simile, ma non del tutto paragonabile al sangue (si tratta comunque di liquido extracellulare chiamato emolinfa) viene pompato da un lungo cuore tubulare in condotti, che lo distribuiscono in tutto il corpo negli spazi fra i tessuti. L’emolinfa poi ritorna al cuore mediante piccole aperture dette ostii che, grazie all’azione di particolari muscoli, richiamano il liquido letteralmen- te aspirandolo nel muscolo cardiaco. Può capitare però, specie negli insetti, che a causa della specifica confo r m a z i o n e anatomica che riduce il lume dei condotti, la circolazione risulti ostacolata; questo avvie127 ne in particolari zone, dette appendicolari, quali antenne e ali, dove, per arginare il problema, si trovano piccole fibre muscolari in grado di pulsare il liquido e di imitare quindi la funzione caratteristica del cuore. Quattrocento milioni di anni fa, nacquero i primi animali terrestri come gli scorpioni, ma nello stesso periodo nei mari erano in piena evoluzione i pesci, che per primi presentarono un sistema circolatorio chiuso. Sostanzialmente possiamo dire che il sistema circolatorio chiuso dell’uomo e degli altri vertebrati funziona nello stesso modo, differenziandosi solo per alcuni particolari. Quello dei pesci, ad esempio, appare notevolmente semplificato; il loro sistema circolatorio è di tipo semplice e completo: è detto semplice perché il sangue passa una sola volta per il cuore, e completo in quanto il sangue ossigenato non si mescola mai con quello non ossigenato. Nel loro cuore infatti circola solo sangue Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin venoso, cioè carico di anidride carbonica, e poi dal cuore il sangue è sospinto alle branchie, dove invece avviene l’ossigenazione. Il sistema circolatorio si è poi modificato gradualmente in seguito all’evoluzione del sistema respiratorio. Quando la vita cominciò a svilupparsi anche sulla terra, nei vertebrati apparvero nuove strutture, i polmoni, che gli conferiscono numerosi vantaggi rispetto alle branchie dei pesci. I polmoni, infatti, trovandosi all’interno del corpo, riescono a mantenersi umidi e al tempo stesso al riparo da traumi. Così dai primi pesci si sono sviluppati gli anfibi anche se questi ultimi non si staccheranno mai completamente dall’acqua, infatti le femmine vi devono fare ritorno per deporre le uova, che schiuderanno dando vita ad organismi acquatici: i girini. Anche il sistema circolatorio risulta cambiato: ora la circolazione è doppia ma incompleta, doppia in quanto il sangue passa per ben due volte attraverso il cuore, ma incompleta poiché all’interno dell’unico ventricolo il sangue venoso si mescola con quello arterioso. Il cuore anfibio già presenta una parziale 128 divisione in tre cavità. Le due superiori sono gli atri, di cui quello destro riceve il sangue dalla circolazione generale, mentre quello sinistro dai polmoni e dalla pelle, che negli anfibi ha anch’essa una funzione respiratoria. La sottostante cavità, chiamata ventricolo, è unica e riceve, mescolando solo parzialmente, però, il sangue dai due atri sovrastanti. La teoria dell’uso e del disuso, i cambiamenti climatici, le mutazioni degli ecosistemi e la selezione dei più adatti all’ambiente hanno fatto sì che poi, da alcuni anfibi, si sviluppassero i rettili. Quando poi le mutazioni hanno dotato le uova di guscio calcareo e hanno fatto sì che la pelle si ricoprisse di scaglie, per ridurre al minimo la perdita dell’acqua, ecco che i rettili si sono diffusi velocemente e, per un’intera era geologica, hanno popolato e dominato la terra. Il loro sistema circolatorio è pressoché uguale a quello degli anfibi; anche il loro cuore presenta infatti le tre cavità già menzionate, con un ventricolo parzialmente diviso che impedisce, meglio di quanto già avveniva negli anfibi, la mescolanza del sangue non ossigenato con quello ossigenato. Il cuore dei coccodrilli è più evoluto rispetto agli altri componenti della loro specie. Infatti il ventricolo, già praticamente diviso in due parti, completerà poi la sua totale separazione negli uccelli, derivati direttamente dai rettili, e nei mammiferi. Questi ultimi, affermatisi dopo l’estinzione dei rettili giganti, i cosiddetti dinosauri, hanno sviluppato caratteristiche quali la comparsa dei peli e l’omeotermia, cioè la capacità di mantenere la temperatura corporea costante e la viviparità, ovvero una strategia di riproduzione grazie alla quale gli embrioni vengono nutriti e protetti all’interno del corpo materno. Nel sistema circolatorio di tutti i mammiferi, come anche in quello degli uccelli, la separazione del cuore in quattro camere separate è completa. Il sangue scorre in due circuiti distinti: in uno è spinto dalla metà destra del cuore ai polmoni per eliminare l’anidride carbonica e potersi ossigenare, per poi ritornare al cuore; nell’altro, dalla metà sinistra del cuore, è pompato ai tessuti dell’intero organismo per ossigenarli, nutrirli e depurarli caricandosi di prodotti di rifiuto delle cellule. Con il ritorno del prezioso liquido alla parte destra del cuore può riprendere così un nuovo ciclo. È il fenomeno della mutazione la chiave della nostra evoluzione, che ci ha consentito di “trasformarci” da organismi monocellulari a specie dominante sul pianeta. Questo processo è estremamente lento e complesso, richiede milioni di anni, tuttavia esso è inesorabile. Proprio questo percorso evolutivo del siste- ma circolatorio ha permesso il maggiore sviluppo nel corpo umano di organi molto importanti, quali il cervello, grazie a cui l’ homo sapiens sapiens ha imposto il suo dominio sulle altre specie viventi. Chiara Ceriello IV MSB Docenti referenti: Maria Rosaria Langella Adriana Buonaiuto 129 Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin Le chiocciole: esempio evidente di biodiversità L a chiocciola è un gasteropode polmonato, cioè prende aria da un foro posto sotto la conchiglia. Il suo corpo è molliccio, allungato e ricoperto da una secrezione mucosa, a differenza del guscio che è più duro ed ha una forma elicoidale. Abita in ambienti estremamente umidi. La conchiglia ha due funzioni principali: generalmente 130 rifugio dai predatori mediante i disegni presenti sul guscio che favoriscono la mimetizzazione (tale variazione spaziale è detta mimetismo criptico) e, nelle varietà terrestri, riparo dalla disidratazione. Il tipo di minerali presenti nel cibo consumato ne determinano il colore che varia considerevolmente da specie a specie. Si muovono grazie a una serie di contrazioni muscolari ondulatorie: movimento generalmente favorito da minuscole ciglia o dalla secrezione della bava mucosa. Si nutrono prevalentemente di alghe e di materiale organico in decomposizione. All’interno della bocca possiedono una sorta di lingua (ratula) costellata di piccoli denti che viene strofinata su rocce e foglie per raschiare le particelle nutritive. Gli organi di senso sono localizzati sul capo e consistono di uno o due paia di tentacoli ricchi di terminazioni nervose tattili e olfattive. L’olfatto guida la riproduzione sessuata. Quando si incontrano inizia il corteggiamento: prima si accarezzano con la ratula, poi si posizionano faccia a faccia tenendo in posizione quasi verticale la parte anteriore al corpo, dopo di che si accoppiano. Molte specie sono ermafrodite, capaci di autofecondazione. Questo aumenta la capacità riproduttiva in quanto risultano molto lenti i processi di fecondazione. Le chiocciole depongono le uova (bianche, piccole e di diametro pari a 5 millimetri) nel terreno e sono del tutto simili all’individuo adulto. Le chiocciole sono un esempio di biodiversità poiché vi è variabilità genetica all’interno di una singola specie. La variabilità genetica è una caratteristica degli ecosistemi o di un pool di geni comunemente ritenuta vantaggiosa per la sopravvivenza: essa descrive l’esistenza di molte versioni diverse di uno stesso organismo. E’ dovuta principalmente alle mutazioni e ai processi di ricombinazione genetica. Le mutazioni in particolare portano alla formazione di nuovi alleli; la ricombinazione li rimescola creando nuove combinazioni alleliche nelle generazioni successive. Queste possono verificarsi in ogni momento della vita dell’organismo, ma saranno trasmesse (e quindi contribuiranno alla variabilità) solo se interessano le cellule della linea germinale o i gameti. Il senso di rotazione del guscio dipende dal modo in cui il gene Nodal si può esprimere durante lo sviluppo embrionale delle chiocciole. Il gene regola l’asimmetria destra-sinistra in altri organismi. Se durante la fase dello sviluppo embrionale il gene viene inattivato, nascono chiocciole con il guscio liscio. La chiave di riconoscimento è principalmente il labbro che può essere bianco o non bianco (rosa, marrone, marrone-chiaro). Altri elementi sono l’ombelico (aperto, chiuso, quasi chiuso) e le bande (continue, discontinue, tratteggiate, striate). Distinguere un esemplare giovane da un adulto è semplice, basta verificare due caratteristiche. Gli esemplari adulti hanno il labbro intorno all’apertura della conchiglia molto spesso, e leggermente rovesciato. Negli esemplari giovani di chiocciola, invece, la conchiglia verso l’apertura è fragile e sottile. I giovani presentano un foro a fessura nella parte inferiore centrale del guscio chiamato ombelico. Negli adulti l’ombelico scompare. Elisena Franzese Liceo Scientifico Docente Referente: Rosa Maria Aliberti 131 Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin Evoluzionismo e Razzismo Come le teorie scientifiche di Darwin influenzarono il dibattito ottocentesco sulla superiorità di alcune razze su altre. I casi di De Gobineau e Lombroso L ’opera di Darwin nella seconda metà dell’Ottocento avrà una enorme risonanza ed influenzerà notevolmente il dibattito culturale del tempo. Ad essere distorte e male interpretate furono, soprattutto, le sue teorie scientifiche sull’evoluzione della specie. Osservando piante e animali Darwin aveva rilevato che due individui di una popolazione non sono 132 perfettamente identici: gli organismi differiscono per dimensioni, colori e molti altri caratteri. Lo scienziato intuì che sono le variazioni, piuttosto che i caratteri acquisiti, a essere trasmesse alla discendenza (selezione naturale). Concluse, quindi, che gli organismi che non hanno successo nella competizione per le risorse, hanno minori probabilità di sopravvivere in quell’ambiente. Solo gli organismi che sopravvivono, trasmettono i propri caratteri alla generazione successiva, e dunque in ogni nuova generazione i figli degli individui più adatti saranno più numerosi. Le teorie di Darwin erano sicuramente un attacco ai fondamenti della morale del tempo, imbevuta di religiosità bigotta. Nessun Dio era mai intervenuto a determinare il numero e la quantità delle specie viventi, ma queste erano il risultato della modificazione di antichi progenitori. La legge della lotta per la vita venne, però, estesa dalla natura alla società e la sopravvivenza dei più adatti venne interpretata come la vittoria dei migliori. Ed anche se del tutto involontariamente, Darwin, contribuì, dunque, allo sviluppo e alla diffusione dell’ideologia razzista, che venne utilizzata brutalmente dai colonizzatori europei della seconda metà dell’Ottocento. Il razzismo Joseph Arthur Gobineau, è considerato uno dei padri del razzismo moderno. Intellettuale francese, nato nel 1816 e morto nel 1882, volle spiegare perché gli Stati e le nazioni sorgono, raggiungono l’apice e si avviano al declino. Egli giunse alla conclusione che il declino di un popolo è conseguente al suo degenerare, intendendo per “degenerata” una popolazione il cui “valore è stato modificato da successivi connubi” e nelle cui vene non scorre più lo stesso sangue. Le civiltà, infatti, sarebbero espressioni di razze giovani, integre ed il loro declino sarebbe dovuto esclusivamente Uomo o donna non importa... Criminali si nasce, non si diventa Il 27 novembre, in occasione del centesimo anniversario della morte di Cesare Lombroso, l’università di Torino, il Comune e la Regione Piemonte, hanno riaperto nel palazzo degli istituti anatomici, il museo a lui dedicato. Ma chi è Cesare Lombroso? Il nome di Cesare Lombroso è fortemente legato all’antropologia criminale, di cui è considerato il fondatore, benché infatti le sue teorie siano state oggetto di molte critiche, al Lombroso va riconosciuto il merito di aver contribuito a spostare definitivamente l’oggetto del diritto penale dal reato al delinquente e alle cause personali e sociali del delitto. Nato a Verona nel 1835, ben presto, già nel 1862 (all’età quindi di 27 anni) venne chiamato a tenere un corso sulla sulle malattie mentali all’università di Pavia, per poi, molti anni dopo trasferirsi a Torino dove ottenne la Cattedra di Antropologia Criminale. In questi anni venne in contatto con il positivismo francese e inglese i cui tratti fondamentali sono costituiti dall’esaltazione del valore sperimentale, contro le costruzioni metafisiche della 133 filosofia idealistica e della considerazione della scienza, come il solo strumento atto a garantire lo sviluppo umano e sociale. Il Positivismo si fuse, nella persona di Lombroso, con la teoria evoluzionistica di Darwin, e spinsero il criminologo a formulare l’idea che “il delinquente nato” abbia delle caratteristiche anatomiche che lo differenziano dal non-delinquente (teoria esposta nello scritto “L’ uomo Delinquente”) Più che caratterizzate da componenti ambientali e socio-economiche, la condotta di un criminale sarebbe determinata da ereditarietà e da malattie nervose, il Lombroso è, infatti, convinto che la costituzione fisica sia la più potente causa di criminalità e nella sua analisi attribuisce una fondamentale importanza al cranio: Cesare Lombroso a motivi di carattere razziale, al loro progressivo mescolamento etnico. Questa riflessione esposta nel suo “Saggio sulla ineguaglianza della razza umana” (1853-1855), diede avvio alla teoria delle tre razze (bianca, nera, gialla) e alla convinzione che la stirpe superiore nonché “ariana”, fosse quella bianca, in cui si riscontravano amore per la libertà, coraggio e spiritualità. Nel suo saggio Gobineau riprende da Johann Friedrich Blumenbach la suddivisione delle razze umane in gialla, nera e bianca e attribuisce a ciascuna razza determinate caratteristiche morali e psicologiche innate; sono appunto tali peculiarità che determinano la superiorità dei bianchi sui gialli e sui neri. Per Gobineau, la razza gialla è materialista, portata al commercio e incapace di esprimere pensieri metafisici; la razza nera presenta una modesta capacità intellettiva; la razza bianca (o ariana), che incarna le virtù della nobiltà e i valori aristocratici, sarebbe invece contraddistinta dal suo amore per la libertà, per l’onore e per la spiritualità. La razza bianca, originaria dell’India, si sarebbe sovrapposta alle prime popolazioni europee (che secondo Gobineau erano di razza gialla) per formare il ceppo teutonico destinato a dominare l’Europa nei secoli successivi. Ma l’inevitabile incrocio con le altre razze ne avrebbe corrotto la nobiltà, e gli ariani avrebbero progressivamente assunto alcuni dei tratti deteriori delle razze inferiori (il materialismo dei gialli e la sensualità dei neri), in un processo degenerativo che Gobineau considerava ormai irreversibile. Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin “La capacità cranica dei criminali misurata con pallini di piombo offre in media cifre inferiori alle normali, e con una seriazione diversa, cioè con un maggior numero di grandi, 1600-2000 c.c., e di piccole, 1100-1300 c.c., capacità: eccedono cioè nel troppo o nel troppo poco sugli onesti e sono inferiori sempre nelle cifre medie. Vi è prevalenza di capacità minime nei ladri; e quando le grandi capacità dei rei non sono effetto di idrocefalia, sono spesso giustificate da un’intelligenza maggiore del normale come in certi capibriganti: Minder-Kraft c.c. 1631, Pascal 1771, Lacenaire 1690” “I criminali presentano l’esagerazione degli indici etnici senza predominio dell’una o dell’altra forma in essi e secondo i vari reati. Etnicamente prevalgono i brachicefali nell’Italia settentrionale, 134 i dolicocefali nell’Italia meridionale e insulare; è caratteristica l’iperdolicocefalia nella Sardegna, nella Garfagnana e Lunigiana (Lucchesia), nella Calabria e in Sicilia, e l’ultrabrachicefalia nel Piemonte e nel Veneto; però gli assassini avrebbero in molte regioni d’Italia l’indice cefalico piú elevato”. Tra le opere di maggiore interesse pubblicate dal Lombroso vi è sicuramente “La donnadelinquente, la donna-prostituta e la normale” testo monumentale della misoginia positivistica. Secondo Lombroso infatti, “anche una sposa esemplare ha molti caratteri che l’avvicinano al selvaggio, al fanciullo e quindi al criminale: irosità, vendetta, gelosia, vanità”. Lo studioso, si soffermò ancora una volta sugli studi anatomici: “In 234 prostitute trovammo la distribuzione virile del pelo nel 15% mentre sul normale era il 6%, sulle criminali il 5% . Viceversa la peluria che va al 6% nelle prostitute russe, scende al 2% nelle omicide per poi sparire del tutto nelle oneste e nelle ladre..” L’opera “La donna-criminale” ebbe al tempo un notevole successo. Il progressista Cesare Lombroso era tale, purché il progresso non si applicasse alla donna, considerata più stupida e debole degli uomini e per questo meno incline a commettere atti criminali, che comunque sono nella sua natura. Ma mentre l’uomo criminale fu duramente contestato, la donna criminale, invece, fu apprezzata per lungo tempo. Bianca Corrado Maria Monteleone Luigi Danilo Rainone Eleonora Salerno III A Liceo Classico Docente referente: Anna Pumpo CREATIVITà E SCIENZA Tra letteratura, rappresentazione grafica e sapere scientifico L’evoluzione della Terra raccontata con l’invenzione L ’Allegra Brigata è il nome con cui si identifica un gruppo poliedrico di giovani del Liceo Scientifico “Galileo Galilei” di Sarno che, per il bicentenario della nascita di Charles Darwin, padre della teoria dell’evoluzione della specie animale e vegetale, ha concretizzato una serie di lavori ideati e realizzati nell’officina del proprio laboratorio teatrale, sintetizzando le proprie conoscenze e competenze scientifiche con la naturale predisposizione all’arte creativa. È stato prodotto un racconto fantastico intitolato “La storia delle storie”, un racconto inventato, frutto della fantasia dei ragazzi, sollecitato in parte dalla creazione delle scenografie per le rappresentazioni teatrali che ha indirizzato questa creatività 135 nel disegno artistico in modo tale che dalle parole del testo sono arrivati ad attuare e a modellare una forma da cui prende vita ZY, un esserino poco più grande di una palla da tennis, nato sul pianeta Antar che, con l’aiuto di uno scienziato matto viene catapultato sulla Terra e assiste alle varie fasi dell’evoluzione. È un connubio perfetto per poter spiegare in maniera semplice e chiara la storia del nostro pianeta. Partendo dalla base scientifica e dalle nozioni inerenti al libro “L’origine delle specie” di Darwin, abbiamo immaginato questo viaggio fantastico diviso in tappe secondo i 12 mesi dell’anno, dove ZY si trova su una strada percorribile in ambedue i sensi, perché da una parte assiste alle trasformazioni, ai processi morfologici e climatici del pianeta Terra, alla nascita della vita e dei primi organismi, mentre dall’altra osserva come ciò avviene tramite la fantasia e l’irrealtà, tra l’immaginario e il divertente sfogliando le pagine di questo volume del tempo, alle avventure del nostro piccolo amico che vedrà davanti a sé un cratere di un vulcano da cui fuoriesce del pomodoro piuttosto che della lava, oppure le monta- Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin gne che assomigliano a degli imbuti capovolti o ancora fare amicizia con dei dinosauri animati che richiamano i pupazzi con i quali eravamo soliti giocare durante l’infanzia. Fondamentale nella realizzazione di questo progetto è stato il lavoro di squadra, la suddivisone dei compiti, poiché i ragazzi provengono dal mondo teatrale e dunque sono abituati all’improvvisazione, ad esternare la creatività non solo nell’interpretazione ma anche nelle scenografie e nei costumi, adattando questa capacità di inventiva al mondo della scienza, regolato da leggi matematiche e fisiche, trasformandolo in un mondo fantastico. Dunque è stato un progetto finalizzato a fondere la scienza e la creatività in quanto ZY, protagonista di un susseguirsi di avventure, ci accompagnerà in questo percorso mostrandoci come è divertente imparare con l’immaginazione e l’ illustrazione. Questa è “La storia delle storie” 136 PROLOGO Da qualche parte nell’universo, miliardi di anni fa, c’era un pianeta di nome Antar, abitato da tanti esserini che, nonostante le piccole dimensioni, infatti erano grandi poco più di una pallina da tennis, erano molto intelligenti. Tra questi spiccava un ominoide un pò strano, una sorta di scienziato matto di nome Miù che portava delle lunghe scarpe nere, un camice bianco e dei grandi occhialoni e aveva inventato tantissimi marchingegni molto complessi che lo avevano reso famoso su Antar. Una volta l’esserino ZY era venuto a conoscenza della bravura di Miù e aveva fatto di tutto per incontrarlo perché voleva essere spedito su un altro pianeta. Era stanco di vivere su Antar a causa delle troppe esserine che lo corteggiavano e perché era in cerca di qualcosa di più buono da mangiare, in quanto sul suo pianeta gli abitanti si nutrivano esclusivamente di moscerini essiccati e di foglie secche. Lo scienziato, nel giro di due mesi, inventò una grossa macchina capace di spedirlo nell’universo:si trattava di un’enorme catapulta. Stabilito il giorno della partenza, 1° gennaio, ZY era pronto per intraprendere una nuova esperienza. Miù preparò la macchina e quando tutto fu pronto ZY si sedette sulla catapulta e fu scaraventato nell’universo. Il colpo fu talmente forte che egli d’improvviso si trovò sospeso nell’universo oscuro e poi atterrò sulla Terra. GENNAIO Era buio e poi comparve la luce, poi ancora buio e di nuovo la luce, ZY non capiva il perché di quell’alternanza, ma forse era dovuto a quella sfera splendente che lo accecava se guardava in alto. Si divertiva a giocare a nascondino, mostrandosi e dopo un po’ nascondendosi. Vicino al sole si trovava una sfera più piccola, tutta bianca e opaca e la si vedeva solo quando il sole si nascondeva. Era la luna che, triste, preferiva rimanere nel buio circondata da tanti puntini bianchi e brillanti che le facevano compagnia. Ricordava che sul suo pianeta aveva letto in un libro astronomico che l’universo si era formato dopo una violentissima esplosione conosciuta come Big-Bang. Poi si formò una nebbia luminosissima che, espandendosi, diede origine all’Universo. Le polveri e i gas formarono un disco che cominciò a girare su se stesso, dentro a questo disco si formò un nucleo più denso e più caldo:il sole. Le polveri e i gas continuarono a girare su se stessi e man mano che si allontanarono diedero origine ai pianeti, tra cui nacque la Terra. Sulla Terra c’era una temperatura altissima dove era impossibile la vita anche per lo stesso ZY, ecco perchè prima di atterrare si mise in una sfera di vetro dove regolò la temperatura al suo interno permettendogli di vivere. FEBBRAIO ZY, comunque, iniziò a girovagare per quel luogo desolato e inospitale dove tutto era immobile e scolorito, incominciò a pentirsi dei suoi capricci e cercò di trovare un modo per tornare su Antar. Il fatto era che non c’era niente o nessuno che lo avesse potuto aiutare, né un’enorme scala, né una catapulta, né una molla, niente di niente. Nel luogo in cui si trovava, l’aria era piena di gas proveniente da imbuti capovolti da dove fuoriusciva del pomodoro rosso acceso. Passava il tempo e lui si sentiva sempre più solo, ma so- prattutto aveva sempre più fame. Era disperato e piangeva tanto da versare lacrime a non finire che cadevano al suolo e man mano si ammucchiavano formando dei piccoli laghetti. In cielo i gas degli imbuti si condensavano e si formavano delle nuvole. Queste diventavano sempre più gonfie fin quando decisero di trasformarsi in gocce d’acqua, nacquero così le piogge che, mescolandosi con le lacrime di ZY, si trasformarono in mari e oceani. ZY meravigliato dalla grandezza di quei grandi specchi d’acqua azzurri e lisci, non potè fare a meno di tuffarsi per vedere cosa ci fosse e se c’era qualcuno, poi scoprì che quella meraviglia in realtà era statica, l’oceano era vuoto. Deluso ritornò sulla terraferma. MARZO Sulla terraferma anche, tutto era così immobile, tutto avvolto in un sonno profondo finchè non ci fu un grande boato. Accadde che uno di quegli strani imbuti iniziasse a brontolare forte e poco dopo ci fu un’esplosione di pomodoro e di grosse lenticchie che andavano dappertutto, ZY esultò dalla gioia, contento di aver trovato qualcosa da mangiare. Quando il pomodoro si raffreddò divenne duro e si formarono le rocce vulcaniche, che erano parenti delle rocce sedimentarie, perchè il materiale che i fiumi trasportavano fino agli oceani derivava dalla distruzione di rocce vulcaniche e quindi le prime rocce sedimentarie nacquero grazie alla distruzione delle prime rocce vulcaniche. Tutto però iniziò a tremare e non capiva se era lui stesso a muoversi o il resto attorno a sé. Si rese conto che era una zolla di terra che si era scontrata con un’altra zolla e dal basso si alzarono le catene montuose con le punte aguzze. Quando smise di girare di qua e di là, ritornò la calma. Nell’aria si sentiva qualcosa di nuovo, sembra- va pulita e fresca e ciò era tutto merito di quelle piante acquatiche che si trovavano vicino ai mari e, siccome avevano tanto freddo, perché vicino all’acqua, ringraziavano il sole per la sua gentilezza poiché le aveva riscaldate con i suoi raggi e le piante felici emanavano nell’aria delle particelle piccolissime che la rendevano respirabile. Grazie alla fotosintesi si accumulò nell’aria l’ossigeno. APRILE La Terra era in continuo mutamento, vide nell’acqua tanti organismi che iniziavano a moltiplicarsi e poi a dividersi e a fondersi con altri di varia specie:erano così tanti che era impossibile contarli. Questo era il mese cpiù importante per la vita sulla terra. Prendevano vita i primi organismi pluricellulari. Il numero delle specie degli organismi unicellulari era già diventato molto grande, così come le modalità di riproduzione degli stessi. All’interno di questo importantissimo passaggio evolutivo avvenne anche un altro fatto importante: la com- 137 parsa della riproduzione tramite meiosi. Accadde che alcuni organismi cominciassero a produrre piccole cellule riproduttive contenenti metà delle proprie informazioni genetiche, per fondersi con altre loro analoghe ma di altri individui. MAGGIO Sulla terraferma iniziavano a crescere le piante e anch’esse si diversificavano. Faceva molto caldo e ZY decise di farsi una nuotata, mise le pinne, la maschera, prese la bomboletta d’ossigeno e si tuffò nell’oceano. Tra gli organismi dell’oceano vedeva che c’era tanto traffico nelle strade acquatiche e alcuni non rispettavano i semafori e il codice civile del mare, in particolare i pesci che avevano due pinne e una coda flessuosa che gli permetteva di nuotare velocemente. Qui incontrò il pesce palla che si era gonfiato perché arrabbiato con il pesce martello che non aveva Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin rispettato il semaforo. Più in profondità vide i pesci pagliaccio che giocavano a nascondino tra le alghe marine con i pesci gatto. Più in là si vedeva un banco di sardine e di acciughe, subito dopo dei cavallucci marini. Tra i pesci alcuni erano cattivi e mangiavano gli altri animali acquatici:erano gli squali, di grandi dimensioni e con un’ampia bocca da dove si intravedevano dei denti affilati. Il più terribile di tutti era lo squalo bianco.Una volta ZY, mentre era in compagnia del pesce pagliaccio con cui stava giocando, per prendere la palla che si era persa, si era spinto fin troppo nelle profondità marine dove lo aveva incontrato, per fortuna grazie all’aiuto dei suoi amici pesci, era riuscito a scappare dalla sua grossa bocca. GIUGNO Era estate, l’evoluzione della Terra continuava molto lentamente, in effetti erano iniziate le vacanze e anche la Terra meritava un po’ di riposo. ZY si stava annoiando, non sapeva che cosa fare, allora prese il foglio del desiderio, un pastello e disegnò una rana tutta verde con delle macchie 138 di un verde più scuro. Tutto ciò che disegnava su quel pezzo di carta prendeva vita, ed ecco all’improvviso uscire dal foglio una rana che saltellava. Chiamò la rana Winky, questa portava un papillon giallo e aveva la pelle inumidita. Passavano le giornate a giocare a saltarello, un gioco al quale vinceva colui che faceva il salto più lungo e ZY perdeva sempre, nonostante avesse ai piedi due grandi molle che lo facevano andare su e giù. Il ranocchio si sentiva solo e triste, allora disegnò una ranocchia, Dinka, con un fermaglio rosa in testa, e poi altri ranocchietti, in modo che tutti potessero giocare insieme e stare in compagnia. I suoi ranocchi si divertivano, facevano tanti giochi nello stagno, gare di nuoto, si era creata una bella famiglia. Un giorno decise di salutare tutti e di partire per avventurarsi ed esplorare il pianeta Terra. Prese la bussola e puntò verso ovest, ma per poter andare dall’altra parte della Terra costruì una barca a remi con una vela rossa e iniziò a remare. Un nuovo viaggio stava per incominciare. LUGLIO ZY sbarcò su un’isola e vide dello zucchero filato verde che era alto fino a toccare il cielo e ce ne erano molti altri di varia grandezza. Sentì dei rumori e vide qualcosa che si muoveva, sbucò un dinosauro, con le zampe enormi e gli occhi grandi e dolci, simile ai pupazzi che aveva sul suo pianeta, solo che questo era vero e moriva dalla voglia di fare un giro sul suo dorso. Si chiamava Pif, portava un berretto blu e nero a strisce. Per avvicinarlo prese un po’ di zucchero filato che mangiò in un boccone e abbassò la testa per farlo salire. Si fermarono vicino a un laghetto dove si trovava il villaggio di Pif. Conobbe la sua famiglia, mamma Paf portava un cappello rosso e una collana di perle bianche, mentre papà Pof portava degli occhiali che erano così spessi che i suoi occhi sembravano due punti neri. Era il villaggio Dinolandia, dove vivevano tanti dinosauri, alcuni gialli con macchie nere, altri arancioni a pois e altri ancora verdi che avevano sul dorso delle placche appuntite. Avrebbe voluto portarli con sé su Antar per vantarsi con i suoi amici e così tutti lo avrebbero invidiato. Era divertente giocare con loro, scivolare sui loro dorso saltando sull’uno e sull’altro come se fossero le montagne russe. Non tutti i dinosauri erano buoni come a Dinolandia, alcuni vivevano isolati ed erano diventati cattivi come il pericolosissimo Tyrex. Una volta lo incontrarono e dalla sua bocca usciva del fuoco e dalle narici del fumo, per fortuna aveva con sé dei palloncini d’acqua, glieli lanciarono sulla testa e il fuoco si spense. Il Tyrex scappò infreddolito con la coda tra le zampe. Luglio stava per finire e ZY era pronto per ripartire e continuare la sua esplorazione. Salutata la famiglia di Pif, riprese il viaggio via mare. Aveva una strana sensazione quando salutò Pif, Paf, e Puf, sentiva che quella sarebbe stata l’ultima volta che li avrebbe visti e così fu. Il cielo iniziò ad oscurarsi, le nuvole si addensavano, si vedevano i fulmini e si sentivano i tuoni e una forte pioggia iniziò a cadere. Guardò in alto e vide una palla infuocata, avvolta da una luce rossa e gialla, piena di energia che si dirigeva sull’isola di Pif a tutta velocità. Si schiantò, non riusciva a vedere nulla se non tanta polvere e fumo che gli accecavano gli occhi. Dopo che il caos svanì, l’isola era scomparsa, non esisteva più. I suoi amici dinosauri si erano estinti. AGOSTO Si ritrovò su un’altra isola che era abitata da animali pieni di peli. Camminavano a quattro zampe, alcuni vivevano sugli alberi e altri nelle grotte, erano così diversi, per esempio vicino a una pozza d’acqua si vedevano degli animali che avevano due zanne lunghe e ricurve al posto delle narici, per non parlare del naso che era lungo e floscio con il quale prendevano l’acqua, poi continuando ad esplorare vide un cucciolo che aveva la testa incastrata in un tronco d’albero e non riusciva a liberarsi, allora lo prese per le zampe e tirò con tutta la forza che aveva. Rotolò all’indietro e prese una gran botta in testa ma il cucciolo era libero. Era un piccolo orsetto, aveva le orecchie appuntite, il muso lungo, un naso nero e un pelo folto di colore marrone. Lo mise in un cestino e lo portò con sé. Dopo un po’ che camminavano videro davanti a sé non più la terra, gli alberi, i fiumi, i cespugli e i laghetti ma la neve e i ghiacciai. Indossò il cappotto, i guanti, la sciarpa, mise un cappellino di lana in testa all’orsetto e per ultimo gli sci. C’era una forte tempesta di neve, videro da lontano i pinguini neri e bianchi, le foche con dei lunghi baffi neri e una coda a forma di pesce che giocavano a palla e anche degli orsi simili al suo orsetto, solo che il loro pelo era bianco, sembravano dei batuffoli di cotone. SETTEMBRE Stanco di quel freddo gelido e intenso, ritornò indietro felice di rivedere il sole. ZY si inoltrò in mezzo a quella meraviglia con il desiderio di conoscere gli animali volanti. Però, mentre camminava, il suo sguardo fu colpito da strane palline bianche che si trovavano su un ramo d’albero circondate da tanti fili d’erba. Così si arrampicò per guardarle più da vicino: erano due, lisce e calde. D’improvviso però gli si scaraventò addosso un grosso pennuto di colore marrone che lo pizzicò. Quello doveva esser lo strano animale volante pensò ZY. Il pennuto lo allontanò da quelle palline e sembrava tanto arrabbiato, così decise di rimettersi in cammino. Per la strada incontrava di tanto in tanto piccoli animaletti, alcuni di essi erano minuscoli e avevano le ali e poi si imbatté in un altro pennuto più piccolo del precedente ma anche col becco più appuntito, quindi ZY subito si nascose dietro un albero. Il pennuto però lo aveva visto e gli volò incontrò dicendo: “Salve piccolo 139 sconosciuto, anche se la mamma dice di non parlare con gli estranei, voglio dirti solamente di non aver paura, noi uccelli non siamo cattivi”. Allora ZY uscì allo scoperto e gli raccontò che ne aveva già incontrato uno cattivo mentre stava guardando le palline bianche. Il piccolo uccello gli spiegò che in quelle palline c’erano i babyuccelli e che quel pennuto che prima lo aveva assalito era la mamma intenta a proteggere i suoi figli. Tutto gli fu chiaro e, insieme al suo amico uccello, andò a scusarsi con mamma pennuta per averla fatta arrabbiare e decise di trascorrere un po’ di tempo con i suoi nuovi amici. Assistè anche alla schiusa delle uova di mamma pennuta e conobbe i suoi due figli, baby-uccello Tic e Tac. Era invidioso di loro perché potevano sentire il vento che li accarezzava, attraversare le nuvole, parlare con il sole e vedere ogni cosa dall’altro. Da qualche parte nella sua borsa aveva con sé un mantello magico che gli permetteva di volare, lo indossò, fece una lunga rincorsa e si alzò da terra andando sempre più in alto, fino a raggiungere gli uccelli e insieme danzarono nell’aria. Fino a Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin quando non sentì del fumo, non capiva bene da dove provenisse ma ben presto si accorse che il suo mantello stava bruciando poiché stava volando troppo vicino al sole. Precipitò e si infilò tra i rami di un albero, per la stanchezza si addormentò sotto l’ombra di una quercia. OTTOBRE La terra iniziava a colorarsi, stavano sbocciando i fiori sugli alberi e sui cespugli, nell’aria si sentiva un gradevole odore. Era circondato da colori. ZY si rimise in cammino, attraversò le fitte foreste e di tanto in tanto incontrava qualora uccelli qualora lucertole, gli veniva voglia di sdraiarsi sugli immensi prati, e riposarsi del viaggio, dove ascoltava il canto degli uccelli che lo deliziavano. Proprio durante una sosta conobbe dei nuovi amici, erano alti circa un metro, camminavano appoggiando le zampe anteriori sulla terra, avevano una lunga coda, erano pelosi e neri con un’espressione molto simpatica, si trovavano sugli alberi e mangiavano tanti frutti. Erano delle scimmiette molto curiose, infatti 140 non appena si accorsero di ZY gli andarono incontro per salutarlo. Una di loro gli offrì tante banane, ne mangiò tantissime, erano molto dolci e non esistevano su Antar, infatti si riempì l’intera sacca che aveva con sé per portarla ai suoi amici. Anche tra le scimmiette c’erano le baby-scimmie, ma, a differenza degli uccelli, non si trovavano nelle uova, bensì nella pancia delle loro mamme. Queste avevano la pancia grande e camminavano in modo goffo. Erano molto premurose con i loro figli, quando nacquero li tenevano in braccio senza mai lasciarli un secondo. NOVEMBRE Tra gli alberi vide una scimmia diversa da tutte le altre perché non era ricoperta da tanti peli e usava le mani per afferrare le liane e per spostarsi da un albero all’altro. Era il primo ominide con il muso schiacciato, si avvicinò per conoscerlo ma l’ominide non sapeva parlare, gesticolava per comunicare ed emetteva degli strani suoni. Lo portò nella sua caverna e sulle pareti si vedevano dei disegni incomprensibili. Arrivarono altri come lui che portarono sulle loro spalle dei conigli uccisi con delle pietre appuntite. Insegnò loro come accendere il fuoco, strofinava fra loro due legnetti secchi finchè si scaldavano e così si incendiavano. I piccoli ominidi si spaventarono nel vedere quelle lingue di fuoco, le toccarono e poi subito ritrassero la mano, si agitarono come dei matti, allora ZY gli spiegò, tramite un disegno, che il fuoco non era pericoloso anzi potevano usarlo per cucinare la carne che avevano cacciato e per farla diventare più saporita. Notarono che tutti gli animali avevano paura delle fiamme e potevano così rimanere più tranquilli se vicino a loro c’era un focolare acceso. Il cibo e la raccolta venivano sempre divisi nel gruppo e aumentò così la solidarietà e l’amicizia. L’uomo imparò a volersi bene e a vivere insieme non solo perchè nel gruppo poteva essere “più forte” ma anche perchè apprezzava la compagnia di altri. Gli insegnò a parlare, impararono i nomi dei fiori, delle piante, dei pesci e degli altri animali. Camminava stabilmente in posizione eretta. Utilizzando le sue forti e grandi mani procurava il cibo, bacche, radici e carcasse di animali, aiutandosi anche con bastoni, era abile a lavorare la pietra e costruiva strumenti rudimentali, che erano sassi scheggiati e resi taglienti. L’uomo preistorico ebbe ben presto bisogno di una casa per il riparo. Usò caverne, costruì capanne con rami e paglia e fece tende con pelli di animali. Le palafitte furono le abitazioni più ingegnose, costruite sopra pali conficcati sulla riva del lago. Erano nate per il bisogno dell’acqua che l’uomo sfruttò per bere, pescare e navigare. Ultima grande scoperta fu quella dei metalli. Molte armi vennero usate per uccidere gli animali ma, purtroppo, anche per combattere contro i nemici. Giorno dopo giorno l’uomo si evolveva, da uomo-scimmia a uomo vero e proprio. DICEMBRE Erano passati 12 mesi e ZY aveva assistito all’evoluzione della Terra, dalla nascita delle piante e dei primi animali fino all’uomo.Anche se un pò dispiaciuto di lasciare quella splendida natura e soprattutto di lasciare tutti i suoi amici che si erano comportati in modo cordiale con lui, era giunto il momento di partire e di ritornare su Antar. Si era ricordato che lo scienzato Miù gli aveva detto che se voleva ritornare a casa doveva pronunciare queste parole “L’avventur io ho cercato, per di qua e per di là io son andato, il tempo è ormai passato, su Antar voglio tornare e le mie avventure voglio cantare”. E così ritornò su Antar. EPILOGO Per non dimenticare la sua avventura decise di scrivere un libro in cui percorrere tutti i momenti vissuti, intitolandolo “La storia delle storie”.Un libro che avrebbe donato a tutti i suoi amici di Antar, in modo da condividere con loro tutte le magnifiche esperienze vissute sulla Terra. Rosa Lieto IV C - Liceo Scientifico Docente referente: Antonella Esposito 141 Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin Gould ed Eldridge: la teoria degli equilibri punteggiati N “Le innovazioni evolutive possono insorgere in molti modi. Niles Eldredge e Stephen Jay Gould hanno ipotizzato che l’evoluzione di nuove specie procederebbe a scatti.” el 1972 Stephen Jay Gould e Niles Eldredge pubblicano per la prima volta, all’interno del saggio intitolato Punctuated Equilibria: an alternative to Phyletic Gradualism, 142 la teoria degli equilibri punteggiati, che avrebbe negli anni successivi contribuito a rivitalizzare fortemente il dibattito tra evoluzionisti di diverse scuole di pensiero in merito al concetto di gradualità nell’evoluzione biologica. L’ultimo fascicolo della rivista Evolution: Education and Outreach pubblica uno straordinario articolo in cui Niles Eldredge racconta le origini della teoria degli equilibri punteggiati e come Eldredge e Gould arrivarono a formulare la loro teoria (anche se questo articolo tende a valorizzare maggiormente il contributo di Eldredge rispetto a quello di Gould). Principi della teoria. La teoria del saltazionismo è anche nota come evoluzione per equilibri intermittenti. Recentemente l’ipotesi che l’evoluzione proceda mediante il lento accumulo di piccole mutazioni genetiche e/o di ricombinazioni geniche è stata messa in dubbio da diversi biologi, quali Niles Eldredge e Stepen Jay Gould. Quest’ultimi ribattono che, se si analizzano attentamente i reperti fossili, il processo di speciazione non appare graduale, ma che nuove specie possono apparire all’improvviso. Alla base di tali convinzioni - sostenute con vigore - vi è la considerazione che spesso mancano testimonianze fossili di forme di transizione da una specie all’altra e che, di solito, esiste una mancanza di continuità tra forme chiaramente affini, ma distinte. Secondo i gradualisti, nelle specie si accumulano cambiamenti strutturali anche quando le condizioni ambientali sono relativamente stabili, mentre per i sostenitori degli equilibri intermittenti le specie permangono in una situazione di sostanziale equilibrio fintanto che le condizioni ambientali non vanno incontro a un cambiamento significativo. La teoria degli equilibri intermittenti ci fornisce una spiegazione di come possano persistere nel tempo delle specie dalle caratteristiche ben riconoscibili. Se le specie originano improvvisamente per drastica rottura dell’equilibrio, e permangono poi in una situazione di equilibrio stabile fino al successivo periodo di speciazione, esse rappresentano entità distinte con una struttura e un periodo di esistenza ben determinati. L’esempio della scomparsa dei Dinosauri è forse quello più lampante: gli autentici dominatori della terra scomparvero in pochi anni a causa di improvvise modificazioni ambientali (l’oscuramento della luce solare, dovuto all’impatto di un meteorite sulla terra o ad una lunga serie di violente eruzioni vulcaniche), lasciando il terreno libero ai Mammiferi, che al tempo erano principalmente animali notturni e meglio adattati in ogni caso a condizioni ambientali crepuscolari. Come è ben evidente, questo esempio enfatizza un aspetto fondamentale di tale teoria: la casualità a cui questi eventi sono legati, che sottolinea che la storia evolutiva non ha sempre premiato gli esemplari, o le specie, meglio adattati alle condizioni ambientali esistenti, ma quelle meglio adatte a resistere a quegli eventi fortuiti che hanno modificato in maniera sensibile tali situazioni, portando ad eventi di speciazione tra gli organismi esistenti. Insomma, una visione ben distante dall’idealismo dei gradualisti, secondo cui sono sempre le specie meglio adattate ad ottenere il successo evolutivo. Tre concetti fondamentali. La teoria degli equilibri intermittenti consta di tre concetti fondamentali: 1. I cambiamenti che portano alla speciazione, cioè alla formazione di una nuova specie, si verificano in tempi geologici ridotti, dell’ordine di pochi migliaia di anni. 2. La rapida evoluzione di una nuova specie coinvolge quasi esclusivamente popolazioni di piccole dimensioni e i caratteri fenotipici che si vengono ad affermare sono abbastanza diversi da quelli della specie ancestrale. 3. Dopo che si è verificata la speciazione le caratteristiche fenotipiche si mantengono pressoché inalterate, magari per milioni di anni, sino all’estinzione delle specie stesse Critica alla teoria. Evoluzionisti neodarwiniani criticano la teoria degli equilibri punteggiati in quanto affermano che nel formulare questa teoria Gould e Eldredge hanno distorto il senso del gradualismo. Nel libro L’idea pericolosa di Darwin, Daniel Dennett si fa carico delle posizioni di questi scienziati. Il punto della discordia sta nel fatto 143 che si pensa che il termine evoluzione graduale sia sinonimo di velocità costante dell’evoluzione. Dennett fa osservare che il termine gradualismo si riferisce al lungo periodo necessario a formare una nuova specie ed è stato scelto in contrapposizione all’evoluzione per salti o saltazionismo che invece ipotizza la formazione d’una nuova specie in poche o direttamente in una sola generazione. Il termine velocità evolutiva invece si riferisce alla costanza o meno dell’evoluzione in relazione al tempo, cioè se l’evoluzione d’una specie è costante o intervalla momenti di stasi a momenti di veloce evoluzione. Il primo a sostenere che la velocità dell’evoluzione non è costante è stato lo stesso Darwin che nel 1872 nel capitolo XV della 6° edizione de L’origine delle specie afferma: «Molte specie, dopo essere state formate, non sono mai andate incontro a ulteriori mutamenti (...) ed i periodi, durante i quali le specie sono andate incontro a modificazioni, anche se lunghi misurati in anni, probabilmente sono stati brevi in confronto ai periodi in cui hanno mantenuto la stessa forma». Lyceum Dicembre 2009 Percorso/Speciale Darwin Conclusioni. Questi diversi aspetti della teoria evoluzionistica non sono in contrapposizione tra loro ma testimoniano l’attualità e la vivacità del pensiero darwiniano. In effetti, è possibile considerare la teoria evoluzionistica come un work in progress, al quale nel tempo si aggiungono sempre nuovi tasselli. Altrettanto chiaramente va detto che non esiste un’unica ed esauriente teoria in grado di rendere ragione di tale fatto: le teorie evolutive per spiegarne i meccanismi, sono tante e diversificate ed è un’operazione culturalmente equivoca, anche se diffusa, quella di trasferire la certezza circa il fatto dell’evoluzione su una data teoria evolutiva attribuendo a quest’ultima indebitamente una validità che è ben lungi dal possedere. Anna Artillo Felicia Carbone Enza Filardi Viviana Limpido Alessia Volpe III A - Liceo Scientifico Docente referente Rosa Aliberti 144 Riferimenti bibliografici: Eldredge, N.; Gould, S.J. 1972: Punctuated Equilibria: an Alternative to Phyletic Gradualism. In Schopf, T.M. (ed.) 1972: Models in Palaeobiology. Freeman Cooper, pp. 82-115. Gould, S.J.; Eldredge, N. 1993: Punctuated Equilibrium Comes of Age. Nature 366: 223-227. Itinerari La sezione Itinerari, che in questo numero si apre con l’affettuoso ricordo del collega Gabriele Loguercio, prosegue con la presentazione dei successi dell’Istituto, in campo sia scientifico che umanistico. Le eccellenze che arricchiscono il patrimonio del “T. L. Caro” hanno sfoderato prove e prodotti davvero eccezionali. A testimonianza del fatto che, quando la didattica è al centro dell’azione dei docenti e la prospettiva metodologica sorregge lo studio che diventa razionale e consapevole, gli allievi si sentono proiettati in un agone stimolante e arricchente. Ma il Liceo di Sarno quest’anno, come ormai da anni, si cimenta anche in altri settori, ormai consolidati da riconoscimenti e successi, come la produzione artistica e il teatro, due settori teoricamente extra-curriculari, ma sostanzialmente orientati a consolidare l’offerta formativa. Dello svolgimento dei PON si darà ampia informazione nel prossimo numero. Per Gabriele N on sono io a cercare le parole, ma le parole a cercare me e a descrivere il dolore immenso per quanto la vita ti ha riservato: lasciare i tuoi cari, la tua casa, i tuoi libri, amici inseparabili e insostituibili lungo il cammino della professione di insegnante, apparentemente austero ma, in fondo in fondo, sempre dalla parte degli alunni, non in modo ostentato, ma sentito nel profondo del cuore e con un unico fine, indirizzare tutti verso l’amore per gli studi classici, arma sempre vincente. E le parole continuano a cercarmi, e a descrivere le appassionate discussioni politiche che in molte occasioni ci hanno indotto ad alzare la voce perché ognuno di noi voleva convincere l’altro della bontà della propria analisi e, naturalmente, dell’erronea posizione dell’altro. Parole che vanno a ricostruire i tanti momenti trascorsi insieme quali accompagnatori delle nostre classi in viaggi d’istruzione a Barcellona, a Lisbona, a Parigi. Quanti bei giorni trascorsi insieme ad altri colleghi e ad alunni gioiosi, entusiasti, a volte un po’ stanchi ma pronti a ricaricarsi per le uscite serali, in uno spirito comitale e goliardico che fa emergere aspetti e tratti della personalità che non sempre vengono alla luce nel chiuso delle aule sotto il ritmo incalzante che scandisce le giornate di lavoro intenso per insegnanti e alunni. Ma le parole si affollano, scalpitano, fanno a gara per mettersi insieme, in modo da descrivere il clima festoso del 19 giugno scorso quando, dopo l’ultimo Collegio dei docenti, ti abbiamo salutato con orgoglio e stima ma soprattutto con tanto affetto perché varcavi una soglia, quella che separa il docente in servizio dal docente in pensione. Ricordo che con le lacrime agli occhi e con un dolce e compiaciuto sorriso hai ringraziato tutti noi e poi in un orecchio mi hai detto: sono contento di veder coronata la mia carriera, ma anche triste perché lascio tutti voi, questa bella e grande famiglia, dal vissuto quotidiano fatto di alti e bassi, come ogni famiglia con i tanti problemi da affrontare e cercare di risolvere nel modo migliore, una famiglia che già mi manca tanto che non so come dal prossimo primo settembre 147 impiegherò le mie giornate. Ed io a ricordarti che tra una lettura e qualche preparazione, una passeggiata col nipotino e la cura delle cose a te più care non ti saresti accorto delle ore, dei giorni, degli anni che passano. E invece… Ecco la triste sorte che ti aspettava dietro l’angolo, ecco la beffa del destino a strapparti alla vita nel momento in cui avresti potuto goderne al meglio. Ed è per questo che invidio chi ha radicata in sé una fede profonda… Chi crede in modo assoluto sa che per te si è aperto un nuovo orizzonte. Angelina Rainone Lyceum Dicembre 2009 Itinerari I LABIRINTI 148 Man Ray, Venere restaurata, 1936 Milano, Collezione Schwarz Progetto di Arte Visiva DELLA BELLEZZA Q uando alla fine del ‘700, Johann J. Winckelmann disse che la bellezza, quale espressa nell’ineguagliabile scultura classica, era un principio perenne e non mutevole dell’Arte, propose qualcosa che il successivo corso della storia si affrettò a smentire fino alla forme antigarbate e scioccanti delle avanguardie. Nel corso del ‘900 poi, soprattutto nel primo decennio di questo terzo millennio, più di una manifestazione dell’arte contemporanea ci costringe a chiederci se quell’affermazione winckelmaniana non contenesse, non dico la verità assoluta, ma una delle tante verità , sia pure relative e talvolta irriducibilmente contraddittorie dell’Arte. Da questo interrogativo sulle diverse idee e forme della bellezza, nasce il progetto d’arte visiva di quest’anno. Gli alunni che sceglieranno di frequentarlo si porranno come obiettivo primario di dare uno sguardo proprio, alla bellezza vista più nella sua essenza, proiettandosi ed addentrandosi nei vari meandri e labirinti segreti delle diverse idee che l’hanno caratterizzata nel corso dei secoli: dal fascino archetipico della preistoria, all’idealizzazione estetica greco rinascimentale, dal sublime della natura alle provocazioni antiestetiche delle suddette avanguardie. Un argomento, quindi, che soprattutto dall’inizio del ‘900 ha aperto un dibattito contraddittorio su cui intellettuali, artisti e scrittori hanno detto tanto e scritto fiumi di considerazioni senza risposte. Ma forse è proprio 149 in questo il fascino della bellezza ed è proprio in questo interrogativo senza risposta che vogliamo addentrarci, realizzando dei manufatti artistici liberi nel corso del progetto che toccherà le cinque tematiche seguenti durante le 20 ore di lavoro in cui mi avvarrò della collaborazione della professoressa Adriana Buonaiuto: • Il fascino della bellezza primitiva nel linguaggio archetipo della preistoria. • La forza della classicità tra armonia e disarmonia. • Uno sguardo alla bellezza d’Oriente. • L’infinito della natura nella bellezza del sublime. • Lo spirito nuovo del ‘900 dalle forme astratte al profondo della materia. A fine corso, così facendo, quasi tutti i ragazzi, aldilà della validità dei risultati artistici ottenuti, avranno maturato una esperienza intrigante sulle varie forme della bellezza e soprattutto avranno vissuto una appassionante avventura intellettuale ed emotiva. Ernesto Terlizzi Docente referente Lyceum Dicembre 2009 Itinerari GIOCHI DELLA CHIMICA Nuova partecipazione, nuove vittorie S abato 9 maggio 2009 si è svolta, presso la Facoltà di Farmacia dell’Università di Fisciano, la fase regionale dei Giochi della chimica. Com’è consuetudine da qualche anno, gli alunni del Liceo classico “T.L.Caro” hanno partecipato con entusiasmo alla competizione, dando prova del loro valore, grazie al conseguimento di risultati soddisfacenti. Hanno contribuito ad esaltare il buon nome del liceo gli studenti del T.L.Caro che quest’anno hanno preso parte alla gara e che sono stati: - per la classe “A”: Ambrosio Giusy, Ambrosio Veronica, Caiazzo Francesca, 150 Carillo Consiglia, Giugliano Anna (attuale III MS); - per la classe “B”: Adiletta Carmela, Vastola Mario (attuale V MSA), Gaudiello Maria, Rendina Carmen (attuale V MSB), De Vivo Andrea, De Vivo Domenico, Perrino Aristide (ex V MSA), Ambrosio Antonio, Massa Nicola (ex V MSB), Sequino Alessandra (attuale 3 C classico); ed i docenti che hanno curato la loro preparazione: la prof. Ingenito, la prof. Langella, la prof. Fiore e la prof. De Masi. Occorre di certo ricordare che i Giochi della Chimica vengono organizzati annualmente dalla Divisione Didattica Chimica della SCI (Società Chimica Italiana) per conto del Ministero della Pubblica Istruzione e sono volti alla selezione della squadra italiana che parteciperà alle Olimpiadi Internazionali della Chimica, che quest’anno si sono svolte a Londra. La competizione si articola in tre classi di concorso: - classe A, riservata agli studenti del biennio; - classe B, riservata agli studenti del triennio; - classe C, riservata agli studenti degli istituti ad indirizzo chimico. Ogni partecipante è chiamato a rispondere a 60 quesiti a risposta multipla in 150 minuti; le classi A e B hanno in comune i primi 40 quesiti mentre gli ultimi 20 sono differenti; per la classe C tutte le 60 domande sono diverse da quelle delle altre categorie perché più specifiche. Il punteggio viene calcolato in base ai seguenti criteri: - + 3 punti per ogni risposta esatta; - 0 punti per ogni risposta omessa; - - 1 punto per ogni risposta errata. Anche quest’anno i risultati raggiunti risultano considerevoli. Per la categoria “A”, infatti, l’alunna Caiazzo Francesca ha raggiunto il terzo posto, mentre per la categoria “B” l’alunna Adiletta Carmela ha ottenuto una menzione speciale. Inoltre il Liceo “T.L.Caro” ha conseguito il secondo posto nella gara a squadre per la classe di concorso “A”, per merito di Caiazzo Francesca, Carillo Consiglia e Ambrosio Giusy. Infine è stata premiata la professoressa Maria Rosaria Langella per la preparazione di Francesca Caiazzo. La cerimonia di premiazione si è svolta Sabato 23 maggio 2009 presso la Facoltà di Farmacia dell’Università degli Studi “Federico II” di Napoli. Dunque anche quest’anno grazie all’impegno e al duro lavoro di insegnanti ed alunni, che con passione ed entusiasmo hanno dato il meglio di se durante la competizione, il liceo classico T.L.Caro ha mostrato le proprie qualità, la propria preparazione ed il proprio interesse per una disciplina importante come la chimica. Grazie alla partecipazione a questo tipo di iniziativa il nostro liceo aderisce ad un più ampio progetto finalizzato all’avvicinamento dei giovani alla chimica o, più in generale alla scienza; per questo motivo è ardente in noi studenti la speranza di ripetere esperienze che risultano essere così stimolanti e che ci permettono di confrontare le nostre capacità con quelle dei 151 nostri coetanei. Carmela Adiletta V MSA Lyceum Dicembre 2009 Itinerari Olimpiadi delle Scienze Naturali 2009 PREMI I l giorno 31/03/09 si è svolta la fase regionale della VII Edizione delle Olimpiadi delle Scienze Naturali promossa dall’ associazione ANISN (Associazione Nazionale Insegnanti Scienze Naturali). Le Olimpiadi delle Scienze Naturali perseguono i seguenti obiettivi: - fornire agli studenti un’opportunità per verificare le loro inclinazioni e attitudini allo studio e alla comprensione dei fenomeni e dei processi naturali; - realizzare un confronto tra le realtà scolastiche delle diverse regioni italiane; - avviare, alla luce del confronto effettuato con realtà scolastiche diverse, una rifles152 sione sugli eventuali aggiustamenti da apportare al curricolo di riferimento. La prima fase delle Olimpiadi è stata divisa in due categorie : biennio e triennio . Il Liceo “T.L.Caro”di Sarno ha partecipato al concorso con gli alunni : Ambrosio Giusy, Ambrosio Severino, Caiazzo Francesca, Giugliano Anna per il biennio, preparati dalla prof.ssa Fiore e per il triennio con Paduano Antonio, Vietri Giovanni, Pinto Martina, Rendina Carmen e Pandino Lucia preparati dalle professoresse Langella, Ingenito, De Masi e Fiore . La prova è articolata in 30 domande a risposta multipla divise tra Biologia e Scienze della Terra per il biennio, mentre per il triennio sono previste domande unicamente di Biologia da svolgersi in 45 minuti. Il punteggio viene calcolato in base ai seguenti criteri: 1. +3 punti ogni risposta esatta 2. 0 punti per ogni risposta omessa 3. -1 punto per ogni risposta errata Alla fine della fase regionale gli alunni del nostro Liceo hanno ottenuto ottimi risultati; in particolare per il biennio l ‘alunno Ambrosio Severino si è classificato terzo mentre Giugliano Anna si è classificata decima. Le premiazioni per i primi 10 classificati si sono tenute presso la Facoltà di Scienze dell’Università degli Studi di Napoli Federico II . Gli allievi dopo aver ascoltato una interessante conferenza su Frigento , osservatorio privilegiato sul paleolitico della Campania interna, sono stati premiati ricevendo libri e una pergamena come attestato di partecipazione . In particolare, l’ alunno Ambrosio Severino si è classificato in posizione utile per partecipare anche alla fase nazionale delle Olimpiadi , preparato ulteriormente dalla prof.ssa Fiore Anna Luisa.La prova si è svolta il giorno 09/05/2009 a Castellammare di Stabia nella splendida cornice dell’ Istituto Internazionale Vesuviano per l’Archeologia e le Scienze Umane. Alla finale nazionale hanno partecipato 100 studenti vincitori delle selezioni che si sono svolte in tutte le regioni d’Italia, accompagnati dai docenti referenti regionali. La gara ha visto competere più di quattrocento scuole e ha coinvolto complessivamente quasi ventiduemila studenti e ottocento docenti del biennio e del triennio della scuola secondaria superiore. Grande emozione ha suscitato l’ arrivo di J.D. Watson , icona mondiale della molecola della vita, il DNA . Grande generosità nel donare attenzione e tempo ai 100 giovani studenti pronti per la gara nazionale delle Olimpiadi delle Scienze Naturali . Il suo racconto di come sia avvenuta la scoperta della struttura della doppia elica ha contagiato tutti per l’ indomabile e ancora viva e vitale passione per la comprensione profonda dei segreti della vita. Il premio Nobel ha indossato la maglietta delle Olimpiadi , un gesto che ha espresso un augurio forte e un buon auspicio per i giovani talenti italiani. ....Straordinaria la risonanza! I test della fase nazionale si sono svolti similmente a quelli della fase regionale e l’ alunno Ambrosio Severino si è classificato in ottima posizione, distinguendosi tra gli allievi degli altri Istituti campani partecipanti alla selezione. Il giorno successivo si è svolta la cerimonia di premiazione dei vincitori. Erano presenti la Dott.ssa Annamaria Fichera, in rappresentanza del Ministero della Pubblica Istruzione, che ha evidenziato come le Olimpiadi rientrano tra le iniziative sostenute dal Ministero per promuovere le eccellenze degli studenti italiani. Una volta tornato a scuola Severino ha ricevuto i festeggiamenti dei suoi compagni ed i complimenti da parte del Dirigente, dei professori e di tutti gli alunni del “Tito Lucrezio Caro”. Auguriamo a tutti gli alunni del Liceo di ripetere questa magnifica esperienza per dimostrare la qualità dell’offerta didattica di questa scuola. II MS 153 Lyceum Dicembre 2009 Itinerari PREMIO “INNER WHEEL” Antiche o nuove regole? Il comportamento nella scuola tra etica e regolamento Dalla parte delle regole Antiche o nuove regole, nella scuola di oggi? Ci verrebbe da rispondere: semplicemente regole. Scegliere, infatti, le antiche regole significherebbe unirsi al coro di coloro che lodano in maniera indiscriminata tutto ciò che appartiene al passato, senza tener conto dei cambiamenti che la società e la scuola hanno subito. In una lettera pubblicata sul Corriere della sera l’1/8/2008, l’ex ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Berlinguer, critica, appunto, lo stereotipo della laudatio temporis acti, dominante in Italia, e l’abitudine a comparare situazioni non omoge154 nee. La scuola di oggi è, infatti, molto diversa da quella del passato e, per fare un solo esempio, gli alunni, in circa cinquant’anni, sono aumentati di sette volte. Scegliere, viceversa, le nuove regole è decisamente arduo, perché di regole nella nostra società e nella scuola di oggi sembra che ce ne siano davvero poche. O meglio, le regole ci sono, ma difficilmente vengono fatte rispettare. Eppure, come scrive Mario Pirani su La Repubblica, in un articolo del 2005, l’assenza di vincoli e divieti facilita l’estendersi di fenomeni negativi e il bambino, prima, e il ragazzo, poi, vivranno con meno frustrazioni ma, una volta nella società, pagheranno caro il prezzo. Anche a questo proposito un solo esempio: il fenomeno del bullismo. Dunque, abbiamo scelto di stare dalla parte delle regole, senza aggettivi o specificazioni. La cosa sembrerebbe scontata, perché oggi tutti parlano della necessità di regole, ma non moltissimi anni fa, in tempi di permissivismo educativo, questa scelta sarebbe stata giudicata senz’altro negativamente. Certo, a tutti piacerebbe una società in cui ogni individuo si comporti secondo quella voce interiore che Socrate chiamò daimon e noi chiamiamo coscienza. L’imposizione di un regolamento appare spesso come il fallimento della capacità di autoregolazione del comportamento e dell’etica del singolo e l’obiettivo più alto in campo educativo è, senz’altro, l’acquisizione di una morale che faccia agire gli individui non per conseguire premi, come le foche ammaestrate, ma con la consapevolezza che il bene per sé è il bene per tutti. Tutta- via, la realtà non ci consente di avere una visione completamente ottimistica dell’animo umano e ci ha dimostrato che le regole sono necessarie sia per il singolo, che acquisisce delle certezze, sia per la società, che si presenta ordinata e sicura. Così come sono necessarie le punizioni, nel caso che le regole vengano trasgredite. Dalla parte della comprensione Certamente non si può ignorare che le regole non sono ben viste dai giovani perché sono vissute come una limitazione alla libertà. Esse fanno, insomma, storcere il naso e, spesso spingono ad infrangerle. Un esperto di problematiche giovanili, il dottore Ingrascì, in un intervista rilasciata al Corriere della sera scrive che “in genere, durante l’adolescenza il ragazzo agisce con trasgressione, mette in discussione regole educative e sociali, ha bisogno di autonomia per dimostrare al mondo che non è più un bambino”. Per questo, un educatore intelligente non imporrà solo regole e non darà solo punizioni, ma cercherà di motivare i suoi alunni, sostenerli con incoraggiamenti ed elogi per permettere loro di vivere positivamente il momento scolastico. Quest’ultimo obiettivo, poi, non è di secondaria importanza, soprattutto se si pensa ai tanti episodi di violenza che si stanno verificando nelle scuole di vari paesi evoluti ad opera di giovani studenti ed ex studenti che hanno maturato rancori o risentimenti per vere o presunte vessazioni. Per dare una risposta a questi problemi, di disciplina da un lato e di dialogo dall’altro, può essere utile ricordare che molte scuole, nei loro POF, hanno previsto delle norme di comportamento per studenti e studentesse ed attivato centri di ascolto e consulenza per alunni con difficoltà relazionali o psicologiche. Tuttavia, anche noi vogliamo dare un contributo pratico, proponendo un decalogo che dia i principi fondamentali ai quali devono attenersi i principali protagonisti del processo educativo scolastico, gli studenti e i docenti. Esso, lungi dall’essere un regolamento d’istituto, come ce ne sono tanti nelle nostre scuole, vuole essere una sorta di Costituzione che stia alla base di un sereno e corretto rapporto tra insegnanti e alunni. Decalogo per docenti e discenti Il docente deve: 1- essere modello di vita per i propri alunni, mostrandosi autorevole ma non autoritario. 2- far comprendere la funzione dei ruoli, senza pericolose confusioni. Amici degli studenti sono i loro coetanei; la cordialità, che deve caratterizzare i rapporti, non va 155 confusa con altro. 3- dare poche prescrizioni, ma farle rispettare. E’ inutile che minacci punizioni che sa già che non comminerà, pena la perdita di credibilità. 4- guardare negli occhi i propri alunni, cercando di coglierne malesseri e turbamenti. Le stragi nelle scuole ad opera di giovani studenti non si combattono solo suggerendo norme di difesa, ma cercando di prevenire situazioni di disagio. 5- mostrare competenza e serietà nel proprio lavoro. L’alunno deve: 1. ricercare il senso delle cose che fa. Se frequenta la scuola per compiacere i genitori o perché non ha nulla di meglio da fare, non troverà mai la sua vera strada. 2. comprendere che la lezione in classe ha bisogno dell’apporto di tutti e, perciò, partecipare con interventi e contributi che aiutino anche i compagni in difficoltà. Lyceum Dicembre 2009 Itinerari 3. cercare di mantenere vive la curiosità e la volontà di capire che caratterizzano i bambini e si affievoliscono, invece, con il tempo. Anche da adulti è utile chiedere e chiedersi: perché? 4. ritenersi un privilegiato perché in tante parti del globo ci sono ragazzi della stessa età che non possono frequentare le scuole e, invece, vorrebbero farlo. 5. capire che la sua formazione, sulla quale lo Stato investe tanti milioni di euro, è necessaria per la sua realizzazione personale ma anche per il progresso di una nazione che, proprio per gli scarsi risultati nell’istruzione, rischia di essere destinata al declino. I C - Liceo Classico Questo saggio è stato insignito del primo Premio al Concorso bandito dall'Associazione “Inner Wheel” di Nocera Inferiore-Sarno 156 PREMIO ALBATROS/ 1 Sono ricordi… 157 Una finestra, immenso sguardo verso l’avvenire: sagome confuse ondeggiano tra le vie e gli alti lampioni della città. Le ombre della mia vita si rincorrono sull’asfalto... poi l’oscurità mi avvolge, in un caldo abbraccio materno. Lenta, si consuma la candela al buio, toglie il fiato e crea spettacoli di luce incomprensibili, ed io tesso, paziente, attimo dopo attimo, la ragnatela del mio presente di variopinti e fragili fili di seta. Ricordi, per creare l’illusione di un’effimera eternità: sono miei, nessuno li può violare, possono ingrigire, ma nessuno mai li potrà cancellare, ancore tra le tempeste della vita, libri da sfogliare nei malinconici pomeriggi autunnali, luce che illumina e guida il mio cammino verso il domani. Ad un passo dall’orizzonte indefinito, inizia la mia storia di sogni infranti, ancora da realizzare, gioie immense troppo brevi da assaporare, battaglie perdute o mai combattute, vittorie troppo belle da intrappolare con l’inchiostro. Lyceum Dicembre 2009 Itinerari Attimi infiniti si posano gli uni sugli altri, polvere di matite colorate riempie magicamente i cassetti del mio cuore; come nella roccia scolpisco secondi troppo fugaci, in un tempo che tutto travolge e poco lascia, per fermarli, tenerli al sicuro dentro di me o talvolta, invano, tentare di distruggerli. Occhi coperti da un velo che non si può risollevare vagano come un valoroso cavaliere nella fitta nebbia del domani; cerco il sole, un brivido che scaldi, una dolce salsedine, mentre nell’animo si agita l’ansia del futuro. Poi l’alba, finalmente, segna il labile confine tra “ero” e “sono”; una frizzante brezza mattutina inonda i teneri polmoni di una forza sempre nuova: un passato ingiallito si posa sulla mia spalla, mentre ricomincio a tessere i miei ricordi, ad intrecciare una trama così resistente, da sopportare il peso di enormi manciate d’attimi, ma fragile ed esile, da non tollerare una lacrima. Un nuovo sole oltrepassa le nuvole dell’esistenza... fugge, come un ladro, verso l’avvenire: il ricordo. Nuovi cieli e nuove terre, orizzonti sconosciuti si stagliano dinanzi ai miei occhi e si risvegliano nel profumo di primavera; ali di vento mi accarezzano, mi abbracciano, mi avvolgono in silenzio. 158 Valentina D’Avino III B 2009 - Liceo Classico A questa poesia è stato assegnato il Premio Nazionale Albatros 2009 per la poesia (Primo posto) PREMIO ALBATROS/ 2 Tutta la mia vita in quelle parole M i trovavo, in un pomeriggio di fine estate, seduta su una panca della stazione. Le nuvole erano ancora cariche di pioggia, e dovunque si scorgevano i segni e le tracce del temporale che prima aveva imperversato sulla città. Era strano come tutto sembrasse diverso dopo la pioggia. Pi c c o l e g o c c e pendevano da qualsiasi oggetto o edificio; persino l’orologio che segnava le 17:00 era grondante d’acqua. Non c’era un’anima in quella stazione, o almeno mi sembrava che non ci fosse nessuno, forse perché non avrei comunque, visto nessuno. Tutto era vuoto e silenzioso. L’unica cosa che si udiva era il picchiettio leggero delle ultime gocce di pioggia che rimbalzavano leggiadre sulle pozzanghere e che si andavano ad aggiungere al resto del copioso mucchio. Avevo lo sguardo fisso nel vuoto, come cercando qualcosa o qualcuno che mi risvegliasse, che mi scrollasse di dosso quel torpore che mi stava annichilendo, che mi riportasse alla realtà. Lacrime distratte scendevano lungo le mie guan- 159 ce, creando solchi invalicabili nella mia anima. Si rincorrevano, lente e umide, confondendosi con le ultime gocce di pioggia. Rigiravo tra le mie dita quel biglietto, che ogni minuto diventava sempre più sgualcito e consumato. Piccolo, bianco, insignificante, eppure sembrava pesare come marmo tra le mie mani. Era da quasi un’ora che lo rigiravo e lo accartocciavo, sperando che i caratteri neri si unissero agli spazi bianchi cancellando per sempre quello che c’era scritto, quel che era stato e non avrebbe mai dovuto essere. Ma non era possibile, pensai con rabbia. Quel che c’era scritto sarebbe rimasto lì in eterno, sarebbe stato inutile buttarlo via, bru- Lyceum Dicembre 2009 Itinerari ciarlo, lasciare che il vento lo portasse lontano. Il suo significato non sarebbe mutato e avrebbe comunque lasciato un’orma indelebile dentro di me. Quel minuscolo biglietto sembrava ingigantirsi tra le mie dita, come a voler cercare di attirare l’attenzione su di sé. Sapevo che dovevo leggerlo, 160 ma non ne avevo la forza. Lo lasciai cadere nella tasca della mia giacca e chiusi gli occhi, lasciandomi cullare dal suono della pioggia e del vento. Mi chiedevo com’era possibile che tutto ciò accadesse, che per qualche strano scherzo del destino fosse capitato l’inimmaginabile. Avevo letto storie di persone sopraffatte da sentimenti così forti da offuscare la vista e tutti gli altri sensi, e forse questo era uno di quei momenti. Il dolore era così grande, che, pur aprendo gli occhi, sapevo che non avrei visto altro che un baratro senza fondo. Non sentivo altro che le tacite grida che la mia bocca avrebbe emesso, se avesse potuto. Cercai di isolare le singole parti del mio corpo, ma era come se la sofferenza si fosse impossessata di tutta me stessa. Non riuscivo nemmeno a muovere le dita. Mi lasciai accarez- zare dal dolore. Divenni parte di esso. Mi sembrava di stare al confine della vita, come se un muro avesse diviso per sempre la mia esistenza prima e dopo ciò. Stavo lì a crogiolarmi nel mio dolore, quando rammentai che tu non avresti voluto questo, non l’avresti voluto mai. Tu non mi avresti mai permesso di rinchiudermi nei ricordi e di smettere di vivere. Era inutile dirmi che ero forte, non lo ero più. Ero spezzata, dilacerata, ma dovevo reagire. Io che avevo sempre vissuto in un mondo tutto mio, dovevo scendere in campo e affrontare la realtà. Pian piano aprii gli occhi. Aveva smesso di piovere, anche le ultime gocce di pioggia stavano sparendo, insieme alle nubi e alle mie lacrime oramai asciutte. Mi alzai di scatto e mi guardai intorno. La scena di fronte ai miei occhi era sempre la stessa. La stessa stazione grigia e desolata, ma avevo capito che il mio posto in quel momento non era lì. Presi il primo treno che passava, e arrivai dove non ti avrei mai voluto vedere. Una folla umana mi precedeva. Uomini, donne, bambini, anziani. Persone diverse, unite dal dolore, sembravano stringersi le une con le altre in un unico grande abbraccio. Mi feci largo tra quella moltitudine e varcai le porte di quel luogo. File di stendardi americani si intervallavano a immense composizioni floreali. Le bandiere sembravano danzare al suono di una musica inesistente, mentre tutti con lo sguardo vitreo fissavano gli occhi al suolo, incapaci di alzare il capo e guardare la realtà dritta negli occhi. Il prete stava quasi per finire il suo discorso lungo ed elaborato, ma le sue parole mi sembravano prive di senso, vuote, ce ne sarebbero volute mille e mille altre per descriverti. Il tempo parve fermarsi lì in quella enorme chiesa di New York.Non pensai alla mia situazione, alle centinaia di persone intorno a me che probabilmente soffrivano esattamente nello stesso modo, non pensai a cosa era successo, e non pensai nemmeno a te, semplicemente smisi di pensare. All’improvviso tutti si allontanarono e la immensa sala si svuotò, o almeno così mi parve, ma io rimasi per un altro po’ seduta lì immobile, aspettando che tu uscissi insieme a me da quel luogo. A distanza di anni, l’11 settembre verrà ricordato da tutti come la tragedia che ha cambiato la storia moderna, che ha dimostrato come la nazione più potente, più forte e temuta al mondo potesse essere colpita nel profondo un mattino come un altro. L’immagine delle Twin Towers, emblema della metropoli più famosa al mondo, avvolte da una densa coltre di fumo nero, s’impossessò delle menti di milioni di persone. Si aveva paura di quel che si credeva l’impossibile, mentre i nomi dei morti aumentavano ora dopo ora, insieme a quelli dei feriti e dei dispersi. Tutti si sentivano Americani, ma quelli che lo erano veramente riuscivano solo a chiedersi: “Perché?” Quando trovai la forza di alzarmi dalla mia panca e di avviarmi verso l’uscita, ricordai il tuo biglietto nella tasca della giacca. Lo presi. Era il tuo ultimo messaggio prima di morire, tu, diversamente dagli altri, avevi almeno potuto dare 161 l’estremo saluto alla vita in un ospedale, anziché tra le macerie di un grattacielo: Lyceum Dicembre 2009 Itinerari “Continuerò a vivere attraverso te, ma tu non morire a causa mia.” Le tue semplici parole lasciarono la pagina e si riversarono dentro di me, nella voragine al centro esatto del mio petto. Era come se tutta la mia vita fosse confluita in quelle parole, e loro in me. Il biglietto che ora mi sembrava leggerissimo, ormai era solo un vuoto foglio bianco, così come mi sembrava la mia esistenza senza di te. Lo lasciai insieme ai tanti altri ricordi, foto e scritti dei parenti delle vittime lì nella chiesa, e uscii fuori. 162 Mi sentivo leggera, quasi evanescente, come se avessi lasciato tutto, dolore, frustrazione, rabbia, malinconia, anche il mio stesso corpo, lì dove era sepolto il tuo. La folla si era diradata, le nuvole erano scomparse, e il sole languidamente donava i suoi ultimi raggi della giornata alla città silenziosa e calma. Guardando il cielo, ricordo che mi sembrò quasi impossibile osservare che tu te ne eri andato, e che c’erano ancora cose normali come un tramonto. Luisiana Levi III B - Liceo Classico A questo racconto è stato assegnato il Premio Nazionale Albatros 2009 per la narrativa (Secondo posto) La nuova avventura teatrale dell’Allegra Brigata tra letteratura e spettacolo “A Le maree dell’animo femminile l centro dei Fiori del male di Charles Baudelaire vi è il tema del viaggio, che diventa la chiave per affrontare il problema dell’esistenza e delle possibilità di riscatto poetico attraverso l’evasione in un altrove, in un virtuale spazio dell’anima prima che del corpo. Accedere a tale dimensione consente di scavalcare i condizionamenti di una società, che si illude di trovare nella razionalità le risposte ai suoi problemi. Questo altrove corrisponde allo spazio aperto del mare, metafora della libertà, che, con il suo dilatarsi ampio sulla sfera dell’orizzonte, allude alla spazialità seducente dell’apertura alla natura. Il mare però è anche specchio dell’animo turbato, ansioso e instancabilmente coinvolto “... nell’infinito srotolarsi dell’onda...”. Il mare è “... abisso non meno amaro” è “lamento indomabile e selvaggio” in cui si riflettono i turbamenti profondi ed inconsci dell’io, inconoscibili, La lettura di Baudelaire nonché dell’ultimo romanzo di Isabelle Allende che come gli altri parla sempre dell’animo femminile che nel corso della storia ha sempre dovuto combattere per riscattare la propria indipendenza e la propria posizione in una società da sempre maschilista ha rappresentato per l’Allegra Brigata il punto di partenza per costruire un canovaccio scenico tra poesia e romanzo sulle donne, su quelle piene di passione e di fermezza, capaci di grandi amori e di grandi battaglie. Come le eroine di Isabel Allende il testo che sarà portato sulla scena a giugno dai nostri giovani attori reca il medesimo tratto dominante: la passione. Sono le passioni a scolpire il destino di queste donne, alleanze, al muoversi febbrile dei personaggi più diversi - soldati e schiavi guerrieri, sacerdoti e frati cattolici, matrone e cocottes, pirati e nobili decaduti, medici e oziosi bellimbusti. Contro il fondale animatissimo della storia, la protagonista dello spettacolo, spicca Lyceum Dicembre 2009 163 Itinerari bella e coraggiosa, battagliera e consapevole, un’eroina modernissima che arriva da lontano a rammentarci la fede nella libertà e la dignità delle passioni. Il nostro carrozzone sarà come sempre guidato dalle docenti referenti Antonella Esposito e Grazia Celentano a cui si affiancherà la presenza del regista e attore Antonio Avigliano. Il nostro viaggio tra scene, costumi e musiche sarà condotto dagli stessi ragazzi che avranno 164 l’opportunità di esprimere la loro creatività, le loro competenze e le loro attitudini perché possano avvertire la rappresentazione stessa come qualcosa che li coinvolge nella sua totalità e complessità. Il senso del laboratorio è questo ossia un’officina di saperi in movimento che nella ludica creazione diventa un momento significativo del percorso culturale e ed educativo di ogni discente. Antonella Esposito Il nuovo lavoro teatrale della Nave dei Folli Il Potere in scena Esistono persone speciali. Che combattono non con la loro forza fisica o con il potere esercitato sugli altri. Ma con le loro idee, i loro sogni, le loro utopie. Sono, queste, le persone che hanno cambiato il mondo e lo hanno reso migliore o, comunque, capace di affrancarsi da uno stato di minorità, in cui i “pezzi grossi” vorrebbero mantenere i “pezzi piccoli”. Perciò il nuovo lavoro teatrale della Nave dei Folli denuncia polemicamente il Potere, quello incarnato da chi ha dalla propria parte i ceti dominanti, gli strumenti della forza economica e militare, i megafoni delle ideologie di massa, con cui appiattire le menti di coloro che vengono messi in condizione di “non pensare”: un ignorante fa più comodo a chi comanda di un cervello pensante. La Nave dei Folli, fedele alla sua tradizione -ormai quindicennale- di riscrizione dei grandi Classici latini e greci (quelli che parleranno per sempre al cuore dell’uomo), con il suo Progetto teatrale Il Potere in scena, intende individuare i protagonisti della Storia che, con il loro esile corpo, sono stati capaci di fermare eserciti furiosi e sovrani armati. Quei sovrani, che non vogliono vedere, che non vogliono sapere. Quei sovrani, che sono incapaci di sentimenti nemmeno quando madri silenziose unite nel dolore a giovani donne, piangono il corpo del figlio o dello sposo, la cui giovane esistenza è stata mietuta come tenero grano dalla Nera Signora con la falce e con la clessidra. Lo Spettacolo, che sarà presentato in Festival e Rassegne nazionali, è incentrato sul testo scritto da Franco Salerno, sulla regia di Fulvio Montuoro e Franco Salerno, sulle musiche di Ciro Ruggiero e sugli effetti speciali di Francesco Coppola (aiuto regia: Viridiana Myriam Salerno e Francesco Mancuso). Il Potere in scena intende proporre l’attenzione ai valori che vivono -non scritti- in un angolo del Lyceum Dicembre 2009 165 Itinerari nostro cuore. Ed educare i giovani, spesso disviati da disvaslori e disabituati al segreto del mondo, a capire la bellezza delle cose incantevoli. Ma a sapere anche al tempo stesso, con struggente nostalgia, che esse, appena scoperte, svaniscono, durando solo un respiro di vento. Perciò il nostro lavoro, configurandosi come un antico-nuovo musical, punta anche sulla musica, sul canto e sulla danza. La cosa più dolce al mondo, le note musicali, nel nascere già fuggono 166 e trascorrono: esse, eterei soffi e aliti sommessi, durano solo quanto un battito del cuore. Di contro alla fragilità delle cose belle qualcosa di forte si accampa (e i nostri giovani attori lo grideranno forte): la speranza, parola di vento ma anche di fuoco. E noi la cantiamo. Perché, nonostante il dolore e l’errore, speriamo. Speriamo, soffriamo e tuttavia cantiamo. Franco Salerno Fulvio Montuoro