n°38 - Dicembre 2009

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Lyceum
n. 38 - Dicembre 2009
Editoriale
Soltanto investendo
sulla Scuola è possibile
superare quest’epoca
di passioni tristi
Un altro anno è cominciato, il mio secondo
qui a Sarno, un anno, se mi è consentito utilizzare questa espressione, ancora più difficile di
quelli che lo hanno preceduto, non tanto per le
notizie allarmanti che provengono dal mondo
dell’economia, quanto per i durissimi interventi
sulla scuola. Un anno non facile per il disagio, le
incertezze e le preoccupazioni che è possibile avvertire nel nostro ambiente,
dove tutti, e ribadisco proprio tutti, si interrogano su
quale strada seguire per far
funzionare meglio la scuola
a fronte del grande impoverimento delle risorse umane
e finanziarie.
Accanto all’attuazione dei
tagli agli organici, quest’anno
la nostra scuola sarà interessata alla riforma dei licei che
riconduce tutti gli indirizzi
ad ordinamento, non consentendo di mantenere le
sperimentazioni avviate.
Non è e non può chia-
marsi riforma questo intervento legislativo, che
non si basa su analisi approfondite e che non
tiene presente tutto quanto la Scuola militante
ha realizzato negli ultimi decenni; si tratta di una
riforma che, al momento, non ha un progetto
forte, ma soprattutto manca ancora di contenuti
e finalità e, quindi, di futuro.
Tutto è ricondotto solo a quadri orari ed
Lyceum Dicembre 2009
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impoverimento di risorse umane e finanziarie.
Siamo molto attenti a seguire tutta la vicenda
legislativa. In questi giorni la “Bozza” è in Parlamento, e con la ragione, con l’orgoglio e la
credibilità di una lunga storia di organizzazione,
di sperimentazione e di scuola di qualità siamo
determinati a garantire, qualunque sia la decisione politica, la prosecuzione del corso di studi
sperimentale almeno per le attività laboratoriali.
Lo faremo per l’impegno che abbiamo assunto
con l’utenza e per la professionalità e la dignità
che ci ha sempre contraddistinti.
Ogni giorno, ci sforziamo di offrire il meglio,
proponiamo soluzioni, cerchiamo confronti, ma
soprattutto difendiamo il valore vincolante della
scelta delle famiglie in merito agli indirizzi di
studio, alle lingue, all’arricchimento dell’Offerta
Formativa e lo faremo anche per ciò che concerne
Il modello orario di funzionamento scolastico.
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Gli alunni e le famiglie, pertanto, stiano tranquilli: tutte le attività avviate saranno confermate,
anzi, proprio in momenti come questi, c’è la volontà e la determinazione, da parte di tutti noi, di
fare meglio e di più. Il quadro orario e i progetti
dal teatro a quelli di lingua, dall’ECDL ai “Certamina” saranno confermati se non ampliati.
Inoltre, quest’anno è in cantiere di far decollare il sito della scuola, in modo da migliorare e
favorire la circolarità delle comunicazioni, con
indubbi vantaggi per tutti.
Certo, sul piano strutturale, le note continuano ad essere fortemente negative, anzi peggiorano giorno dopo giorno e su questo versante
c’è bisogno veramente di tutti quelli che hanno
a cuore il “Tito Lucrezio Caro”. Questa scuola,
la nostra scuola, che è stata e vuole continuare
ad essere per Sarno una finestra ed un punto
di riferimento per tutto l’Agro, non può essere
ghettizzata. Gli utenti sono minorenni e non
possono muoversi in maniera autonoma. Se si
vuole costruire un edificio in periferia, lo si faccia,
ma è necessario pensare a potenziare il trasporto
pubblico locale. Diversamente si tratta di una
realizzazione avulsa da qualsiasi seria program-
mazione territoriale e lontanissima dai parametri
di efficienza ed efficacia di cui si parla tanto in
politica e nell’Amministrazione. Il risparmio è
assicurato, il continuare a volare alto no!
L’anno che si è appena concluso ha fatto
registrare all’Esame di Stato, ben 25 allievi con il
massimo dei voti e tre di essi con l’attribuzione
della lode (Chiara D’Ambrosio, Valentina D’Avino
e Anna Arpaia). Una menzione particolare va fatta
all’allievo Nappo Francesco (5MC) che agli esami
di Stato è stato ammesso con il massimo dei voti
in tutte le discipline, una media mai registrata
nella storia del nostro Liceo. Nel corso dell’anno
scolastico molti allievi si sono distinti in diverse
manifestazioni regionali e nazionali sulle discipline studiate. Tra costoro non è possibile non
menzionare Alfonso Quartucci (IV MC), primo
classificato nel premio “Valitutti”, Michele Casillo
della V MSB, quinto classificato al “Certamen” a
Napoli, Francesco Nappo (V MC), settimo classificato al “Certamen” a Bassano del Grappa, gli
studenti della II A e II C del Liceo Classico e della
V D del Liceo Scientifico per il Progetto “Vivere il
mare”, la I C, del Liceo Classico (prima classificata
al Premio “Inner Wheel”), le alunne Valentina
D’Avino (III B del Liceo Classico) e Luisiana Levi
(II B del Liceo Classico), rispettivamente prima e
seconda classificate al “Premio Albatros”.
Questo non vuole essere un orgoglioso canto
di vittoria; è semplicemente la testimonianza
di un lungo impegno e l’annotazione di alcuni
risultati del lavoro fatto con passione e spirito
di sacrificio. Per noi è questo: dire le cose come
stanno, fare i conti con il contesto e con le condizioni date, non illudere la gente, non far credere
l’impossibile. Non ci fermiamo: il nostro impegno
continua. Non abbandoniamo il nostro progetto
di Buona Scuola, perché crediamo che soltanto
investendo sulla scuola sia possibile superare
quest’epoca di passioni tristi.
Giuseppe Vastola
Dirigente Scolastico
Liceo Classico, Scientifico e Linguistico
“T. L. Caro” - Sarno (Sa)
Strumenti
Decisamente ricca la sezione Liminarismo, per la varietà di contributi in quanto ad argomenti
proposti e a modalità di scrittura.
Come sempre, efficace l’intervento del Prof. John C. McLucas della Towson University che,
con linguaggio semplice e allo stesso tempo gravido di significato, ci presenta il Presidente
Obama, africano con trattino, alle prese con le sfide del mondo di oggi e con la scommessa
di gettare le basi per una nuova identità nazionale. Con un salto nel passato, Margherita
Pampinella-Cropper, della stessa università, ci propone Stazio quale alter ego di Dante e, per
rimanere in tema, ci si dà la possibilità di leggere in chiave liminare il comico della Commedia.
Non meno interessanti la nuova ermeneutica dei sette vizi capitali e il viaggio dell’ulisside
tra arethê ed entropia planetaria, così come l’intervista a Maram Al Massri, poetessa liminare
tra Siria e Francia, che ama definirsi abitante della terra, ma anche il problema del confine fra
democrazia e dittatura.
E poi un intreccio di letteretatura, teatro, cinema e musica con la storia di Romeo e Giulietta
che si muove tra confini labili e suggestivi, la rappresentazione scenica, in terra d’Otranto, del
romanzo L’ora di tutti di Maria Corti, il tentativo di Tornatore di fare storia, in Baarìa, sganciandosi da parametri tradizionali, e, sempre nel segno della cultura-creativa, la figura di Giuseppe
Martucci, compositore alternativo del tardo Ottocento italiano…
Manifesto del Liminarismo
Nella società contemporanea, complessa, stratificata e dinamica, appare utile – a livello
metodologico – porre attenzione non solo alla struttura generale e compatta di un fenomeno,
ma alle sue interne, sottili e impercettibili parti, perennemente soggette a modificazioni e a
reinterpretazione e profondamente in contatto fra loro attraverso una serie di linee di “soglia”
(limen) e di “confine” (limes).
In tale ottica (definibile pertanto come liminaristica) diventa interessante studiare i
passaggi da un’epoca a un’altra, da un fenomeno a un altro, da una concezione a un’altra ed
analizzare:
• il senso del limite e della soglia che viene continuamente varcata e spostata nelle tappe
dell’esistenza vista come “formazione” e “costruzione” nell’ambito di una visione, che,
pur se cangiante, non è relativistica;
• il senso dell’impegno culturale come ricerca di un orizzonte di valori e di significati delle
azioni: la crisi della società contemporanea può essere attribuita a una mancanza di
senso da dare alle cose;
• i nessi fra fenomeni diversi o contrapposti (ad es. tra religione e magia o tra cultura alta e
cultura popolare o, più generalmente, tra passato e presente), che spesso sono alla base
dell’identità di una nazione o di una comunità;
• il valore dell’integrazione fra gruppi etnici diversi e dell’apertura verso l’altro;
• la funzione del diritto in regime di democrazia e in regime di dittatura;
• il carattere di margine e di eccentricità (nel senso di “fuori dal centro”) evidente in tutti
i personaggi, gli eventi, le idee di avanguardia e di innovazione;
• il carattere, anch’esso positivo, della marginalità (come scrigno di conoscenze tradizionali) delle culture popolari;
• il ruolo della contaminatio fra culture diverse;
• la demarcazione fra la normalità e la “a-normalità”;
• il valore euristico del dettaglio, che, talvolta in un’opera d’arte può configurarsi come
rivelatore in maniera più proficua dell’aspetto macroscopico;
• il confine fra il gioco come piacere e il gioco come malattia;
• il tasso potenziale di innovazione insito in un’operazione di traduzione, intesa come “tradurre”, “tramandare”, “tradire”, in una parola, riscrivere, reinterpretare, transcodificare
e dunque personalizzare in maniera originale e irripetibile un testo;
• il superamento del limite come propensione verso la conoscenza;
• il concetto matematico di limite come valore al quale tendere;
• il processo, nella ricerca scientifica, “per tentativi e per errori”.
La Direzione e la Redazione di Lyceum
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Strumenti/Liminarismo
Manifesto of Liminarism
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In light of contemporary society, complex and dynamic stratification, we believe the time
is right to pay attention - at a methodological level - not only to the general concrete structure
of a phenomenon but also to its internal, subtle, almost imperceptible parts. These are always
subject to modifications and new interpretations, and are linked at a deep level by means of a
network of lines corresponding to both “threshold” (limen) and “boundary” (limes).
According to this vision of the world (which we call Liminarism), it is intriguing to study
the transitions between eras, phenomena, and concepts, and to analyze the following:
- the sense of both limit and threshold, constantly crossed and/or displaced through the
stages of a life understood as “formation” and “construction”, in the context of a vision
which, while certainly subject to change, is not merely relativist;
- the sense of cultural engagement as the search for a horizon of values and of meaning
in actions: the crisis of contemporary society can be attributed to a failure to find any
meaning to give to things;
- the connections among diverse or contrasting phenomena (for example, between religion
and magic or between high culture and popular culture, or, more generally, between past
and present) on which national or community identity is frequently based;
- the value of integration among diverse ethnic groups and openness to the other;
- the function of law within both democratic and dictatorial regimes;
- the marginal, eccentric character (“eccentric” in the sense of “outside the center”) which
appears in all persons and events and in avant-garde or innovative ideas;
- the marginal character of folk-cultures (which may in fact be a positive advantage) as
repositories of traditional knowledge;
- the role of contaminatio among differing cultures;
- the line between normality and “ab-normality”;
- the interpretive and investigative importance of details, which may sometimes yield
richer insights into a work of art than its macroscopic aspects;
- the boundary between play as a form of pleasure and play as a form of illness;
- the potential for powerful innovation implicit in the act of translation, understood as
“translating” [tradurre], “handing down” [tramandare], and “betrayal” [tradire] - in a
word, rewriting, reinterpreting, recodifying, and hence personalizing a text in a deeply
original and unrepeatable form;
- the crossing of boundaries as a movement towards knowledge;
- the mathematical concept of limits as a value to be striven for;
- the process of “trial and error” in scientific research.
The Directors and Editors of Lyceum
La traduzione in lingua americana del Manifesto del Liminarismo è stata realizzata dal Prof.
John McLucas, Capo del Dipartimento di Lingue Straniere all’Università “Towson” di Baltimora.
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Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua araba dalla
Prof.ssa Maria Albano dell’Università di Macerata
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John C.
McLucas
Chair Department of
Foreign Languages
Towson University - USA
Obama
The Liminar
President
M
y country can seem strange at times, even to me. Here in
the United States, we have always lived a double life: we
are both a heterogeneous immigrant people – a brilliant mosaic of endless
variety – and a nation almost naively willing to
align itself behind a powerful symbolic system of
icons and idols. Just wave the flag, sing “The StarSpangled Banner,” mention September eleventh
for the millionth time, and we respond automatically with a sense of unity and shared experience,
the psychological equivalent of fried chicken and
apple pie. Our national unity takes special force
from our bizarre dislike of foreigners – and I call
it “bizarre” because almost all of us arrived here
from abroad. We like to define ourselves as not
foreign, not newcomers on this continent, and we
look with suspicion on the rest of the world, which
seems (or so we tell ourselves) to envy our liberty
and prosperity and which simply doesn’t get us.
The united front we present against the foreign
Other unfortunately doesn’t prevent the persistent survival of prejudice and injustice against
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Strumenti/Liminarismo
the domestic Other. Often we hear Americans ask
plaintively, “Why can’t we all be just Americans, not
“hyphenated Americans.” This exasperated and
defensive question is usually posed by white, conservative, economically advantaged Americans in
the face of social protests by minorities, ethnic
or demographic groups which feel excluded or
marginalized by mainstream American culture.
Among the many voices of protest, perhaps the
most deeply-rooted in historical wrong is that of
Americans of color, who must live with the painful, centuries-old legacy of slavery.
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Enter a man of color, actually half-white – and
recall that early in his political rise there were
questions as to whether he was “black enough”
– who, quite apart from his ambiguous racial
status, enjoys immense popularity
abroad. “Abroad” in
this context means
not just the classic “abroad” of Old
World Europe; it
means the nonwhite “abroad” of
Africa, Asia, and
South America. He
is indeed idolized
by large majorities
of Americans, and his public demeanor shows an
almost preternatural calm and dignity. His words
breathe an eloquence which is solemn without
being pompous, and he calls us to dream again
our noblest dreams of liberty and solidarity.
Some even claim that his election marks an end
to all barriers of color; thanks to him, we are now
living in a post-racial society. This too-quick and
too-optimistic assertion masks, but cannot conceal, the deeply unresolved nature of our national
dialogue on civil rights. The announcement of
the new president’s Nobel Peace Prize evoked an
immediate public outcry: “Does he deserve it? Is
he worthy? Isn’t it too soon? What has he done,
really?” I find this a strange response – as if all
other Peace Prize laureates had actually created
world peace. And what kind of country would
not break into spontaneous paeans of joy that its
leader had been awarded such an honor?
Recently there has been a lot of talk about
Obama’s behavior in the wake of the fratricide
rampage of a Muslim-American psychologist at
Fort Hood. While the president’s remarks at the
memorial service for the victims were praised
by many – including the families of the military
dead, people generally expected to belong to the
political right – he has also been criticized for not
expressing his outrage with sufficient passion. This
conversation simply shows how virtually impossible it is to make the American public happy. How
can a president express the nation’s collective grief
without seeming to single out for blame a minority population, 3,000 of whom are serving in our
armed forces? Don’t forget
that many on the right wing
claim that Obama was not
born in the United States,
and – because of his middle
name, “Hussein” – accuse
him of being Muslim himself. How can a president
place this appalling tragedy
in perspective when the
nation faces even more
tragic wars and deprivations, while simultaneously
acknowledging and affirming the special trauma
this episode represents for the military? How can
he react when one of our own soldiers shows
himself so horrifyingly Other, without blaming
all those of the killer’s faith, and without falling
into the bland political correctness which would
forgive any ethnic minority for anything simply
because they are a minority?
Our first “hyphenated-American” president
– our first liminar president – must not only
face all the crises in today’s world (economic,
military, diplomatic), but must also rise to the
challenge of helping us formulate new definitions of our national identity. One can hope that
these definitions will be ever more generous and
more creative.
L'OPINIONE/ J. MCLUCAS
Obama
S
Presidente liminare
trano paese il mio. Qui negli Stati Uniti abbiamo sempre vissuto una doppia realtà: un popolo eterogeneo di immigrati,
vero e proprio mosaico di inesauribile diversità, siamo anche una nazione quasi
comicamente unita dietro a un forte sistema
simbolico di icone e di idoli. Basta sventolare la
bandiera, cantare l’inno nazionale, invocare per
l’ennesima volta l’undici settembre, per suscitare
un senso di un’identità e una vita condivise – e la
mente corre in modo spontaneo al pollo fritto o
alla crostata di mela, cibi emblematici dell’americanità. Tutto questo acquista particolare forza
da una strana xenofobia – dico “strana” perché
siamo quasi tutti arrivati su queste sponde
dall’Oltreoceano – che ci incoraggia a definirci
come non stranieri, non provenienti dall’estero,
e a guardare con profondo sospetto il resto del
mondo che forse – o almeno così ci diciamo – ci
invidia la nostra libertà e prosperità e che non
ci capisce. Questa solidarietà di fronte all’Altro
esterno non esclude, purtroppo, la lunga sopravvivenza di pregiudizi e di ingiustizie sociali contro
l’Altro interno. Spesso ci chiediamo, “Perché
non possiamo essere americani punto-e-basta,
americani ‘senza trattino’” (non “italo-americani,”
“africani-americani,” etc.). Questa domanda leggermente stizzosa e difensiva viene posta quasi
sempre da americani bianchi, conservatori, e relativamente benestanti, di fronte alle contestazioni
di entità demografiche che si sentono escluse
o sottovalutate dalla società della stereotipata
maggioranza. Tra le voci di protesta, nessuna ha
lo spessore storico-culturale di quella del popolo
americano di colore, erede di lunghe sofferenze
e di memorie secolari di schiavitù.
Entra in scena un uomo mezzo-bianco (spesso
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Strumenti/Liminarismo
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accusato, agli esordi della sua carriera politica, di
non essere “nero abbastanza”) che in più gode
di un’immensa popolarità all’estero – e non solo
quell’estero classico del Vecchio Mondo europeo,
ma anche dell’estero non-bianco: l’Africa, l’Asia, il
Sud America. Viene idolatrato da grandi maggioranze del popolo americano, e si comporta con
una dignità quasi sovrannaturale. Le sue parole
respirano un’eloquenza solenne senza pomposità,
che ci chiama a sognare di nuovo i sogni più nobili
della libertà e della solidarietà. Alcuni pretendono
che con la sua elezione alla Casa Bianca abbiamo
superato tutte
le barriere del
colore, che viviamo ormai in una
società “postrazziale.” Questa
dichiarazione
troppo affrettata e troppo facile
può velare – ma
non nascondere – la profonda
i r re q u i e te z z a
che continua a
segnare il nostro
discorso nazionale sui diritti civili di persone di
colore. All’annuncio del Premio Nobel del nostro
nuovo Presidente, si è subito scatenata una
polemica: “Se lo merita? Ne è degno? Non è per
caso troppo presto? Che ha fatto finora, in così
poco tempo, veramente?” Strano discorso quello,
come se gli altri vincitori del premio avessero tutti
recato pace al mondo. Strano che i cittadini di un
qualsiasi paese non cantino Osanna per un onore
del genere offerto al loro leader.
In questi scorsi giorni, si è parlato molto del
comportamento di Obama rispetto alla strage
fratricida compiuta da uno psicologo islamicoamericano su una base militare del Texas. Il suo in-
tervento alle cerimonie funebri è stato fortemente
apprezzato da molti – anche dalle famiglie delle
vittime, persone di solito piuttosto conservatrici
in politica – ma anche criticato per insufficiente
passione. S’intravvede in queste polemiche la
quasi impossibilità di accontentare il pubblico
di un paese come il nostro. Come esprimere il
lutto collettivo senza inveire contro un gruppo di
cittadini americani già troppo spesso perseguitati,
di cui 3.000 servono perfino nelle forze armate
nazionali? (Da ricordarsi anche il fatto che molti
americani di destra, che non credono neanche che
Obama sia nato negli
Stati Uniti, l’accusano di
essere musulmano, grazie al suo secondo nome
“Hussein”). Come sdrammatizzare quest’orrendo
evento nel contesto di
guerre e miserie vieppiù
allarmanti, ma senza
minimizzare il trauma
alla classe militare; come
reagire quando uno dei
“nostri” soldati si rivela
così atrocemente Altro,
senza darne la colpa a
tutti i suoi cofedeli e senza cascare nella vacuità
della correttezza politica che perdona tutto a tutti
purché siano di minoranze etniche?
Il primo presidente “americano-trattino” –
dunque, liminare – deve affrontare non solo le
tantissime sfide del mondo di oggi – economiche,
militari, diplomatiche, sanitarie – ma anche la
scommessa di aiutarci a formulare nuove definizioni, che possiamo sperare sempre più generose
e più originali, della nostra identità nazionale.
John C. McLucas
Chair Department of Foreign Languages
Towson University - USA
letteratura italiana
Aspetti liminari
della Commedia
Stazio alter ego di Dante
I
Nel Purgatorio, mondo della soglia e del passaggio,
fondamentale è la posizione privilegiata di Stazio: in
lui Dante vede rispecchiata la propria posizione liminare, che giudica il passato e costruisce il futuro.
l limen della Commedia. Dante varca la
soglia del mondo terreno per esplorare ciò
che a nessuno era stato dato di vedere. Prima
di lui Enea era disceso agli Inferi e San Paolo era
asceso al Paradiso, ma Dante è l’unico uomo che
attraversa in carne ed ossa i tre regni dell’Oltretomba. La missione del poeta al ritorno dal suo
pellegrinaggio è condividere l’esperienza del
superamento del limite con il resto dell’umanità.
L’esperienza liminare di Dante-uomo si trasforma
nell’opera di Dante-poeta, un’opera anch’essa
liminare nell’impegno a cercare nuovi valori
morali per una società in crisi. Da un punto vista
storico-letterario Dante si trova al confine tra la
tradizione classica latina e la nascente tradizione
letteraria italiana. Consapevole di tale posizione
privilegiata, Dante usa una prospettiva liminaristica per reinterpretare e sorpassare la cultura
che lo ha preceduto. Un episodio esemplare del
liminarismo di Dante è costituito dall’incontro con
il poeta epico latino Stazio in Purgatorio.
Con l’Eneide di Virgilio, le Metamorfosi di
Ovidio e la Farsalia di Lucano, la Tebaide di Stazio costituiva uno dei maggiori poemi classici
inseriti nel curriculum delle scuole medievali di
grammatica. Sebbene la presenza di Stazio nella Commedia di Dante non dovrebbe dunque
sorprenderci, ci sorprende tuttavia il fatto che
il poeta non è relegato all’Inferno, bensì fa la
sua entrata nel canto XXI del Purgatorio. Stazio
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si presenta a Dante-pellegrino come un’anima
cristiana in cammino verso il Paradiso. Mentre il
grande Virgilio è condannato a passare l’eternità
nel Limbo, a Stazio è concessa l’eterna salvezza.
Seguendo una leggenda medievale, o, come altri
studiosi hanno suggerito, trovandone la prova
nel testo stesso della Tebaide1, Dante fa di Stazio
un cristiano o, meglio, un pagano convertitosi
alla religione cristiana in segreto per sfuggire la
persecuzione. Che esistessero o meno una leggenda medievale o una prova della conversione
di Stazio nel testo stesso della Tebaide, il ruolo
rivestito da Stazio nella Commedia è indubbiamente di gran rilievo nel cammino di Dante verso
la sua salvezza personale.
Il carattere altro dell’allegoria in Stazio
e in Dante. Era pratica comune nel Medioevo
leggere la poesia classica in chiave allegorica,
alla ricerca di un significato morale nella scriptura
paganorum. Il commento alla Tebaide redatto da
Fulgenzio fornisce un’interpretazione allegorica
del poema epico di Stazio, in cui Polinice ed Eteocle diventano allegorie, rispettivamente, dell’ava-
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Strumenti/Liminarismo
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rizia e dell’opulenza2. È molto probabile che
Dante conoscesse questa interpretazione morale
della Tebaide, dal momento che il commento di
Fulgenzio era molto popolare e costituiva parte
fondamentale del curriculum scolastico, ed è
ancora più probabile che Dante ne condividesse
lo stesso punto di vista3. Dante era, del resto, un
promotore della lettura morale e allegorica di
ogni poema, inclusa la sua Commedia4, e spesso
citava passi dall’Eneide, dalle Metamorfosi, dalla
Farsalia e anche dalla Tebaide di Stazio, a dimostrazione di verità morali universali5.
Malgrado la natura cruenta dell’argomento,
la Tebaide guadagna, grazie all’esegesi morale, il
prestigio di un testo didattico che può essere impiegato da Dante a buon diritto tanto quanto altri
testi classici. Ciò non spiega, tuttavia, la presenza
centrale di Stazio nella Commedia. Riferimenti e
allusioni ai poemi di Ovidio e di Lucano abbondano, ma i poeti stessi sono relegati nel limbo e non
hanno l’opportunità di rivestire un ruolo di spicco
nella Commedia. Come ben sappiamo, Virgilio è
la guida di Dante attraverso l’Inferno e parte del
Purgatorio. Le ragioni di Dante per questa scelta
sono evidenti: il poeta latino è non solo il modello
per lo stile poetico, ma anche il poeta della Roma
imperiale6. Ciononostante, Virgilio non avrebbe
potuto convertirsi alla religione cristiana poiché
morì prima dell’avvento di Cristo, e il presunto
valore profetico della quarta ecloga non gli procura l’entrata al Paradiso.
Ammettiamo pure che Dante credesse alla
tarda conversione di Stazio al cristianesimo, è
pur tuttavia difficile accettare che tale conversione possa giustificare la presenza di Stazio
e il suo discorso nel Purgatorio, a meno che il
poeta non ricopra un ruolo più determinante di
quello che la conversione solamente potrebbe
procurargli. Alcuni studiosi7 hanno assegnato
a Stazio la funzione di mediatore fra la ragione
umana rappresentata da Virgilio e la rivelazione
rappresentata da Beatrice, il poeta stesso in
qualità della ragione umana illuminata dalla fede.
Stazio diventerebbe, dunque, secondo questa
interpretazione, una figura allegorica come i
personaggi della sua Tebaide diventarono nelle
mani degli esegeti medievali.
Non possiamo dimenticare, tuttavia, che
Stazio non fa da
guida a Dante.
Indubbiamente
si prende cura di
spiegargli quello
che Virgilio non
comprende appieno, ma d’altro canto, molti
altri spiriti incontrati da Dante nel suo cammino
si fanno portavoce della verità. La lezione di
Stazio nel canto XXV del Purgatorio si concentra
sulla generazione degli uomini e della loro anima
nelle sue parti vegetativa, animale e intellettuale.
Stazio è chiaramente un vettore di conoscenza
per Dante e anche per Virgilio, e così facendo
inverte i ruoli di maestro e discepolo, ma la sua
lezione non porta a Beatrice.
Il mistero del personaggio Stazio. Le
informazioni offerte da Stazio completano la
conoscenza del Purgatorio, ma non contribuiscono ad avvicinare il pellegrino alla sommità
del monte8. Stazio, come Dante, è un pellegrino
in cammino verso la salvezza. Le sue parole non
rappresentano istruzioni ad un discepolo, bensì
la condivisione della propria conoscenza con
Dante-pellegrino. Lungi dall’essere una guida,
Stazio è un compagno di viaggio per Dante.
Entrambi i poeti hanno peccato e hanno visto la
luce grazie a Virgilio. Dante è stato tratto in salvo
da Virgilio dalla selva oscura, dove l’incontinenza,
l’avarizia e l’orgoglio della mondanità lo tenevano
in pugno. Stazio, come dichiara egli stesso nel
canto XXII del Purgatorio, è stato illuminato da
alcuni versi dell’Eneide sulle conseguenze nefaste
della fame dell’oro, e si è ravveduto9.
Alla luce di questo punto in comune, sembra
doveroso condurre un’analisi approfondita sulla
natura delle possibili ulteriori relazioni tra le
figure dei due poeti, a partire da una più precisa
definizione del peccato commesso da Stazio. Nel
quinto cerchio del purgatorio sono espiate le
colpe di avarizia e prodigalità. Stazio dichiara di
aver peccato in prodigalità, correggendo così la
supposizione di Virgilio che lo aveva tacciato di
avarizia (Purg. XXII, 34-42). Stazio si riferisce al suo
peccato con il termine ‘dismisura’, e attribuisce a
tale vizio la sua penitenza in quella determinata
terrazza del Purgatorio.
Procediamo considerando innanzitutto il
presunto peccato di prodigalità. Seguendo un
comune errore commesso dagli storici medievali,
Dante fa confluire le due figure storiche di Publio
Papinio Stazio e Lucio Stazio Ursulo, un retore
di Tolosa dell’epoca di Nerone. Tale confusione
derivava dalla menzione di Stazio il retore nel
Chronicon di San Girolamo10. Il riferimento al suo
successo, combinato con il riferimento alle sue
povere condizioni economiche nelle Satire di
Giovenale, aveva portato gli studiosi medievali
a credere che Stazio avesse sperperato tutti i
guadagni derivati dalla sua lucrativa attività di
insegnante di retorica.
L’ipotesi meta-poetica e il “doppio” Stazio.
Tale spiegazione potrebbe essere ragionevole,
ma vale la pena considerare un’altra possibile
prospettiva. I canti XXI e XXII rappresentano una
celebrazione della poesia e l’incontro con Stazio
anticipa e prefigura l’incontro con le notevoli
figure di poeti in vernacolo, quali Forese Donati,
Bonagiunta Orbicciani, Guido Guinizelli e Arnaut
Daniel. Allo stesso modo, il dialogo tra Stazio e
Virgilio (Purg. XXI, 82-102) rappresenta non solo
un’esaltazione di Virgilio, ma metapoeticamente rimanda alla poesia stessa. Stazio, infatti, si
riferisce alla sua fama di poeta
con una perifrasi che sottolinea
l’onore e l’eternità della poesia.
Continua, poi, con un riferimento al suo dolce spirito vocale che
gli procurò la gloria del mirto. Il
poeta indubbiamente dimostra
il suo orgoglio per la longevità
della sua opera e ne celebra
l’ispirazione che ha trovato in Virgilio. Stazio, inoltre, attribuisce la
sua conversione alla quarta ecloga di Virgilio, conferendo così
alla poesia non solo eterna gloria
sulla terra, ma anche un potere
salvifico (Purg. XXII, 64-73).
Considerata la dimensione poetica dei canti
XXI-XXII e in particolare delle parole di Stazio, è
possibile collocare il peccato di dismisura nella
stessa cornice letteraria. Stazio potrebbe aver
peccato di profusione stilistica allontanandosi
dalla corretta misura artistica, e di abuso poetico
non avendo diretto il potere della sua poesia
verso la verità. Poiché Dante confondeva erroneamente l’autore della Tebaide con il retore Ursulo
e attribuiva al primo anche la professione del secondo, nessuna colpa avrebbe potuto descrivere
in modo così appropriato la vita di Stazio retore
prima della conversione all’epica.
Stazio considera l’Eneide di Virgilio alla stregua di una madre, capace di offrirgli con la sua
poesia una nuova vita illuminata dalla conversione (Purg. XXI, 97; XXII, 64-73). Alla luce della
doppia dimensione di poesia e redenzione che
domina i canti XXI e XXII, è facile comprendere
come Virgilio e la sua opera poetica offrano un
modello che è allo stesso tempo stilistico e morale. Così come la guida spirituale rappresentata
da Virgilio deve essere intesa in modo allegorico,
allo stesso modo deve essere inteso il peccato di 17
Stazio. Nella sua risposta riguardo alla natura della sua colpa, Stazio stesso allude all’importanza
di riconoscere la verità nascosta dietro alle false
apparenze (Purg. XXII, 28-30)11. Sebbene il peccato di prodigalità o dismisura abbia destinato
Stazio al quinto cerchio del purgatorio, ciò che
lo ha salvato dalla dannazione eterna all’inferno
è stato il messaggio morale della
poesia di Virgilio, che ha diretto il
potenziale artistico di Stazio verso
la verità. Lungi dall’indulgere nei
vuoti eccessi stilistici della retorica, la missione del poeta deve
essere un messaggio di salvezza.
R itorniamo ora ai versi
dell’Eneide che condannano
l’avarizia. Quale ruolo rivestono
tali versi che ricordano l’omicidio
di Polidoro per mano di Polimnestore, nella conversione di
Stazio? Il commento virgiliano sul
potere nefasto della fame dell’oro
potrebbe avere ispirato a Stazio
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l’argomento della Tebaide, dal momento che, in
base all’esegesi morale del poema, in voga nel
Medioevo, Eteocle rappresenterebbe l’avarizia
e Polinice l’opulenza. Dante sembra rintracciare
una stretta connessione tra le due vicende e non
manca di metterla in luce. L’episodio dell’omicidio
di Polidoro e della sua mancata sepoltura è ricordato indirettamente nel canto XXX dell’Inferno, in
cui Ecuba, la madre di Polidoro, funge da esempio
del furore che ben descrive la punizione dei dannati in questo girone infernale. La metamorfosi di
Ecuba in una cagna rabbiosa, dopo aver perso la
ragione per il dolore provocatole dalla sorte del
figlio, era stata resa famosa dalle Metamorfosi di
Ovidio, il quale sottolineava inoltre l’avarizia di
Polimnestore e il lusso della sua corte. Avarizia
e opulenza appaiono strettamente legate e
connesse al potere, il medesimo tema al centro
della Tebaide12.
Dante crea un collegamento tra l’episodio di
Polidoro e la Tebaide aprendo il canto con un riferimento al ciclo tebano, ovvero con la menzione
della furia di Atamante, provocata dalla rabbia
di Giunone nei confronti di Semele, che lo porta
ad uccidere i propri figli. Il canto continua con
la inquietante immagine di Ecuba, e passa poi a
presentare le anime dei dannati puniti in questo
girone, la cui furia è equiparata a quella delle
Furie tebane. Con questa tessitura di riferimenti,
Dante inserisce l’omicidio di Polidoro ad opera di
Polimnestore in un contesto tebano, suggerendo
un legame con il mutuo fratricidio di Eteocle
e Polinice. L’avidità,
lo stretto legame tra
avidità e potere, e le
conseguenze della
degenerazione sociale sono al centro
sia della Tebaide che
della Commedia. Nella Tebaide Eteocle e
Polinice, spinti da una
insensata avidità di
potere, combattono
fino a dimenticare il
sacro vincolo fraterno, e portano Tebe
alla rovina. Nella Commedia Dante identifica
nell’avarizia la causa della corruzione sociale13.
Stazio alter ego di Dante. Se scrivere la Tebaide, con la valenza salvifica del suo messaggio
allegorico, ha salvato l’anima di Stazio, e Virgilio è
stato l’ispiratore di questa nuova missione poetica, ebbene potremmo chiederci perché questo
ruolo rivestito da Virgilio non gli conferisca una
maggiore importanza di quella conferita a Stazio stesso. La differenza cruciale tra i due poeti
risiede nella loro coscienza poetica. Nonostante
sia l’Eneide che la Tebaide abbiano una valenza
salvifica, Virgilio è un profeta inconsapevole della
grandezza del proprio messaggio, mentre Stazio
dimostra una completa consapevolezza, che ha
potuto raggiungere mediante l’esperienza del
peccato e del pentimento. La coscienza poetica
di Stazio lo rende un compagno di viaggio per
Dante, un poeta altrettanto consapevole della
propria missione nella stesura della Commedia.
Entrambi redenti dal potere della poesia, Dante
e Stazio condividono un passato macchiato da
un peccato da intendersi in senso letterario.
Come Stazio deplora il suo passato da retore
per gli eccessi stilistici, ma soprattutto per non
aver diretto la sua attenzione verso la verità, allo
stesso modo anche Dante guarda indietro al suo
passato poetico che lo ha condotto alla selva
oscura e si redime scrivendo la Commedia.
Oltre all’esperienza comune del peccato e
della redenzione che ha condotto Stazio e Dante
ad una maggiore consapevolezza
della propria missione poetica,
e oltre alla profonda attenzione
all’avidità quale fonte principale
della crisi sociale, Dante e Stazio
condividono un ulteriore aspetto fondamentale strettamente
connesso alla percezione poetica della propria opera. Dante
è profondamente consapevole
della sua posizione all’interno
della tradizione letteraria d’Italia e
pone se stesso e la propria opera
al limite estremo di una scia letteraria che parte dai poemi epici
latini 14. Ad un’attenta
analisi della Tebaide
l’espressione più diretta
della coscienza poetica
di Stazio è offerta dai
versi conclusivi, oltre
che dalla ricca relazione
di intertestualità che
l’intero poema stabilisce
con la tradizione epica
che lo precede.
Nell’envoi finale al
proprio poema Stazio
raccomanda alla sua
opera di vivere e di non
competere con l’Eneide,
bensì di seguirla a distanza e adorarne sempre le orme (Tebaide XII,
810-819). Questa raccomandazione finale pone
il poema non solo in una posizione di successore
del poema virgiliano, ma anche in una posizione
di sfida e superamento del modello mediante
una critica indiretta all’Eneide15. Infatti, l’immagine evocata da Stazio a chiusura della Tebaide è
un’evidente allusione all’episodio di Creusa che,
osservando la raccomandazione del marito, lo segue a distanza nella fuga da Troia e così facendo
scompare dalla vita di Enea e dalla storia (Eneide
II, 71). Stazio sfida e supera l’Eneide dando voce a
ciò che l’epica di Virgilio aveva messo a tacere.
Una simile immagine è evocata da Stazio
nel Purgatorio, nel paragonare
Virgilio a “quei che va di notte, /
che porta il lume dietro e sé non
giova, / ma dopo sé fa le persone
dotte” (Purg. XXII, 67-69). Stazio è
stato illuminato dal messaggio
di Virgilio proprio grazie alla sua
posizione di successore che ne
ha seguito le orme. In questo
senso essere ultimo diventa una
posizione privilegiata da cui il
poeta può guardare indietro
alla tradizione precedente, ma
allo stesso tempo da cui può
partire e muoversi in una nuova
direzione. Lo Stazio di Dante si
considera l’erede della tradizione
epica latina nella sua missione
morale contro la corruzione del
mondo. Per questa ragione Dante gli assegna una
posizione privilegiata nella Commedia, poiché lo
stesso Dante è profondamente consapevole della
propria posizione liminare, erede della tradizione
epica latina e, proprio come Stazio, in grado di 19
valutare il passato e muoversi in una nuova direzione. “Elli givan dinanzi, e io soletto / di retro, e
ascoltava i lor sermoni, / ch’a poetar mi davano
intelletto.” (Purg. XXII, 127-129).
Margherita Pampinella-Cropper
Assistant Professor of Italian
Department of Foreign Languages
Towson University USA
Bibliografia di riferimento
1
Nel XV secolo Poliziano propose una ragione filologica per spiegare la rappresentazione dantesca di Stazio
quale un’anima cristiana. Secondo Poliziano, Dante potrebbe aver interpretato l’invocazione di Tiresia al “triplicis
mundi summum, quem scire nefastum” (Tebaide IV, 516) come un riferimento al Dio cristiano. Per un’analisi dettagliata degli studi di Poliziano sulla presenza di Stazio nella Commedia, si veda M. Pastore Stocchi, “Il cristianesimo
di Stazio (Purg. XXII) e un’ipotesi di Poliziano” in Miscellanea di studi offerti a Armando Balduino e Bianca Bianchi
per le loro nozze (Padova, Seminario di Filologia Moderna dell’Università, 1962) e S. Mariotti, “Il cristianesimo di
Stazio in Dante secondo il Poliziano” in W. Binni et al., Letteratura e critica: Studi in onore di Natalino Sapegno (Roma,
Bulzoni, 1975) II, pp. 149-161. M. Scherillo (“Il cristianesimo di Stazio secondo Dante” in Atene e Roma, V [1902],
497-506) pensava che il discorso di Apollo nel libro IX, 650-662, e specialmente la descrizione dell’ara Clementiae
nel libro XII, 481-518, potrebbero essere stati interpretati da Dante come un segno della conversione dell’autore
alla religione cristiana.
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2
Fabii Planciadis Fulgentii, Opera, accedunt Fabi Claudii Gordiani Fulgentii, De aetatibus mundi et hominis, et S. Fulgentii Episcopi Super Thebaiden, ed. Rudolfus Helm,
Stuttgart, Teubner, 1970, pp. 182-186. Tebe è l’anima umana governata dal santo
Laio e dalla casta Giocasta, Edipo rappresenta la lascivia che porta alla corruzione
dell’anima, i sette re sono le arti liberali guidate da Ipsipile alla fonte della conoscenza
secolare che non è in grado di spegnere la loro sete, Creonte rappresenta la conoscenza mondana e infine Teseo, id est deo, è colui che libera l’anima dal peccato.
3
Per l’allegorizzazione medievale della Tebaide si veda G. Padoan, “Il mito di
Teseo e il cristianesimo di Stazio” in Lettere italiane, IX , 1959, pp. 432-457.
4
Dante spiega nel Convivio (II, I) i quattro sensi allegorici dei testi: letterale/storico, allegorico, morale e anagogico. Nell’esposizione del senso allegorico Dante usa
le Metamorfosi di Ovidio per illustrare come Orfeo sia un’allegoria dei poeti. Nella epistola XII a Cangrande della
Scala, Dante fornisce delle linee guida per leggere ed interpretare la Commedia a diversi livelli di significato.
5
Nel Convivio sono presenti vari esempi tratti dalla Tebaide: Edipo che si strappa gli occhi per nascondere la
sua vergogna diventa la prova vivente degli occhi come specchio delle proprie virtù (Conv. III, VIII, 10 – Tebaide I,
47); la reazione di Adrasto al ricordo dell’oracolo di Apollo è l’esemplare perfetto di stupor (Conv. IV, XXV, 6-10 –
Tebaide I, 782-492); infine, la modestia di Argia e Deifile dimostrano il comportamento appropriato per giovani
donne (Tebaide I, 536-539).
6
Le idee politiche di Dante sono espresse principalmente nel trattato politico Monarchia, in cui il poeta
rivendica la legittimità dell’Impero in Italia. Virgilio appare nel Monarchia come il poeta dell’Impero dotato di
capacità profetiche. L’Eneide assume perciò implicazioni politiche e Virgilio funge da autorevole testimone della
superiorità dell’istituzione imperiale. Per una discussione dettagliata della prospettiva politica di Dante in relazione al mondo classico si veda A. Renaudet, “Le second humanisme de Dante: la cité antique, Rome et l’empire”
in Dante humaniste, Paris, Les belles lettres, 1952, pp. 477-532.
7
Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di C.H. Grandgent, revisione a cura di C.S. Singleton, Cambridge,
Harvard University Press, 1972, p. 495. Si veda anche P. Renucci, Dante disciple et juge du monde gréco-latin, Paris,
Les belles lettres, 1954, p. 337 e J. F. Mahoney, “The role of Statius and the Structure of Purgatorio” in 79th Annual
Report of the Dante Society, 1961, pp. 11-38.
8
D. Heilbronn, “The prophetic role of Statius in Dante’s Purgatory” in Dante Studies, XVC, 1977, p. 55.
9
Eneide, III, vv. 56-57 “Quid non mortalia pectora cogis, / auri sacra fames?”. In questi versi Virgilio commenta
l’omicidio di Polidoro per mano di Polimnestore spinto dal desiderio dell’oro. I versi sono chiaramente diretti
contro il vizio dell’avarizia. Molto è stato scritto sull’interpretazione di Stazio di questi versi come una condanna
del vizio opposto, la prodigalità. Per una discussione dettagliata delle possibili interpretazioni di Stazio si veda
P. Baldan, “Stazio e le possibili ‘vere ragion che son nascoste’ della sua conversione” in Lettere italiane, XXXVIII, 2,
1986, pp. 149-165.
10
Ad Olymp. 208,4 = 56-57 p. Chr. “Statius Ursulus Tolosensis celeberrime in Gallia rhetoricam docet.” Per
un’analisi completa della ricostruzine medievale della figura di Stazio si veda G. Brugnoli, “Lo Stazio di Dante in
Benvenuto” in Benvenuto da Imola lettore degli antichi e dei moderni. Atti del Convegno Internazionale, Imola, 26-27
maggio 1989, a cura di P. Palmieri e C. Paolazi, Ravenna, Longo, 1991, pp. 127-137.
11
C. Kleinhenz, “The Celebration of Poetry: A Reading of Purgatory XXII” in Dante Studies, CVI, 1988, pp. 21-41.
12
Il corpo insepolto che la madre desidera onorare con una tomba è un altro elemento della storia che ricorda
da vicino la Tebaide, così come la punizione inflitta a Polimnestore da Ecuba, strappandogli gli occhi dalle orbite
con le proprie mani, non può che farci pensare alla furia di Edipo.
13
Nel canto d’apertura dell’Inferno, quando Dante incontra le tre fiere, la lupa che rappresenta l’avarizia è
definita la più spaventosa delle tre (Inf. I, 31-60), e Dante cerca l’aiuto di Virgilio proprio contro di lei (Inf. I, 88-90).
Virgilio viene in soccorso di Dante definendo la lupa, e perciò l’avarizia, con parole che indubbiamente ci ricordano
la natura bestiale e feroce degli eventi della Tebaide di Stazio (Inf. I, 92-99).
14
T. Barolini, “Epic resolution” in Dante’s Poets. Textuality and Truth in the “Comedy”, pp. 188-286, e in particolare
pp. 270-271: “{Dante] is an epic poet in that he sees himself as fulfilling and completing a poetic itinerary that
begins with the Aeneid and that finds in the Comedy – also a long narrative with social, historical, and prophetic
pretensions – its last and highest form of expression.”
15
S. G. Nugent, “Statius’ Hypsipyle: Following in the Footsteps of the Aeneid” in Scholia, 1997, pp. 70-71.
Filosofia e Diritto
Non basta il
diritto positivo
Il limes fra
DEMOCRAZIA e
DITTATURA
a concezione personalistica della socialità umana. Il Manifesto del Liminarismo
mi è piaciuto e mi ha interessato molto. A
cominciare dal fatto che mi è apparso come una
articolazione coerente della mia concezione della
socialità umana: personalistica e non individualistica, naturale e non contrattuale (concezione
che si è formata sui banchi dell’Università Cattolica sotto la guida di grandi maestri di dottrine
filosofiche, giuridiche ed economiche, quali
Oliati, Amirth e Fanfani). Ma poi, specificamente,
perché vedo che il Manifesto -consapevole della
strutturale condizione di mutevolezza, in perenne “divenire”, della persona umana e quindi della
sua socialità- si propone come un progetto per
indagare sistematicamente sul confine (il limes) e
sulla soglia (il limen), in cui si collocano e si percepiscono “le interne, sottili e spesso impercettibili
parti” di quel “divenire“, cioè dell’evoluzione della
società.
E mi interessa ancora di più il proposito di
indirizzare l’indagine sui “passaggi da un’epoca
all’altra” e, in particolare, “da una concezione
all’altra”. Sarà un gran bel lavoro! Molto impegnativo: per molti cervelli e per molto tempo. Io
vorrei dare il mio piccolo, flebile (date le ridotte
capacità fisiche e intellettuali che mi restano)
contributo a questa indagine facendo qualche
riflessione su uno dei quindici punti indicati dal
Manifesto: “la funzione del diritto in regime di
democrazia e in regime di dittatura”.
È mia convinzione che, per poter comprendere e valutare la funzione del diritto nelle democrazie e nelle dittature, è necessario partire dalla
definizione della concezione della società, nella
quale e per la quale si elabora e si fa funzionare
il diritto. Per me è evidente
che, se la società non è
concepita come la condizione naturale della persona umana (l’νθρπς
πλιτικν ων di Aristotele), ma come il prodotto
di un accordo fra individui (il
contratto sociale di Rousseau) che dalla loro natura
Lyceum Dicembre 2009
J.J. Rousseau
L
Le leggi sono giuste e possono pretendere di essere
rispettate da tutti, solo se
e in quanto riconoscono e
interpretano le leggi della
natura umana.
21
Strumenti/Liminarismo
Hobbes
meramente materiale sono portati
al belluino homo
homini lupus di
Hobbes, le regole (il diritto) per la
convivenza fra tali
individui possono esser fissate o
da un accordo fra
molti (lo stato repubblicano) o da un’imposizione del più forte
(il “leviatano”).
22
I limiti della concezione individualisticocontrattualista. Nella concezione individualistico-contrattualista non sono -non possono
essere- regole che interpretino le esigenze della
convivenza di persone naturalmente sociali e
che le esprimano in norme scritte, promulgate
e sancite; ma possono essere soltanto regole
che vengono scritte (e promulgate e sancite)
per rendere possibile la convivenza di individui
naturalmente conflittuali. Costituiscono il diritto
positivo, che ignora, non ammette l’esistenza di
un diritto naturale. Ma, non avendo alcun fondamento nella naturale socialità dell’uomo, sono
necessariamente arbitrarie. La loro legittimità
non è fondata su “valori” -universali e perenniconcepiti dalla razionalità delle persone, ma
solo sulla volontà -contingente e particolare- del
potere che regge lo Stato, repubblicano o monarchico, democratico o dittatoriale che sia.
Ne consegue che negando il diritto naturale -fondato sui “valori” universali della natura
umana- si assolutizza il diritto positivo -fondato
esclusivamente sull’arbitrio del legislatore. Si
crea la sovranità assoluta dello stato, che si
concreta nello statalismo -“tutto nello stato,
tutto dallo stato, tutto per lo stato” - e degenera
nella statolatria, nella sottomissione religiosa, la
“venerazione”, all’Assoluto.
Tutto ciò è l’effetto del prevalere dell’antropologia individualistica su quella personalistica
e, sul piano filosofico, del prevalere del soggettivismo (proprio di tutta la filosofia moderna) sul
realismo della filosofia classica. Soggettivismo
filosofico e individualismo antropologico che
hanno prodotto sul piano sociale ed economico
concezioni e comportamenti che hanno funestato la vita privata e pubblica del mondo moderno.
A cominciare dall’egoismo -che l’individualismo,
appunto, giustifica ed alimenta- che avvelena
non solo i rapporti sociali, ma anche i rapporti
interpersonali. Perché, chiudendo l’individuo in
sé, si rende difficile e spesso conflittuale la vita
di relazione con l’altro, che è propria della natura
non solo fisica ma anche razionale dell’uomo
-dire persona vuol dire relazione, “la persona è
relazione”!- e nella quale nasce la solidarietà, indispensabile alla convivenza pacifica degli uomini,
in contrapposizione all’egoismo istintivo e irrazionale, che produce conflittualità, sopraffazioni,
ingiustizie d‘ogni genere: i veleni mortali della
vita sociale. Basti vedere come l’egoismo, con
l’incapacità di “aprirsi all’altro”, oggi condizioni
gli approcci alla sfida epocale dell’integrazione
fra gruppi etnici diversi.
Le conseguenze negative dell’individualismo empirista e materialista. Dall’individualismo empirista e materialista è nato l’utilitarismo,
che ha sostituito ai principi del bene e del male
quello dell’utile e del denaro, sovvertendo le basi
stesse della morale personale e sociale, e portando all’economicismo, cioè alla teoria (e alla
prassi), che considera l’economia non solo come
un mezzo molto importante, indispensabile per
la vita umana, ma la sua essenza stessa. E quindi
il suo unico fine, cui tutto il resto -politica, diritto,
religione, arte, scienza, scuola, mass-media- viene
subordinato e strumentalizzato. Riduce l’uomo a
produttore e consumatore, prescindendo totalmente dalla “qualità della vita”, cioè dei motivi per
cui produce e consuma, degli altri più importanti
fini della vita. E si deve aggiungere che legge
fondamentale di codesta economia è il profitto
che, non ammettendo leggi morali limitative,
nella prassi diventa il massimo profitto, il profitto
ad ogni costo. Con le conseguenze devastanti che
si stanno verificando in tutti i campi della vita
sociale ed in particolare nell’educazione, nello
stile di vita, nel costume.
Ma la negazione del diritto naturale ha come
Il rischio delle leggi ingiuste. Si deve ancora aggiungere un altro effetto deleterio dei
soggettivismo e della conseguente negazione
del diritto naturale: se le regole che lo stato si
dà -il diritto positivo - non hanno riferimento ad
una realtà obiettiva, ma dipendono totalmente
ed esclusivamente dall’arbitraria volontà del
legislatore, se la sua sovranità è assoluta, c’è il
rischio inevitabile che siano leggi ingiuste: che
costituiscono soltanto lo ius quia iussum e non
affatto lo ius quia iustum. Quindi ingiustizie,
spesso gravissime, che producono effetti disastrosi, inumani, nella vita personale e sociale degli
uomini. Tali da far reclamare, anche da molti di
coloro che negano il diritto naturale, il rispetto
dei “diritti umani” che vengono violati non solo
da comportamenti e azioni individuali ma dalle
stesse istituzioni pubbliche costituite e rette con
quelle leggi. Eppure non si vuol riconoscere che
questi tanto invocati -oggi- diritti umani sono
tali perché derivano da una realtà oggettiva -la
natura umana- e non certo dalle scelte soggettive, singole o collettive che siano. Costituiscono,
appunto, il diritto naturale.
Si deve aggiungere anche che la sempre più
diffusa intenzione di porre rimedio ai disastri
della “conflittualità permanente” fra gli stati, cioè
alle guerre militari ed economiche, con regole
universali accettate e rispettate da tutti, può
essere realizzata solo se tali regole sono fondate
su una realtà che è di tutti gli uomini, sui diritti
propri della natura umana stessa. Insomma, soprattutto il diritto positivo universale può essere
elaborato, accettato, promulgato e sancito solo
se lo si concepisce come la codificazione del
diritto naturale.
La sostanziale incapacità dell’ONU (che era
stata creata proprio per tentare di evitare alle
nuove generazioni l’esperienza tragica della
seconda guerra mondiale) di realizzare il suo prin- 23
cipale obiettivo di impedire le guerre e poi anche
quello di tutelare i diritti umani gravemente lesi
in tanti suoi stati membri, è dovuta precisamente al fatto che i validi principi del “Preambolo”
della sua Carta fondativa (dignità della persona,
uguaglianza uomo-donna, giustizia sociale, usare
lo sviluppo economico per il progresso sociale,
ecc.) non sono stati riconosciuti da tutti come
diritti naturali e perciò universali e cogenti per i
rispettivi diritti statali.
Il limen nel passaggio dalla democrazia
alla dittatura. Infine, last but not least, le conseguenze del soggettivismo filosofico e del
positivismo giuridico
esistono anche nel
passaggio -nel limenda democrazia a dittatura. E sono pesanti,
e tutte a rischio per la
democrazia. Il sistema
di leggi -non solo in
Hegel
Marx
conseguenza soprattutto l’inversione del
rapporto Società-Stato: non è più la società
-realtà naturale- che
produce e organizza
lo stato, ma viceversa
è lo stato che crea la
società e se la organizza arbitrariamente,
senza riferimento ai
“valori” naturali della
società. Al punto che
le altre forme naturali di società -la famiglia,
la scuola, la chiesa, le associazioni culturali e
sindacali, le aggregazioni locali- devono lottare
strenuamente e spesso invano per poter esistere
autonomamente, cioè per non essere ridotte a
mere articolazioni della struttura statale.
E c’è di peggio: il soggettivismo nella sua
forma della dialettica hegeliana e marxista è
arrivato a teorizzare la “conflittualità permanente”
come spiegazione e legittimazione della guerra
fra gli stati e delle lotte socio-economiche fra
i cittadini. Con le conseguenze estreme della
esaltazione della guerra come la migliore occasione di affermazione delle capacità individuali
(e addirittura come “igiene dell’umanità”!); e della
degenerazione della “lotta di classe” in guerra
civile e in miseria economica.
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Strumenti/Liminarismo
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materie economiche e sociali ma
anche in campo politico e amministrativo- che non abbia altra fonte e
fondamento che la volontà arbitraria,
le sovranità assoluta del legislatore
non può dare alcuna garanzia all’affermazione e al consolidamento del
regime democratico. Infatti norme
valide solo perché dettate dal legislatore possono facilmente legalizzare
il passaggio dalla democrazia alla
dittatura: sia repentinamente (con
un colpo di Stato, con una rivoluzione), sia gradualmente, subdolamente (con una serie di provvedimenti limitativi delle libertà democratiche).
Per evitare questo rischio, il positivismo
giuridico è ricorso al costituzionalismo, cioè ha
subordinato la produzione di tutte le leggi ad una
“legge fondamentale”, il Grundgesetz dei tedeschi,
in cui talora -ma non sempre, anzi solo ultimamente in quella italiana del ‘48 e nella tedesca
del ‘59, e poi anche nel “Progetto di Costituzione
per l’Europa” del 2003, bloccato dal referendum
franco-olandese nel 2005- si premette un “Preambolo” di valori, che si ritengono condivisi e che
devono orientare tutta la produzione legislativa.
Si tratta indubbiamente di un apprezzabile intenzione di codificare nei diritto positivo alcuni
importanti punti del diritto naturale. Sennonché
le costituzioni conservano tutta la autoreferenzialità e precarietà del positivismo giuridico. Infatti in
Italia la Costituzione stessa prevede le procedure
formali per cambiare o anche eliminare quei valori
(e c’è già chi si propone di farne modificare non
solo la seconda ma anche la prima parte, in cui
quei valori sono codificati).
Dunque il diritto -se concepito e attuato solo
come diritto positivo- non è sufficiente a distinguere sostanzialmente il regime democratico
da quello dittatoriale, e neanche a impedire le
degenerazione dell’uno nell’altro. Infatti, può
accadere che proprio con leggi appropriate si
apra la via a questa degenerazione. Per esempio:
basta una legge elettorale (l’elezione diretta del
Capo del governo) per creare le condizioni per trasformare di fatto -con quella che ora si chiama la
“Costituzione materiale”- il sistema democratico parlamentare -sancito dalla
“Costituzione formale”- in un sistema
presidenziale, in cui più facilmente si
può imporre quell’autoritarismo che con l’insofferenza per il parlamento e la
corte costituzionale, che costituiscono
i “contrappesi” che sono indispensabili
nei sistemi presidenziali- diventa normalmente l’anticamera della dittatura.
(Ecco un punto importante su cui si
può applicare l’impegno del Liminarismo per studiare e cercar di individuare le “parti
interne e impercettibili” -il Limen e il Limes- del
rapporto democrazia-dittatura e delle funzioni
del diritto in tale rapporto.)
Le leggi come interpreti della natura
umana. Io rimango nella convinzione che si
può evitare quella degenerazione solo se le
leggi dello stato democratico saranno ancorate
alla legge della natura umana e non pretenderanno di creare “etiche” di settore o di categoria,
particolari e mutevoli, ma esprimeranno l’unica,
fondamentale “moralità” di tutti gli uomini. Solo
se il diritto positivo sarà concepito e attuato come
ispirato e subordinato al diritto naturale. Solo se
lo ius quia iussum riconosce e interpreta lo ius quia
iustum. Ed è iustum ciò che attribuisce a ciascuno
il “suo” (iustitia est suum cuique tribuere), ciò che
gli appartiene per natura. E da questo iustum che
nasce la regola generale per i comportamenti
umani, la legge morale universale. In conclusione,
deve esser chiaro che lo stato con le sue leggi
positive fa formalmente il cittadino, ma non fa
l’uomo, che è sostanzialmente prima, e indipendentemente, dello stato stesso. Ciò significa che
le sue leggi sono giuste e possono pretendere
di essere rispettate da tutti, solo se e in quanto
riconoscono e interpretano le leggi della natura
umana. Solo se si fondano sui “valori” universali
e perenni del diritto naturale. È per questo che la
“Buona novella” ci dice che magis oportet oboedire Deo quam hominibus.
Paolo Barbi
Filosofo e saggista
Tra Filosofia, Arte,
Antropologia
idee
Sulla soglia
dei sette peccati
Superbia
Allegorizzati nelle fiere
dantesche, creature di
confine, poste a marcare
la soglia tra la salvezza e
la perdizione, i sette vizi
capitali potrebbero essere
liminarmente trasformati
in elementi “positivi”.
S
medievale e nell’iconografia sacra ed hanno la
25
citazione più celebre nella Divina Commedia,
dove Dante personifica la lussuria, la superbia
e la cupidigia in tre fiere: la lonza, il leone, la
lupa. Loro, creature di confine, poste a marcare
Avarizia
uperbia, avarizia, lussuria, invidia, gola,
ira, accidia sono i sette peccati più gravi
per la religione cattolica, che Gregorio
Magno ha redatto in questa sequenza nel VI sec.
Vengono tramandati congiunti all’aggettivo
“capitali” che, dal latino capitale riferito a
un delitto (facinus) meritevole della pena
di morte, è passato a denunciare la morte
dell’anima e la condanna all’Inferno. Sono
stati fonte d’ispirazione nella letteratura
Ira
Lyceum Dicembre 2009
26
la soglia tra la salvezza e la perdizione, tra il simbolismo della luce solare e l’oscurità della valle
infernale, allettanti nell’aspetto (come la lontra
dalla gaietta pelle) o tanto paurose da far tremar
le vene e i polsi, impediscono al peccatore Dante
il passaggio verso il bene sulla vetta irradiata dal
sole respingendolo in basso loco.
La valenza liminare investe più aspetti dei
sette peccati: l’interscambio lessicale
tra vizio e peccato; il rapporto tra morale cattolica e concezione umanistica;
l’antitesi tra connotazione profana e
correlazioni con la religione o tra vizi
e virtù.
Sia nei testi sacri sia nell’uso comune
è frequente l’omologazione dei termini
“vizi” e “peccati”, pur essendo diversi non
solo per la provenienza geografica, ma
anche nella sostanza. Questo interscambio, pertanto, altera la differenza tra
gli elementi caratteriali della persona,
che fanno parte dell’antropologia, e la
pratica di azioni vietate dalle religioni. I
vizi, infatti, traggono origine da bisogni
naturali dell’uomo che, oltrepassando il
margine del soddisfacimento essenziale,
diventano desideri smodati. A incentivare tali desideri, ossia a produrre il plusva-
lore dei bisogni, provvede il consumismo
che, nella sua provocazione dell’eccesso,
si scontra con la morale cristiana, portatrice del messaggio della rinuncia e della
mortificazione del corpo. Nell’attuale
società, l’offerta consumistica è così incisiva che i vizi propendono a diventare
tendenza collettiva e a mimetizzarsi come
valori della modernità.
La morale cattolica, com’è tipico delle
religioni, addita nei peccati il venir meno
a un obbligo verso Dio prima che verso
i propri simili, perciò prospetta la loro
punizione nell’eternità ultraterrena. La
concezione morale umanistica li pone in
una prospettiva laica e solleva il problema
delle loro ripercussioni nelle relazioni
interpersonali. Procedendo sul doppio
binario della religione e dell’etica laica, i
sette vizi si fanno portatori di evocazioni
sacre e profane, di citazioni infernali e di problematicità sociale.
L’aspetto liminare più inquietante risiede
nel rapporto tra vizi e virtù. I vizi, infatti, sono
componenti della natura umana dalle diverse
potenzialità, che si attualizzano non solo per la
forza congenita che hanno nella persona, ma
Accidia
Invidia
Strumenti/Liminarismo
Gola
Lussuria
anche per l’incidenza ambientale e
per la repressione che li radicalizza.
Considerandoli in questa dimensione,
in un suo attuale ciclo pittorico l’artista
pugliese Enrico Meo li rappresenta al
femminile per denunciare l’educazione repressiva tradizionalmente subita dalla donna.
Dopo secoli di netta contrapposizione vizi/
virtù, l’Illuminismo ha abbattuto il confine che
li separava e li ha omologati negli effetti del
benessere sociale. Immanuel Kant fa del vizio
un tratto del carattere umano e Sigmund Freud
li trasferisce dal territorio della morale a quello
della psicopatologia.
Ognuno dei sette vizi, tramite la moderazione,
potrebbe trasformarsi in un elemento positivo: la
superbia nell’elevata reputazione di sé, l’avarizia
nella parsimonia, la gola e la lussuria nel gusto e
nella gioia del vivere, l’invidia nell’emulazione
dei migliori, l’ira nell’affermazione della propria
personalità, l’accidia nell’amore del silenzio e
della solitudine. Questa analisi dimostra che
viviamo sulla soglia del peccato, perché, senza
la giusta misura, ogni tratto innocente della
nostra personalità rischia di degradare nel male.
L’insegnamento filosofico In medio stat virtus
continua ad
essere il segno
liminare capace di assicurare alla persona
l’equilibrio e al
credente la
permanenza
nella rettitudine. Secondo
gli epicurei,
questi sette
vizi (invece
della superbia
figura l’amore
dell’elogio) con
i loro eccessi impediscono all’uomo di raggiungere
l’atarassia, cioè la serenità che loro considerano il
sommo bene. Nonostante la prospettiva del danno
in sede di religione, di etica, nella società, i sette
vizi sono componenti dell’umanità che stimolano l’agire quotidiano, nei bisogni basilari, come
nutrirsi, ma anche nelle aspirazioni, nella difesa,
nell’affermazione della personalità. Il problema
è il confine sottile che, varcato, ci trasferisce dalla
pratica virtuosa delle azioni sul terreno del vizio.
Vittoria Butera
Saggista e scrittrice
Falerna Marina (CZ)
Il ciclo pittorico dai 7 vizi capitali è stato realizzato dall'artista Enrico Meo
Bibliografia di riferimento
U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, 2006
Francine Prose, Gola, Raffaello Cortina Editore, 2006
Enrico Meo, pugliese d’origine, vive a Cosenza dove insegna nell’Accademia delle Belle Arti. Pittore, scultore, ceramista,
sperimenta nuovi linguaggi artistici e utilizza le varie espressioni figurative in installazioni e performance. Numerose
le sue mostre su tutto il territorio nazionale; le sue opere sono presenti in vari musei.
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Strumenti/Liminarismo
TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Sono
abitante
della Terra
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L
Intervista esclusiva a
Maram Al Massri,
poetessa liminare
tra Siria e Francia
iminare per eccellenza è l’intellettuale che
vive lontano dalla propria patria e si sente
cittadino del mondo. È quanto emerso
dall’intervista alla poetessa siriana Maram Al
Massri, che abbiamo incontrato in occasione del
Progetto Arabo “Viaggio nel Maghreb e nel Medio
Oriente”, tenutosi a Cava e organizzato dalla Prof.
ssa Maria Albano dell’Università di Macerata.
Nata a Latakia (Siria), di famiglia musulmana
benestante, Maram Al Massri si è formata sulla
poesia di Hikmet, Gibran e Tagore. All’età di sedici
anni iniziò a scrivere le prime liriche “rimate e
ritmate”, sentimentali e patriottiche. Nel 1982 si
è trasferita a Parigi, dove, nonostante si sia ben
inserita, avverte una profonda nostalgia per gli
affetti lasciati in Siria. Per questo ha cominciato di
nuovo a scrivere nella lingua madre e a raccontare il suo mondo e il ricordo della sua patria.
Il testo che segue è quello dell’intervista
che lei, gentilmente, ci ha rilasciato in lingua
francese.
Un tema ricorrente delle sue liriche è quello dell’Amore. Qual è il concetto che lei ha di
questo sentimento?
Per me esso è molto reale ed è legato alle
esperienze della vita. Esso porta via tutte le parole
inutili e le catene che ci hanno imprigionato per
secoli e secoli.
Come vive la sua condizione di siriana,
trasferita a Parigi?
Vivo a volte un po’ male; ma, nonostante le
difficoltà emozionali, ci sono bei momenti, perché Parigi è una bella città, che mi ha dato dei
diritti, dignità che alcuni Paesi non concedono.
Quali pensa siano gli elementi che uniscono e quelli che differenziano la cultura
occidentale da quella orientale?
Certamente, ci sono molte differenze tra
queste due aree del mondo, ma con la cultura,
la tradizione e la tolleranza penso che esse si
possano avvicinare. Viviamo sulla stessa riva del
Mediterraneo, dividiamo lo stesso amore e lo
stesso sole. Le difficoltà stanno nella religione e
nelle culture che ad essa sono collegate, ma con
un po’ di umanità, di amore e di tolleranza, c’è la
possibilità di una comunicazione.
Oriente o Occidente? A quale si sente di
appartenere di più?
La mia infanzia è araba, ma io sono abitante
della Terra, mi sento universale, sono dappertutto,
Quali poeti l’hanno ispirata?
Appena ho cominciato a
scrivere, fin da piccola, sono stata
influenzata dalla poesia di Hikmet e Gibran. Non appartengo
a una scuola letteraria precisa,
ma appartengo alla modernità
della poesia.
anche in Giappone, dove non
sono mai stata. Adesso siamo
cosmopoliti, perché non viviamo
più solo nel nostro Paese; tutti i
Paesi ormai sono legati da un destino comune. A volte mi sento
molto orientale, a volte molto
occidentale: dipende dalle circostanze nelle quali mi trovo.
Il suo stile poetico non si
può facilmente inquadrare in
una precisa corrente letteraria. Ha dei modelli
ben precisi, a cui si è ispirata durante la sua
formazione letteraria?
Non ho veramente molti esempi a cui mi ispiro,
tranne l’esempio della libertà, l’esempio delle cose
che abbiamo imparato a scuola, delle rime, dei
tropi, degli studi classici. Io penso a un momento
della mia vita quando avevo un fratello che mi ha
spinta a liberarmi di questa catena, perché lui ha
una profonda esperienza nel trasmettere emozioni
attraverso le rime. E io mi sono liberata del mio stile
originario, della forma, per dare sfogo alla fantasia
e trasmettere sogni e sensazioni.
Lei è stata identificata come
una poetessa della naïveté. Si
identifica in questo gusto letterario?
Si, appartengo a questa tendenza linguistica.
Penso che essa sia il miglior mezzo per avvicinare
la poesia alla vita. Mi interessa trasmettere la mia
poesia e le mie idee nella forma più immediata
e più pura.
Quali sono gli elementi essenziali delle
sue liriche?
Sono la vita, l’osservazione, io stessa, voi, tutti
gli esseri umani.
Salvatore Falanga 29
Marianna Pagano
Nel prossimo numero di Lyceum saranno pubblicate
l'intervista in francese e una poesia (in italiano e in arabo) di Maram Al Massri.
Lyceum Dicembre 2009
Strumenti/Liminarismo
LETTERATURE COMPARATE
30
Il viaggio dell’ulisside tra
arethê ed entropia planetaria
L’inattingibile limen
di un centro ‘periferico’
L
’equinozio di primavera dell’anno 1300
segna l’incipit del viaggio dantesco
nell’oltretomba: trionfano temerarietà
ed ulissismo, che non sono affatto leitmotiv del
Vate, bensì topoi di plurimillenaria matrice, la
cui origine si perde nella notte dei tempi. Come
non ricordare, prima ancora dell’Ulisse omerico
e dantesco, l’epopea di Gilgamesh? Mitico re
della città di Uruk nel terzo millennio a. C., è il
protagonista di gesta memorabili, il faustiano
precursore di un’illimitata sete di conoscenza, di
un’inquietudine – tratto tipico dell’antieroe novecentesco – blandita dalla ricerca di una forma
ancestrale di sapienza e di immortalità. Il poema
omerico, dunque, che canta l’uomo polýtropos e
fragile al contempo, eredita gli stilemi di un epos
mesopotamico già consolidato su basi aurali e
formularie. Il viaggio dantesco poi è solo la variante di un’antichissima e gigantesca metafora
della conoscenza, di fiabe, di miti e di folclore
orali, di cicli epici mediorientali, in cui al centro
di un’avventura si colloca sempre lo schema della
visione, fedelmente riprodotta dal pellegrino
medievale, che attinge a piene mani all’enciclopedismo laico e mistico. Lo schema del viaggio
era, infatti, ben presente a Dante, vorace lettore
del Libro delle tre scritture di Bonvesin de la Riva,
del De Ierusalem coelesti et de Babilonia civitate
infernali di Giacomino da Verona, dei romanzi
cavallereschi del ciclo bretone e dell’Itinerarium
mentis in Deum di Bonaventura da
Bagnoregio.
L’epopea del viaggio in Dante è
solo l’inizio di un percorso straordinario: gli eroi-antieroi della conoscenza
del ventesimo secolo scandaglieranno ansie e psicologismi del voyage
within, sperimentando catarsi e redenzione nell’ascesi dell’esilio, della
guerra, del silenzio creativo, della
follia alienante – e penso a James
Joyce, Giuseppe Ungaretti, Luigi
Pirandello, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Thomas Stearns Eliot, solo per
citarne alcuni.
Il viaggio scandisce il cammino di un uomo,
ma anche la sua dipartita, i suoi ‘riti di passaggio’, ossia i mutamenti esistenziali nello spazio
rispetto alle transizioni epocali della storia, della
politica, dell’economia e del costume. Il viaggio,
insomma, marca un mutamento continuo, radicandosi in un’esigenza familiare e ordinaria per
sradicarsi e fluttuare nel dominio del perturbante
(heimlich vs unheimlich). Si parte per conquistare
saggezza, si ritorna, se si ritorna, con la consapevolezza di un’esperienza che ha comportato
fatica, pericoli, astuzie, inganni: Gilgamesh incise
l’intera storia della sua peregrinatio su una pietra;
Ulisse vide e conobbe le città di molti uomini e
la loro mente, ma entrambi patirono il dolore di
un’erranza spossante.
Lo spazio privilegiato dell’eroe antico e medievale è uno spazio fantasmatico, che non conosce la cartografia e la toponomastica moderna e
contemporanea: c’è sempre un centro – la città,
il castello, il bacino del Mediterraneo, insomma
lo spazio percorribile ed accessibile all’uomo - ,
e c’è sempre un decentramento verso la periferia
di uno spazio bestiale e disumano, che rasenta
l’orrido, il barbarico, l’occulto, il prodigioso, tutto
quanto non sia di facile conoscenza ed accesso.
Il centro, in Omero come in Dante, coincide
con la definizione del limite umano, è un confine
culturale più che spaziale; la periferia, invece,
simula la ferinità, la dimensione selvaggia e dionisiaca del vivere, la trasgressione dell’uomo che
lascia il suo centro e aspira a diventare un semidio.
Abbiamo forse dimenticato che in
Grecia l’ombelico del mondo era
Delfi con l’oracolo della Pizia e che
le feste dionisiache si celebravano
originariamente in Frigia, ossia in
territorio ‘barbaro’ per i Greci? E dopo
i Greci, i Romani conquistarono il
mondo: Roma fu caput mundi, centro
dell’universo e di tutte le tradizioni
religiose. E Gerusalemme? Le crociate ci hanno insegnato che il centro
della cristianità era diventato anche
il vessillo centrifugo di ariosteschi
giganti e di cavalli alati.
L’orientamento spaziale dei popoli antichi risponde all’esigenza del vivere associato, dell’identità collettiva su basi antinomiche – centro vs
periferia – e su basi cosmologiche, astronomiche
– l’asse oriente-occidente descrive il percorso giornaliero del sole per i popoli antichi, la direzione
est-ovest incarna l’immaginario collettivo a partire
dalla civiltà egizia fino a tutto l’evo greco-romano.
Dante (Pd., XI) celebra l’apoteosi del Santo povero,
Francesco, con una lunga perifrasi geografica per 31
additarne il luogo di nascita: se proprio si vuole
indicarlo, ribadisce il poeta, che si dica «ascesi»,
«oriente» e non «Assisi». ‘Oriente’, da ‘orior’, designa
il sorgere del sole agli estremi confini della Terra:
Dante ha indubbiamente assimilato l’ ‘oriente’
degli antichi.
Il Medioevo verticalizza e metaforizza, su
basi cristiane, la rappresentazione di uno spazio
diviso tra cielo e inferno. In ogni caso, la rappresentazione di un ordine stabilito dagli dei o da
un solo Dio è pur sempre l’allegoria cosmologica
dell’unheimlich attraverso gli archetipi dell’ignoto – la foresta, il mare, l’isola, l’oltretomba - : per
riconoscersi in quell’ordine, ed eventualmente
accettarlo o violarne le premesse, è necessario
spostarsi lungo l’asse spaziale e viaggiare con
tutti i mezzi possibili ed immaginabili.
Per l’eroe antico, il viaggio è una condizione
di sofferenza e di spoliazione, è un desiderio di
conquistarsi la fama come unica forma di immortalità concessa ad eroi o a dei, è la forza inconscia
di affrontare pericoli immani pur di attingere ad
una maggiore conoscenza di sé. Il viaggio denuda
Lyceum Dicembre 2009
Strumenti/Liminarismo
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l’eroe, esponendolo al nuovo e disancorandolo
dai consolidati diaframmi della terra del noto: il
primo distacco dagli affetti e dalla terra è necessario per acquisire quell’autonomia emotiva ed
intellettuale, quella che i moderni chiamano, con
straordinaria valenza transfrastica, «dissociazione
della sensibilità»; successivamente, le difficoltà
e le privazioni sono funzionali alla capacità di
cogliere le diversità etno-antropologiche; l’arrivo,
con la conseguente integrazione, spiazzano, ma
sono anche la premessa indispensabile per una
ridefinizione psicologica e sociale dell’identità.
Il viaggio cavalleresco medievale tende
all’accettazione dell’ignoto come valore positivo;
l’eroe antico, invece, accetta l’ignoto come perdita, spossamento e fatica immane, ma affronta il
rischio con stoicismo pur di guadagnarsi la fama
e la gloria: consunzione e logoramento fisico
intridono le costellazioni semantiche del ciclo
epico mesopotamico e del ciclo omerico. Gilgamesh affronta il mostro Humbaba della foresta
dei cedri solo per procurarsi la legna necessaria
all’edificazione dei sacri recessi; Odisseo è giovane e forte, ma è spezzato dalle innumerevoli
sventure quando arriva nella terra dei Feaci. Per
i cavalieri arturiani, invece, la foresta è sì l’ignoto,
ma non perché ricca di insidie da superare per dimostrare la propria valentia: essa diventa il regno
del caso e del prodigioso, in cui è bello scoprirsi e
conoscersi. La selva «aspra» e «selvaggia» di Dante non è forse una prodigiosa tappa intermedia,
che innesca la navigatio vitae del pellegrino nel
regno «che solo Amore e Luce ha per confine»? I
cavalieri medievali non sono forse uomini ‘liberi’,
in quanto dotati di armi ed
aventi il diritto di partire in
qualsiasi momento per una
nobile causa?
La quest dell’eroe bretone e carolingio è infinita,
labirintica, pluriprospettica: il
Furioso dell’Ariosto è una tela
infinita di avventure nobili,
è il macrocosmo armonico
del microcosmo intimistico
dell’uomo moderno ben
diverso dall’eroe antico. Nel
poema il viaggio si tesse in solitudine e disinteressatamente: non più i sublimi affreschi tragici
e corali di partenze eclatanti e collettivamente
sofferte in nome dell’arethê, ma la solitudine
dell’individuo già attraversato dallo spleen e
dall’ansia di stabilire un confine tra finito ed infinito, umano e divino. L’eroe antico non fa differenza
tra un ordine umano e un ordine divino; se lo fa,
è per avvicinarsi alla condizione divina, non per
riflettere sulla discrasia cielo-terra. L’eroe antico
non avverte la spaccatura romantico-cristiana,
che lacera Foscolo e Leopardi, perché è olimpicamente proteso verso l’immortalità ed agisce
da ‘immortale’ (si pensi agli eroi pindarici). L’eroe
moderno avverte la sua ‘finitezza’, perché l’avvento
del Cristianesimo ne ha fatto un homo novus, ne ha
trasformato la ratio e la psicologia di essere caduco
e frale. La quest dell’eroe ‘al di qua’ del Medioevo è
scandita dal desiderio di rintracciare nell’ignoto i
segni distintivi della paura e del prodigio: il pelago
dell’Ulisse dantesco è il simbolo dell’inconoscibile
pauroso e della folle corsa verso i limiti del mondo
conosciuto, del finito.
L’eroe contemporaneo accetta positivamente
il ‘nuovo’, in quanto possibilità di fuga dal presente corrotto dai lumi della civiltà e di ritorno
all’autenticità della natura, nonché desiderio di
trasgressione delle norme e ricerca del piacere:
spesso la fuga implica il rifiuto della convenzionalità borghese, della professione, della routine
lavorativa, insomma di un mondo stabile ed
ordinato che opprime, schiaccia la creatività. Gli
eroi-antieroi pirandelliani e sveviani rifiutano
il codice ‘borghese’ e le sue opprimenti norme
sociali, avvertono ‘umoristicamente’
la ‘contrarietà’ del vivere quotidiano,
la frammentarietà di un io scisso e polimorfo. Siamo alle soglie della frantumazione dell’io di Hegel: l’uomo
è «uno, nessuno, centomila», il suo
viaggio traccia percorsi inesplorati,
fino ai limiti dell’impossibile, aurorale
accordo tra uomo e natura. L’uomo è
scisso dal cosmo, stravolto dai venti
di guerra e dal tramonto delle salde
certezze metafisiche: intraprende
un viaggio farneticante, diventa un
funambolo joyciano colpito dal bagliore di gocce
argentee sulla spiaggia (epifania di Stephen), un
capocomico incapace di far recitare il copione già
visto ai suoi attori ‘scorporati’.
Il viaggio talvolta si configura come Sehnsücht, desiderio del desiderio, smania indecifrabile del vivere: accade all’artista del ‘900, che ha
raggiunto il culmine espressivo della forma, ha
scandagliato tutte le possibilità del mezzo artistico che gli è proprio, ha teso tutte le sue forze fino
allo spasimo, ha coltivato la ‘forma’ artistica con
ascetico ritualismo, insomma è all’occaso della
sua stagione creativa. L’artista è allora al culmine
dell’estenuazione, deve ricercare la
novità, la diversità per poter ricominciare. Spesso la diversità risiede
nel viaggio (l’esotismo romanticodecadente di marca estetizzante ed
orientaleggiante), nell’esplorazione
di luoghi anonimi e marcescenti, di
città splendide per il loro passato artistico e mortifere al contempo. Accade
a D’Annunzio, protagonista del bel
mondo romano, squallido e corrotto
dai fasti del Regime, candido visionario di scene
diafane e nivali, torbido spettatore-attore di
una digitale purpurea; accade a Thomas Mann,
che fa partire Aschenbach per una Venezia lussureggiante e degradata; accade a Oscar Wilde,
che investe nel viaggio metaforicamente inteso
tutta la personalità di Dorian Gray, l’eterno femminino ritratto sulla tela, ma soggetto all’usura
del tempo.
Ulisse è l’eroe-antieroe metamorfico di tutta
la letteratura odeporica occidentale: l’Ulisse
omerico è l’eroe del nóstos, l’Ulisse moderno è
l’antieroe della fuga. Già in Omero Ulisse-Odisseo
rinuncia all’immortalità offertagli da una dea;
l’itacese concentra in sé tutte le virtù dell’uomo
europeo: viaggiatore polýtropos e reso esperto
dai dolori per mare, abilissimo costruttore – ideatore del cavallo e del suo letto nuziale - , retore
finissimo e, dunque, maestro del bel dire e della
persuasione. Con la sua affabulatoria favella da
aedo, Ulisse incarna, per il mondo greco arcaico
e classico, il modello supremo della conoscenza
e della poesia.
Il fascino di Ulisse non risiede soltanto nella
fiaccola della ‘conoscenza’, che tanto onoratamente ha portato nei secoli, ma anche nella
sua misteriosa morte, profetizzata dall’indovino
tebano Tiresia durante il viaggio all’Ade. Il contenuto della profezia è di straordinaria importanza,
tanto che Ulisse, ritornato ad Itaca, avverte il
bisogno di parlarne con Penelope, prima ancora
di ricongiungersi alla sua donna nel talamo nuziale. L’eroe, dopo il suo ritorno, dovrà affrontare
ancora un altro viaggio: con un remo sulle spalle,
dovrà camminare fin quando non arriverà in un
paese in cui le genti «non conoscono il mare,/non
mangiano cibi conditi con sale,/non
sanno le navi dalle guance di minio,/
né i maneggevoli remi che son ali alle
navi» (Od., XI, vv. 122-125). In quel
luogo, un viandante scambierà il suo
remo per un ‘ventilabro’: allora dovrà
placare l’ira di Poseidone-Ennosigeo
compiendo altri sacrifici, dopo i quali
potrà definitivamente tornare a casa
ed esser colto da morte serena. Tiresia
gli profetizza una morte quanto mai 33
ambigua, una ‘morte dal mare’, una morte dolce
‘da una serena vecchiezza’: non si capisce se la
morte verrà dal mare o lontano dal mare. Intorno a questo dubbio si agita tutta la letteratura
classica, che ha plasmato infiniti e leggendari
vagabondaggi legati alla morte di Ulisse: Seneca
si chiede se l’eroe si sia effettivamente arrestato
alle colonne d’Ercole, Tibullo parla di un ‘mondo
nuovo’ esplorato dal temerario. Ulisse diventa il
simbolo della pazienza e della sagacia, oltre che
della temerarietà, gli Ellenisti e i Romani ne fanno
un campione di riflessività e non solo di azione,
di sapienza teoretica e di ricerca.
Dopo l’età ellenistica e l’età greco-romana,
è Dante a rileggere, in maniera dirompente diremmo, l’ultimo viaggio di Ulisse, ispirando per
secoli sottili e complessi giochi intertestuali, che
fanno costante riferimento al canto XXVI dell’Inferno: il ‘mondo nuovo’ emerso dalle esplorazioni
geografiche del XV secolo attraversa il mito di
Ulisse in maniera originale, poiché le connotazioni del «folle volo», dell’oscurità che avvolge la
navigazione nell’altro emisfero, della «montagna
Lyceum Dicembre 2009
Strumenti/Liminarismo
34
bruna» scambiata per «nova terra», il «turbo» e il
naufragio, insomma tutto quanto connoti l’altro
mondo, spariscono di colpo. Restano solo alcuni
riferimenti danteschi, quali «l’ardor a divenir
del mondo esperto», «la foce stretta dov’Ercule
segnò li suoi riguardi», la rotta «di retro al sol»:
l’altro mondo cede al nuovo mondo, ossia alle
nuove realtà geografiche scoperte da Colombo,
Diaz, Magellano e de Gama.
Risuona altissimo, per l’homo novus del Rinascimento, il monito ulissiaco: «Considerate la
vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza». L’uomo
del ‘500 è ‘politropo’ come Ulisse, è un eclettico
principe delle arti belle, dunque della retorica
e del gusto, è colui che osa perché padrone
dei suoi mezzi, è l’uomo che circumnavigherà
l’Africa come Vasco de Gama, che oltrepasserà le
‘colonne d’Ercole’: anche Ludovico Ariosto ne è
convinto, quando mette in bocca ad Andronica
la profezia del ‘mondo nuovo’.
Se il viaggio ulissiaco connota l’audacia e
l’intelligenza dell’uomo rinascimentale, con il
Romanticismo assistiamo ad un’ennesima trasformazione della figura di Ulisse:
il suo viaggio è aspirazione al superamento di un limite, è l’ansia
di attingere ad un quid inafferrabile; il desiderio di conoscenza
coincide con un viaggio infinito
al di là del confine del pensiero
umano, fino all’annichilimento
dell’essere.
Alfred Tennyson, il poeta vittoriano dall’estenuata e gracile sensibilità decadente e preraffaellita, cristallizzò l’esperienza di Ulisse in un
omonimo poemetto del 1833: il viaggio è sete
di esperienza, ma l’esperienza fa sempre baluginare una nuova luce per poi farla svanire; la luce
che balugina è come una stella che sprofonda
oltre il confine del pensiero umano, quella luce
è desiderio di conoscenza. E chi se non Dante ci
insegna che il viaggio è luce, ascesa, compenetrazione della «vigilia dei sensi» – la vita sensibile
(Inf., XXVI, 114-115) – e della «forma general di
paradiso» – Pd., XXXI, 52 - ? Il viaggio dantesco
è soprattutto questo: ascesa luministica dalla
schiavitù del peccato alla libertà della grazia divina («Tu m’hai di servo tratto a libertade/per tutte
quelle vie, per tutt’i modi/che di ciò fare avei la
potestate», Pd., XXXI, 85-87).
Nell’Ottocento, la metamorfosi di Ulisse ricalca, da un lato, il topos dell’indeterminatezza e
della tensione all’infinito – l’evasione e l’esotismo
sono due punti cardine della poetica romantica
d’oltralpe - , dall’altro l’ulissismo, inteso quale
desiderio di esplorazione e di conoscenza, viene deriso e messo alla berlina dall’iconoclasta
Leopardi: per il recanatese, è bello ‘immaginare’
l’ignoto e farne poesia senza alcuna mediazione
intellettualistica, è bello ‘naufragar’, ma è fondamentale restare ‘fanciulli’, guardare il mondo con
occhi aurorali. Non appena l’esploratore moderno fissa confini e limiti su carte geografiche, si
scopre l’‘arido vero’, tutto diventa uguale, il nulla
si spalanca, cessano le infantili fantasticherie.
Per Leopardi il viaggio è evasione, l’evasione è
poesia, immaginazione, non scienza o numerologia cartografica: le peregrinazioni di Ulisse
sono diventate materia poetica ‘metamorfica’,
nella misura in cui hanno ispirato sull’onda lirica del sentimento poetico, non per
le implicazioni ‘scientifiche’ – i grandi
viaggi e le esplorazioni del XV secolo, la
trasfigurazione eroica di Colombo, che
lo stesso Leopardi celebra nella canzone
Ad Angelo Mai, del 1820.
Ulisse, campione della poesia e
della scienza nell’età classica, incarna,
nel XIX secolo, la galileiana frattura tra
raziocinio e slancio fideistico: l’odissea dell’uomo
moderno sfiora accenti apocalittici, l’unica vera
scienza che si ricava dal viaggio è la consapevolezza del mondo come oasi di dolore e di tedio. Ci
attende la morte, l’unica forma possibile di conoscenza è l’inabissamento nelle acque dell’ignoto
– si pensi a Il viaggio di Baudelaire).
Ulisse naviga per i mari di tutti i pianeti nel XX
secolo con frequenza impressionante, rivivendo
nel vitalismo superomistico delle Laudi dannunziane e nel catastrofismo nichilista di pascoliana
memoria: l’Ulisse dannunziano è l’eroe classico
che sfida «nembi» e «fati» e «iddii sempiterni»,
perché la sua anima «d’uom perituro» abbia
immensa eco. L’Ulisse pascoliano è, invece, l’antieroe che riparte alla volta del canto delle Sirene,
per ripercorrere il suo glorioso passato, per ridefinirsi: lo vediamo solcare un «mare liscio come
un cielo», mirare «alla punta dell’isola fiorita le
Sirene» dalle «ciglia molli», interrogarle nel gesto
omerico e foscoliano di uomo caduco, che vuole
rivivere nella forza dirompente delle illusioni
poetiche. Ettore avrà «onor di pianti», nell’epopea foscoliana dei Sepolcri; Ulisse, nel suo muto
colloquio con le Sirene, si vedrà circondato da
un «grande mucchio d’ossa d’uomini», si renderà
conto che il prezzo da pagare per la conoscenza
è la morte. Non che non vi sia riscatto in L’ultimo
viaggio pascoliano, tratto dai Poemi Conviviali: è
che si avverte, al di là della forza del bel canto, il
destino di un uomo solo, lo spleen di Kierkegaard
e di Schopenauer.
Con Salvatore Quasimodo, l’ ‘ultimo viaggio’
di Ulisse rivive ancora in chiave miticosimbolica: la Sicilia è
l’ «isola di Ulisse» nata
dal fuoco celeste,
«nel rombo di rive
lunari» si avverte ancora «il tempo delle
mutazioni», che però
non cambia l’ «antica
voce» dell’isola (Isola
di Ulisse, in Erato e
Apollion).
Il mito di Ulisse
è così manipolato che diventa pure motivo di
dissacrante ironia: in fondo, che senso ha l’ ‘ultimo viaggio’, se simula l’insensato moltiplicarsi di
viaggi tutti volti alla ‘fine’ dei viaggi?
L’ebreo prigioniero ad Auschwitz, in Se questo
è un uomo di Primo Levi, è colto dall’improvvisa
intuizione del suo trovarsi in quel lager: è il suo
ultimo viaggio dantesco, come tenta di spiegare
ad un suo compagno di pena. L’‘ultimo viaggio’ è
la morte, il nulla, preferibili forse a tutto, soprattutto dopo aver gustato le gioie di un’esistenza
mortale: la ninfa Calipso che, nella rivisitazione
pascoliana (Calypso, 1904), accompagna il feretro
di Ulisse, che aveva rifiutato un tempo «le vesti
eterne» della dea, esclama: «Non esser mai! Non
esser mai! Più nulla,/ma meno morte, che non
esser più!» (vv. 51-2).
Umberto Saba sospinge il suo non «domato
spirto» verso quella «terra di nessuno», ove brillano come smeraldi «isolotti a fior d’onda»: è il suo
testamento spirituale, l’altissima consacrazione
della sua terra e della sua missione poetica,
scandita dall’inesausta ricerca di conoscenza
(Ulisse, 1946).
La fine del viaggio non è più solo l’annichilimento dell’ignoto dell’antieroe novecentesco,
ma anche la fine di qualsiasi possibilità di
evasione offerta dal diverso e dal nuovo: i massicci fenomeni turistici di massa e l’imponente
sviluppo di vie di comunicazione hanno svilito
il significato stesso dell’esplorazione, ormai alla
portata di tutti. Il silenzio dei mari polinesiani è
stato violato da massicce portaerei, le bidonvilles
rodono l’Africa, l’aviazione
miliare viola le vergini
foreste americane, i viaggi
svelano il lurido volto della contaminazione. La Ter- 35
ra non ha più segreti per
l’uomo del XX secolo, non
è più uno scrigno prezioso
che racchiude fantastiche
promesse utopiche, ma
solo una molecola battuta
in lungo e in largo, con
sinistri presagi distopici!
Esplorare l’ignoto diventa, allora, un’ardua impresa, poiché bisogna
reinventarlo, magari fantasticando negli spazi
interplanetari o nelle viscere della Terra (si pensi
a Jules Verne ed al romanzo fantascientifico).
Mitiche frontiere dello spazio e del tempo popolano viaggi avveniristici e futuristici di robot,
lanciati nello spazio e nel tempo per verificare,
con positivistica precisione anatomica, gli effetti prodotti dalla selezione darwiniana e dalla
marxiana lotta di classe: la conclusione di questi
‘congegni’del tempo e dello spazio, però, non è
meno lugubre dell’ ‘ultimo viaggio di Ulisse’. Il
pianeta Terra è destinato all’entropia, a forme di
regressione animalesca ed antropofaga – H. G.
Lyceum Dicembre 2009
Strumenti/Liminarismo
36
Wells, La macchina del tempo, 1895. Forse l’unico,
affascinante risvolto del viaggio è l’esilio-profezia
di uomini illustri, che vanno incontro al nulla pur
di affermare il proprio credo artistico o ideologico, anche quando la segregazione coincida
con la più sovversiva spinta anarcoide o con il
più moderato ‘senso comune’ tacciato di anarchismo in pieno regime totalitario. Gli esempi
nella letteratura e nella storia sono plurisecolari
ed innumerevoli, bastino pochi nomi: Catone
Uticense, Dante Alighieri, Torquato Tasso, James
Joyce, Ignazio Silone, Palmiro Togliatti, l’ultimo
rampollo di casa Savoia accolto in territorio italiano, i boss della ‘camorra’ e della ‘ndrangheta’. In
ogni caso, si abbandonano le cose «dilette» e gli
affetti più cari, come quelli additati dal trisavolo
di Dante, Cacciaguida, nel XVII del Paradiso: siamo
nel cielo degli spiriti combattenti, il destino del
poeta è associato a quello dei ‘martiri’ per una
giusta causa. Dante dovrà lasciare Firenze, ma la
sua poesia sarà «vital nodrimento» per il mondo
intero: nel cielo di Marte si profetizza l’esilio di
Dante, ma anche la sua solenne investitura come
poeta. Il viaggio di Dante «giù per lo mondo
sanza fine amaro» e «per lo monte del cui bel
cacume li occhi della mia donna mi levaro», si
conclude nel paradiso con la consapevolezza di
un esilio amaro, ma fonte di verità: il poeta rac-
conterà tutto quanto ha testimoniato, la sua voce
sarà «molesta» inizialmente, poi sarà «digesta»,
assimilata da tutti quelli che ameranno la luce
della verità. La sua poesia immortalerà dannati
e non, denuderà le aberrazioni di Bonifacio VIII,
che ha mercanteggiato il suo esilio cospirando
con i civili, scuoterà «le più alte cime» come un
vento innovatore.
In effetti, quando Dante si accinse alla stesura
del Paradiso, l’esperienza dell’esilio era ormai lontana, il poeta aveva abbandonato la speranza di
un ritorno a Firenze, scrivendo nella prospettiva
eterna della gloria poetica. Attraverso il dialogo
con l’avo, che in realtà è il suo alter ego, Dante
riconferma a se stesso le ragioni di una scelta
di vita improntata al rigore di una scelta morale
e ad un amore della verità senza cedimenti o
compromessi. Perso con l’esilio, e per sempre,
il luogo più caro, il poeta rinuncia a qualsiasi
altra protezione, fregiandosi della solitudine di
chi «fa parte per se stesso»: la contropartita del
suo viaggio senza ritorno e senza ‘Penelope’ sarà
la gloria eterna, la fama «tra coloro/che questo
tempo chiameranno antico» (Pd., XVII, 120).
Gabriella Carrano
Liceo Classico ‘Marco Galdi’
Cava de’ Tirreni
e Università di Salerno
LETTERATURA E TEATRO
Tra memoria storica
e fantasia emotiva
Il mare grosso e una leggera foschia imperversavano davanti
alla Torre del Serpe. Nei paraggi si
muovevano i pescatori con i visi
bruciati dalla fatica e dal sole. A
largo hanno visto le galee turche.
Ed ecco la consapevolezza e la
paura prenderli al cuore (Maria
Corti, L’ora di tutti, 1962).
A
passeggio per la città
Una calda e ventilata mattina di fine luglio, una passeggiata nel centro storico
della più bella cittadina del Salento, con monumenti, piazze, vicoli, negozi e ristoranti, con i
bastioni che affacciano sul porto e verso il mare,
con il lungomare e la spiaggia sabbiosa a ridosso
della via di passeggio; un incontro inaspettato,
due inviti per la sera, uno alla Festa della luce, percorso di musica, video e parole, con esposizione
di libri Spirali, nella piazzetta presso la Biblioteca
Antonio Corchia, l’altro alla rappresentazione di
un’opera popolare, L’ora di tutti, di Maria Corti
(1915-2002), nel fantastico scenario dei Fossati
del Castello Aragonese della città più orientale
d’Italia, il cui porto le fece assumere il ruolo di
ponte fra oriente ed occidente, in quanto importante scalo di commerci tra Venezia, la Dalmazia,
l’Italia meridionale e Costantinopoli.
Due inviti per la stessa sera e alla stessa ora e
il problema della scelta, risolto grazie alla magia
da sempre esercitata da un castello, fonte di
ispirazione per celebri romanzi come quello di
Horace Walpole che, nel 1764, scrisse The Castle
37
”
...la terra d’Otranto
suona vivissima e si trasforma
in terra di passioni più vere
”
of Otranto, dalla critica valutato come il primo
esempio di romanzo gotico.
Si decide, dunque, per L’ora di tutti, o meglio
per la trascrizione scenica del libro della Corti,
un capolavoro della narrativa italiana sull’attacco subito da Otranto nel 1480 da parte dei
Turchi Ottomani di Maometto II. Un testo che,
come afferma Giorgio Caproni, i lettori sentono
Lyceum Dicembre 2009
Strumenti/Liminarismo
38
vivo e vicino perché la scrittrice, seguendo il filo
conduttore della battaglia, è riuscita a comporre
un ordito descrittivo, quasi uno spartito musicale,
dove la terra d’Otranto suona vivissima e diventa
la terra delle passioni più vere.
Quelle stesse passioni di cui è intrisa la vita
della scrittrice. Una vita travagliata che l’ha costretta, dopo la morte prematura della madre e
la lontananza del padre per motivi di lavoro, ad
un lungo periodo di collegio, ma che l’ha vista
tuffarsi nello studio, conseguire due lauree, in
Lettere Classiche ed in Filosofia, insegnare nelle
scuole secondarie, impegnarsi nella ricerca e
nell’insegnamento universitari a Lecce e a Pavia,
e dedicarsi anche alla scrittura creativa. Molte le
raccolte di saggi e numerosi gli studi sugli autori
delle origini ma anche su autori contemporanei
che spesso frequentava personalmente, come
nel caso di Eugenio Montale. Fondatrice e direttrice di riviste, collaboratrice de la Repubblica e,
soprattutto, accademica della Crusca e creatrice
del Fondo manoscritti di autori moderni e contemporanei presso l’Università di Pavia. E tanto
amore, di una donna milanese, per la Puglia e
per gli otrantini, ai quali ha fatto omaggio affettuoso del libro e sui quali così si è espressa: “Che
uomini questi popolani. Come farà la storia a non
perderne di vista nessuno?”
Dal libro allo spettacolo
Otranto, l’antica città greca di Hydrús,
fondata da coloni cretesi, poi municipio
romano con il nome latino di Hydruntum,
al centro del Mediterraneo e per questo
facile preda di Bizantini, Longobardi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Veneziani e
Francesi, è descritta attraverso il racconto
di cinque personaggi reciprocamente
intrecciati: il pescatore Colangelo che, di
guardia sulle mura della città, per difenderla sacrificò la propria vita; il capitano
Zurlo, anche lui morto nell’intento di difendere la propria terra; Idrusa, secondo
la leggenda la donna più bella di Otranto,
uccisa mentre cercava di salvare un bambino catturato da un soldato turco; Nachira, uno
degli ottocento otrantini che morirono decapitati
e ai quali è dedicata la Piazza dei Martiri; Aloise
de Marco, che racconta il ritorno alla vita dopo
la liberazione dai turchi.
E lo spettacolo, intreccio di un soggetto
essenzialmente recitato e di parti cantate da
solisti e coro, è quasi metafisico con quel suo
mostrare un Salento nuovo ed enigmatico, con
quel suo gusto per l’esplorazione di un mondo
arcaico senza tempo, quasi un quadro che come
per magia mette insieme attori (oltre cento giovani sotto i trent’anni su un palco di mille metri
quadrati) e pubblico, protagonisti di un dramma
avventuroso metatemporale e metaspaziale.
Otranto, infatti, è ricostruita come luogo non
solo della memoria ma anche della fantasia, per
la presentazione di un fatto che è avvenuto nel
passato e che viene ricreato nelle emozioni del
presente. Ciò che più sorprende è il fatto che non
si ha paura dei turchi, ma si può aver paura dell’
invasione, di quello che potrebbe modificare il
corso della vita, costringere in prigionia, o addirittura uccidere. Si ha paura, insomma, di ciò che
non si conosce.
Ed è per questo che ci si chiede, sia scorrendo
le pagine del libro che assistendo allo spettacolo,
ma se legassimo alle storie dei protagonisti le
nostre voluttà, miserie e paure, riusciremmo
a restare noi stessi, con i nostri valori, in una
situazione così drammatica? E se avessimo solo
un’ora, la nostra ultima
ora, quale sarebbe la reazione di ciascuno di noi
insieme agli altri, ma allo
stesso tempo solo con se
stesso? Quali i pensieri
dominanti, i ricordi ricorrenti, quali i sentimenti
dell’ultima ora, fissati un
attimo prima di smettere
di esistere e intrappolati
dalle macerie della tragedia?
Domande sgorgate,
più che dalla mente, dallo
sguardo di chi, lettore o
spettatore che sia, è sempre pronto a cogliere
con tenero affetto i pensieri che si agitano den-
tro i protagonisti mai abbandonati a se stessi,
destinati ad essere eroi, martiri, temerari o
vili, e a cancellare confini spazio-temporali nel
tentativo di rivivere il drammatico evento
storico su uno sfondo quasi verista
di sorpresa per l’attacco,
attesa snervante, ansia
non sempre controllabile
perché non si sa quale sarà
la propria fine.
Estetica senza confini
E’ indubbio che il libro e
la trascrizione scenica dello
stesso rappresentano due generi
diversi, ma è altrettanto indubbio
che come la forza descrittiva delle
parole della Corti riesce a far seguire la battaglia nel suo tumultuare
di galeoni, scimitarre e bombarde,
così la regia di Fredy Franzutti, le
coreografie del Balletto del Sud,
sintesi di tradizioni popolari locali respira, si
e di elementi di danze orientali, le
musiche di Francesco Libetta, gli
arrangiamenti di Angelo Privitera e soprattutto la
supervisione di Franco Battiato sono riusciti a fondere teatro, musica, danza, luci, effetti sonori in
multidiffusione con speciali videoproiezioni, che
riproducono sulle grandi mura del castello una
scenografia virtuale ispirata alle opere pittoriche
di Nino Della Notte, uno dei più famosi pittoripoeti salentini che ha saputo raccontare una terra
bella, accogliente e carica di suggestioni.
Stetti a guardarla, pensai che era bella come
una donna minuta e ben fatta, in cui uno trova tutte
le bellezze: costruita di pietra bianca, porosa e robusta insieme…Vista dal mare, Otranto appare ancora una fortezza…ma dietro la vuota abbondanza
di mura e torrioni, un prodigio di viuzze bianche in
salita, in discesa, di casette bianche, di palazzotti
”
tufacei (Maria Corti, op. cit.), ma soprattutto di
tanta storia che si respira, si sente, si vive.
Storia che si para dinanzi agli occhi e che
trasuda da opere architettoniche che non si
sono lasciate oltraggiare dalla cruda violenza
dell’uomo.
Opere quali la splendida Cattedrale, costruita
fra il 1080 e il 1088,
col suo pavimento
a mosaico risalente agli anni 11631165, per mano del
monaco basiliano
Pantaleone, e dove
vennero benedetti
i dodicimila Crociati che, guidati dal
principe Boemondo I d’Altavilla, partivano per liberare
e per proteggere
Otranto è storia che si il Santo Sepolcro;
il Monastero di S.
sente, si vive
Nicola di Casale, 39
dove era custodita
una ricca biblioteca consultabile da ragazzi
provenienti da tutta Europa per studiare presso
l’Università che era stata da poco istituita, Monastero famoso anche per i Codici, ora custoditi nelle
migliori biblioteche d’Europa, da Parigi a Londra,
da Berlino a Mosca; la Chiesa bizantina di S. Pietro,
la più antica della città; la piccola Chiesa dedicata
alla Vergine degli Abissi; le mura angione; il già citato Castello aragonese; e, simbolo dei simboli, la
Chiesa di Santa Maria dei Martiri, in cui ogni anno
si ricorda il giorno del martirio ma anche la ferma
volontà dei sopravvissuti di ricominciare a vivere
a partire da quell’evento, assunto come confine
dalla duplice valenza, in quanto passaggio dalla
vita alla morte e dalla morte alla vita.
Angelina Rainone
Lyceum Dicembre 2009
”
Strumenti/Liminarismo
Il “Liminarismo”
nel cinema di Tornatore:
PROIEZIONI D’AUTORE
40
È possibile fare storia del costume, della politica, della gente
comune nell’ultimo secolo del
nostro Paese, sganciandosi dal
parametro storiografico o cronachistico, per far giungere un messaggio all’uomo di oggi attraverso una lettura “liminare” e meta
temporale delle gioie, passioni e
dolori che hanno caratterizzato
l’immutabilità strutturale della
provincia siciliana e meridionale
in genere? Tornatore, da par suo,
ci prova. E ci riesce insegnandoci
qualcosa sulla libertà.
D
iscussione liminare
Il liminarismo non è esclusivamente la
“considerazione” del limite nella sua
complessità, quanto anche (credo) la “discussione” sul limite in generale e sul suo senso. Per
questa ragione la sezione sul liminarismo di
Lyceum si è sempre posta come un grande “abbraccio” alla dimensione dell’indefinito in tutte
le forme che la Ragione umana può scovare e
approfondire. La sua espansione diventa sfida al
raggiungimento di un orizzonte, piuttosto che al
suo solo manifestarsi, per così dire, “fenomenico”.
Possiamo, in questa direzione di ricerca, inserire
anche il cinema? Credo di si. E quello di Giuseppe
Tornatore, con il suo ultimo lavoro, appare come
l’occasione giusta per aprire una discussione su
tematiche fondamentali per la vita umana.
Baarìa
Oltre la trama
Senza togliere allo spettatore il gusto della
visione e, quindi, tralasciando lo sviluppo narrativo della pellicola, sarebbe interessante, in questa
sede, fermarsi sui messaggi liminari del lavoro
di Tornatore e sui contenuti che essi potrebbero
trasmettere. “Potrebbero”. Eh si: perché la grande
novità di Baarìa sta nell’estrema libertà interpretativa che ognuno può darsi del significato
legato ai momenti fortemente meta-temporali
del film e, conseguentemente, liminari, dal mio
punto di vista.
L’aspetto liminare più evidente del lavoro di
Tornatore è riscontrabile nella felice intuizione
di raccontare una Bagheria trasversale ai tempi
che vanno dal ventennio fascista ai giorni nostri.
Il tutto filtrato dallo sguardo, idealista e spassionato, di un militante comunista che abbraccia
il marxismo come reazione all’ingiustizia di
una società rurale che non da’ speranza a chi
nasce nell’indigenza, per continuare, poi, la sua
personale avventura politica, fino all’approdo
riformistico.
La storia individuale del protagonista è intrisa di meta-temporalità (dunque liminare), a
differenza di quella relativa ad una Bagherìa che,
negli anni, resta sempre uguale a sé stessa, con la
sua gente indifferente o rassegnata, le sue discussioni vivaci e sempre inutili (come immortalato
in un famoso quadro del grande Renato Guttuso,
nativo della cittadina siciliana) e che, in fondo,
fa da cornice ad una vita che è il vero “quadro”
dell’opera tornatoriana, a sua volta, però, affrescata anche per filtrare altri messaggi che non
siano esclusivamente quelli socio-politici: qual
è il significato sibillino, ad esempio, della mosca
che fuoriesce (incredibilmente viva) dalla trottola
di legno del protagonista, spaccata nel gioco di
strada dagli altri ragazzi?
Il ruolo del grottesco
Villa Palagonìa: dimora patrizia usata come
set cinematografico da grandi registi e attori, da
sempre ornata di statue grottesche e orrorose
che, numerose, punteggiano ingresso e giardino. Il piccolo protagonista del film apprende,
nell’occasione della lavorazione di una pellicola
tra le sue mura, che anche il viale d’accesso alla
tenuta era contornato da centinaia di figure
raccapriccianti poi sparite nel buio dei secoli;
ma, con la fantasia, egli riuscì ad immaginare
l’arcana struttura passata con il tempo e, davanti
ai suoi occhi, si materializzò una teoria di quelle
antiche immagini scomparse. Poco alla volta,
fra quelle icone di pietra, plastica traduzione
dell’interazione liminare tra mondi apotropaici,
cominciarono a far capolino altre figure grottesche
ma vive, e cioè gli sconcertanti abitanti “diversi”
di Bagherìa: ipodotati,
storpi, alienati; tutto quel
mondo di emarginati che,
normalmente, viene considerato foriero di nulla
di buono per i cosiddetti
“normali”. Eppure, nella
visionaria struttura narrativa di Tornatore, la chiave
del messaggio più bello
dell’intera pellicola, risiede nel gesto e nella
“filosofia” di uno di questi reietti.
La trottola
La magistrale dissolvenza della scena relativa
al viale dei mostri di villa Palagonìa che riporta
lo spettatore in città, mette in contatto con uno
di quegli stessi reietti così simile alle figure grottesche dell’antica residenza patrizia immaginate
dal protagonista. Uno di questi infelici esegue
lavori di falegnameria e costruisce, per il gruppetto di monelli che ha fatto irruzione nella sua
bottega, trottole di legno, giocattoli fuori moda
ma pieni di fascino.
Prima di chiudere quella destinata al protagonista con il puntale di ferro che ne dovrebbe
stabilizzare l’equilibrio in movimento, lo strano
artigiano dà un suggerimento ai ragazzi: se all’interno della cavità ricavata nella trottola si fosse
posta una mosca catturata mentre si librava libera nell’aria (e non appoggiata da qualche parte),
anche la trottola avrebbe volato in libertà.
Uno dei monelli del gruppetto afferra, appunto, una mosca in volo e il minuscolo insetto viene 41
chiuso nella trottola, sigillata dal puntale ferreo.
La domanda del giovanissimo protagonista sulla
sorte dell’insetto, se, cioè, esso sarebbe morto
all’interno del giocattolo, resta in sospeso, senza
risposta, mentre una nuova dissolvenza porta la
storia su altri scenari con lo spettatore che quasi
dimentica il piccolo, apparentemente insignificante particolare della mosca e della trottola.
Lyceum Dicembre 2009
Interpretazioni
metaforiche
Alla fine del film,
quando lo spazio narrativo cede il passo
alla fantasia, all’interpretazione, al liminare,
appunto, il particolare
“senza importanza” di
cui sopra, torna prepotentemente. E così,
il protagonista, tornato bambino (dopo lo
svolgimento della sua
Strumenti/Liminarismo
esistenza in una dimensione onirica
dalla quale si sveglia tornando indietro nel tempo), si trova dapprima
nell’attuale e caotica Bagheria; la
città non è mai veramente mutata:
nemmeno la casa dove abitava lui,
perennemente in ristrutturazione,
era sostanzialmente cambiata. E questa è davvero una trovata magistrale del regista per cristallizzare, in un solo istante, nell’immediatezza dei
tempi cinematografici, l’immutabilità di eventi
nonostante la loro ciclicità quasi “nietzescheiana”. Poi, il bambino corre in direzione opposta
a quella da lui stesso percorsa all’inizio della
pellicola fino ad incontrare il proprio alter-ego
in una riproposizione paradossale degli eventi
iniziali che si presentano, ora, come conclusione,
laddove erano stati, precedentemente, i fatti con
cui tutto aveva avuto luogo inizialmente.
42
La mosca
A questo punto, protagonista e compagni
riprendono il gioco interrotto all’inizio del film.
Tutto sembra essere tornato alla normalità, ed
anche nello spettatore comincia ad insinuarsi il
dubbio che la dimensione onirica della pellicola
sia predominante, quando, all’improvviso, uno
dei monelli spacca in due la trottola del protagonista; il giocattolo di
legno, frantumato, tremola qualche istante nella strada polverosa
e poi si ferma, mentre la telecamera indugia qualche istante sul
“cuore” dell’oggetto: ed ecco che
dalla cavità centrale, zampettando lentamente,
ne esce fuori, viva, la mosca che vi era stata
rinchiusa tanti anni (o forse solo pochi istanti?)
prima. “Rinchiudici una mosca libera ed essa girerà libera”, aveva detto più o meno l’artigiano
al bimbo. Ora quella mosca libera, esce viva dal
suo sarcofago ligneo pronta ancora a levarsi in
alto; la Libertà, quella con le ali, quella con la elle
maiuscola, può essere rinchiusa in un giocattolo
di legno o essere messa a margine negli anni bui
di una dittatura, ma prima o poi qualcosa (una
guerra, una resistenza, nuove consapevolezze o
semplicemente un gioco?) giungerà a frantumare
l’involucro che la tiene costretta contro la sua
volontà ed essa, forse un po’ stordita, disorientata,
ma sempre vitale, potrà riprendere di nuovo il
volo. Ineluttabilmente.
Guido Iorio
Dip. di Latinità e Medioevo
Università degli Studi di Salerno
LETTERATURA ITALIANA/1
Il “comico” liminare
della Comedía:
43
I
Personaggi comici che non ridono
e beati che indulgono al turpiloquio
l riso si accompagna alla nascita della letteratura romanza anche nei generi più inaspettati:
sembra singolare che il pubblico delle canzoni
di gesta, così amante dell’epica, potesse essere
incline ad apprezzare l’ironia o la burla. Eppure
frequentemente già in questi poemi, massime in
quelli franco-italiani, la derisione e lo scherzo trovano ampio spazio, fino ad entrare in concorrenza
con la vena epica che li dovrebbe maggiormente
caratterizzare. Il comico non è conciliabile con
l’esaltazione e richiede un distacco critico rispetto
alla materia cantata, una mancata condivisione dei
valori e della visione del mondo. Come afferma
Bergson: “E’ necessario che chi ride non si lasci
coinvolgere emotivamente dalla scena che lo
diverte”. Ecco allora che anche i paladini possono
trovarsi in situazioni più o meno ridicole come
avviene nell’”Entrée d’Espagne”, il cui unico manoscritto è conservato alla Marciana e viene fatto
risalire al Trecento, e nei cantari il cui pubblico
apprezzava sia le imprese degli eroi che scene
meno impegnative e più divertenti.
Il riso non era solo quello che ci si aspettava
dai fruitori, ma anche quello dei protagonisti
e per lo più non era espressione d’allegria o di
divertimento, ma piuttosto strumento di derisione, di “gab” nei confronti del proprio nemico
o avversario. La risata di Orlando di fronte allo
spavento del patrigno Gano, quando riceve
l’incarico di recarsi dal re Marsilio di Saragozza
per trattare la pace, è un’aperta sfida e come
tale viene percepita dal signore di Maganza che
incomincia già in quel momento a tramare la
vendetta e il tradimento.
Lyceum Dicembre 2009
Strumenti/Liminarismo
44
Gli eroi sono anche inclini al turpiloquio e
offendono a sangue i loro nemici prima dello
scontro: ricorrono spesso espressioni come “fils
à putain” e “culvert”.
Anche nel cosiddetto “ciclo bretone” siamo
in presenza di scene ridicole e di personaggi
che ridono, come sottolinea P. Ménard in Le rire
et le sourire en France dans le roman courtois au
Moyen Age.
Dante conosceva bene questa materia e
sicuramente ne è influenzato anche nella composizione della Commedia, non solo in singoli
episodi, come nel V dell’Inferno, ma anche nella
concezione del poema che alla fine acquista i tratti di una vera e propria Danteide, ma mantiene
comunque la presenza del livello “comico”.
Umberto Eco ne Il nome della rosa” ha ben
presente, da profondo conoscitore del
Medio Evo, tutta la problematica sul
comico e sul riso. Tre sono le dispute
tra il protagonista, Guglielmo di Baskerville, e Jorge Burgos, benedettino cieco
e omicida per estirpare la piaga del riso
e del peccato.
Verba vana aut apta risui non loqui:
Jorge Burgos così irrompe sulla scena e
apostrofa i confratelli ricordando la regola che bisogna evitare le parole vane
o atte al riso, quando tutti stavano scherzando
nello “scriptorium” su alcune immagini ridicole.
In questo episodio e più in generale nel romanzo vi è una rete di rimandi alla Commedia, non
saprei quanto voluti dall’autore: l’apparizione
improvvisa di Jorge, che sorprende i frati in una
situazione secondo lui sconveniente, richiama
l’episodio di Casella che riesce a fuorviare tutte le
anime, Dante e Virgilio compresi, cantando Amor
che nella mente mi ragiona; il motivo del riso e la
responsabilità della letteratura (qui il secondo
libro della Poetica di Aristotele) rinvia al racconto
di Francesca nel V canto dell’Inferno. Si noti anche
che è la sola volta che occorre nella prima cantica
la parola “riso”: il “desiato riso” è la bocca ridente
di Ginevra che attira irresistibilmente Lancillotto.
Alla recisa condanna dell’intransigente frate Guglielmo ribatte che talvolta le immagini marginali
inducono al riso a scopo educativo.
Nella seconda disputa Jorge riparte da dove
la prima era stata interrotta, ribadendo la sua
riprovazione anche per i “marginalia”: i discepoli
non possono lasciarsi attrarre da discorsi illeciti.
Guglielmo ribatte con le parole scherzose che S.
Lorenzo avrebbe pronunciato durante il martirio:
“Manduca iam coctum est”. Il santo si sarebbe così
rivolto ai suoi carnefici mentre veniva arrostito.
Ovviamente il suo avversario inizialmente
non capisce la battuta perché, come ancora
sostiene Borges, “il riso cela sempre un senso
nascosto di intesa, direi di complicità, con altre
persone che ridono, reali o immaginarie che
siano”. E, quindi, queste parole sono più rivolte ai
confratelli che hanno un po’ di “sense of humor”
che all’anziano e rigido monaco.
Nell’ultima il contrasto riguarda la possibilità
che Cristo abbia mai riso. Comunque per l’anziano monaco
bisogna condannare le commedie e le favole che muovono al
riso, infatti Gesù si è servito solo
di parabole.
Tutto ruota attorno alla poetica di Aristotele e alla possibilità
che anche il comico abbia un
suo spazio lecito. Platone, come
è noto, aveva condannato il riso,
salvando solo quello che si può avere durante i
banchetti tra un ristretto gruppo di intellettuali.
Per Aristotele, invece, la questione è più complessa: la commedia rappresenta uomini peggiori di
noi non perché più brutti fisicamente ma perché
ridicoli; comunque la condanna è meno netta.
Dante ha soprattutto presente l’Ars poetica di
Orazio, popolare e chiara sintesi delle tesi di Aristotele e degli Aristotelici, come risulta evidente
del De vulgari eloquentia (II, IV, 6):
Si vero comice, tunc quandoque mediocre quandoque humile vulgare sumatur.
Il registro comico, perciò, ammette non
solo la presenza di vocaboli bassi, ma anche di
un lessico medio. Ancora più chiaro è un passo
dell’Epistola a Cangrande:
Similiter differunt in modo loquendi: elate
et sublime tragedia; comedia vero remisse
et humiliter, sicut vult Oratius in sua Poetria, ubi licentiat aliquando comicos ut
tragedos loqui, et sic e converso.
E’ ammesso che talvolta i comici adottino lo
stile tragico e viceversa. Quello che nei testi teorici appariva una sorta di eccezione, la mescidanza
degli stili, diventa la regola nella “Commedia”,
dove il turpiloquio e l’utilizzo di vocaboli bassi
non è solo prerogativa dei dannati.
D’altro canto nell’Inferno, la cantica dello
stile comico per eccellenza, nessuno ride; “riso”
compare solo nel canto V quando Francesca
ricorda la bocca ridente di Ginevra.
Il riso ricorre spesso nel Paradiso associato a
Beatrice: raggiandomi d’un riso / tal, che nel foco
faria l’uom felice (Par., VII, 17-18), dentro a li occhi
suoi ardeva un riso” (Par., XV, 34), O dolce amor che
di riso t’ammanti, / quanto parevi ardente in que’
flailli (Par., XX, 13-14), tanto, col volto di riso dipinto, si tacque Beatrice (Par., XXIX, 7-8), lo rimembrar
del dolce riso / la mente mia da me medesmo scema
(Par., XXX, 25-26).
Parlare di liminarismo in Dante può portare
a farsi irretire dalle sirene delle interpretazioni
esoteriche presentate da Pascoli e dal suo allievo
Valli, per citare solo due esempi noti. Ma si può
anche evitarne i rischi, affrontando la questione
non dal punto di vista di letture “extravaganti” del
testo dantesco, ma da quello più stilistico e letterario della unicità del comico della Commedia.
Il “comico” è sempre stato visto con sospetto
e con sufficienza dalla cultura ufficiale che, talvolta, ha rivalutato solo dopo la morte il lavoro
e l’arte di autori e attori che in vita erano stati
considerati spesso esponenti di un genere facile
e popolare. Alludo a Charlie Chaplin, ma anche
a Totò; mi riferisco ad Eduardo De Filippo, come
a Jerry Lewis. La grandezza dell’autore o attore
comico ha sempre avuto riconoscimenti tardivi,
se non postumi.
Come nota Borsellino, sono sempre stati più
apprezzati i “generi” alti, quelli più rigidi dove
i “topoi” sono fissati: l’autore tragico spesso si
rivolge a un pubblico che già conosce la storia, da
Edipo a Oreste, e non si aspetta grandi innovazioni: il “movere” ha delle leggi fisse e non richiede
grande creatività.
Il comico, invece, ha tutte le stimmate del
liminarismo: l’autore è spesso emarginato o
misconosciuto; talvolta in odore di stregoneria
come Luigi Pulci; talvolta tende a infrangere leggi
o tabù come Cecco Angiolieri. Bisogna, però,
sottolineare che il comico non è unito inscindibilmente con il riso e l’allegria.
La vena malinconica di Cecco emerge chiaramente ad esempio nel sonetto Il cuore in corpo
mi sento tremare:
Il cuore in corpo mi sento tremare,
sì fort’è la temenza e la paura,
ch’i’ ho vedendo madonna in figura,
cotanto temo di lei innoiare.
E non porìa in quel punto parlare:
così mi si dà meno la natura,
ched i’ mi tengo in una gran ventura
quand’i’ mi posso pur su’ piei fidare.
Infino a tanto che non son passato,
tutti color che me veggiono andando,
sì dicon: - Ve’ colui, ch’è smemorato! Ed io nulla bestemmia lor ne mando,
ch’elli hanno le ragioni dal lor lato,
però che ‘n ora in or vo tramazzando.
Qui troviamo sì il linguaggio basso (“bestemmia”), ma anche scelte lessicali che avvicinano il
Senese a Dante e alla cerchia dei poeti stilnovisti.
Ad esempio “natura” in rima può ricordare “Chi
guarderà già mai sanza paura” dell’Alighieri e i
due sonetti sembrano ispirarsi entrambi a “Meravigliosamente” di Giacomo da Lentini (lì la rima
è “pintura” / “figura”).
Nell’età comunale nasce una categoria di poeti capaci di giocare su due scacchiere: di attingere
all’aulico o al ridicolo nello stesso tempo; di essere
fedeli d’Amore, ma anche autori giocosi. In Dante
sono presenti due livelli di comicità: quella scurrile
e grossolana amata anche da Cecco, e quella più
fine che può sostituire il genere alto. Se, quindi,
in certi passi dell’Inferno, il registro basso sembra
attingere al tragico, allo stesso modo i beati del
Paradiso possono esprimersi con un linguaggio
dimesso dal lascia pur grattar dov’è la rogna di Cac-
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Strumenti/Liminarismo
ciaguida al fatt’ha del cimitero
mio cloaca del sangue e de la
puzza di S. Pietro, coinvolgendo sensi diversi da quelli nobili
e “alti”, la vista e l’udito.
Se le anime del Paradiso
possono usare il Latino, lingua
grammaticale e superiore,
sanno anche, presi dall’indignazione, lasciarsi andare a un
linguaggio più basso, ma molto più efficace nei confronti dei
fedeli quando parlano della corruzione mondana. Si può, quindi, avere l’azzeramento, o quasi,
46
della distanza che separava
il Latino di San Clemente dal
turpiloquio degli scherani che
cercavano di catturarlo.
Una comicità del significante, insomma, non del significato, realizzata attraverso un
linguaggio realistico intessuto
di più registri stilistici, tale da
avvicinarsi anche nel Paradiso
a Fili de le pute, traite.
Carlo Pica
Docente di Lettere
Liceo Scientifico “Ugo Morin” - Mestre
La più sublime storia d’amore
della letteratura mondiale
è nata tra il Nord e il Sud dell’Italia.
Solo dopo è stata consacrata
dal genio di Shakespeare.
I racconti-canone di Masuccio e Da
Porto si muovono tra confini labili
e suggestivi: Amore e Morte,
velamenti e disvelamenti,
luci ed ombre, eccezionalità
quotidiane e misteri carnascialeschi.
letteratura italiana/2
La liminare storia
di Giulietta e Romeo
Gli arcani labirinti di Amore e Morte. Il binomio AmoreMorte, il cui confine interno è labile e sottile, ha colpito la fantasia degli scrittori in
maniera ossessiva lungo tutto il corso dei secoli XV
e XVI. Esso ha preso spesso la forma di una costante narratologica, incentrata sull’amore contrastato
di due giovani, sul loro matrimonio segreto, sugli
ostacoli che li separano e sulle vicissitudini, le
quali per dei fraintendimenti o imprevisti portano
entrambi gli amanti a morte atroce e miseranda.
Canovaccio questo, che ha dato vita ad uno degli
immortali capolavori della letteratura mondiale:
Romeo and Juliet, scritta da William Shakespeare
proprio negli ultimi anni del XVI secolo.
Ma i narratori che, coniugando Amore e Morte, hanno inventato il mito di Giulietta e Romeo
sono due italiani: il salernitano Tommaso de’
Guardati, detto Masuccio, autore della Novella
33 del suo Novellino, pubblicato postumo nel
1476, e il vicentino Luigi Da Porto, autore della
novella Historia novellamente ritrovata di due
nobili amanti, scritta intorno al 1530. A questi
due racconti, che inaugurano una lunga serie di
opere letterarie su tale tema, si è poi ispirato il
grande drammaturgo inglese.
L’ambiguo avvio dell’azione. Cominciamo
dagli inizi delle due novelle. Masuccio, che chiama Mariotto Mignarelli e Ganozza Saraceni i due
protagonisti senesi del suo racconto, giovani peraltro di non uguale estrazione sociale, entra fin
dall’inizio nel
vivo del racconto. Infatti,
in poche righe iniziali lo
scrittore concentra l’innamoramento
-che comunque sembra
esser durato
per un lasso
di tempo
abbastanza
lungo- e il
matrimonio
segreto fra i
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Strumenti/Liminarismo
due giovani, ottenuto con la complicità di
un frate “corrutto per dinare”. Questi, non
indicato nemmeno per nome, svolge un
ruolo del tutto secondario nella novella
del Salernitano, a differenza di quella di
Da Porto.
Quest’ultima inizia con la descrizione
della rivalità fra le due famiglie, entrambe
nobili: si tratta delle famose casate veronesi dei Cappelletti e dei Montecchi, da
cui provengono appunto i protagonisti,
che recano nel racconto daportiano già
i celeberrimi nomi di Giulietta e Romeo.
Dopo questa introduzione, la novella prosegue con un lungo inserto narrativo, in cui
l’ammiccamento alla sfera del Mistero comincia
a far capolino fra le notazioni apparentemente
asettiche ed oggettive di Da Porto. Lo scrittore
infatti ci trasporta magicamente nello straniante
clima di una festa da ballo tenuta a Carnevale in
casa Cappelletti, a cui si reca anche il giovane
Romeo.
L’umbratile mistero della festa. Durante
la festa Romeo se ne sta appartato con molto
sospetto”, atteggiamento che lo pone già in luce,
anzi in un’ombra, sfumata e misteriosa. Emerge
dall’ambiente dell’azione tutto il carattere conturbante del tipo di festa in cui sono calati i personaggi: il Carnevale, che è la festa liminare per
eccellenza, proprio
per la presenza anomala della maschera. “Le maschere di
Carnevale -scrive
Paolo Toschi- sono
esseri del mondo
degli Inferi, demoni
e anime dei morti.
Il Carnevale è una
festa propiziatoria
della fertilità della
terra e dell’abbondanza delle messi.
L’amore è
Ora, per generare
un incontro
la nuova spiga o
di occhi
la nuova pianta, il
Luigi da Porto
48
”
”
seme deve trascorrere un periodo più
o meno lungo sotto
terra. Là, nel buio delle
plaghe inferne, stanno
le potenze della generazione, le divinità
sotterranee, i demoni,
le anime degli avi che
nella giornata fatidica
del ricominciamento
dell’anno, dell’eterno
ritorno del ciclo produttivo, evocati da appositi riti, compaiono
sulla terra e vi esercitano la loro forza”.
L’aspetto sotterraneo e infernale del Carnevale richiama, nell’interpretazione succitata, un altro tema tipico di questa novella rinascimentale:
la dialettica Vita/Morte, caratteristica di un altro
rituale, tipico delle arcaiche comunità umane:
l’iniziazione. Con esso il giovinetto veniva introdotto nella comunità della tribù, di cui diveniva
membro effettivo: durante questo rito, effettuato
mediante torture e mutilazioni, il fanciullo moriva
alla vita precedente e risuscitava come uomo nuovo. Tutta la “arcaica” vicenda di Amore e Morte di
Giulietta e Romeo (nella versione daportiana) è
un “racconto di iniziazione”, in virtù degli elementi
che qui evidenziamo:
- Il non padroneggiare momentaneamente
se stesso. In senso lato, questa condizione, nella
novella del Vicentino, è anticipata dallo sconvolgimento che l’amore determina in Giulietta, la
quale sente di più non esser di lei se stessa.
- Il travestimento. Durante la scena del ballo
questo tema assume l’aspetto di un vero e proprio capovolgimento fisiologico-sessuale, dal
momento che Romeo non solo si presenta alla
festa travestito da ninfa, ma addirittura offusca,
con il suo fascino tra l’efebico e l’asessuato, la
bellezza anche delle donne presenti (per la sua
bellezza quella di ogni donna avanzava).
- La maschera, la larva e il disvelamento.
Romeo rivela ad un certo punto la sua identità,
in quanto in un momento della festa si toglie la
maschera, innescando in tal modo quell’aura di
fascino “ambiguo”,
di cui abbiamo parlato sopra. La maschera in tal modo
svolge il suo ruolo
-tipico della dimensione carnascialesca- di liberare la
parte più occulta e
forse più vera dell’Io
e di capovolgere anche gli status sociali, trasformando il
potente in misero,
l’uomo in donna e
viceversa.
- La danza e il potenziamento dei sensi. Durante il ballo, i sensi dei due giovani vengono eccitati
e potenziati. Due sono le azioni che dominano
sovrane: il vedere e il toccare, che hanno delle
sfumature chiaramente erotiche. La prima, segnata dal senso più alto, la vista appunto, crea
un dominio dell’occhio e una rete di segrete
intese e di ammiccamenti furtivi (non fu occhio
che a rimirar non volgesse Romeo, il quale viene
subito veduto da Giulietta, a cui non sembra di
esser più padrona di se stessa proprio in seguito
al primo incontro dei loro occhi). La seconda invece, segnata dal senso più basso, il tatto
appunto, celebra il suo trionfo durante
il ballo, che è impostato sul toccarsi le
mani da parte dei danzatori.
E proprio da uno di questi “contatti”,
sottilmente erotici ed occulti, scaturisce
la scelta amorosa di Giulietta, la quale,
quando è stretta durante la danza, dalla
mano del giovane nobile Marcuccio
Guertio, la sente fredda sì che agghiaccia, mentre avverte come calda quella
di Romeo. Se teniamo presente che la
mano fredda è comunemente intesa
come segno del rigore della morte, ci
rendiamo conto dell’emergenza di un
binomio Amore/Morte. Esso è esplicitamente affermato questa volta da
Romeo, che sul fatidico balcone, dopo
avere tentato di rifugiarsi -come scrive il
Da Porto- nell’ombra, proferisce, a mo’ di profetica
e sconvolgente anticipazione del loro destino,
una serie di espressioni rivelatrici: Perché son anco
in ogni altro luogo così presso alla morte come qui,
procaccio di morire più vicino alla persona vostra
che io possa.
Il matrimonio segreto, gli ostacoli, la
misteriosa pozione. Dopo il lungo preambolo
dell’innamoramento dei due giovani, compare
in Da Porto una figura, che si presenta come più
complessa di quella che descrive Masuccio: frate
Lorenzo. Infatti, oltre al ruolo -provocatoriamente
liminare, assegnatogli dal Vicentino- di “mezzano” dell’amore fra i due innamorati, egli sembra
incarnare certi aspetti del tipico intellettuale rinascimentale: egli è filosofo grande e sperimentatore
di molte cose, così naturali come magiche.
Dopo il matrimonio segreto dei due giovani,
in entrambe le novelle, si presenta un ostacolo
al rapporto d’amore fra i due amanti; ed anche
questa volta è rappresentato da un evento di
Morte: infatti il masucciano Mariotto, condannato
perché ha ucciso un cittadino, fugge ad Alessan- 49
dria d’Egitto, mentre il daportiano Romeo viene
bandito in perpetuo da Verona, poiché ha ucciso
Tebaldo Cappelletti, che tra l’altro appartiene alla
stessa famiglia della sua amata. Dopo questo episodio, che interrompe
il clima idilliaco che si è
creato fra i due amanti,
in entrambe le novelle
segue uno stato di prostrazione psicologica e
di desiderio di morte da
parte della protagonista
femminile.
Di fronte a tale situazione il frate elabora
una soluzione per far
uscire i protagonisti dal
vicolo cieco in cui si
sono cacciati. Il frate,
rivelando delle precise
conoscenze in campo
“chimico-farmaceutico”,
somministra una pozio-
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ne a Giulietta, la quale entra in una condizione di
morte apparente (di soglia tra vita e morte), che
non è molto dissimile dalla “morte momentanea”
di cui parlava Propp a proposito della iniziazione,
perché è adesso che scattano le vere “prove” che
gli amanti, perennemente sospinti sulle soglie
della Morte, devono superare.
A questo punto entra in gioco un secondo,
più grave, ostacolo alla incolumità e alla libera
espressione dei propri sentimenti per i due
amanti: l’imprevisto. In Masuccio si verifica un
procedere parallelo, ma in direzioni opposte, dei
due amanti: Ganozza, come abbiamo detto, si dirige verso l’Egitto, però con forte ritardo, a causa
di un estremo rallentamento di rotta registrato
dalla nave, fatto a cui si accoppia l’uccisione di un
servo, che avrebbe dovuto informare Mariotto.
Perciò quest’ultimo, informato nel frattempo in
modo sbagliato riguardo alla morte della propria
donna, ritorna a Siena, disposto a morire. Questa
fase dell’azione è l’ultima ad essere presente anche in Da Porto: infatti, la lettera inviata da frate
Lorenzo non giunge a Romeo, che, nel frattempo,
informato da un servo in maniera erronea circa la
dipartita di Giulietta, ritorna a Verona.
La soglia tra vita e morte. D’ora
in poi le vicende, come sono presentate dai due narratori, prendono
strade diverse. Nell’opera dello
scrittore campano Mariotto
viene sorpreso in chiesa,
mentre tenta di forzare il
sepolcro vuoto di Ganozza
-che intanto è ad Alessandria d’Egitto- e, arrestato,
viene decapitato. Nella
narrazione del narratore
vicentino, invece, la trama prende una piega
più articolata. Innanzitutto
Romeo riesce a giungere
presso la “tomba” della sua
donna e a vedere lei in preda ad una morte apparente.
Si ripresenta, dunque, una
serie di azioni -come è stato
riscontrato all’inizio della novella- dominate dalla
vista e dall’”occhio” in modo specifico. Romeo
avanza nel buio, munito di una lanterna, definita
cieca -come “ciechi” sono in genere i maghi e i
profeti- quasi che la caratteristica di tale oggetto indicasse l’incapacità a “vedere”, che è poi la
traslazione a livello di simbolo inconscio dell’impossibilità a porre in atto il rapporto d’amore. Poi
i riflettori (per rimanere nella metafora della luce
e della vista) vengono puntati su Giulietta, che
intanto si sta svegliando dal suo stato di confine
tra morte apparente e vita.
Il dramma dello straniamento e l’enigma
del mezzano. In questa fase del racconto, che
risulta essere il momento culminante del dramma, mentre Romeo sta prendendo il veleno che
lo condurrà in breve tempo alla morte (vera), si
intrecciano le due tematiche che ossessivamente
hanno siglato le vicende narrate dal Da Porto: la
dialettica Caldo/Freddo e il dominio della Vista,
questa volta miscelata all’enigma dell’inganno e
del non-essere. Infatti, mentre la fredda virtù della
polvere svanisce nel corpo di Giulietta e il freddo
della morte si impadronisce di quello di Romeo,
un processo di straniamento sembra
deformare le capacità cognitive
della giovane.
Costei stenta a padroneggiare i suoi sentimenti (quasi fuor
di se stessa era), per cui non
crede che colui che la sta
abbracciando sia Romeo
ancora vivo e lo scambia con un’altra persona:
frate Lorenzo. Questo,
invero, è uno degli elementi non facilmente
spiegabili dell’intera
storia narrata dal Da
Porto. Certo, come abbiamo già rimarcato,
la figura del frate è circonfusa (e confusa) di
un’aura di vago erotismo,
creata all’origine dai due
protagonisti: da Romeo (che
grido fuori mandandolo, sosembra avere delle
pra il morto corpo si rese.
intese segrete con
Se però lo spazio dedicato
lui) e da Giulietta
al trapasso della giovane
(che lo vede come
è stranamente ridotto (di
il “mezzano”, il quale
contro alle divagazioni, che
deve fare in modo
invece, abbastanza corpose,
che il padre di lei a
caratterizzano l’intero testo
questo accordo condaportiano), un’ulteriore
sentisse).
e non breve aggiunta alla
Invero, anche
storia dei due amanti infelici
quando l’equivoco
figura nella novella dello
è chiarito, i latenti
scrittore vicentino.
lacciuoli di Amore e
Masuccio inventò la variante
Innanzitutto l’autore
della storia in cui l’antenata
Morte non allentano
di Giulietta si lascia morire di dolore
dell’Historia riporta alla riballa loro avvinghiante
ta il personaggio di frate Lorenzo, che, sorpreso
presa, perché paradossalmente -proprio nel
dagli sbirri vicino alla tomba aperta e interrogato
momento della dipartita di Romeo- frate Losul motivo della sua presenza in un luogo sacro
renzo gioca appieno il suo ruolo di “mezzano”. È
che appare violato, all’inizio mente, sostenendo
un “baccanale” di sguardi, una fantasmagoria di
di essere lì per pregare; ma, messo alle strette,
scene che si imprimono come magnetiche luci
deve raccontare tutta la verità che egli ben
di flash scattati in una conturbante penombra:
conosce. Ma, in secondo luogo, dopo che tutti i
Lorenzo vede Giulietta scapigliata, la quale a sua
misteri sono stati svelati, ci si avvia alla concluvolta apostrofa il proprio padre (non presente)
sione del racconto attraverso l’inserimento di un 51
invitandolo a vedere il cadavere di Romeo nel
personaggio, che è nuovo fino ad un certo punto
suo grembo. E, mentre il frate dice a Romeo:
(perché la novella si è aperta all’inizio proprio con
“Vedi la tua Giulietta, che ti prega che la miri”, il
il suo nome): Bartolomeo della Scala, il Signore
giovane, alza, per poi rinchiuderli per sempre, i
di Verona. Egli vuole innanzitutto “vedere” di
suoi “languidi occhi”. E anche in quell’aggettivo
persona i corpi morti dei due amanti e poi con la
finale languido non va sottaciuta la compresenza
sua autorità innesca il meccanismo della riappacidell’elemento amoroso (il languore d’amore) e
ficazione fra le due famiglie, che, da doppia pietà
dell’elemento funereo (il languore inteso come
vinte, pongono fine alla lunga inimicizia.
condizione di qualcosa che giace nell’attesa
Questo personaggio, che sembra solo estedell’estinzione e della decomposizione).
riore e quasi inserito forzatamente nell’evolversi
degli eventi, si carica di significati inconsci e
Il tragico epilogo e il trionfo del capovolgimento. E siamo così giunti all’epilogo delle
due novelle. Masuccio con la sua drammatica
laconicità conclude il racconto in poche battute: Ganozza, prostràta dal dolore in seguito alla
scoperta della decapitazione del marito, si lascia
rinchiudere in un monastero a piangere la sua
sorte sventurata, finché la coltre della morte non
ammanta i suoi miserrimi giorni.
Misteriosa e non ben spiegata è invece
la morte della Giulietta di Da Porto, la quale,
diliberando di più non vivere, raccolto a sé il fiato, ed alquanto tenutolo, e poscia con un gran
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doppi. È il caso di ricordare come la storia
di questa novella si
snodi tutta all’insegna
del tema del Padre. È
il padre del narratore,
che è un “doppio di se
stesso” -come riferisce
l’autore all’inizio- ad
avergli raccontato i
tragici fatti; è il padre
di Giulietta ad essere
il principale ostacolo
al coronamento del
sogno d’amore dei
due giovani; sono i
padri di questi ultimi,
che abbracciandosi pongono fine alle
ostilità, instaurando
dei rapporti di rispetto e di amicizia; è frate Lorenzo, padre anomalo e
invischiato nei fatti, a costituire la molla dell’azione complicandola o risolvendola; ed è infine
Bartolomeo -”padre” super partes ed esterno ai
fatti- a seppellire, oltre che gli sventurati
giovani, il loro amore
fallito e gli inutili odi
dei loro parenti, in
un bel monimento,
cioè in un maestoso monumento sepolcrale, che funga
(come è tipico di un
padre affettuoso ma
al tempo stesso autorevole) anche da
“ammonimento” per
le future generazioni. Il capovolgimento
(come positivizzazione) della figura del
Padre rientra in un
processo più ampio,
che può essere così
sintetizzato: la Paura resta come incubo, ma è
confinata nei sotterranei Territori di Coloro che
non esistono più.
Franco Salerno
MUSICA LIMINARE
Giuseppe Martucci
Un compositore “alternativo”
del tardo Ottocento italiano
I
l 2009 è stato un anno ricchissimo di anniversari nella storia della musica. Sono stati
commemorati Henry Purcell (1659, trecentocinquantesimo della nascita), Georg Friedrich
Haendel (1759, duecentocinquantesimo della
morte), Felix Mendelssohn (1809, duecentesimo della nascita) e Franz Joseph Haydn (1809,
duecentesimo della morte), Ottorino Respighi
(1879, centotrentesimo della nascita), Giuseppe
Martucci (1909, centenario della morte), Nino
Rota (1979, trentennale della morte). Tra questi,
Giuseppe Martucci è senza dubbio l’autore meno
noto al grande pubblico, che solo in rarissime
occasioni riesce ad ascoltare le sue creazioni nelle
sale da concerto.
Nato a Capua il 6 gennaio 1856, fu compositore, eccellente pianista ed eclettico direttore
d’orchestra. Il suo liminarismo va ricondotto alla
sua grande personalità di compositore “strumentale” (non operistico) in un periodo, quello
a cavallo tra Otto e Novecento, dominato in Italia
dal “gigantismo” melodrammatico di Verdi e Puccini. Sotto questo aspetto egli fu senza dubbio
il più grande
precursore
della Generazione dell’Ottanta, cioè di
quei musicisti (Respighi,
che fu allievo
di Martucci a
Bologna, Pizzetti, Malipiero
e Casella) che si
fecero promotori
di una rinascita
della musica strumentale italiana
sulla scia della tradizione sinfonica
e cameristica europea, soprattutto
francese e tedesca,
53
al fine di spezzare
l’isolamento imposto alla cultura
musicale italiana
dall’imperante melodramma. Martucci studiò a
Napoli, dove dal 1880 insegnò al Conservatorio.
Nel 1886 ottenne la direzione del Liceo Musicale
di Bologna, ricoprendo anche la carica di Maestro
di cappella in San Petronio. Ritornò poi (1902) al
Conservatorio di Napoli come direttore. Morì il
1° giugno 1909.
Pianista apprezzato anche da Liszt e Anton
Rubinstein, fu infaticabile organizzatore di
eventi musicali (diresse la Società del Quartetto
e la Società Sinfonica di Napoli) e si adoperò
intensamente per la diffusione in Italia delle
composizioni sinfoniche dei romantici tedeschi
e anche dell’opera di Wagner, di cui diresse nel
1888 a Bologna la prima rappresentazione italiana del Tristano. Martucci fu uno dei pochissimi
esponenti del sinfonismo italiano del periodo
tardoromantico e nelle sue creazioni, soprattutto in quelle formalmente più riuscite in ambito
sinfonico e cameristico, è evidente l’influsso di
Lyceum Dicembre 2009
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Schumann, Mendelssohn, Liszt e soprattutto
Brahms (in misura minore Beethoven e Wagner),
influsso “dominante”, che lascia emergere lo stile
di una personalità autonoma solo in modo parziale. Emblematiche di questa produzione “epigonica” del Nostro sono composizioni di grande
bellezza, come le due sinfonie in re minore (1895)
e in fa maggiore (1904), i due concerti per piano
e orchestra – soprattutto il secondo in si bemolle
minore (1885), virtuosistico e ricchissimo
nella elaborazione tematica – e il
Quintetto per pianoforte e archi in
do maggiore (1878).
Dove il Maestro napoletano
riesce invece a esprimersi con
stile più autenticamente originale, è nelle molte pagine per
pianoforte solo, brani spesso
elegiaci e malinconici, talvolta
addirittura “miniature”, con
atmosfere ora brillanti ora crepuscolari. I pezzi più riusciti sono
stati successivamente orchestrati
dallo stesso Martucci e, in questa
versione, hanno raggiunto anche una
discreta popolarità. E’ il caso della luminosa
Giga op. 61 (1883), la misteriosa Novelletta op. 82
(1905), la briosa Tarantella op. 44 (1875) e il “sentimentale” Notturno op.70 n.1 (1888). Soprattutto
l’orchestrazione degli archi nobilita questo brano,
che risulta essere di grande presa emotiva: la sua
cantabilità e la sua struggente espressività sono
un commosso omaggio, stavolta peraltro molto
personale, al Tristano e sembrano addirittura in
sintonia con il crepuscolarismo di alcuni adagi
mahleriani. Questa sintonia risulta forse più
evidente in quello che può essere considerato
il capolavoro del Nostro. Si tratta del “poemetto
lirico” La Canzone dei ricordi, composto nel 1887
per mezzosoprano e pianoforte e dedicato alla
cantante modenese Alice Barbi, apprezzata
interprete dei Lieder di Brahms. Martucci nel
1899 orchestrò il brano arricchendolo tematicamente con numerosi richiami alla linea melodica
della voce, con una tecnica che a tratti ricorda
il Leitmotiv wagneriano. Tale “ispessimento” del
tessuto orchestrale, rispetto all’originale per
piano, fa pensare all’analoga operazione di
trascrizione-approfondimento realizzata nello
stesso periodo da Mahler nel ciclo liederistico
Des Knaben Wunderhorn.
La Canzone dei ricordi mette in musica i versi
del poeta Rocco Emanuele Pagliara (1856-1914)
che ricopriva in quegli anni il posto di bibliotecario del Conservatorio di Napoli. E’ una
composizione della durata di poco
più di mezz’ora, che attua un’ originalissima sintesi tra le atmosfere
nostalgico-pascoliane del testo,
la vocalità italiana e l’eredità
del liederismo tardoromantico
tedesco (che si spegnerà nel
doloroso tramonto del Das Lied
von der Erde mahleriano). A dispetto del titolo, che suggerisce
un’unica canzone, il “poemetto
lirico” è in realtà un unico ciclo
liederistico organizzato in sette
canzoni, collegate sia nel testo che
nella musica. La trama dell’opera ruota
attorno al composto dolore di una donna che,
immersa nella natura, ricorda l’amore perduto. La
settima canzone è un richiamo abbreviato della
prima e chiude in maniera circolare un percorso
nel quale il triste ricordo dell’amato si traduce in
un’immagine onirica, indefinita, che sparisce.
Nel centenario della morte, l’Orchestra Sinfonica di Roma, diretta da Francesco La Vecchia,
ha registrato su 4 CD tutte le composizioni
orchestrali di Martucci (trascrizioni comprese),
offrendo un’interpretazione profonda e rigorosa.
La lodevole iniziativa della casa discografica (“ovviamente” non italiana) ha così voluto ricordare
la figura liminare di Martucci, musicista nato in
pieno Ottocento nella patria dell’opera lirica e, ciò
nonostante, autenticamente alternativo.
Ruggero Prospero
Stipendium Bayreuth 1992
Docente di Filosofia e Storia
Liceo “G. Bruno”- Mestre
Teorie liminari
Il Lotto:
regole del gioco
Modelli e strategie per massimizzare
le probabilità di vincita e minimizzare i rischi.
Il Lotto è un gioco molto semplice che
consiste nel pronosticare uno o più numeri che
vengono estratti a sorte ogni martedì, giovedì e
sabato sulle ruote di 10 città italiane. Le città (o
ruote, come sono chiamate in gergo) sono Bari,
Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia.
Nel Lotto ci sono 90 numeri (dal numero 1
al 90), cinque dei quali possono essere estratti
su ognuna delle ruote. I numeri non possono
ripetersi nella singola estrazione di una ruota ma
possono essere estratti su ruote diverse. I pronostici possibili sono l’estratto semplice, l’ambo, il
terno, la quaterna, e la cinquina. Il giocatore può
indicare nella schedina fino a 10 numeri diversi
scegliendo la combinazione alla quale intende
riferirsi e la ruota presa in considerazione (si può
scegliere anche più di una ruota o addirittura
si può scommettere su tutte le ruote) e su tale
combinazione può puntare una somma di denaro (puntata).
Probabilità delle combinazioni vincenti
Riferendosi ad una cinquina di numeri estratti
su di una singola ruota esistono diverse combinazioni vincenti. Consideriamo per semplicità
una singola ruota. Siamo nel caso in cui n=90
elementi vengono estratti in gruppi di k=5. Nella 55
singola estrazione un numero non può essere
estratto due o più volte quindi non ha senso
considerare gruppi con elementi ripetuti. Inoltre
non conta se un numero viene estratto per primo
o per ultimo, per cui non ha senso considerare
gruppi in cui gli stessi elementi vengono disposti
diversamente. Siamo perciò nel caso in cui dobbiamo considerare le combinazioni.
Schedina per giocare al Lotto
Sulla sinistra i numeri su cui puntare e sulla destra il tipo di puntata da effettuare.
Lyceum Dicembre 2009
Strumenti/Liminarismo
Tutte le possibili combinazioni sono perciò:
90·89·88·87·86
90!
C90,5= =
= 18·89·22·29·43 = 43949268
5·4·3·2·1
(90-5)!5!
Questo numero rappresenta tutte le cinquine
che possono essere estratte.
Si realizza la combinazione vincente chiamata estratto, quando si riesce nel pronostico
ad indovinare un numero tra quelli estratti sulla
ruota. Supponiamo di puntare su m. Dobbiamo
chiederci, di tutte le possibili cinquine, quante
contengono il nostro numero m.
Il numero m è fissato e poi dobbiamo considerare degli 89 numeri rimasti tutte le loro
combinazioni a 4 a 4 da affiancare ad m per fare
la cinquina. 89 elementi a gruppi di 4 possono
essere combinati secondo il coefficiente:
89!
89·88·87·86
C89,4= =
= 89·22·29·43 = 2441626
(89-4)!4!
4·3·2·1
56
Queste sono tutte le combinazioni, per
noi, vincenti in quanto contengono il nostro
estratto.
Per cui la probabilità di indovinare l’estratto è
data dal numero di combinazioni (cinquine) per
noi vincenti C89,4 diviso per il numero di cinquine
possibili C90,5.
P1=
C89,4
C90,5
=
89!
89!
85! · 5! 89! 5 · 4! 5 1
85! · 4!
=
·
=
·
= = = 0.0556
90!
85! · 4!
90!
4! 90 · 89! 90 18
85! · 5!
Cioè la possibilità di indovinare l’estratto è
all’incirca il 5,6%.
L’ambo si ottiene quando si riescono ad indovinare due numeri tra quelli estratti sulla ruota.
Supponiamo di puntare su k ed h. Dobbiamo
Punteggio
Estratto (1)
Ambo (2)
Terno (3)
Quaterna (4)
Cinquina (5)
chiederci, di tutte le possibili cinquine, quante
contengono i nostri due numeri.
Gli altri 88 numeri rimasti devono essere
affiancati ai nostri due numeri k ed h in gruppi
di 3 per ottenere una cinquina. 88 elementi a
gruppi di 3 possono essere combinati secondo
il coefficiente:
88·87·86
88!
C88,3= =
= 88·29·43 = 109736
3·2
(88-3)!3!
Queste sono tutte le combinazioni, per noi,
vincenti in quanto contengono i due numeri del
nostro ambo.
Per cui la probabilità di indovinare l’ambo è
data dal numero di combinazioni (cinquine) per
noi vincenti C88,3 diviso per il numero di cinquine
possibili C90,5.
P2=
C88,3
C90,5
=
2
801
= 0.002497
Pertanto la possibilità di indovinare l’ambo è
all’incirca lo 0,25%.
Analogamente si può verificare che le probabilità del terno, della quaterna e della cinquina
sono
P3=
C87,2
C90,5
=
1
11748
, P4 =
C86,1
C90,5
=
1
511038
e P5 =
C85,0
C90,5
=
1
43949268
Il Lotto non è un Gioco Equo
Il gioco del lotto paga un numero di volte la
posta giocata a seconda del punteggio totalizzato. Indovinando un estratto, puntando su di
una singola ruota, si vince 11,232 volte la posta
giocata, mentre per l’ambo si ottiene 250 volte la
posta giocata. Quindi se giochiamo 1€ sull’ambo
Premio (K)
11,232
Probabilità (P)
1/18
Speranza matematica - Premio
atteso per la giocata unitaria (K·P)
0,6240
Guadagno del Banco
(G=1-K·P)
0,3760
250
2/801
0,62422
0,37578
0,383044
0,616956
0,234816
0,765184
0,136521
0,863479
4500
120000
6000000
1/11748
1/511038
1/43949268
Per ogni punteggio sono riportati la vincita, la probabilità di ottenerlo,
la speranza matematica, che rappresenta anche il premio atteso sulla giocata unitario di €1,
e la percentuale di guadagno del banco (in questo caso lo Stato) sulle puntate di quel punteggio.
per una ruota, indovinando la combinazione,
potremmo vincere 250€. I premi per ognuno dei
punteggi sono riportati nella Tabella 1 insieme
con la probabilità di ottenere quel punteggio.
Un gioco si dice equo quando il premio K
per una combinazione vincente è pari all’inverso
della probabilità P della combinazione vincente.
In tal caso il prodotto KP (la speranza matematica)
è pari ad 1. La speranza matematica è la vincita
media attesa per la singola giocata di 1 €. Se
tale prodotto è minore di 1 allora il gioco non è
equo ed è sfavorevole per il giocatore, in quanto
un giocatore in media si aspetta di vincere, per
ogni puntata di 1 €, una somma minore di 1 €.
La speranza matematica mostrata in Tabella 1 è
sempre inferiore ad 1, per qualsiasi tipo di combinazione vincente. Questo vuol dire che il Lotto
non è un gioco equo. L’ultima colonna ci indica
il guadagno del Banco (che è rappresentato
dallo Stato) che risulta maggiore sulle giocate
con premi superiori, che sono proprio quelle più
appetibili per i giocatori. Quindi su una puntata
di €1 sull’ambo, il giocatore può aspettarsi di
incassare in media €0,62, meno di quanto ha
puntato, mentre il Banco può guadagnare circa
€0,38, sulla cinquina può incassare in media circa
€0,14, mentre il Banco ne incassa circa €0,86.
Numeri ritardatari
Da parte di molti giocatori è invalso l’uso di
puntare sui “numeri in ritardo”: se un numero
non viene estratto su una certa ruota da molte
settimane, su di esso si concentrano le puntate
dei giocatori.
Tale strategia non ha alcun fondamento
razionale in quanto ad ogni estrazione la probabilità che un numero venga estratto è sempre:
P1=
C89,4
C90,5
=
1
18
anche se quel numero non esce da parecchie
settimane.
Andiamo ad illustrare da dove nasce questo
equivoco.
La probabilità che un numero non venga
estratto è pari a:
Pnon1= 1 - P1= 1 -
1
=
18
17
18
Siccome due estrazioni sono due eventi indipendenti allora, per il teorema della probabilità
composta, la probabilità che un numero non sia
estratto per due estrazioni di seguito è:
Pnon1= (2 estr) = Pnon1 · Pnon1 = (Pnon1)2
Di conseguenza per n estrazioni avremo:
Pnon1= (n estr) = Pnon1 · Pnon1 · ... · Pnon1 = (Pnon1)n
n volte
Si nota come, all’aumentare del numero
delle estrazioni, tale probabilità diventa sempre
minore. Per esempio:
( 1718) = 0.057 → 5.7%
17
=( ) = 0.003 → 0.3%
18
Pnon1= (50 estr) = (Pnon1 )50 =
Pnon1= (100 estr) = (Pnon1 )100
50
100
Quindi vediamo che la probabilità che un
numero non esca per 100 estrazioni di seguito
è lo 0.3%.
57
Chiariamo ora questo storico equivoco dei
“ritardi”. Supponiamo che il numero 73 non esca da
100 estrazioni: questo significa che, sebbene tale
avvenimento (che il 73 non uscisse dall’urna per 100
volte di seguito) fosse molto improbabile, esso è
comunque avvenuto. Tuttavia questo non significa
che la prossima volta il 73 avrà maggiori possibilità
di uscire: la probabilità sarà sempre 1/18.
In pratica, con questo tipo di probabilità,
possiamo solo giudicare se ciò che è avvenuto
in passato (il 73 non è stato estratto 100 volte
di seguito) era poco o molto probabile, ma non
possiamo far cambiare la probabilità che esso
esca nella prossima estrazione perché essa è
sempre 1/18 in quanto il 73 sarà di nuovo con
tutti gli altri numeri nell’urna e solo 5 di loro
verranno estratti.
Emiliano Barbuto
Istituto Magistrale “De Filippis” - Cava de' Tirreni
Emiliano Barbuto è autore del testo Teoria dei giochi. Modelli e strategie per massimizzare le probabilità di vincita
e minimizzare i rischi, Edises, Napoli, 2007.
Lyceum Dicembre 2009
Strumenti/Liminarismo
L’ evoluzione di una lingua “morta”
La conoscenza del
Latino e del Greco alla
base di alcune professioni
M
58
olte volte i ragazzi decidono di non
iscriversi al liceo classico, perché lo
reputano poco adatto, se si desidera
affrontare, in futuro, studi diversi da quelli classici.
Questo ragionamento è falso a priori. Da sempre
sostengo con orgoglio che l’indirizzo classico è il
più completo in assoluto, perché dà ai ragazzi una
formazione culturale a tutto tondo, creando dei
prerequisiti indispensabili per ogni tipo di cursus
studiorum che si vuole intraprendere.
È ovvio che il docente di materie classiche
deve dare un contributo determinante perché
un discente possa comprendere che il latino
e il greco non sono affatto lingue “morte”, ma
“fondamenta di cemento” per la propria cultura
e per la vita (ripeto: per la vita!).
Se ad un ragazzo venisse insegnato che
Ulisse, Enea ed Ettore non furono solo eroi partoriti dal mito, ma icone di civiltà, allora tutto
cambierebbe. Va sottolineato, infatti, che questi
tre personaggi rappresentano tipologie modernissime di uomini: ancora oggi
come allora c’è chi desidera
viaggiare per apprendere, chi
è costretto a farlo per “ripartire”
e chi deve combattere perché
la patria è in grave pericolo. Un
retroterra culturale del genere
dà la possibilità di colmare molti
vuoti presenti nei nostri giovani,
i quali comprenderebbero, per
esempio, perché ritornare in
bare coperte da un tricolore
non debba suscitare solo pianto
e rabbia, ma anche l’orgoglio di essere italiani
(Ettore docet!).
Ritornando al tema del nostro articolo (l’evoluzione di una lingua “morta”), c’è da segnalare
che qualche tempo fa è stato pubblicato sulla
rivista specialistica Schola uno studio condotto
dalla dottoressa Francesca Capellini, che ha svolto una ricerca sulla storia del linguaggio medico,
evidenziando l’importanza della conoscenza
del greco (dell’odiato greco!), per esempio, per
un medico. Ha chiarito ancora una volta che le
parole di origine greca formano la maggioranza
dei termini medici attuali: alcuni ancora in uso
senza mutazioni, altri parzialmente innovati, altri
creati ex novo nel corso dei secoli.
Davvero interessante è cogliere sul piano storico lo sviluppo e l’”evoluzione” della terminologia
medica greca partendo dalla fase più antica, che
inizia con Ippocrate, fino all’età contemporanea.
Punto di partenza fondamentale per la storia del
linguaggio medico è il Corpus Hippocraticum, poi,
nel V secolo, si sviluppa l’indagine
filosofico-scientifica sull’organismo e la terminologia si adegua
ai progressi fatti: si tratta, però,
di un linguaggio ancora in via di
formazione, perché esso viene a
fissarsi scientificamente solo con
un certo Galeno. Le grandi novità
si verificheranno nel Rinascimento, che rappresenta la fase storica
che fornisce il nucleo più vistoso
e ancora oggi determinante della
terminologia medica, soprattutto
nelle branche della macroanatomia e della patologia. Alcuni esempi potrebbero essere i nomi di
malattie che risalgono a questo periodo, come
“alopecia”, “aneurisma”, “artrite”; nomi anatomici
come “epididimo” e “perone”, e nomi di medicinali
come “antidoto”, “clistere”, “collirio”.
Pertanto la lingua medica contemporanea
(e non solo questa lingua!) deve a quella
antica tantissimo, non soltanto per i
singoli termini, anche se numerosi,
ma soprattutto per il meccanismo dei suffissi e prefissi e per
la capacità del greco a formare
composti. Gli stessi Romani non
producono opere scientifiche
originali, ma ne traducono in
grande quantità dal greco. Famosi traduttori e rielaboratori
sono stati Celso, Plinio il Vecchio,
Aureliano e tanti altri, che riprendono forme greche adattate
morfologicamente al latino, fanno
calchi semantici riferiti all’ anatomia
esterna e agli organi interni. Tra le forme
greche adattate, troviamo “arteria”, “emorragia”.
Esempi di calchi semantici sono “infiammazione”,
“intestino cieco” e “pupilla”. Invece, sono parole
latine “cute”, “febbre”, “mano”, “occhio”.
Nel periodo che va dalla caduta dell’impero
romano all’anno Mille la produzione scientifica è
costituita da traduzioni e sillogi, che si riferiscono
solo alle branche della patologia e della farmacologia. Dopo l’anno Mille, le discipline rifioriscono,
per cui ci sono nuove traduzioni di testi medici
greci e latini, e viene eseguita la volgarizzazione
di libri di medicina di scrittori arabi, che avevano
studiato e tradotto a loro volta i greci.
Dalla seconda metà del Quattrocento e nel
Cinquecento viene rifondata la terminologia medica anatomica, riprendendo lo studio dei classici
greci e latini e distruggendo tutti gli arabismi (ne
sopravvivono solo alcuni come ”nuca”, “caviglia”).
Anche nei secoli XVII e XVIII la terminologia medica continua ad essere fondata sulle lingue greche,
pur subendo un grandissimo arricchimento per
l’applicazione del microscopio. Gli scienziati
riprendono termini di grande forza evocativa,
come: “glomerulo”, “ovaio”, “placenta”, etc.
Infine c’è da aggiungere che liste di
termini medici sono state realizzate
anche nel Novecento, soprattutto
per le terminologie settoriali della medicina, e anche in questo
caso si è attinto moltissimo
dalle lingue classiche, basti
pensare ad espressioni latine
del tipo “in situ” (nella parte
anatomica), “cutis laxa” (pelle
rilasciata), “bacillus rigidus”
(bacillo rigido), oppure ai numerosi suffissi greci, tra i quali si
possono ricordare “a/an-”; “ana-“,
“anti-”, “apo-”, “cata-“ e così via.
Fanno parte, certamente, della lingua
medica esiti latini correnti nelle lingue 59
romanze, come, per l’italiano, “cuore”, “petto”,
“piede”. In ogni modo, c’è anche da dire che sono
presenti nel nostro vocabolario medico vocaboli
non coniati sulle lingue classiche, come: “allele”,
“antigene” e così via.
Dunque, appare evidente che le lingue classiche sono tuttora attuali e rappresentano ancora
un mondo pieno di tradizioni, dalle quali attingere
a piene mani se vogliamo che la nostra vita sia migliore. In una società dove regna il caos, i giovani
devono far riferimento a certezze consolidate, a
mondi reali, ad esempi memorabili e tutto questo
si può cercare e trovare, in gran parte, nelle opere
degli autori greci e latini. Una cosa l’abbiamo
certamente appresa: un buon medico deve conoscere il Latino e il Greco. Ad maiora.
Giuseppe Robustelli
Bibliografia essenziale
Riflessioni tratte da opere di Ippocrate, Galeno, Plinio il Giovane e Celso.
Rivista letteraria di riferimento: Schola.
Lyceum Dicembre 2009
Percorso
Il bicentenario della nascita di C. R. Darwin e il 150° de L’origine delle specie sono stati ricordati
dal “T. L. Caro” di Sarno con il progetto “ L’evoluzione dell’evoluzione”, strutturato in due momenti.
Il primo, una sorta di laboratorio, in cui alunni ed insegnanti del Liceo Classico, Scientifico e Brocca
hanno prodotto svariati lavori, confluiti in questa sezione, che evidenziano aspetti particolari di
una teoria variamente interpretata e che ha avuto moltissime applicazioni. Ci confrontiamo, infatti, con il rapporto Darwin-scienziato e Darwin-uomo, con i tratti salienti che lo allontanano da
Linneo, con il Lamarkismo. Vi rintracciamo, poi, uno storyboard per raccontare la terra, il fascino
della ricerca sull’origine della vita, dell’uomo, del mondo; ma anche il problema della datazione
della creazione, le difficoltà di definire una specie, il tema del Disegno Intelligente, l’annosa domanda sulla possibilità di conciliare evoluzionismo e creazionismo. E, ancora, l’evoluzione e le sue
applicazioni in biologia ed in particolare al sistema scheletrico; e poi un “battito” lungo 600 milioni
di anni ed una favola per raccontare la terra e le sue meraviglie…
Il secondo, un convegno svoltosi il 30 novembre scorso presso il Centro sociale di Sarno sul tema
“L’Evoluzionismo di Darwin: certezze scientifiche, effetti culturali e dubbi teologici”, coordinato con
competenza e professionalità dalla Prof.ssa Rosa Maria Aliberti, introdotto dal D. S. Prof. Giuseppe
Vastola, che ne ha dato un’interpretazione metodologico-didattica, e impreziosito dall’intervento
del Prof. Aldo Masullo, docente di Filosofia morale presso l’Università Federico II di Napoli, e del
Prof. Alfonso Langella, teologo laico dell’Accademia Pontificia Mariana di Napoli.
L’argomento del prossimo Percorso è:
La Cultura della pace
L’ Evoluzionismo
di Charles Darwin
UN CONVEGNO-EVENTO
N
Certezze scientifiche,
effetti culturali,
dubbi teologici
el 2009 la comunità scientifica festeggia
la doppia ricorrenza del bicentenario
della nascita di Charles Darwin e del
150° anniversario della pubblicazione della sua
più grande opera: “L’Origine delle specie per
selezione naturale”
In essa il grande naturalista espose la sua
teoria dell’evoluzione, per selezione naturale del
più adatto, in grado di offrire una interpretazione
complessiva del mondo naturale. Contrariamente al successo che la teoria ebbe tra i naturalisti
dell’800 ed alla sua ancora attuale forza esplicativa in ambito scientifico, la stessa incontra ancora
difficoltà di penetrazione nella scuola. Questa istituzione, invero, rappresenta, per la maggioranza
delle persone, l’unica sede e l’unica occasione di
un contatto approfondito con l’evoluzione del
mondo naturale, uomo incluso.
Ed appunto il Liceo Classico “T. L. Caro”di
Sarno ha inteso partecipare ai festeggiamenti
stimolando una riflessione su questo tema. Gli
alunni e i docenti dei tre plessi della scuola, il Liceo
classico, il Liceo scientifico “G. Galilei” ed il Liceo
maxi-sperimentale “Brocca”, hanno sviluppato
un progetto “L’Evoluzione dell’Evoluzione” che
ha ripercorso le tappe fondamentali attraverso le
quali si è modificato l’evoluzionismo, grazie all’osservazione del mondo naturale e, più di recente,
agli esperimenti genetici a livello molecolare.
Inoltre l’approfondimento di questa tematica ci ha permesso di interagire tra le discipline
63
curricolari (scienze, religione, filosofia, italiano),
in modo da tendere verso una conoscenza trasversale efficace, scevra dei limiti che impone la
settorialità.
La teoria darwiniana, così come le scoperte
astronomiche di Galileo Galilei, il 2009 è anche
l’anno galileano, o anche la teoria eliocentrica di
Copernico, vanno ben oltre il piano puramente
scientifico, investendo anche quello filosofico
e persino teologico. Questi scienziati rivoluzionari hanno, infatti, spostato l’uomo dal centro
dell’universo e hanno modificato definitivamente
il suo rapporto con la natura, attribuendogli un
nuovo ruolo e nuove responsabilità.
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
64
A conclusione di questo percorso di studio
è stato organizzato, grazie anche al patrocinio
del Comune di Sarno, un incontro-dibattito su
“L’evoluzionismo di C. Darwin: certezze scientifiche, effetti culturali e dubbi teologici”. Abbiamo
pensato di mettere a confronto un comunicatore
scientifico, prof. Bruno Bertolini, docente di
citologia e anatomia comparata, Università La
Sapienza di Roma, un filosofo, prof. Aldo Masullo,
Università Federico II di Napoli ed un teologo,
prof. Alfonso Langella, docente aggiunto di
Teologia dogmatica, Pontificia Facoltà Teologica
dell’Italia meridionale. Sono intervenuti, anche,
il sindaco avv. Amilcare Mancusi e il prof. Luigi
D’Amico, segretario ANISN, sez. di Napoli, ha moderato l’incontro la scrivente, prof. Rosa Aliberti,
docente di Scienze Naturali di questo liceo.
Questo dibattito è stato pensato sia come
momento conclusivo del lavoro affrontato con
i ragazzi, che come contributo a diffondere
l’idea che la Scienza e la Teologia rappresentano
differenti campi di analisi e di interpretazione.
Solo una seria riflessione filosofica può aiutare
entrambe, indicando potenziali
punti di convergenza e il modo
in cui questi due campi d’analisi
possono integrarsi.
La manifestazione, rivolta anche alla cittadinanza,
ha riscosso un sorprendente
successo (il Centro sociale era
pressoché gremito!) sia tra gli
alunni, che si sono mostrati, in
alcuni casi, addirittura entusiasti, che tra le persone intervenute, numerose, dall’esterno.
Il risultato ottenuto, in un
momento in cui molti assecondano scelte poco faticose, dove
è richiesto poco impegno, impone una riflessione approfondita da parte delle istituzioni ed
un obbligo della scuola a proporsi come agenzia di cultura e
volano di conoscenza e di rottura del fronte della mediocrità
Dobzhansky
e della omologazione.
Dobzhansky, un genetista russo che poi si
trasferisce negli Stati Uniti, rimasto sempre legato
alla Chiesa ortodossa, in una lettera allo storico
Green, chiarisce il suo pensiero dicendo: “Io sono
convinto che l’evoluzione non sia una vaudeville
del diavolo, ma sia in qualche modo un muoversi
verso; io spero un muoversi verso una qualche città di Dio”. E l’idea affascinante che l’evoluzione sia
in qualche modo un muoversi verso una qualche
città di Dio è, se mi permettete, bellissima.
Il biologo evolutivo Francisco J. Ayala,
dell’Università della California a Irvine, ha definito
l’evoluzione un design without a designer, ”un
disegno cieco”, che si realizza da sé, ironizzando
sugli sforzi che ancora oggi alcuni teologi compiono per screditare la teoria dell’evoluzione.
Scriveva Ayala nel 2001: ”Darwin ha completato
la rivoluzione copernicana, definendo dal punto
di vista biologico la natura come sistema di materia in movimento guidato da precise leggi, che
può essere spiegato con il ragionamento, senza
ricorrere a entità sovrannaturali”.
Inoltre, il fatto che tutte le forme di vita
condividano un’origine comune è un
utile sprone all’umiltà.
”L’uomo porta ancora
impresso nella sua
struttura fisica il marchio indelebile della
sua umile origine”:
scriveva Darwin in
L’origine dell’uomo,
pubblicato nel 1871.
In ogni caso, il lascito più importante
di Darwin può senz’altro essere individuato
nell’enorme quantità
di ricerche e teorie
che prendono spunto
dai suoi scritti e che
approdano in ambiti
sicuramente inimmaginabili per Darwin.
La comprensione dei
meccanismi evolutivi
ha favorito lo sviluppo di nuove tecnologie nei
settori più disparati:dalla sanità alla sicurezza,
dall’ecologia all’informatica, dalla robotica alla
legalità.
Questa impresa è stata possibile grazie
all’Amministrazione comunale, che fattivamente
ha contribuito alla realizzazione di questa manifestazione, ai relatori, che con i loro interventi
hanno delineato in modo puntuale e approfondito il tema proposto, al dirigente scolastico, che
mi ha supportato e sostenuto nell’iniziativa e al
team di docenti, in particolare il mio collega di
scienze Francesco Annunziata, il cui impegno è
stato quanto mai prezioso e fondamentale per la
buona riuscita del progetto e dell’incontro.
Alla fine, ma non in ordine di importanza, un
grazie personale va agli alunni, che in vario modo,
ma sempre da protagonisti, e senza risparmio di
energie, hanno partecipato alla realizzazione di
ogni fase dei lavori.
Rosa Maria Aliberti
Referente del Progetto
65
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
Intervista al Prof. Aldo Masullo,
relatore al Convegno su Darwin
La Cultura è madre
non di scontri,
ma di incontri
Colloquio con un Maestro del pensiero su
Scienza, Filosofia e Modernità
N
66
el corso dell’interessantissimo Convegno
“L’Evoluzionismo di Darwin: certezze
scientifiche, effetti culturali e dubbi
teologici” abbiamo incontrato il Professor
Aldo Masullo, uno dei più grandi intellettuali
italiani. Parlare con Lui è stato tremendamente
ammaliante…
Che ruolo ha la Filosofia nella Società contemporanea?
“La Filosofia non è ’Scienza’ nel senso tecnico
di conoscenza verificabile, fondata su metodi
convenuti, ma è ’Sapienza’, cioè maturazione
dell’esperienza attraverso cui l’uomo perviene ad
una più piena consapevolezza di sé, dei suoi limiti,
dei suoi problemi e cerca di conoscere se stesso.
Ricordate l’Oracolo di Delfi? ’Conosci te stesso’. La
Filosofia, dunque, è obiettivo comune a tutte le culture umane, è un principio
unitario che accomuna e
non divide.”
C’è il pericolo di appiattimento e di massificazione soprattutto tra le
giovani generazioni?
“Il pericolo del momento è l’equivoco della
tecnica. C’è chi tenta di
risolvere tutto con la tecnica; e chi, invece, abolendo
del tutto la tecnica. Nessuno dei due atteggiamenti
è completamente giusto. La tecnica è coessenziale
alla vita dell’uomo. Il pensiero umano è produttore
di tecnica. Ad esempio, è tecnica la matematica che
è organizzazione di procedure mentali: l’intuizione
mentale non si consuma, ma si organizza in un,
per così dire, ’manuale’. E’ tecnica anche la lingua
umana. Tecnica, in greco, significa ’abilità’; è una
prefigurazione dell’azione per soddisfare i bisogni
umani, non solo materiali, ma anche e, forse soprattutto, esistenziali.”
Da che cosa è caratterizzato l’Uomo?
“Dall’insicurezza. ’Sicuro’ deriva dal latino
’sine cura’, cioè ’senza preoccupazione’. Ma se
l’uomo sa, ad esempio, di dover morire, di poter
perdere l’amore…come fa a
non essere insicuro? Il vero
suo problema è rispondere
a questa insicurezza, perché
l’insicurezza produce la paura
che produce l’aggressività,
che produce a sua volta la
competizione senza limiti, che
infine produce la guerra.”
La Filosofia, dunque,
come può aiutare l’Uomo?
“La Filosofia deve far
prendere atto all’uomo della sua condizione ed
avere un ruolo di raccordo delle tecniche di cui egli
dispone per arrivare alla soddisfazione dei suoi
bisogni e delle volontà umane. La Filosofia non deve
portare a degli scontri, ma alla concordia.”
E che cosa pensa Lei delle tesi darwiniane?
“Le Scienze sono vere finché non vengono superate da altre Scienze. La Scienza è storica, è relativa.
Il termine ’Natura’ viene da ’nascor’; Vico parlava di
’nascimento delle cose’. Essere nel tempo come specie
significa non fermarsi alle cose come ci appaiono,
ma avere consapevolezza di un processo che ha
avuto una sua origine e può avere un suo termine.”
Su quali campi le teorie darwiniane hanno
avuto dei riflessi?
“Sulla conoscenza del mondo vivente, sull’evoluzione delle specie con conseguenze di carattere
culturale generale. Grazie alle teorie darwiniane,
abbiamo capito che non esistono razze superiori e
razze inferiori; e ciò è fondamentale da tutti i punti
di vista: culturale, sociale, etico, morale.”
Viridiana Myriam Salerno
La lectio magistralis del Prof. Aldo Masullo sarà pubblicata integralmente in apertura del prossimo numero di Lyceum per il suo spessore culturale profondo e altamente scientifico.
67
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
LECTIO MAGISTRALIS/1
L’evoluzione, qualche
riflessione didattica
I
68
l mio intervento vuole rivolgersi soprattutto agli insegnanti e vorrei proporre alcuni
spunti di riflessione e di discussione sul tema
dell’evoluzione, o meglio sul tema dell’evoluzione
nell’insegnamento della biologia, e metterne in
evidenza alcune difficoltà o possibili carenze.
internazionale tenutasi nel marzo 2009 presso
la Pontificia Università Gregoriana, mi pare, evidentemente lecito, basta non confondere i piani.
Il titolo di questo convegno era “L’evoluzione
biologica: fatti e teorie” e sul termine “teorie”, al
plurale, vorrei dire qualcosa.
Anzitutto, come fa notare Telmo Pievani, nei
programmi della scuola primaria e secondaria
di primo grado del 2007 non compaiono mai le
parole “evoluzione biologica”“evoluzione umana”
“Darwin”“selezione naturale”“origini dell’uomo”,
sostituite invece da giri di parole e indicazioni
vaghe e complicate, mentre fino al 2004 erano
presenti indicazioni ben precise. Questa autocensura certamente non impedirà agli insegnanti
più avveduti di trattare di evoluzione nel modo
che riterranno più opportuno, ma potrebbero
influire sugli editori di libri di testo e sappiamo
come i libri influenzino i programmi realmente
svolti in classe.
Queste prudenze da parte dei consiglieri
ministeriali sono
eccessive e intendono rendere ossequio ad atteggiamenti pseudoreligiosi, più che
conservatori, direi
reazionari. Che
d e l l ’e vo l u z i o n e
biologica si possa
discutere anche
dal punto di vista
filosofico o teologico, come si è fatto
Telmo Pievani
nella Conferenza
Oggi i biologi sono concordi su di una teoria:
la teoria “neodarwiniana”, con tutte le addizioni di
nuovi concetti e nuove conoscenze derivanti dalla biologia molecolare, dalla biologia dello sviluppo, dalle teorie della complessità, eccetera. Non ci
sono teorie alternative, accettate dalla comunità
scientifica. Il nucleo della teoria (discendenza
con modificazioni, selezione naturale) è tuttora
considerato valido. Naturalmente sappiamo
che alla selezione naturale si sono aggiunti altri
meccanismi evolutivi, non previsti da Darwin, la
deriva genetica, l’isolamento geografico, l’effetto
fondatore, la teoria neutrale di Kimura…
Parlare di “teorie”, invece che di “teoria”, sembra voler insinuare un’ombra di dubbio sul fatto
che la teoria dell’evoluzione darwiniana sia la
maggiore teoria unificante che informa tutto lo
status epistemologico della biologia.
I detrattori della teoria dell’evoluzione insistono spesso sulla disparità di opinioni, sulle
discussioni che nascono tra i ricercatori in biologia evoluzionistica, su aspetti particolari della
teoria, su interpretazioni di dati vecchi e nuovi,
sull’interpretazione di nuove scoperte, come se
questi dibattiti, invece di dimostrare la vitalità
della teoria, come strumento interpretativo, ne
minassero le fondamenta.
Infine vorrei discutere sul significato stesso
che viene dato al termine “teoria”, che è parola
in un certo senso polisemica.
Se consultiamo un vocabolario
della lingua italiana, troviamo molte
definizioni di questa parola, tutte
collegate fra loro, ma differenti riguardo all’“uso” o “intenzione” delle
diverse accezioni.
Teoria è termine del linguaggio
scientifico: indica un complesso di
concetti, di conoscenze, di ipotesi,
che descrivono e spiegano in maniera coerente un ampio campo
della realtà. Teoria indica anche un
insieme di precetti che servono di
guida alla pratica, e, nel linguaggio
comune, si osserva spesso una contrapposizione tra i due termini di quest’ultima
accezione. Teoria, contrapposta alla pratica. In
teoria si potrebbe fare questo e quello, ma in
pratica…
Da qui viene l’accezione spregiativa del
termine teoria, come inutile insieme di regole, o
addirittura come insieme di speculazioni astratte
e cervellotiche, senza fondamento concreto.
Questa accezione del termine è spesso usata
dai detrattori della teoria dell’evoluzione: è solo
una teoria, non è una conoscenza basata su fatti
concreti. Oppure, è una teoria come tante altre,
altre teorie possono, o meglio devono avere la
stessa dignità scientifica, devono avere pari spazi
nell’insegnamento.
Questo è quanto sostengono gruppi religiosi
integralisti, protestanti, musulmani, cattolici, che
danno una lettura letterale dei libri sacri, spesso
legati alla destra, come nel sud degli Stati Uniti,
o alla destra estrema, come in Italia.
Quindi sarà bene discutere, con gli studenti,
delle diverse accezioni del termine “teoria”,
chiarire che la teoria dell’evoluzione è una teoria scientifica, e che è l’unica teoria che oggi
accetta la stragrande maggioranza della comunità scientifica. Come ha scritto Dobzhanski:
” Niente ha senso in biologia se non alla luce
dell’evoluzione”.
Un secondo punto che vorrei trattare è l’immagine della teoria dell’evoluzione che spesso
forniamo agli studenti, e che è parte del proble-
ma più generale dell’immagine della scienza che
costruiamo a scuola. Una trattazione storica della
teoria dell’evoluzione ha senza dubbio il pregio
di presentare la scienza come una costruzione
umana, come un’impresa sociale, legata al più
ampio contesto della storia, e non come un
insieme di fatti rivelati dal libro di testo. Spesso,
però, i ragazzi ne ricavano l’idea di un’impresa
compiuta, di una grande e complessa costruzione
ormai terminata, da ammirare, e poi passare a 69
qualcosa di più moderno.
E invece la teoria dell’evoluzione non è una
costruzione definitiva. È vero che il nucleo della
teoria (discendenza con modificazioni, selezione
naturale) è tuttora considerato valido, ma gli studi continuano ad andare avanti. La teoria va vista
non soltanto come un corpus di conoscenze, di
concetti, di spiegazioni, ma anche come “progetto di ricerca”, nel senso di Lakatos. Non possiamo
insegnare soltanto le idee codificate, accettate
dalla comunità scientifica, ma anche quello che
avviene al confine della conoscenza scientifica,
per far comprendere che la scienza non è solo un
insieme più o meno coerente di concetti, principi,
conoscenze, procedure, ma anche un work in
progress, un’attività umana che viene portata
avanti da una comunità di ricercatori.
Un paio di esempi di work in progress, da
sviluppare, e cioè l’Evo-Devo, e in particolare
l’evoluzione dell’arto dei Tetrapodi e la cosiddetta Evoluzione sperimentale. Evo-Devo è una
sigla che indica la Evolutionary Developmental
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
70
Biology, cioè la Biologia dello Sviluppo Evolutiva,
campo di ricerca evidentemente interdisciplinare, molto in voga oggi.
Nella storia che vi racconterò per sommi capi,
vedremo una delle caratteristiche della ricerca
moderna, e precisamente la convergenza di più
discipline per cercare di risolvere il medesimo
problema. Caratteristica questa della scienza
moderna che va messa in risalto nel campo
dell’educazione scientifica.
Cominciamo con i dati che ci offre la Geologia. Nel periodo Devoniano, grosso modo
tra 400 e 350 milioni di anni fa, la Pangea si sta
dividendo in due supercontinenti: Laurasia a
nord e Gondwana a sud. Le terre emerse sono
delle brulle distese di rocce e sabbie e la Paleobotanica ci descrive una rada vegetazione di
muschi e licheni, di pianticelle sparse. Le acque
scorrono in fiumare, dai fondi e dalle rive instabili. Pian piano le piante vascolari conquistano
l’ambiente terrestre e sorgono vere e proprie
foreste di felci arboree, equiseti, licopodi giganti,
alti fino a venti, trenta metri. Solo verso la fine del
Devoniano compaiono le prime gimnosperme,
delle protoconifere.
Lo sviluppo della vegetazione produce il
deposito di materiale organico, che per opera di
una comunità di detritivori e di decompositori
viene trasformato in humus.
I fiumi vengono stabilizzati dalla vegetazione
ripariale e, nelle pianure, formano meandri che
finiscono per distaccarsi dal corso principale,
formando stagni e paludi.
Il Devoniano è detto era dei pesci, che
rappresentano le forme dominanti. Pesci
agnati, cioè senza mandibola, che evolvono
pesanti corazze dermiche per difendersi dalla
predazione di grandi
scorpioni d’acqua, gli
euripteridi. Pesci gnatostomi, cioè forniti di
mandibole, efficienti
predatori che si irra-
diano in un’enorme varietà di forme. Tra queste,
pesci a scheletro ossificato, che possono essere
distinti in due taxa principali, quelli con pinne a
ventaglio, gli attinopterigi, che sono oggi i pesci
dominanti nel mare e nelle acque dolci, e pesci
con pinne carnose, fornite di una loro muscolatura intrinseca e con un robusto scheletro basale.
Sono appunto questi pesci, detti sarcopterigi,
cioè a pinne carnose, che dovremo prendere
in considerazione per descrivere la conquista
dell’ambiente terrestre da parte dei vertebrati.
Le pinne pari di questi pesci sono formate da
un robusto elemento basale, articolato sul cinto,
paragonabile all’omero, o al femore, da due elementi distali, simili a radio e ulna e tibia e fibula,
su cui si articolano piccoli elementi ossei che
sorreggono le lunghe e sottili bacchette ossee, i
lepidotrichi, di origine dermica, che formano la
pagaia per nuotare.
Come modello di questi pesci si propone di
solito Eusthenopteron, un grosso pesce di acque
profonde, buon nuotatore.
Intanto gli estuari e le acque interne sono
colonizzate da un’abbondante fauna di origine
marina e i pesci sarcopterigi conquistano anche
gli stagni e le paludi. Si tratta però di acque
basse, ingombre di vegetazione, eutrofizzate,
frequentemente in debito di ossigeno. Nel Devoniano medio si osserva una trasformazione di
questi pesci: divengono appiattiti, per adattarsi
alle acque basse, e le loro pinne pari diventano
più robuste, per spingersi nell’intrico della vegetazione, per sollevare la testa fuor d’acqua e
respirare. Si tratta, infatti, di pesci polmonati.
Insomma, un modo di vita simile a quello degli
attuali coccodrilli.
Le testimonianze fossili sono abbondanti,
Panderictidi, Tiktaalik, ed in queste forme le pinne divengono sempre più adatte a “camminare”
nell’ambiente acquatico. Poi, improvvisamente,
nel Devoniano superiore compaiono i primi
tetrapodi.
Ma cosa vuol dire “improvvisamente”? Questi
animali, Acanthostega, Ichtyostega, Hynerpeton,
sono ancora assolutamente animali acquatici,
molte caratteristiche del loro scheletro lo dimostrano, e sono ancora per molti versi simili
ai loro antenati pisciformi, ma hanno dei veri e
propri arti. Omero e femore, radio, ulna e tibia e
fibula sono pressoché identici a quelli dei pesci
sarcopterigi, ma non c’è più la sottile membrana
sostenuta dalle bacchettine ossee dei lepidotrichi, ci sono invece vere e proprie dita.
Non che questi arti siano già adatti a camminare speditamente sulla terra, questo avverrà nel
Carbonifero, quando compariranno gli antenati
dei rettili, i cosiddetti rettilomorfi. Sono, come si
è detto, piedi acquatici, fatti per camminare sul
fondo delle acque, e forse, solo occasionalmente,
per camminare sulla terra.
Ripeto la domanda: cosa vuol dire “improvvisamente”? Si conoscono ormai molti fossili di
transizione tra pesci sarcopterigi e tetrapodi, ma
non si conoscono forme di transizione tra pinna
e arto. La parte basale è sempre estremamente
simile, ma la parte distale, la mano o il piede,
l’autopodio, come si dice in anatomia comparata,
è presente soltanto nei tetrapodi.
Si tratta di lacune nella documentazione
fossile, o c’è qualche altra spiegazione? Ecco che
qui entra in campo la Biologia dello Sviluppo.
Evo-Devo, come dicevamo, una disciplina che
integra Paleontologia, Anatomia comparata
e Biologia dello Sviluppo, e che si serve degli
strumenti recentissimi offerti dalla Genetica
dello Sviluppo.
Lo sviluppo della pinna e dell’arto è sotto il
controllo di una serie di geni, i geni Hox. In una
prima fase i geni Hox della base dell’abbozzo
dell’arto e della pinna determinano lo sviluppo
dell’omero, o del femore. In una seconda fase, una
seconda serie di geni Hox determina la formazione di radio e ulna, o tibia e fibula. I pesci si fermano
qui, e all’estremità dell’arto si formano le sottili
bacchettine ossee dei lepidotrichi. Nei tetrapodi,
una terza serie di geni Hox, in una terza fase determina lo sviluppo della mano e del piede.
Ebbene, mentre nelle prime due fasi c’è
una complessa rete di interazioni geniche che
controlla lo sviluppo, la terza fase è sotto il controllo di un unico enhancer, un gene capofila
che controlla l’attività di tutta una serie di geni
a lui sottoposti. Possiamo suggerire quindi la
ragionevole ipotesi che una singola mutazione,
in un gene qualsiasi, abbia potuto trasformare
questo nel gene di controllo della terza fase. Cioè
una singola mutazione in un sarcopterigio abbia
potuto manifestarsi nei suoi discendenti come
acquisizione di piedi da tetrapodo.
L’ipotesi è formulata in maniera un po’ semplicistica, ma è suggestiva e plausibile.
Ma… nella scienza ci sono spesso dei ma.
Dei dubbi costruttivi che portano alla ricerca di
nuovi dati. Queste ricerche sul controllo genico 71
dello sviluppo dell’arto sono state condotte su
alcuni sistemi modello, come si usa dire, cioè su
specie standard che si sono rivelate le più adatte a
condurre certi tipi di studi. In questo caso, soprattutto sul pesce zebra, sul pollo e sul topo.
Nel pollo e nel topo abbiamo l’espressione
dei geni Hox che controllano le tre fasi dello
sviluppo successivo dei tre segmenti dell’arto.
Nel pesce zebra, solo le due prime fasi.
Il pesce zebra è un pesce osseo molto evoluto. Alcuni ricercatori si sono chiesti se la stessa
situazione si sarebbe ritrovata in pesci più primitivi, e hanno studiato il pesce spatola, Polyodon,
che vive nei fiumi del Nord America. Ebbene,
nel pesce spatola, durante lo sviluppo delle
pinne, si attiva anche la serie dei geni Hox della
terza fase, anche se non si forma un piede. Cosa
significa questo? Significa che la potenzialità di
formare un piede era presente nei pesci primitivi,
che è andata perduta in quelli più evoluti, e che
non si esplica nei pesci perché i meccanismi di
controllo di questi geni sono differenti da quelli
che compariranno nei tetrapodi.
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
Experimental Evolution: esempi di esperimenti di selezione naturale su microrganismi
(interessanti anche per la loro applicazione pratica, evoluzione della resistenza agli antibiotici,
chimica delle fermentazioni, controllo
e recupero dell’ambiente…)
Il 15 febbraio del 1988, un ricercatore americano, Richard Lenski, ha
cominciato un esperimento di selezione. Dodici campioni prelevati dalla
stessa coltura del batterio Escherichia
coli furono fatti crescere in dodici recipienti identici, contenenti un mezzo di
coltura semplice, con glucosio come
unica fonte di carbonio. Ogni giorno,
l’1% di ogni popolazione era trasferito
in un nuovo recipiente. Per questo
batterio, il mezzo di coltura utilizzato,
era un ambiente nuovo, cui era scarsamente adattato. I batteri si riprodu-
cono molto velocemente e nelle 24 ore, in queste
condizioni, si ottenevano 6,6 generazioni.
Ogni 100 generazioni, un campione prelevato da ogni cultura era congelato e conservato,
così come era stato fatto per un campione della
coltura di partenza.
Le dodici popolazioni erano geneticamente
identiche all’inizio, e l’unica fonte di variazione
su cui poteva agire la selezione naturale era la
mutazione.
L’adattamento di ogni popolazione all’ambiente fu saggiato paragonando direttamente
i batteri che si erano evoluti nelle successive
generazioni con la cultura originale. Si fecero cioè
crescere in competizione, nella stessa coltura,
campioni delle colture evolute e campioni della
coltura originale.
Dopo un certo tempo, fu misurato il rapporto
tra i tipi originali e quelli evoluti, per valutare
l’adattamento delle linee evolute relativamente
ai loro antenati.
Nel 1994 furono pubblicati i primi risultati
che mostrarono che l’adattamento delle dodici
popolazioni sperimentali era aumentato di circa
il 40% e che tra queste popolazioni c’erano delle
differenze e che quindi il caso e la contingenza,
come anche la selezione naturale avevano un
ruolo importante nell’evoluzione di queste
popolazioni.
Vorrei concludere infine con un cenno ad una
visione più generale, e che ci
riguarda direttamente.
L’uomo si è evoluto sulla
Terra attraverso una catena di eventi assolutamente improbabili, irripetibili,
imprevedibili. Chi avrebbe
potuto prevedere che tra le
tante strane forme presenti
negli argilloscisti di Burgess
del Cambriano, il più antico
protocordato noto, la Pikaia,
avrebbe avuto una discendenza, che ha portato fino
ai vertebrati? Chi avrebbe
potuto prevedere che le moR. Lensky
72
Ma questo non basta. Di recente, in Russia,
sono stati ritrovati esemplari molto ben conservati di quel antenato pisciforme dei tetrapodi
che abbiamo già nominato, Panderichtys. Lo
studio, mediante tomografia computerizzata ai
raggi X, di questi scheletri fossili ha rivelato che
un osso posto distalmente all’ulna, nella pinna
anteriore, e che era stato considerato come un
unico grosso ulnare, in realtà era formato da un
piccolo ulnare e da una serie di bacchette ossee
che possono essere considerate delle dita. Ma
allora, non è vero che le dita sono assolutamente
la novità evolutiva che compare nei tetrapodi.
Erano presenti, anche se in forma ancora rudimentale almeno in qualcuno dei loro antenati
pesci crossopterigi.
Morale della storia: i quadri della scienza
possono sempre essere sottoposti a verifica, devono essere possibili delle verifiche. Le certezze
scientifiche esistono, e non possiamo neanche
dire che siano sempre provvisorie, nel senso che
non meritino fiducia, ma se ci sono dei ragionevoli dubbi, vanno sottoposte a revisione. E anche
questa è una caratteristica della scienza che è
importante mettere in risalto nella costruzione
di un’educazione scientifica.
se ne possono dare delle interpretazioni scientifiche. A priori
i fatti dell’evoluzione non sono
prevedibili, né a partire da leggi
generali, né dalla considerazione
della situazione immediatamente precedente.
Come scrive Stephen Jay
Gould: “Noi siamo figli della storia
e dobbiamo seguire il nostro cammino in questo, che è il più diverso
e interessante degli universi concepibili: un universo
che è indifferente alla nostra sofferenza, e che ci
offre quindi la massima libertà di avere successo,
o di fallire sulla via che abbiamo scelto”.
Bruno Bertolini
Dip. Biologia Animale e dell’Uomo
Università “La Sapienza” - Roma
Stephen Jay Gould
dificazioni ecologiche del Devoniano
avrebbero prodotto le opportune
condizioni e la spinta evolutiva perché
dai sarcopterigi ripidisti si evolvessero
i tetrapodi basali, che pian piano conquistarono l’ambiente terrestre? E l’improbabile collisione con un asteroide
che avrebbe prodotto l’estinzione dei
dinosauri, aprendo ai mammiferi la
possibilità di un’immensa radiazione
evolutiva? E la crisi climatica che ha
costretto gli antenati degli ominidi a lasciare la
foresta per la savana, e a cominciare quel lungo
viaggio che ha portato fino a noi?
L’evoluzione è un fenomeno storico, cioè un
fenomeno in cui ogni passo condiziona i passi
successivi, ma è anche un fenomeno pieno di
casualità, di imprevedibilità, anche se a posteriori
73
Riferimenti bibliografici
Pievani T., Quelle strane autocensure su Darwin a scuola, http://associazione31ottobre.it/pievani.darwin.pdf
Pontificia Università Gregoriana, III Conferenza internazionale STOQ, “L’evoluzione biologica: fatti e teorie”, Roma
3-7 marzo 2009, http://evolution-rome2009.net
Shubin N., C. Tabin e S. Carroll, Deep homology and the origin of evolutionary novelties, Evolution, Nature Insight,
818-823, 2009.
Buckling A., R. Craig Maclean, M. A. Brockhurst e N. Colegrave, The Beagle in a bottle, Evolution, Nature Insight, 824-829,
2009.
Bertolini B., Specificità della biologia e immagini della scienza, in “Scienza, valori, educazione”, (a cura di G. Del Re e
Ezio Mariani), Istituto per Ricerche e Attività Educative, Napoli 15-16 novembre 1991, pp 51-60.
Gould, S. J., La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano, 1990.
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
LECTIO MAGISTRALIS/2
74
La teoria evoluzionista
nella visione della Chiesa
L
’evoluzionismo, teorizzato da Charles
Robert Darwin (1809 – 1882), dopo il
viaggio attorno al mondo a bordo della
nave Beagle, compiuto dal 1831 al 1836, i cui
risultati furono pubblicati in L’origine delle specie
per selezione naturale (1859), e poi estesi all’evoluzione dell’uomo in L´origine dell´uomo e la
scelta in rapporto al sesso (1871), a distanza di
centocinquant’anni dalla sua prima formulazione
e nella molteplicità delle sue versioni (che si adeguano continuamente grazie all’apporto delle
nuove scoperte dell’embriologia e della genetica,
della paleontologia e della biogeografia, come
dell’anatomia comparata), continua a suscitare
un acceso dibattito circa il valore teologico, oltre
che scientifico e filosofico, che scaturisce dalle
sue conclusioni.
Che cosa dice la Bibbia a proposito dell’evoluzionismo?
L’apparente contraddizione tra le tesi delle
teorie dell’evoluzionismo e la rivelazione ebraicocristiana scaturisce dal fatto che la Bibbia riferisce
che Dio creò successivamente tutti i viventi
«secondo la loro specie» (cf. Genesi 1, 11-12. 21.
24. 25), concezione da cui deriva il creazionismo.
Tuttavia la Genesi non si esprime nel senso della
creatio ex nihilo di tutte le singole specie viventi,
dato che essa dichiara che nei sei giorni della creazione Dio prima comanda che «la terra produca
germogli, erbe da seme e alberi da frutto» (Gen
1, 11-12), poi che «le acque brulichino di esseri
viventi» (Gen 1, 20) e che «la terra produca esseri
viventi» (Gen 1, 24); che anche l’uomo, infine, fu
creato dal Signore, che lo «plasmò con la polvere
del suolo» (Gen 2, 7): in questo modo non appare
estranea alla concezione della Genesi l’idea che la
vita sorga da una materia preesistente.
La creazione “dal nulla”, invece, viene affermata per la prima volta nei testi biblici intorno al II
secolo a. C. nel Secondo libro dei Maccabei, allorché una madre ebrea esorta i figli a non tradire
Cosa dice il magistero della Chiesa?
L’evoluzionismo non è mai stato
ufficialmente condannato dal magistero
della Chiesa, a parte il pronunciamento
negativo del 1860 (un anno dopo la
pubblicazione dell’Origine della specie)
da parte di sei vescovi tedeschi nel sinodo provinciale di Colonia, che dichiarò la falsità delle
nuove teorie, ritenute inconciliabili con i racconti
biblici della creazione. Una forte perplessità,
comunque, è apparsa tra i cattolici fino al 1950,
quando, finalmente, l’Humani generis di Pio XII
(1950)1 riconobbe che
«il magistero della chiesa non proibisce che
in conformità dell’attuale stato delle scienze
e della teologia, sia oggetto di ricerche e di
discussioni da parte dei competenti in tutti
e due i campi, la dottrina dell’evoluzionismo,
in quanto cioè essa fa ricerche sull’origine del
corpo umano, che proverrebbe da materia
organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create
immediatamente da Dio)».
quando – ma secondo
molti questo non è ancora
il caso dell’evoluzionismo
– esse sono concordemente accettate dalla comunità degli scienziati.
Del problema si sono
occupati, anche i papi
più recenti, da Paolo VI2
a Giovanni Paolo II3, fino
a Benedetto XVI, che,
prima da vescovo, poi
da papa, ha affrontato
l’argomento4.
Papa Ratzinger riconosce che la teoria evoluzionistica non è assolutamente in contrasto con
la fede in Dio – per cui non esiste un contrasto tra
scienza e fede –, a patto che essa rimanga quello
che è, cioè una teoria scientifica, che come tale
fornisce una spiegazione delle “modalità” attraverso le quali hanno avuto origine gli esseri viventi ed è aperta ad ulteriori chiarificazioni e anche
alla possibilità di essere superata eventualmente
da altre teorie; essa non deve sconfinare nella 75
filosofia, trasformandosi in un evoluzionismo
metafisico, che presume di dare una spiegazione
onnicomprensiva della realtà, rifiutando ogni
elemento soprannaturale e spirituale: in questo
caso esso non si porrebbe solo contro la fede (se
negasse l’origine trascendente della realtà e la
dimensione spirituale della vita dell’uomo), ma
Per questo, secondo papa Pacelli,
a partire dall’antropologia dualista
di matrice greca, che vede l’uomo
distinto in anima e corpo, in linea
di principio è possibile affermare
che, mentre le anime degli uomini
sono create direttamente da Dio, per
spiegare l’origine del corpo umano
si possa ricorrere alla teoria dell’evoluzionismo.
In realtà, la Chiesa non ha il
compito di decidere della fondatezza scientifica delle scoperte; essa
piuttosto deve trarre le conclusioni
teologiche dalle teorie scientifiche,
Lyceum Dicembre 2009
Pio XII
la fede davanti alle minacce di morte del
tiranno greco e li invita a confidare nel
Dio creatore: «Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto
vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non
da cose preesistenti; tale è anche l’origine
del genere umano» (2 Mac 7, 28).
Benedetto XVI
Percorso/Speciale Darwin
76
anche contro la dignità dell’uomo (che sarebbe
ridotto a materia e in balia della casualità delle
mutazioni genetiche: se l’irrazionale è all’origine
di tutto e non c’è un progetto che dia senso all’esistenza, la ragione perde di ogni valore poiché
essa stessa dipende dall’irrazionale; anche l’etica
potrebbe allora essere fondata sui valori della
sopraffazione e della competizione piuttosto
che sulla solidarietà). Al contrario se l’evoluzionismo è assunto come una teoria scientifica esso
produce una migliore comprensione dell’attività
creatrice di Dio, il quale
può essere pensato
non semplicemente
come un artigiano che
compie una volta per
tutte la sua opera (così
come appare nella teoria creazionista), ma
come il pensiero creatiG. Galilei
vo che accompagna in
ogni istante in una creazione continua la realtà
a cui egli stesso ha dato inizio; ma lascia intatta
anche la dignità della persona umana, capace
di sottrarsi al caso e alla necessità delle leggi
dell’evoluzione mediante la sua libertà5.
È possibile conciliare l’evoluzionismo e le altre
teorie scientifiche sull’universo con il racconto
biblico della creazione?
L’evoluzionismo è solo una delle teorie scientifiche degli ultimi secoli che mettono apparentemente in discussione la verità del racconto di Gen
1-2. Prima di Darwin anche la struttura eliocentrica
del cosmo ipotizzata da Copernico e da Galilei fu
contestata in nome della struttura geocentrica
ritenuta presente anche nei racconti biblici; e
dopo Darwin, la teoria del «big bang» sull’origine
dell’universo (cosmogonia) e la sua datazione a
13,5 miliardi di anni fa, sembrò annullare definitivamente la narrazione della creazione di tutte le
cose in soli sei giorni (databili, secondo i complicati
calcoli di alcuni biblisti ingenui, nel 4004 a. C.).
Occorre, pertanto, domandarsi se e come
è possibile conciliare l’evoluzionismo e le altre
teorie scientifiche con i dati delle sacre Scritture.
È da escludere, innanzi tutto, la possibilità che
esista una «doppia verità», quella scientifica e
quella religiosa, ipotesi formulata proprio all’alba
della rivoluzione scientifica del XVI-XVII secolo,
ma evidentemente irrazionale. Sono pure da
scartare i tentativi operati da alcuni teologi del
passato di “concordare” i dati scientifici con quelli
biblici, interpretando, ad esempio, i sei giorni
della creazione come altrettante ere geologiche;
così come non sono accettabili alla luce della fede
cattolica le posizioni riduttive di chi considera i
racconti della Genesi puramente mitici o poetici,
privi cioè della dignità di testi ispirati da Dio. Allo
stesso modo non può presumere di avere validità
scientifica né teologica l’ipotesi formulata da
qualche decennio negli Stati Uniti sul «Disegno
intelligente», che, facendo leva su alcune delle
questioni ancora irrisolte nell’evoluzionismo,
introduce l’idea di un Essere supremo che interviene per guidare l’evoluzione, producendo
una profonda confusione tra il piano scientifico
e quello teologico, che devono rimanere distinti,
e riducendo Dio ad un tappabuchi, che agisce
per correggere gli errori prodotti dal processo
meccanicistico dell’evoluzione6.
La strada che la teologia cristiana oggi percorre, invece, si fonda sull’acquisizione di due
premesse: la prima riguarda la distinzione tra le
finalità dell’indagine scientifica e le finalità della
rivelazione biblica; la seconda, invece, riguarda il
significato del concetto di ispirazione biblica.
Distinzione, non opposizione tra scienza e fede
In primo luogo, dunque, occorre riconoscere
che la scienza, non essendo chiamata ad occuparsi del mondo soprannaturale, opera unicamente
all’interno dell’ambito della realtà fenomenica,
formulando ipotesi che vengono poi verificate
sperimentalmente, ma che restano falsificabili in
qualche punto, in modo da poter lasciare il posto
a nuove ipotesi, e consentendo così il progresso
della scienza stessa, che non produce mai dogmi
irreformabili. Essa, inoltre, propone risposte esaurienti alle domande sulle “modalità” in cui opera
la natura, oppure sui perché più immediati circa
la spiegazione dei fenomeni (le “cause seconde”
della filosofia aristotelica e scolastica), domande
del tipo: “come è nato l’universo?”, “come è nata
la vita sulla terra?”, “come si è sviluppato l’uomo?”, “come è fatto il cosmo?”, “perché l’uomo
pensa?” eccetera. La teologia, invece, assieme
alla filosofia, ma a partire dalla rivelazione, si
rivolge soprattutto alle domande di senso, che
riguardano il fine ultimo delle cose, l’”altro perché”, quello radicale sulle motivazioni profonde
dell’esistenza: “perché esisto?”, “perché si nasce se
poi si deve morire?”, “perché sento il bisogno di
farmi simili domande?”. Lo stesso Galileo Galilei,
profondamente cattolico, benché costretto a rinnegare le sue tesi, riferendosi a un’espressione del
cardinale Cesare Baronio spiegava a coloro che
ritenevano che le sue scoperte contraddicessero i
dati biblici che «la Bibbia vuole dirci come si vada
ai cieli, non come vadano i cieli».
Per questo le risposte della scienza sono
complementari a quelle della teologia e non in
opposizione: l’evoluzionismo, il «big bang» e
le teorie sulla struttura dell’universo, spiegano
“come” è fatto il mondo, mentre la rivelazione
biblica, che è oggetto della riflessione teologica
spiega “perché” esiste il mondo. Ecco perché se
esistono scienziati evoluzionisti atei, per i quali
l’evoluzione si situa «come un lampo fra due
nulla», ci sono anche validi evoluzionisti credenti,
come, ad esempio, Francisco Ayala o Francio Collins, oltre al famoso gesuita Theilard de Chardin
(1881-1955) che scorgono un finalismo nell’evoluzione, rivelatore del senso che Dio ha dato alla
storia dell’universo con la quale interagisce.
Il concetto di ispirazione biblica
L’altra questione riguarda il concetto di
ispirazione biblica. Se la Bibbia è parola di Dio
e, dunque, non può sbagliare, come si può
affermare che il mondo non sia stato creato in
sei giorni o che l’uomo non sia stato plasmato
dalla polvere?
In realtà, come afferma il Concilio Vaticano
II nella Costituzione su «La divina rivelazione»,
i testi sacri, pur trasmettendo la parola di Dio,
sono stati scritti da «uomini nel pieno possesso
delle loro facoltà e delle loro capacità», che hanno agito «come veri autori»,7 con le conoscenze
relative al tempo in cui essi operarono. Dio non
ha attuato una sorta di “dettatura verbale” delle
cose che intendeva rivelare, ma, secondo il principio della “condiscendenza”, ha consentito agli
uomini di esprimere le verità da lui ispirate con il
linguaggio limitato che essi possedevano. Il testo
del documento del Concilio continua affermando che «poiché tutto ciò che gli autori ispirati o
agiografi affermano è da ritenersi asserito dallo
Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza,
che i libri della Scrittura insegnano con certezza,
fedelmente e senza errore la verità che Dio, per
la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle
sacre Scritture»8: Dio, dunque, non ha voluto farci
conoscere verità scientifiche, lasciando all’uomo
la libertà di progredire nella ricerca delle meraviglie dell’universo e dell’uomo; Egli, piuttosto,
mediante le Scritture, ha voluto rivelarci ciò che
serve «per la nostra salvezza», perché la nostra
vita abbia un senso.
Così non si devono cercare nella Bibbia le
conferme o le smentite alle teorie scientifiche
che di volta in volta l’uomo è capace di elaborare, ma si deve riconoscere che Dio, nella sua
misericordia, ha voluto darci le «buone notizie»
77
che illuminano la nostra esistenza.
Ad esempio, ci ha rivelato che Egli è all’origine
di tutte le cose, indipendentemente da come le
ha fatte e continua a farle, per indicarci che anche nei momenti dell’angoscia e della solitudine
possiamo ricordarci che esistiamo non perché
siamo frutto del caso, ma perché Uno ci ha voluti,
e anche se la mia nascita fosse stata originata da
uno “sbaglio” dei miei genitori e anche se tutti
mi abbandonassero, Egli continua ad amarmi da
Padre. Inoltre, ci ricorda che il mondo nel quale
viviamo è «cosa buona/bella» (Gen 1, 4. 10. 12.
18. 25. 31), che l’uomo è chiamato a custodire e
curare per conservarne la bellezza. Infine, ci ha
mostrato che l’uomo ha una dignità altissima
nella creazione: la Bibbia afferma che egli è
l’unico ad essere creato da Dio «a sua immagine
e somiglianza» (Gen 1, 27) e questo ci induce a
rispettare la dignità di ogni persona, senza alcuna
discriminazione, a riconoscere l’immenso valore
dei doni che il Padre fa all’uomo, ad accettare che
anche nell’uomo più malvagio resta impressa
questa nascosta santità originaria che deve venire fuori, ad ammettere che tutti gli esseri umani
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
sono legati da una connaturata solidarietà. Anche
i tempi lunghissimi trascorsi dall’inizio della creazione all’apparire della vita (circa 4,5 miliardi di
anni fa) e, poi, all’apparire dei primi esseri umani
della specie Homo sapiens sapiens (circa 40.000
anni fa), lungi dallo svilire il valore dell’uomo nella
creazione – come riteneva, ad esempio, Benedetto Croce, che contestava a Darwin di sostenere
«la vergogna di origini animalesche» dell’umanità
– rivela la cura amorevole, l’attenzione sapiente,
l’eterna potenza, la lunga preparazione di Dio nel
produrre il capolavoro tra tutte le sue opere:
«Se guardo la luna, il cielo e le stelle, che cosa è
l’uomo, perché tu, o Signore, ti ricordi di lui?
Eppure lo hai fatto poco meno degli angeli,
lo hai rivestito di onore e di gloria»
(dal Salmo 8).
Alfonso Langella
Teologo
Accademia Pontificia Mariana di Napoli
78
Pio XII, Enciclica Humani generis, 12 agosto 1950, in AAS 42 (1950) 561-577.
Paolo VI, Discorso dell’11 luglio 1966, in Insegnamenti di Paolo VI, IV, LEV, Città del Vaticano 1966, 364-367.
3
Giovanni Paolo II, Allocuzione all’Assemblea plenaria dell’Accademia delle Scienze, AAS 85 (1993) 764-772;
Idem, Allocuzione alla Pontificia Commissione Biblica, AAS 86 (1994) 232-243; Idem, Allocuzione alla Pontificia Accademia delle Scienze, 22 ottobre 1996, AAS 88 (1994): in questo discorso il papa, richiamandosi al Discorso citato
di Paolo VI, ribadì che l’evoluzione non è «una mera ipotesi», ma una «teoria che si è progressivamente imposta
all’attenzione della ricerca».
4
Il card. Schönborn, nella prefazione al libro sul Convegno di Castelgandolfo Un convegno con Papa Benedetto XVI a Castel Gandolfo, a cura di S. O. Horn e S. Wiedenhofer, Bologna, Edizioni Dehoniane, 2007, cita cinque
testi di Ratzinger: un intervento alla Süddeutsche Rundfunk nel 1968, la prefazione a R. Spaemann, R. Löw, P. Koslowski, Evolutionismus und Christentum, VHC, Weinheim 1986, un discorso alla Sorbona del 27 novembre 1999 e
due interventi al Convegno di Castel Gandolfo (si tratta di un commento alla relazione di Peter Schuster e di un
commento a tutte e quattro le relazioni a Castel Gandolfo). A questi si deve aggiungere il Discorso al clero delle
diocesi di Belluno e Treviso, tenuto ad Auronzo nel luglio del 2007, ove riconobbe che «ci sono tante prove scientifiche in favore dell’evoluzione che appare come una realtà che dobbiamo vedere e che arricchisce la nostra
conoscenza della vita e dell’essere in quanto tale».
5
Cf. l’intervento di G. Auletta, «La riflessione di Joseph Ratzinger sull’evoluzionismo», al Convegno svolto
dal 3 al 7 marzo 2009 a Roma su «L’evoluzione biologica: fatti e teorie – Una valutazione critica 150 anni dopo
l’Origine delle specie, di Charles Darwin», organizzato dalla Pontificia Università Gregoriana e dalla Notre Dame
University.
6
Nel 1981 il governatore dell’Arkansas, con l’Atto 590 aveva stabilito l’obbligo di insegnare nelle scuole
l’equivalenza sul piano scientifico di creazionismo ed evoluzionismo: la teoria del Disegno intelligente veniva
proposta per dare validità scientifica alle affermazioni religiose. Ma nel 1982 l’atto fu dichiarato illegittimo, proprio perché il creazionismo non può essere considerato un’ipotesi scientifica, poiché presuppone principi metafisici nella spiegazione della realtà.
7
Concilio Vaticano II, Costituzione Dei Verbum, 18 novembre 1965, n. 11.
8
Ibidem.
1
2
Un uomo chiamato
Charles R.
Darwin
T
«It is a cursed evil to any man to become as
absorbed in any subject as I am in mine.»
Charles Robert Darwin
utti noi conosciamo chi fosse Charles
Darwin, e con diversi livelli d’interesse
abbiamo studiato il suo lavoro. Sappiamo come fosse un eminente naturalista, e del
suo viaggio sul Beagle. Abbiamo studiato che i
suoi lavori principali, quali L’origine delle specie e
la Teoria della selezione naturale, sono stati una
pietra miliare per la biologia e la scienza tutta. E
ci siamo chiesti, forse non una volta sola, quando
eravamo costretti ad imparare la tassonomia
biologica delle specie viventi, come facessero
questi scienziati ad appassionarsi ed a lavorare
con quelle centinaia di classificazioni, nomi
spesso difficili anche solo da ricordare. Che tipo
di persone potevano mai essere questi uomini
(e donne)? Ebbene, attraverso diverse fonti, tra
le quali spicca per me il resoconto del viaggio di
Charles Darwin, Viaggio di un naturalista intorno
al mondo, ho voluto andare oltre il Darwin scienziato, e cercare di comprendere come fosse il
Darwin uomo: che tipo di persona fosse, quale
metodo di studio applicasse, e così via.
Ho cercato di comprendere quale fosse la
personalità di un eminente scienziato, naturalista,
biologo, geologo, zoologo e botanico (perchè era
tutte queste cose insieme), e di come una mente
di questo tipo avesse addirittura ispirato un notevole personaggio di romanzi storici, il Dottor
Maturin di Patrick O’Brian (romanzi dai quali è
stato tratto il film Master and Commander).
Iniziamo con un po’ della sua biografia. Il 79
giovane Charles era un ragazzo di buona famiglia inglese, figlio di un medico, originario di
Shrewsbury. Sembra che fin da piccolo fosse
rimasto affascinato da un libro all’epoca popolare del naturalista Gilbert White, ed avesse già
cominciato a collezionare minerali ed insetti.
Frequentò ottime scuole, dove rimase affascinato
dalla matematica e cominciò a trascurare i classici
della letteratura, trovandoli fondamentalmente
noiosi. Già allora Darwin presentava spiccate
doti d’autodidatta, che non lo aiutarono poi nel
sistema scolastico: iniziò a praticare esperimenti
di varia natura in casa, e sembra fosse stato bandito dal padre nel capanno degli attrezzi, dove
gli odori nauseabondi dei suoi “giochi” non potessero dare fastidio. Venne inviato all’Università
di Edinburgo a frequentare la facoltà di Medicina,
come il suo genitore, ma presto l’abbandonò.
Il padre, deluso, lo mandò allora a Cambridge a studiare teologia, sperando in una carriera
ecclesiastica, ma commise quello che poi ai
suoi occhi dovette sembrare un grosso errore:
al Christ’s College Charles conobbe Whewell ed
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
80
Henslow; ulteriormente influenzato da queste
personalità scientifiche, nonchè incoraggiato
dal cugino, approfondì i suoi studi scientifici, in
particolare di geologia, studiando solo lo stretto
necessario per superare gli esami non di suo interesse (rivelandosi ancora per l’autodidatta che
era). Dopo una breve esperienza come geologo
in Galles, a Darwin venne presentata l’occasione
della sua vita: il viaggio con il Beagle.
In realtà, Charles Darwin non era ancora un
nome così conosciuto da attirare l’attenzione
della Regia Marina per una spedizione scientifica.
Per nulla. Fu addirittura la terza scelta del Capitano Fitzroy, solo dopo che i primi due avevano
declinato l’offerta, e solo su raccomandazione
di Henslow (che era stato la prima scelta) e Peacock. Si trattava di una spedizione cartografica di
cinque anni lungo le coste del Sud America, ed
il giovane Capitano, terrorizzato dall’idea della
solitudine che aveva portato il Capitano Stokes,
suo predecessore, al suicidio, cercava un ospite,
un commensale e forse un amico.
Quando partì, Darwin era molto giovane:
aveva solo ventidue anni; la sua mente scientifica
ed il suo metodo di ricerca ed analisi non erano
ancora pienamente maturati, e per lo scienziato
questa spedizione ebbe proprio il significato di
un viaggio della vita e, al momento del ritorno, sarebbe stato profondamente cambiato dall’esperienza vissuta. Il Darwin poco più che ventenne
non era il barbuto e posato personaggio che i
fotografi vittoriani ci hanno tramandato, il teorico
dell’evoluzione e della lotta per l’esistenza, ma
un giovane energico amante della vita all’aria
aperta, dei cavalli e della caccia, uno studioso,
certo, acuto osservatore e collezionista quasi
ossessivo, maniacale, ma che non
esitava a sporcarsi
le mani viaggiando
ed esponendosi
in prima persona
anche a situazioni
pericolose: spesso,
leggendo il Viaggio, lo si trova alle
prese con banditi,
stermini di indiani ed animali, mareggiate, paesaggi inospitali, febbri tropicali, sommosse civili
e militari.
E, di fronte a tutto questo, Charles Darwin
coniugò l’imperturbabilità dell’englishman vittoriano ad una mentalità sconvolgentemente
moderna. Si mescolò senza problemi a gauchos
argentini e vagò per Tahiti o nel Nuovo Galles con
gli indigeni locali e, se da un lato non perse mai il
distacco vittoriano (come quando scrisse “Santa
Fe è una cittadina tranquilla, pulita ed ordinata...
La stabilità di questo governo è dovuta alla sua
indole tirannica; a questi peasi pare si addica più
la tirannia che la repubblica. L’occupazione preferita del governatore è quella di andare a caccia
di indiani: poco tempo fa ne trucidò quarantotto
e ne vendette i bambini a tre o quattro sterline
l’uno”), dall’altro dimostrò una linea di pensiero
non conformista sull’umanità che sarà propria
del secolo successivo, il XX, quando riportò: “La
posta era comandata da un tenente negro nato in
Africa: va detto in suo onore che tra il Colorado e
Buenos Aires non c’era forse nessun’altra dimora
tenuta così scrupolosamente pulita e in ordine...
Non ho mai incontrato un uomo più civile e
cortese di questo negro; mi faceva quindi una
gran pena vedere che non sedeva nè mangiava
con noi”.
Durante il viaggio Darwin dovette imparare,
tra le prime cose, a “scrivere”, trasmettere cioè
in un resoconto sufficientemente curato sulle
esperienze che viveva, e sviluppare le sue capacità teoriche di astrazione. In una lettera alla
sorella Caroline il 29 aprile 1836, ormai sulla via
del ritorno, scrive: “Solo ora comincio a scoprire
quanto sia difficile esprimere le proprie idee su
carta. Finchè si tratta di fare soltanto delle descrizioni è piuttosto facile, ma dove entra in gioco
il ragionamento, quando si tratta di trovare un
collegamento azzeccato, essere chiaro o anche
solo moderatamente scorrevole, come ho detto,
diventa per me molto più difficile di quanto non
supponessi”. E chi non condividerebbe questo
pensiero? Ma con il tempo, in quei cinque anni,
Darwin imparò a lasciare impronte indelebili
sulla carta, riuscendo perfino nell’uso di accurate
metafore, scegliendo di descrivere il suo viaggio
in termini visuali, a lui più congeniali, come una
sorta di trasmissione dall’occhio del corpo (“eye
of the body”) all’occhio della mente (“eye of
reason”).
Questa trasformazione continuò anche dopo
il suo ritorno in Inghilterra; a tale proposito scrive:
“Se mi volgo indietro, posso vedere come il mio
amore per la scienza abbia gradualmente preso
il sopravvento su qualsiasi altro interesse. Nei
primi due anni la vecchia passione per la caccia
sopravvisse quasi immutata... Ma a poco a poco
rinunciai al fucile, fino a cederlo al domestico,
perchè la caccia interferiva con il mio lavoro...”
Il Charles Darwin uomo di fede resistette
poco durante il viaggio. Sebbene di famiglia di
liberi pensatori, Darwin credeva nella Bibbia, ed
era convinto dell’argomento teologico di William
Paley, secondo il quale il progetto finalistico della
natura sarebbe la dimostrazione della volontà di
Dio, e quindi della sua esistenza. Tuttavia, con gli
studi naturalistici e la sua formazione geologica,
iniziò dapprima a comprendere come la Terra
fosse molto più vecchia dei seimila anni indicati
nella Bibba. Successivamente, si chiese come mai
Dio avesse creato tante specie d’animali, alcune
così poco differenti tra loro, e come mai queste
creature si evolvessero, se Dio aveva creato
gli esseri perfetti già dall’inizio. Queste idee lo
portarono a dubitare, e, sebbene non si staccò
subito dalla fede religiosa, maturò la sua teoria
dell’evoluzione che, orrore a dirsi, comprendeva
anche l’uomo.
In verità, nel suo
lavoro, Darwin
parla quasi esclusivamente di animali, lasciando
solo uno sfugg e vo l e ce n n o
all’uomo, forse
per non sollevare un vespaio o
forse per rispetto
nei confronti della moglie Emma,
donna dal forte
senso religioso.
Ad ogni modo, il vespaio si è sollevato successivamente, e tutt’oggi perdura: può essere
difficile a credersi, ma anche ai nostri tempi esistono movimenti che vogliono togliere la Teoria
dell’evoluzione dall’insegnamento scolastico,
in quanto sarebbe in contrasto con la religione.
E mentre il dibattito in alcuni ambiti prosegue,
la Chiesa Anglicana si è scusata formalmente 81
con Darwin nel bicentenario dalla sua nascita,
in una sorta di riconciliazione con l’uomo che
giace a Westminster Abbey, al fianco di Sir Isaac
Newton.
Dario Pica
Studente di Informatica
Università di Venezia
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
La tecnica
dell’evoluzione
e l’evoluzione
della tecnica
N
82
el tempo evolutivo, nonostante siano
gli individui a subire gli effetti della
selezione naturale, a cambiare sono i
geni e le popolazioni; il cambiamento a livello
molecolare delle sequenze del DNA e delle
proteine è l’evoluzione molecolare. Essa, partendo dai fondamenti teorici della genetica
delle popolazioni, spiega come si evolvono le
molecole di DNA e proteine e in che modo geni
e organismi sono evolutivamente collegati. A
partire dagli anni ’70 e ’80 la biologia ha potuto
disporre di un’abbondanza di strumenti e di
parametri dovuti all’evoluzione della tecnologia, che ha permesso la nascita della biologia
molecolare. Negli anni è stato così chiarito che
i genomi possono essere studiati per identificare le dinamiche dietro i processi evolutivi e
per ricostruire le cronologie dei cambiamenti;
tutto ciò ha facilitato anche la classificazione
dei viventi secondo vere relazioni filogenetiche
tanto da ridefinire i regni della vita, ridotti ora
a tre:Eubatteri, Archaea e Eucarioti. Tutto ciò è
stato possibile grazie all’avvento dell’ingegneria genetica che utilizza la tecnologia del DNA
ricombinante(combinazioni nuove di sequenze
di DNA, unendo frammenti di DNA di origine
anche diversa in una singola molecola) e della
PCR (amplifica in modo specifico e selettivo una
piccola regione del genoma) per lo studio dei
genomi. La diffusione di tali tecniche nella nostra società ha prodotto ampie applicazioni nel
campo medico e nell’agricoltura, rivoluzionando
molti settori, quali l’antropologia, l’industria e la
medicina legale; esaminiamone qualcuno.
Le investigazioni criminali
Anche nelle investigazioni criminali vengono
utilizzate ampiamente le tecniche di ingegneria
genetica che permettono di svelare lo svolgimento di avvenimenti storici.
Importante è stata l'applicazione del concetto di orologio molecolare, secondo il quale un
filamento di DNA accumula mutazioni a un ritmo
sufficientemente regolare da poter misurare il
tempo trascorso dal momento in cui due specie
si sono diversificate a partire da un antenato comune. In questo modo, è stato possibile risolvere
casi giudiziari, in cui lo studio della filogenetica
è risultato indispensabile. Negli anni ottanta i
genetisti scoprirono che regioni di DNA umane
evolvono molto più rapidamente di altre e furono
subito sfruttate come marcatori genetici; gli individui vennero identificati in maniera ancora più
precisa che con le impronte digitali , dimostrando
soprattutto l'innocenza di un sospettato se non
c'è corrispondenza tra i suoi marcatori e quelli dei
campioni ritrovati sulla scena del delitto, grazie al
fingerprinting o impronta molecolare.
La filogenetica e l’ambito sanitario
La tecnica dell'orologio molecolare può
essere applicata anche a un gruppo di specie imparentate per dedurne l'albero genealogico. Si sa
che gli agenti patogeni – batteri, virus, funghi – si
sono evoluti di pari passo con l’uomo guidando
l'evoluzione del nostro sistema immunitario ed
evidenziandone le sue capacità di adattamento.
Capire i meccanismi dell'evoluzione significa
riconoscere le cause delle mutazioni e il ruolo
della selezione naturale e degli eventi casuali
nell'origine e persistenza di certe mutazioni
ereditarie. La storia terribile delle epidemie di
influenza umana e le conoscenze sempre più
approfondite che abbiamo sull'evoluzione
dei virus dell'influenza esemplificano alcuni di
questi punti. Abbiamo così scoperto, dall'analisi
filogenetica dei geni dei virus dell'influenza, che
gli uccelli selvatici ne sono una fonte primaria
e che i maiali domestici spesso sono gli ospiti
intermedi fra uccelli e uomo. Quindi le autorità
sanitarie hanno raccomandato di tenere in luoghi
separati pollame e maiali, al fine di prevenire il
contatto con gli uccelli selvatici; così come hanno
chiesto un'attenta sorveglianza per una varietà
altamente patogena nota come influenza A,
ceppo H5N1 e altri ceppi identificati filogeneticamente. I genomi dell'influenza A presentano otto
segmenti unici che possono essere mescolati
e ricombinati tra ceppi di specie ospiti diverse.
Tale ricombinazione, associata alla mutazione
casuale che avviene nelle sequenze di DNA, fa sì
che i virus si configurino ed eludano l'immunità
sviluppatasi in precedenza e quindi ci costringono a mettere a punto nuovi vaccini. Mettendo
insieme la campionatura geografica con la filogenesi di specifici segmenti e di mutazioni, causa
di forte patogenicità, noi possiamo prevedere
meglio la diffusione della malattia e identificare
il materiale adatto da usare nella produzione di
vaccini. Solo acquisendo nuove conoscenze in
materia potremmo ridurre al minimo il rischio
sia dell'attuale che delle future pandemie, che
con certezza si verificheranno in avvenire. Un
nuovo interessante approccio è, attualmente,
l'integrazione della scienza evoluzionistica nei
corsi di medicina e sanità pubblica; il medico può
fare una medicina personalizzata, determinando
i farmaci e i dosaggi per singoli pazienti in base
a particolari tratti genetici. Ciò significa che una
persona deve essere schedata geneticamente e
ciò potrebbe essere motivo di preoccupazione
per le persone stesse che potrebbero essere
soggette ad un trattamento ingiusto in ambito
lavorativo, per esempio, o essere discriminati in
quanto appartenenti ad una razza con particolari
caratteristiche genetiche.
La manipolazione genetica
Dalla conoscenza dell’evoluzione naturale
i ricercatori hanno tratto spunto per accelerare
il cambiamento evolutivo, rimescolando interi
genomi tra popolazioni di microbi selezionati,
usando l’evoluzione diretta. Alterando intenzionalmente i geni, i biologi producono le proteine,
per le quali questi codificano, selezionandole per
le loro prestazioni. Per selezionare i geni adatti a
questo obiettivo è importante scoprire le loro relazioni filogenetiche. Come risultato di tali procedure possiamo citare l'ottenimento in laboratorio
della versione migliorata della proteina umana 83
p53, coinvolta nella diminuzione della crescita
del tumore; attualmente si sta lavorando per
trasferire questo risultato ottenuto in laboratorio
ai malati con proteine p53 compromesse.
Oggi l’uomo sta provocando cambiamenti
ambientali tali da far sorgere forti preoccupazioni sulla conservazione della biodiversità.
Diventa dunque essenziale fare l’inventario delle
risorse disponibili. Bisogna fare una campionatura genetica della biodiversità così che, con le
informazioni ricavate dalle analisi filogenetiche
di questi campioni, si possa determinare la specificità di gruppi di organismi e delineare le unità
evolutive ai fini della conservazione. Le analisi
del DNA hanno rivelato anche specie ancora
non conosciute.
La metagenomica
Dopo aver scoperto nuovi microrganismi,
attraverso le analisi filogenetiche di cui al punto
precedente, i biologi stanno raccogliendo attualmente il DNA da un'intera comunità di varie specie in un preciso luogo, dando vita a una nuova
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
84
scienza che è la metagenomica.
Essa dovrebbe consentire di scoprire migliaia di microrganismi
precedentemente sconosciuti,
nonché nuovi enzimi e proteine
per uso medico e industriale,
e nuovi modi per impiegare i
batteri al fine di combattere
l’inquinamento. Il DNA estratto
da un dato ambiente viene inserito all’interno di un plasmide di
espressione, allo scopo di creare
una biblioteca “metagenomica”;
poi la fase finale consiste nello
sperimentare funzionalmente il
DNA espresso per una molteplicità di attività. In ambienti interni all'uomo, come
un tratto intestinale, l'analisi metagenomica ha rivelato forme di vita microbiche di grandi diversità
genetiche e molti geni sconosciuti e forme di vita
impossibili da coltivare. È stato evidenziato come
diverse patologie sono accompagnate da modifiche radicali nella composizione della flora microbica, per cui, per la cura della malattia, occorre
capire meglio come si verificano tali modifiche e
come queste influenzano il funzionamento dello
stesso ecosistema e il progredire della malattia.
La ricerca sulla metagenomica fino a questo
momento si è incentrata però
prevalentemente su batteri di
rilevanza medica, mentre gli
organismi “ecologicamente
importanti” (ad esempio, quelli
coinvolti nella produzione e nel
consumo di metano) non hanno
ricevuto la stessa attenzione. Si
sa che i batteri costituiscono
più della metà della materia
vivente della Terra, e svolgono
ruoli essenziali in numerosi cicli
ambientali. Trasformano l’azoto
dell’aria in una forma utilizzabile
dalle piante, producono circa la
metà dell’ossigeno del pianeta,
scompongono i minerali e contrastano l’inquinamento. Infine, da tutto ciò si può desumere che
i sistemi basati sulla metagenomica potrebbero
monitorare la salute dell'ambiente e tenere sotto
controllo i patogeni, sia essi di origine naturale
che introdotti artificialmente; ma, a fronte delle
moltissime informazioni metagenomiche fino ad
oggi raccolte, c'è una carenza di strumenti per
analizzarle. Quindi il problema da risolvere sta
nell’innovazione tecnologica e dei suoi successivi
metodi di applicazione.
Francesco Annunziata
La sistematica
filogenetica molecolare
Il tentativo di “classificare” i viventi
secondo l’evoluzione
L
’evoluzione è quel processo mediante il
quale la selezione naturale -favorendo
determinati individui- concorre all’affermazione di diversificati corredi genetici che, nel
corso del tempo, manifesteranno differenziazioni
tali da spiegare l’isolamento riproduttivo degli
organismi cui essi sono correlati (speciazione).
Pertanto, la teoria di Darwin (anche nelle
accezioni più recenti) risulta essere la teoria della
discendenza ovvero l’affermazione che tutti gli
attuali organismi viventi (piante, animali, funghi,
etc.) si sarebbero sviluppati attraverso cambiamenti nella forma e nel modo di vita di alcuni
progenitori primordiali più semplici.
A sostegno di tale teoria c’è la constatazione
della fondamentale coincidenza delle basi molecolari dei principali processi vitali esplicati dagli
organismi viventi (duplicazione del DNA, modelli
di trascrizione e di traduzione, respirazione cellulare, fotosintesi, etc.); inoltre, ulteriori conferme
provengono dalla documentazione fossile fornita
dalla paleontologia (zoo- e fito-paleontologia),
dall’affermata gerarchia dei grandi piani strutturali che si riscontrano in piante, animali, funghi,
etc., come anche dalla riproducibilità sperimentale di alcuni processi di microspeciazione.
La sistematica è quella branca delle scienze
naturali che studia le parentele esistenti tra le
specie o i gruppi di specie mediante il confronto
di caratteri morfologici, fisiologici ed, ultimamente, anche l’analisi genetico-molecolare. In base a
tali studi, i ricercatori sono stati in grado di classificare i viventi e di delimitare diversi taxa ovvero i
vari gruppi in cui essi vengono classificati.
La classificazione degli organismi viventi
rappresenta il tentativo effettuato dall’uomo di
85
sistematizzare le proprie conoscenze ovvero di
riunire i diversi tipi di organismi in differenti gruppi, in base a specifici criteri; tali criteri possono
essere artificiali (classificazione artificiale), cioè
scelti arbitrariamente, oppure più o meno naturali (classificazione naturale), rispettando le affinità
“biologiche” dei gruppi. Peraltro, l’evoluzione
storica della sistematica e quindi dei sistemi di
classificazione dei viventi, intesi come modelli di
interpretazione della complessa realtà biologica
(basati sullo “studio della somiglianza dei caratteri”), segue di pari passo lo sviluppo delle differenti
linee di indagine e dei metodi di analisi.
Recentemente, si è affermata la concezione
di una sistematica che, basandosi sulle differenze
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
86
evolutive dei viventi, ripercorresse le tappe significative del loro sviluppo ovvero la loro filogenesi;
quest’ultima, infatti, può essere intesa come “il
processo di ramificazione delle linee di discendenza durante l’evoluzione della vita”.
Pertanto, la ricostruzione della filogenesi risulta essere di fondamentale importanza per una
sistematica che voglia ricostruire le relazioni di
parentela evolutiva sia tra gruppi tassonomici di
organismi, sia all’interno di uno stesso gruppo.
Un sistema di classificazione naturale dovrebbe idealmente riprodurre la filogenesi delle
forme viventi ovvero basarsi sul come, dal punto
di vista storico, le stirpi e le popolazioni - intese
come “comunità evolutive spazio-temporali” siano variate in seguito a modificazioni del patrimonio genetico. Pertanto, tale sistema dovrebbe
raggruppare le diverse specie in varie categorie
(taxa) a seconda delle affinità derivanti dalla loro
storia evolutiva.
Nel corso della storia si sono avvicendati
diversi tentativi di classificazione dei viventi.
Inizialmente, vennero adottate due differenti logiche classificatorie: la prima, di tipo aristotelico,
consisteva nell’utilizzare divisioni dicotomiche
prestabilite che, procedendo dall’universale al
particolare, consentivano di distinguere -nell’insieme degli organismi viventi- differenti gruppi
definibili in base alla conformità a specifici criteri,
precedentemente prefissati1; la seconda, utilizzando un “procedimento per raggruppamento”,
consentiva di giungere all’universale partendo
dal particolare, ovvero permetteva la distinzione
di diversi gruppi, in base alla conformità a criteri
di somiglianza, definiti in seguito ad un rigoroso
studio morfologico-comparativo delle caratteristiche delle singole specie.
Le due logiche, come è facile intuire, portavano a risultati differenti; infatti, nel primo caso
i criteri erano prefissati, mentre nel secondo
subordinati all’osservazione comparativa degli
organismi viventi.
Tuttavia, nel corso del tempo, si comprese
che l’operazione fondamentale da porre in essere
nei sistemi classificatori consisteva nel riunire le
specie in generi; nasceva, in tal modo, la nozione
dei livelli gerarchici di rango (taxa) che corrispon-
devano alla successione delle distinzioni dei
diversi gruppi identificati con la classificazione.
Fu Carlo Linneo (1707-1778) il primo studioso che
codificò i principali taxa - ovvero i ranghi tassonomici fondamentali - e che formulò per le specie
la necessità di indicarle con una nomenclatura
binomia (ad esempio, per l’albero di faggio la
denominazione della specie è Fagus sylvatica,
denominazione costituita da due termini, il primo
indicante il genere, il secondo l’epiteto della specie2); attualmente i taxa utilizzati in sistematica
sono: regno, divisione o phylum, classe, ordine,
genere, specie (Fig. 1).
Come è facile intuire un sistema di classificazione non può ritenersi definitivo ed univoco, in
quanto esso rappresenta la formulazione scientifica ritenuta più plausibile, in base allo stato delle
conoscenze di un determinato periodo storico.
Pertanto, un sistema di classificazione naturale dovrebbe basarsi:
1) sulla individuazione delle forme viventi
che mantengono costanti le proprie caratteristiche fondamentali nelle successive generazioni (concetto di specie);
2) sul presupposto della speciazione ovvero
che le specie si siano diversificate tra di
loro a partire da un comune progenitore
ancestrale;
Fig. 1 - La struttura del sistema tassonomico di tipo “gerarchico inclusivo” che consente di classificare i viventi
secondo i taxa: Regno, Divisione o Phylum, Classe, Ordine,
Famiglia, Genere, Specie.
3) sull’individuazione del possibile percorso seguito dalle specie
nella loro diversificazione (percorso filogenetico).
Ogni specie risulta essere una
miscela di caratteri sia ancestrali
(plesiomorfi), ovvero rimasti invariati
rispetto ai remoti progenitori, sia
derivati (apomorfi) cioè evolutisi più
recentemente e risultanti differenti
da quelli di origine; pertanto, sembra
evidente che organismi aventi un insieFig. 3 – Rappresentazione grafica delle relazioni filogenetiche tra i viventi
me di caratteristiche genetiche simili,
dei domini Bacteria, Archea ed Eukarya secondo recenti acquisizioni
scientifiche basate su analisi genetico-molecolari.
possano considerarsi discendenti di
proposti (in questa sede) per i vegetali terrestri,
un comune progenitore ancestrale, in
ciascun gruppo sistematico non risulta derivato
possesso di tali caratteristiche.
da un altro gruppo ma i gruppi posti all’estremità
Lo studio delle affinità e delle differenze,
di rami adiacenti dovrebbero aver condiviso un
analizzate in una ottica evolutiva, consente la
antenato comune.
costruzione di alberi filogenetici ovvero di moNegli ultimi decenni la sistematica è stata
delli teorici (riportati sinteticamente sotto forma
rivoluzionata dall’applicazione delle tecniche
di grafici) in grado di rappresentare l’evoluzione
molecolari ed è diventata sistematica molecolare.
delle forme viventi e la loro stessa vicinanza o
Infatti, è possibile ipotizzare parentele ed affinità
lontananza genica.
filogenetiche studiando le corrispondenze e/o le 87
Ad esempio, se si volessero distinguere i
differenze tra le sequenze di amminoacidi costivegetali terrestri in base alla presenza di sistemi
tuenti le proteine e tra le sequenze di nucleotidi
di conduzione della linfa grezza ed elaborata (xicaratterizzanti gli acidi nucleici di diversi organilema e floema) si otterrebbe la separazione netta
smi viventi; pertanto, lo sviluppo delle tecniche di
tra i muschi e le piante dotate di radici, fusto e foanalisi molecolare ha consentito la comparazione
glie ovvero di felci, gimnosperme (pini, abeti, etc.)
dei viventi a livello del gene (DNA) o dei suoi
ed angiosperme (pioppi, querce, noccioli, platani,
prodotti di espressione (RNA e proteine).
etc.); peraltro, se si aggiungessero altre variabili
Attualmente, sono state determinate le sedistintive quali la presenza di semi e quella dei
quenze degli acidi nucleici di una enorme varietà
fiori si otterrebbe una più netta separazione tra
di specie e le informazioni sono state immagazi gruppi sistematici (Fig. 2).
zinate in database computerizzati; ciò ha reso
Come si evince dagli alberi filogenetici ripossibile la comparazione evolutiva tra
i differenti taxa.
Ad esempio, i risultati delle analisi
delle sequenze delle molecole di RNA
ribosomale (presenti nella subunità
minore del ribosoma) hanno condotto
i ricercatori a ripartire i viventi in tre
principali domini e cioè in Bacteria
(procarioti che rappresentano i “classici”
batteri), Archea (procarioti di ambienti
Fig. 2 – Rappresentazione grafica delle relazioni filogenetiche tra i
diversi taxa delle piante: a sinistra il carattere che sostiene il modello è
estremi) ed Eukarya cioè l’insieme di
l’assenza o la presenza di xilema e floema; a destra i caratteri utilizzati
tutti gli eucarioti (Fig. 3).
sono anche la presenza o assenza di legno, semi e fiori.
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
Fig. 4 – Rappresentazione della classificazione dei viventi
proposta da Whittaker (1967).
Questa esemplificazione evidenzia come
l’analisi delle sequenze del materia genetico
applicata agli organismi viventi - classificati,
in un determinato contesto storico, quali ap-
partenenti ad uno specifico taxon - possa portare a conclusioni tali da costringere gli stessi
scienziati a rivedere le precedenti impostazioni
classificatorie.
Infatti, mentre nel 1967 Whittaker, un botanico dell’Università della California (USA), proponeva una classificazione dei viventi basata su cinque
Regni (Fig. 4), attualmente tale sistema appare
obsoleto e non soddisfa più ciò che discende
dalle recenti acquisizioni scientifiche.
Si assiste, pertanto, al continuo cambiamento
dei sistemi classificatori e specialmente per particolari gruppi di organismi viventi; ciò se da un
lato concorre ad una migliore conoscenza dei
fenomeni caratterizzanti l’evoluzione di determinate specie o gruppi di organismi, dall’altro
apporta ulteriore “complicatezza” al sistema/
modello interpretativo della stessa evoluzione.
Per dirla in breve ciò che era vero alcuni anni fa,
non è completamente vero oggi!
Emanuele Roca
88
1
Seguendo tale logica, ad ogni tappa del processo classificatorio si giungeva ad una divisione dicotomica,
in cui una delle parti veniva quasi sempre definita in termini negativi rispetto all’altra (ad esempio, piante con
fiori/ piante senza fiori).
2
Al fine di semplificare l’argomento è stata omessa l’indicazione dell’autore che per primo ha descritto la
specie; tale indicazione segue sempre il binomio scientifico della specie.
Genetica
dell’Evoluzione
I
“A un secolo dalla pubblicazione de L’origine
delle specie, gli strumenti della genetica permettono di indagare la selezione naturale, e ne
confermano il ruolo centrale nell’evoluzione
degli esseri viventi.”
Edoardo Boncinelli
l concetto di selezione naturale, che opera su mutazioni casuali scegliendo le più
vantaggiose, è una delle basi della teoria
dell’evoluzione, ma è anche quello storicamente
più discusso. I progressi della biologia e la nascita
della genetica hanno via via confermato e arricchito la teoria elaborata da Darwin. In particolare
le ricerche, i dibattiti e le riflessioni di questi
ultimi decenni hanno reso sempre più evidente
il contributo centrale del caso all’andamento del
processo evolutivo.
Nel 1859 Charles Darwin, attraverso una
teoria dell’evoluzione biologica, concretizzò le
sue idee sulla storia della vita. La sua proposta si
articolava in due affermazioni:
• Tutte le specie viventi derivano da uno
stesso gruppo di organismi primitivi
vissuti circa 3,8 miliardi di anni fa
• Il processo di differenziazione è avvenuto
per variazione (mutazione) e selezione
(naturale)
Una mutazione deriva da un errore più o
meno esteso nella sequenza del DNA, che costituisce il patrimonio genetico di un organismo,
una copiatura sbagliata del DNA al momento
della sua replicazione.
Invece la selezione naturale è il meccanismo
con cui avviene l’evoluzione delle specie e secondo cui sopravvive l’organismo più “forte” e,
quindi, il più adatto.
Un primo precursore delle affermazione di
Darwin fu Lamarck, il
quale aveva avanzato
una teoria sull’evoluzione dei viventi,
riguardante l’eredità dei caratteri acquisiti.
Il naturalista francese, sebbene avesse ipotizzato un meccanismo errato per spiegare come
un essere vivente passerebbe alle generazioni
successive le facoltà acquisite durante la sua
esistenza, aveva visto giusto nel sostenere che gli
organismi si possono evolvere e che da una data
specie ne possono derivare altre. Naturalmente
non conosceva come i caratteri si trasmettessero da una generazione all’altra né sapeva nulla
dell’esistenza dei geni e dei relativi meccanismi
89
di mutazione.
La riscoperta, nei primi decenni del ‘900, delle
ricerche sull’ereditarietà da parte del monaco
austriaco Gregor Mendel gettò nuova luce sulle
teorie darwiniane e approdò alla formulazione
delle leggi della segregazione dell’assortimento
indipendente. Il monaco, incrociando piante
eterozigoti, per esempio individui Pp (P= allele
dominante, p=allele recessivo), si accorse che la
progenie presentava il rapporto fenotipico 3:1.
La ragione di tale rapporto costante è che la
probabilità di ottenere individui PP, Pp, pp, sono
rispettivamente del 25%, 50% e 25%.
Dal momento che individui PP e Pp hanno lo
stesso fenotipo, il 75% di tutti gli esemplari ha caratteristiche uguali da cui il rapporto fenotipico di
3:1. Il metodo del quadrato di Punnett consente
di prevedere nella discendenza le percentuali di
PP, Pp, pp, quelle stesse percentuali che Mendel
osservò nei suoi esperimenti.
Il metodo si basa sull’assunto che tutti i
gameti, sia maschili sia femminili, hanno uguale
probabilità di fecondare e di essere fecondati.
Grazie al progressivo approfondirsi della
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
90
conoscenza della biologia molecolare e della
struttura degli acidi nucleici, Watson e Crick nel
1953 proposero una struttura per la molecola di
DNA, con straordinarie implicazioni per la nostra
comprensione della natura fisica dell’eredità e
della variazione.
Il DNA ha una struttura a doppia elica, simile
cioè ad una scala di corda fatta ruotare a un’estremità in modo che si avvolga a spirale. Più in dettaglio la scala è costituita da due lunghe catene di
nucleotidi legati covalentemente tra loro; le due
catene sono unite da legami a idrogeno. I nucleotidi sono composti ognuno da uno zucchero, da
un gruppo fosfato e da una base azotata: adenina
(A), citosina (C), guanina (G) e timina (T). Queste
basi son tra loro complementari, cioè solo alcuni
appaiamenti sono tra di loro possibili (A-T e C-G).
La successione degli zuccheri e dei gruppi fosfato
delle due catene nucleotidiche forma i montanti
della scala, ossia le parti esterne verticali; le basi,
invece ne costituiscono i pioli.
Durante la replicazione (il meccanismo molecolare attraverso cui viene prodotta una copia del
DNA cellulare), possono avvenire degli errori di
appaiamento delle basi (mutazioni). Per esempio,
la differenza tra il colore nero e il colore giallo dei
cani Labrador nasce dalla mutazione di un’unica
base, che inattiva un recettore nelle cellule del
pigmento dei cani color crema.
Un chiaro esempio della grande influenza
delle mutazioni genetiche delle piante è l’attuale pianta di mais completamente diversa
dal suo gracile antenato
selvatico teosinte. Molte
delle principali differenze
strutturali tra il mais e il
teosinte sono legate a
poche regioni-chiave dei
cromosomi. La mutazione
di un’area di regolazione
di un unico gene che controlla la divisione cellulare
durante lo sviluppo dello
stelo è responsabile di
gran parte della differenza
tra un aspetto cespuglioso e un unico gambo centrale.
La mutazione di un secondo gene, attivo durante lo sviluppo del seme, aiuta a trasformare il
seme rivestito da una buccia dura e mineralizzata
in chicchi morbidi e indifesi del mais.
Esempi di mutazione si sono verificati anche
ai giorni nostri come hanno dimostrato i ricercatori dell’Università Americana del Kentucky, i
quali hanno individuato una proteina anticancro.
Sono risaliti al gene che la produce e hanno
scoperto e dimostrato che quest’ultimo rende
immuni da qualsiasi forma di cancro. L’èquipe
ha creato delle cavie (topi) con il gene Par-4. Per
cui introdotto il gene in un ovocita, impiantato
in una madre surrogata, dopo due generazioni è
nata la nuova super-stirpe. I topolini biotech crescono normalmente non presentando anomalie
genetiche e non ammalandosi di cancro.
Il codice genetico, in conclusione, è universale, anche se “arbitrario”: infatti, potrebbe
funzionare benissimo anche se fosse diverso.
L’esistenza di un codice universale dimostra
che tutti gli organismi sono imparentati fra
loro. Una verifica sperimentale di tale teoria è
rappresentata dall’utilizzo di una particolare
tecnica biologica, che consiste nell’appaiare
filamenti di DNA, prelevati da due specie diverse,
in modo da evidenziare somiglianze e differenze
nel materiale genetico analizzato. Tale tecnica
conferma l’esistenza di rapporti di parentela tra
gli individui.
Inoltre vi sono proteine talmente importanti
da essere presenti pressoché in tutti gli organismi
viventi. È il caso di una proteina chiamata “citocomo c” che è essenziale alla respirazione cellulare.
Tale proteina presenta una struttura leggermente
diversa nei diversi gruppi degli organismi: alcuni
tratti della catena non sono costituiti dei medesimi amminoacidi. Questo, però, non influisce sul
funzionamento della proteina, perché i tratti in
questione non sono importanti per la sua specificità. Pertanto, le somiglianze e le differenze del
citocromo c di specie diverse riflettono i rapporti
di parentela i quali vengono dedotti con i metodi,
più tradizionali, dell’anatomia comparata.
Tutte queste scoperte e molte altre ancora
hanno messo in luce l’incredibile unitarietà degli
esseri viventi.
È importante rendersi conto del fatto che
gli organismi superiori non nascono adulti, ma
divengono tali attraverso un lungo ed elaborato
processo di sviluppo ed è questo anzitutto che
evolve: l’evoluzione è in primo luogo evoluzione
dei processi dello sviluppo.
La teoria dell’ evoluzione si è così precisata e
arricchita di nuovi dettagli (neodarwinismo), ma
l’impianto concettuale è rimasto sorprendentemente quello postulato da Darwin.
Ines Balestrino
Stefania Coppola
Sara De Filippo
Stefania Iermano
Valentina Perano
Sabrina Serino
IV B - Liceo Scientifico “G. Galilei”
Docente referente: 91
Rosa Maria Aliberti
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
San Francesco
e Darwin
Ipotesi liminari
Ad una superficiale considerazione, sembra che collegare l’artefice
della moderna teoria evolutiva, Charles Darwin, e San Francesco, il
santo di Assisi, possa essere un paradosso, tanto distanti sono i periodi in cui sono vissuti ed altrettanto le loro esperienze di vita e visione
della realtà. Invece, da un’analisi più approfondita, in questi due
grandi personaggi storici emergono alcune importanti affinità.
Chi era San Francesco
92
San Francesco nacque ad Assisi nel 1182, era figlio di Pietro Bernardone, un agiato commerciante che
aveva voluto così chiamarlo a causa della sua grande ammirazione per i francesi, con i quali intratteneva fitti
rapporti d’affari. Francesco si rivelò ben presto molto dotato: fisicamente delicato ma non fragile, possedeva
una vivace attitudine per il commercio e conosceva, oltre il latino, anche il provenzale La sua giovinezza fu
spensierata quanto quella di ogni giovane di agiata famiglia, e ricca di sogni di gloria. Nel 1202 Francesco,
ventenne, prese parte alla battaglia di Ponte S. Giovanni, che vedeva opposte le milizie di Assisi alle schiere
perugine. A seguito dello scontro, risoltosi in una pesante sconfitta per i soldati di Assisi, Francesco fu tenuto
prigioniero a Perugia per oltre un anno e fu liberato solo
grazie alla grande influenza del padre. Una grave malattia,
poi, ne mutò il carattere spensierato e nella primavera del
1205, mentre si accingeva a partire per un’altra spedizione
militare, ebbe la prima visione che lo invitava a scegliere
se servire gli uomini oppure Dio.
Da quel momento iniziò la conversione di Francesco,
segnata dall’imitazione appassionata di Cristo attraverso
la via della povertà e del servizio ai più emarginati. Nello
stesso anno Francesco iniziò il restauro della Chiesa abbandonata di S. Maria degli Angeli, la Porziuncola, nei
pressi di Assisi, dove, come narrano le biografie ufficiali,
conversava con un crocifisso di legno che gli suggeriva
le azioni da compiere. Pietro Bernardone, tuttavia, irritato
per il comportamento così mutato dell’unico figlio, lo
rinchiuse in casa e lo citò in giudizio dinanzi alle autorità
civili e religiose della città per diseredarlo. Allora Francesco,
secondo l’esempio evangelico dell’abbandonare tutto per
seguire Cristo, restituì al padre perfino le vesti, restando
nudo sulla piazza di Assisi:
Scelse il silenzio e la meditazione tra le campagne e
le colline di Assisi.
San Francesco e Darwin: che
cosa può accomunare questi due
grandi personaggi storici? Sembra
impossibile, anche in considerazione dei cenni biografici suesposti,
pensare a dei collegamenti tra di
essi. Eppure, secondo la mia opinione, esistono alcune importanti affinità, che potrebbero essere oggetto
di ulteriori approfondimenti.
In San Francesco d’Assisi c’è una
capacità di sublimare un’intuizione
terrestre con enorme semplicità
e chiarezza; in Charles Darwin è
presente un desiderio di ricerca
della conoscenza che è simile all’intuizione divina dell’altro, ed
in entrambi permane lo
stupore della ragione
davanti alle meraviglie della natura.
San Francesco
è protagonista di
molteplici aneddoti riguardanti il suo
rapporto di amore
verso la natura e
gli animali. La sua
compassione verso
gli animali rappresenta una eccezione nella
storia della Chiesa. Nel
suo Cantico delle creature,
il Santo di Assisi si rivolge agli elementi naturali col nome di Fratello
o Sorella: manifesta un sentimento
di identificazione con il creato e
di amore per tutte le creature o
elementi della natura (rocce, fuoco,
sassi, ecc.), indipendentemente dalla loro sensibilità. Il suo è un amore
estatico, e per il santo di Assisi l’uomo è una creatura della natura, che
non si pone come un dominatore
della Terra, ma è componente alla
pari di tutti gli altri esseri viventi.
Darwin e la teoria evolutiva
Charles Robert Darwin, naturalista inglese, quinto di sei figli,
nacque nel 1809 in Inghilterra in un’agiata famiglia borghese di
Shrewsbury. Iniziò gli studi di medicina e poi di teologia, ma la sua
vera passione furono le scienze naturali. Nell’ottobre del 1825 si
iscrisse all’Università di Edimburgo per studiare medicina, pensando
di seguire le orme del padre. Nel periodo trascorso ad Edimburgo
studiò gli invertebrati marini sotto la guida di Robert Grant, uno
dei primi naturalisti convinti della realtà della trasformazione delle
specie. Darwin capì ben presto di non essere adatto agli studi di
medicina e quindi si dedicò agli studi naturalistici. Durante il suo
viaggio durato cinque anni (1831-1836) sul brigantino inglese Beagle, Darwin osservò le somiglianze tra organismi viventi e fossili e
la diversità della vita sulle isole Galápagos.
Nel suo libro L’origine delle specie per selezione naturale (The
origin of species by means of natural selection, 1859), punto d’arrivo della polemica sette-ottocentesca fra creazionisti ed evoluzionisti,
Charles Darwin formulò la teoria dell’evoluzione degli esseri viventi
attraverso una selezione naturale che favorisce, negli individui, le
variazioni utili alla lotta per l’esistenza; variazioni che vengono
trasmesse ai discendenti e quindi rafforzate; la selezione
naturale è alla base dei meccanismi dell’evoluzione.
Darwin osservò che gli organismi di tutte le
specie:
• hanno la tendenza a produrre prole in eccesso,
con un numero di individui superiore a quello
che l’ambiente può sostenere;
• variano in molte caratteristiche individuali che
possono essere ereditate;
• possono sopravvivere in dipendenza, almeno in parte, dalle caratteristiche ereditate dai
genitori;
• adattandosi meglio all’ambiente, hanno maggiore probabilità di sopravvivere e riprodursi;
• in seguito alla selezione naturale, presenteranno le caratteristiche vantaggiose sempre più frequentemente nelle generazioni successive, mentre
quelle sfavorevoli lo saranno sempre meno.
Darwin trovò prove convincenti a sostegno della
sua teoria osservando i risultati della selezione artificiale,
cioè la coltivazione e l’allevamento selettivi di piante e animali, e nella documentazione fossile, ossia la serie ordinata di fossili
che affiorano dagli strati di rocce sedimentarie.
Un supporto ulteriore alla teoria dell’evoluzione è stato fornito,
oggi, dalla biologia molecolare, la disciplina che, tra l’altro, paragona sequenze di DNA e proteine in organismi differenti:
Le specie viventi che risultano strettamente correlate hanno in
comune una percentuale di DNA e di proteine maggiore rispetto
alle specie non imparentate.
La teoria dell’evoluzione di Darwin rappresenta un complesso di
conoscenze vasto e articolato, che ha fecondato la ricerca in numerosi rami della scienza naturale, ricevendone conferme, occasioni di
nuovi sviluppi e correzioni. Anche per il futuro l’evoluzionismo potrà
rappresentare il filo conduttore in grado di garantire l’interpretazione
dell’immensa quantità di dati raccolti dalla ricerca genetica e in altri
rami della scienza.
Lyceum Dicembre 2009
93
Percorso/Speciale Darwin
94
La molteplicità
degli esseri viventi è l’espressione
multifor me del
buon Dio. Questo
ha un’unica, fondamentale, conseguenza: essi sono
tutti positivi alla
luce della visione
di San Francesco.
Non esiste una
creatura negativa. Tutti gli esseri
viventi hanno un
loro proprio valore, la loro propria bontà. Ogni
oggetto, sia esso una stella o una pietra, una
pianta o un albero, un animale o un uomo, rispecchia, a suo modo, la perfezione e la bontà
di Dio. Tutte le creature hanno il proprio valore
come pure la propria attività. La dottrina della
creazione giustifica quindi completamente una
visione positiva della Creazione e di tutte le sue
manifestazioni e di tutti i suoi livelli.
La teoria evoluzionista, indipendentemente
dalla conciliabilità tra fede e scienza, accomuna
tutti gli esseri viventi, da quelli microscopici
all’uomo, non da un punto di vista spirituale, ma
da un’ottica materiale: tutte le specie esistenti
presentano parti più o meno grandi di mate-
riale genetico, di Dna
identico, e sono tutte
il risultato della storia
della vita, attraverso le
grandi ere geologiche, a
partire dai primitivi procarioti: le specie viventi,
animali e vegetali, in
misura maggiore o minore, sono imparentati
da antenati comuni.
Dunque, le molteplici specie viventi, come
pure l’uomo, sono accomunate, per Darwin,
materialmente e per
San Francesco, anche, spiritualmente, nel grande
quadro dell’ecosistema Terra, dove ogni entità
vivente, microscopica o macroscopica che essa
sia, ha un proprio valore ed una propria funzione,
ed è in stretta relazione con la componente abiotica, determinando un grande e meraviglioso
equilibrio, che assolutamente l’uomo non può e
non deve sconvolgere in modo irrazionale.
Non volendo discutere ulteriormente di un
casualismo o di un determinismo della realtà, di
scienza e fede, è pur vero che questi sono alcuni
punti comuni importanti tra questi due grandi
personaggi della storia dell’umanità.
Raffaele Annarumma
Lieco Scientifico “Sensale”
Nocera Inferiore
L’origine
della vita
I
problemi principali dell’evoluzionismo su cui
bisogna soffermarsi sono due : l’origine della
vita e l’origine dell’uomo.
Sotto diversi punti di vista essi sono due
episodi molto significativi che hanno segnato la
storia della terra. L’origine della vita ha portato
all’evoluzione organica svoltasi sul nostro pianeta, condizionando l’attuale fisionomia della
terra. L’origine dell’uomo è stata importante non
solo per gli uomini ma per l’evoluzione stessa
in quanto ne ha realizzato un nuovo modello:
l’intelligenza, l’apprendimento, la comunicazione
e la cultura.
L’origine della vita: ipotesi e dati sperimentali
Sull’origine della vita del mondo inorganico si
è discusso molto e tuttora si discute. Anticamente
si credeva possibile che da sostanze inorganiche
o da sostanze organiche in decomposizione
si potesse generare qualche specie di origine
animale di organizzazione elevata(mosche, topi,
anguille, ecc…). È infatti famosa la ricetta data
Le tappe principali del lungo
processo dell’evoluzione:
da Francesco Redi
al RNA World
da Virgilio nelle Georgiche per procurarsi delle
api: uccidere un giovane torello e attendere che
dal suo corpo in putrefazione nascessero delle
api . Nel XVII secolo Van Helmont affermava che
bastava lasciare alcuni stracci vecchi e sudici in
soffitta perché da questi nascessero topi.
L’ipotesi della generazione spontanea era
ammessa da filosofi e naturalisti.
Per generazione spontanea o abiogenesi si
intende la credenza per cui la vita potrebbe nascere in modo “spontaneo” dalla materia inerte o
inanimata, tramite l’effetto di flussi vitali.
L’esperimento di Redi ”(1626-1698)
95
Il primo a trattare il problema in modo
scientifico fu il medico e poeta aretino Francesco
Redi. Francesco Redi nel 1668, per determinare
se esistesse o meno la generazione spontanea,
effettuò un esperimento, da molti considerato
come il primo, vero esperimento scientifico nelle
Scienze Biologiche. Redi riuscì a dimostrare che
dalla carne in putrefazione potevano nascere
Come si vede dal timeline, la vita si è formata assai presto sulla terra ed è stata dominata da Archaeobatteri ed
Eubattei praticamente per più di un miliardo e mezzo di anni, mentre gli Eucarioti compaiono relativamente tardi,
sola circa 2 miliardi di anni fa.
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
larve di mosca solo se l’insetto adulto vi deponeva le uova. Egli preparò due serie di barattoli
di vetro contenenti carne in putrefazione; chiuse
ermeticamente la prima serie, mentre lasciò
aperti i barattoli del secondo gruppo. Attese
alcuni giorni, quindi verificò che solo nei barattoli
rimasti aperti erano presenti larve di mosca, dal
momento che gli insetti avevano potuto raggiungere la carne per deporvi le uova. Nonostante
la correttezza dell’esperimento, alcuni colleghi
obiettarono a Redi che la chiusura ermetica dei
barattoli aveva impedito alla vis vitalis di favorire
la generazione delle larve. Redi eseguì allora
una nuova prova, coprendo i barattoli con della
garza a maglie molto fini, in modo che la carne
potesse venire a contatto con l’aria, ma non con
le mosche. Questi esperimenti aprirono la strada
alla teoria della biogenesi, ovvero che la vita si
genera da altra vita.
96
John Needham (1745-1750)
Permanevano tuttavia alcuni scettici, convinti
che ciò che valeva per le mosche non doveva
essere necessariamente valido per tutti gli organismi viventi. Uno di questi, l’inglese J. Needham,
nel secolo successivo, volle dimostrare la teoria
della abiogenesi almeno per quelle forme di vita
microscopiche che egli osservava al microscopio.
A tale scopo mise del brodo di carne in matracci
di vetro con l’imboccatura aperta e lo fece bollire per parecchi minuti, in modo da far morire
eventuali microorganismi presenti. Osservato
al microscopio dopo la bollitura, il brodo non
presentava alcuna forma di vita; chiusi i matracci
con dei tappi di sughero, potè dimostrare che il
giorno dopo il brodo pullulava di microscopiche
forme di vita.
Lazzaro Spallanzani (1729-1799)
Fortunatamente i sostenitori della biogenesi
continuarono a progettare nuove sperimentazioni. Alcuni anni più tardi, Lazzaro Spallanzani, non
convinto delle conclusioni di Needham, condusse degli esperimenti simili con diverse variazioni,
applicando un metodo più rigoroso.
Innanzitutto, egli sottopose ad ebollizione
di un’ora le zuppe, poi sigillò le beute di vetro
che contenevano il brodo fondendo le aperture
delle beute. Il brodo ottenuto era sterile e non
si rilevò la crescita di microrganismi nemmeno
dopo diversi giorni. In un gruppo di controllo,
bollì il brodo solo per alcuni minuti e osservò
che in queste beute crescevano microorganismi.
In un terzo gruppo bollì il brodo per un’ora, ma
chiuse le beute con tappi di sughero (che erano
larghi abbastanza per il passaggio dell’aria) ed
anche in queste osservò lo sviluppo di microrganismi. Spallanzani concluse che, mentre un’ora di
bollitura sterilizzava la zuppa, pochi minuti non
erano sufficienti per uccidere i batteri inizialmente presenti ed inoltre che i microorganismi
potevano essere anche trasportati dall’aria, come
era avvenuto nelle beute del terzo gruppo.
Questi risultati accesero un’animata discussione tra Spallanzani e Needham riguardo alla
sterilizzazione come metodo per confutare la
generazione spontanea. Needham affermò che
l’eccessiva bollitura del brodo usata per sterilizzare i contenitori aveva ucciso la “forza vitale”,
mentre la breve ebollizione non era stata sufficientemente gravosa per distruggerla, cosicché
i batteri erano ancora capaci di svilupparsi. Disse,
inoltre, che i batteri non potevano svilupparsi nei
contenitori sigillati, poiché si impediva l’ingresso
della forza vitale. Contrariamente, nei contenitori
aperti, l’aria fresca poteva entrare, dando così
l’avvio alla generazione spontanea.
Louis Pasteur (1822-1895)
Louis Pasteur, attraverso un semplice esperimento, riuscì a confutare la teoria della generazione spontanea.
Egli impiegò per i suoi esperimenti dei
matracci a collo d’oca, che permettevano l’entrata dell’ossigeno, elemento indispensabile
allo sviluppo della vita, ma impedivano che il
liquido all’interno venisse a contatto con agenti
contaminanti come spore e batteri. Egli bollì il
contenuto dei matracci, uccidendo così ogni
forma di vita all’interno, e dimostrò che i microrganismi riapparivano solo se il collo dei matracci
veniva rotto, permettendo così agli agenti contaminanti di entrare. Attraverso questo semplice,
ma ingegnoso esperimento, Louis Pasteur fu in
grado di confutare definitivamente la teoria della
generazione spontanea e, come egli stesso disse
in una serata scientifica alla Sorbona di Parigi:
“Mai la teoria della generazione spontanea potrà
risollevarsi dal colpo mortale inflittole da questo
semplice esperimento.”
Le teorie dell’origine della vita (J. B. S. Haldane 1954)
La generazione spontanea non venne ancora
del tutto annullata in quanto sembrava l’unica
spiegazione dell’origine della vita sulla Terra, anche se il termine generazione spontanea, carico
di sottintesi filosofici, viene evitato nella biologia
moderna, sostituito con abiogenesi.
Le teorie sull’origine della vita si possono
classificare in quattro categorie:
1) secondo Arrhenius la vita è sempre esistita e quindi non ha mai avuto origine
nell’universo perché è una proprietà della
materia; i corpi celesti quando siano divenuti abitabili sono “colonizzati” da “semi”
vitali provenienti dallo spazio.
2) La vita ha avuto origine da un evento
soprannaturale che le scienze naturali
non sono in grado di definire e quindi si
sottrae al controllo umano.
3) La vita è avvenuta grazie a reazioni chimiche riproducibili in laboratorio mediante
un lento processo di evoluzione.
4) La vita è il risultato di un evento improbabile che comunque era”quasi” certo
che accadesse in un periodo di tempo
conveniente e con una quantità di materia necessaria .
Nella prima categoria non c’è alcuna soluzione al problema, anche se oggi attraverso la
biologia spaziale si può pensare di raccogliere
dati su questo problema. Nella seconda categoria, accettata dai creazionisti, c’è poco di
scientifico e non è possibile osservarla attraverso
esperimenti. La terza e la quarta ipotesi sono
riducibili l’una all’altra e poi possono essere
sottoposte a controllo sperimentale, anche se
con molte difficoltà soprattutto per la quarta.
Haldane, nel 1929, affermò che nell’atmosfera
terrestre c’era pochissimo ossigeno, ma conte-
neva ammoniaca, idrogeno e metano e pensò
anche che sotto l’azione dei raggi ultravioletti si
fossero formate le molecole organiche. Secondo
la teoria di A. I. Oparin (1894-1980) l’atmosfera
primordiale della Terra era composta da metano,
ammoniaca, idrogeno ed acqua (sotto forma di
vapore) e da questi composti ebbero origine le
molecole organiche che diedero origine alla vita.
Egli riuscì a dimostrare un modo in cui molecole
organiche semplici si riorganizzavano in sistemi
microscopici detti coacervati (forse i precursori
delle membrane cellulari) in cui probabilmente
una vita primitiva avrebbe potuto svilupparsi.
Stnaley Miller (1953 –57)
La possibilità della formazione di composti
organici come gli amminoacidi è dimostrata
sperimentalmente da S. Miller. Egli sottopose
una miscela di sostanze piuttosto semplici, come
acqua e idrogeno, metano e ammoniaca, a una
scintilla elettrica prodotta da una corrente ad
alta frequenza per un periodo di parecchi giorni,
ottenendo la formazione di molecole complesse:
97
amminoacidi, acidi organici diversi, urea.
Con l’esperimento di Miller sembrava, ormai,
che la teoria dell’origine della vita fosse spiegata,
però sorsero dei dubbi in quanto non si riusciva
a spiegare il passaggio da semplici molecole organiche a polimeri complessi e sistemi in grado
di fare copia di sé.
Sydney Fox ” (1960)
Fox riuscì ad ottenere, in assenza di acqua e
a temperatura molto elevata, catene di polipeptidi, cioè molecole filamentose composte dalla
successione di molti amminoacidi. Tali prodotti
ottenuti artificialmente furono chiamati proteinoidi. Essi tendono facilmente ad aggregarsi,
formando microsfere di circa 2 micron di diametro che ricordano la struttura cellulare. Con un
sistema simile, un altro autore, C. Ponnamperuma, è riuscito a ottenere degli amminoacidi
e loro polimeri sottoponendo la miscela a raggi
ultravioletti, invece mettendo l’acido fosforico ha
ottenuto gli acidi nucleici, che sono le molecole
più importanti degli organismi, su cui è scritta
l’informazione genetica.
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
98
RNA World
I composti realizzati sperimentalmente rientrano in
uno stadio della biogenesi o
biopoiesi che si chiama prebiotico, poi si arriva ai protobionti, ovvero aggregati
plurimolecolari che hanno le
proprietà degli esseri viventi,
ma il passaggio è ancora
oscuro. Più complesso ancora
è il problema della costituzione dei veri e propri organismi
in cui vi è un’associazione
fra acidi nucleici, ai quali è
affidato il messaggio genetico quindi la riproduzione, e
proteine a cui spetta svolgere
le funzioni del metabolismo,
cioè l’assunzione di sostanze
dall’esterno per assimilarle.
Nel 1986 Walter Gilbert
ha formulato l’ipotesi che le
prime forme di vita fossero
costituite da corte catene di
RNA, formatesi spontaneamente; i corti polimeri di RNA,
dotati di azione autocatalitica, sarebbero stati capaci di autoriprodursi e di
sintetizzare proteine, che a loro volta sarebbero
state in grado di fungere da catalizzatori, favorendo la formazione di doppie eliche di DNA,
che poi si sarebbero ulteriormente evolute e
diversificate. Lo stesso Gilbert ha introdotto il
termine RNA World (mondo a RNA), ad indicare
il mondo primigenio confermato dalla scoperta
dei ribozimi.
Evoluzione della vita
Le primitive unità viventi, dotate delle proprietà di riprodursi e quindi di andare soggette a
mutazioni e di metabolizzare, saranno poi entrate
in competizione reciproca dando così inizio al processo evolutivo guidato dalla selezione naturale.
Un momento molto importante dell’evoluzione
è stato indubbiamente l’avvento della fotosintesi
clorofilliana. Ciò ha permesso agli organismi di
rendersi indipendenti dalla fonte di nutrimento
rappresentato dalle molecole organiche esistenti
nell’ambiente e di provvedere direttamente alla
sintesi di prodotti organici a partire da sostanze
inorganiche. È questo un episodio molto importante per l’evoluzione per due motivi: primo
perché da esso dipenderà d’ora in poi l’esistenza di
tutti i vegetali e gli animali; secondo perché, con la
liberazione di ossigeno, la fotosintesi determina un
profondo cambiamento nell’atmosfera, la quale si
arricchisce di questo gas, che oggi ne costituisce il
21% in volume. Da riducente, l’atmosfera diventa
ossidante; si rende così possibile la respirazione,
cioè la liberazione di energia utilizzabile per i processi metabolici di sintesi e si stabilisce il sistema
energetico dominante nell’attuale biosfera.
III MS
Docente referente:
Anna Luisa Fiore
prima di darwin/1
Linneo e
Darwin
Mentre per Linneo
esistevano discontinuità
e separazioni fra i vari
esseri viventi, per Darwin
le separazioni erano
solo apparenti.
“S
e non conosci il nome, muore anche la
conoscenza”: è questa una delle frasi
più note e significative di Carl Nilsson
Linnaeus, divenuto Carl von Linné in seguito
all’acquisizione di un titolo nobiliare, inventore
del sistema di classificazione binomiale degli
esseri viventi. La passione per le scienze naturali
gli venne trasmessa dal padre Carl, interessato
alla botanica tanto da adottare come cognome
Linnaeus, ovvero la latinizzazione della parola
linn (tiglio) traendo spunto da un grosso tiglio
situato nei pressi della sua casa a Rashult, in
Svezia. Fin da piccolo abituato a classificare giocattoli, da studente a classificare i suoi amici di
scuola e, nella sua opera, persino i suoi colleghi
botanici, Linneo fu l’ideatore della tassonomia,
branca della biologia che si occupa di classificare
gli esseri viventi.
Nella sua opera Systema Naturae (1735)
propose, per primo, un sistema di classificazione basato su raggruppamenti disposti gerarchicamente (regno, phylum, classe, ordine,
famiglia, genere, specie). Infatti, fino ad allora,
per descrivere un essere vivente era utilizzata
un classificazione alquanto problematica per
nome del genere e descrizione della specie,
inoltre, dovendoli far rientrare in un determinato
raggruppamento, dovette utilizzare dei criteri:
mentre nelle piante erano le differenze tra le
parti sessuali, negli animali a distinguerli erano
99
le caratteristiche anatomiche interne. Egli utilizzò
una nomenclatura binomia, tuttora in uso. “Dio
ha creato, Linneo organizzato”: così commentava
la sua classificazione. Introdusse per la prima volta il concetto di specie, intendendo la tipologia di
individui che possono riprodursi generando una
discendenza fertile. “Tante sono le specie oggi
esistenti quante furono quelle create al principio
dall’Ente infinito” è la dimostrazione che egli riteneva il concetto di specie come qualcosa di non
stabilito convenzionalmente, ma come qualcosa
di eterno ed immutabile,quindi originariamente
creato da Dio.
Darwin, dopo un secolo, cercò di disfare
questa conquista del sapere, negando l'esistenza
stessa della specie. Insomma, mentre per Linneo
esistevano delle discontinuità fra i vari esseri
viventi, delle separazioni che impedivano – per
esempio – la mescolanza fra cani e gatti, per Darwin le separazioni erano solo apparenti e, come
si poteva passare da una razza a un'altra, così si
era passati e si stava passando da una specie a
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
un'altra. Per Darwin, cani e gatti
provenivano da
un progenitore
comune ed erano
discendenti di due
razze via via divaricatesi, mentre le
attuali razze di cani
non erano altro che
«specie in via di formazione».
Per la sua classificazione Linneo
si basò su studi
precedenti di molti
La descrizione a grandi linee
uomini che si occudelle sue idee circa la
classificazione gerarchica del
parono di botanica:
mondo naturale, avviene nel 1735 tra questi figurano
con Systema Naturae.
Aristotele, che diede il primo input alla classificazione degli esseri
viventi, riunendo in una determinata classe gli
animali, utilizzando come criterio il modo di
100 locomozione e l’ ambiente in cui si muovono;
Teofrasto, allievo dello stesso Aristotele, autore
di due trattati sulla botanica, il primo “Storia
delle piante”, il secondo “Causa delle piante”,
che definì in queste due opere la differenza tra
animale e vegetale; e Gaspard Bauhin, botanico
svizzero che introdusse, per primo, la nomenclatura binomiale. Pur restando sempre in Svezia,
dove amava fare escursioni con i suoi discepoli,
riuscì a classificare più di 13000 individui, grazie
ai campioni portatigli dai suoi allievi in giro per il
mondo, assegnando nomi specifici alle circa 4200
specie di animali e alle circa 7700 specie di piante.
Attraverso, proprio questi campioni, Linneo arrivò
alla conclusione che ci fossero quattro categorie,
nelle quali far rientrare tutti gli esseri viventi:
quella dei mammiferi, degli uccelli, dei pesci ed
infine quella dei vermi. È proprio grazie a Linneo,
che raggruppò gli organismi terrestri, e a Darwin,
con le sue teorie evoluzionistiche, che è nata la
classificazione scientifica: è stato l'intelletto di
questi due grandi uomini a risolvere uno dei più
complessi problemi della scienza e ad esaltare
l'istinto umano di ordine e di curiosità.
Claudia Marciano, Antonio Gaito, Ferdy
Gatti Junior, Chiara Serafino, Margherita
Esposito, Pasquale Nunziata, Sebastiano
Antonio Marciano e Francesco Vergati
III B - Liceo Scientifico
Docenti referenti:
Rosa Maria Aliberti
Anna Cristina Crescenzi
prima di darwin/2
Il lamarckismo
J
ean Baptiste de Lamarck(1744-1829) fu un
importante botanico del Jardin de Plates di
Parigi. Dopo aver eseguito a 49 anni lo studio
degli invertebrati, verso la fine della sua vita fu il
primo scienziato a concepire ed esporre la prima
teoria sull’evoluzione dei viventi: il lamarckismo.
Prima di Lamarck si pensava che le specie
fossero immutabili, cioè che erano così già dalla
loro creazione. Ma questa tesi fu messa già in
discussione, alla fine della sua vita, da Linneo,
ipotizzando che tramite l’ibridazione si potessero formare nuove specie. Su questo si attestò
Lamarck e nel 1809 pubblicò l’opera “Philosophie
zoologique”, dove sostenne l’ereditarietà dei
caratteri acquisiti, l’origine non casuale o fortuita
delle variazioni evolutive e la loro stretta dipendenza rispetto alle variazioni ambientali.
Ipotizzò che vi è una spinta interna in tutti gli
esseri viventi al cambiamento, che li trasforma
progressivamente da esseri semplici a complessi
tramite “l’uso e/o il disuso di parti del corpo”e
“l’ereditarietà dei caratteri acquisiti”. Cioè, per
Lamarck, usando o meno una parte del corpo,
l’essere tende
a sviluppare
caratteristiche
che verranno
t ra m a n d a te
di generazione in generazione. Quindi
nessuna specie era più
antica della
natura ma era il risultato di una progressiva
trasformazione.
Questo dunque è il concetto alla base delle
teorie evolutive che può essere spiegato secondo
quattro principi:
• I viventi sono prodotto della natura che
li ha formati in fasi successive.
• Gli organismi semplici si formano dalla
materia inanimata e si complicano man
mano che l’ambiente li favorisce.
• L’ambiente determina un graduale
sviluppo dei loro organi, generati da
variazioni adattive.
• Le specie non sono fisse ma in continua 101
e incessante evoluzione.
Tre esempi classici della teoria di Lamarck
riguardarono l’allungamento del collo e delle
gambe delle antilopi primitive,la sparizione degli
arti delle lucertole primitive, e la formazione di
una membrana palmata in alcuni antichi uccelli.
Quello che più è stato utilizzato nel lamarckismo
è proprio l’esempio della giraffa, che sarebbe dovuta derivare dall’antilope primitiva. Un’antilope,
ipotizza Lamarck, in mancanza di cibo, cercava di
allungare il più possibile collo e gambe per brucare le foglie più alte degli alberi. Questo sforzo
continuo, necessario per la sopravvivenza, avrebbe fatto sviluppare in lunghezza collo e gambe
di questi animali. Queste caratteristiche, essendo
vantaggiose per la sopravvivenza, vennero ereditate dalle generazioni successive. Le antilopi,
avrebbero quindi sviluppato nel tempo, grazie
all’uso, le caratteristiche collo-lungo, gambelunghe, fino a trasformarsi nelle attuali giraffe;
stesso discorso per le zampe palmate poiché
gli uccelli primitivi, a furia di nuotare sull’acqua,
avevano teso la pelle tra dito e dito formando una
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
ampia membrana palmata. Fino ad ora abbiamo
visto trasformazioni dovute all’uso di parti del
corpo, però, come abbiamo prima enunciato, vi
sono trasformazioni dovute anche al disuso di
queste parti. Questo è il caso dei serpenti che,
sempre secondo Lamarck, derivano da antiche
lucertole che presero l’abitudine di strisciare tra
sassi o in cunicoli allungando molto il corpo, e le
zampe vennero utilizzate sempre meno perché
inutili o addirittura d’impaccio, fino a ridursi
dando origine ai serpenti.
La tesi di Lamarck fu in seguito resa falsa da
due studiosi: Georges Couvier e August Weis-
102
sman. Il primo affermando che la teoria non
spiegava da cosa erano dovute le modificazioni
non prodotte da sforzi come la pelle mimetica e
maculata delle stesse giraffe. Il secondo provando l’improbabilità della trasmissione ereditaria
dei caratteri acquisiti, col famoso esperimento
dei topi, dove tagliò la coda ad un topo e alla
sua prole per molte generazioni e non riscontrò
cambiamenti sulla lunghezza della coda.
Nicola Langella
II C - Liceo Classico
Docente referente:
Annamaria De Masi
PRIMA DI DARWIN/3
La ragazza che
studiava i dinosauri
Prima di Darwin? C’ erano due ragazze
Mary Anning e Elizabeth Philpot…
La storia dell’evoluzione
La paleontologia è la scienza che studia la
storia dell’evoluzione. Per poter fare questo , ci
si serve dei fossili, resti mineralizzati delle tracce
di vita preistorica, siano essi scheletri o impronte. Il processo di fossilizzazione di una creatura
è qualcosa di lento e rarissimo: dopo la morte
dell’animale, nel caso sia acquatico, il cadavere
si deposita sul fondo e i sedimenti lo ricoprono
e permettono che non venga intaccato dalle
forze naturali; nel caso sia terrestre, il processo
è molto più raro, perché bisogna tener conto di
tutte quelle forze naturali presenti solo sulla Terra
(lava, uragani, terremoti e meteoriti … perché nella
vita tutto può succedere). I fossili vengono osservati da sempre: basti pensare ai draghi cinesi e
alle famose medicine a base di “denti di drago”
ridotti in polvere. Nella Grecia del IV secolo a.C.
già il filosofo Senofane, vedendo le conchiglie di
molluschi affiorare nell’entroterra, ipotizzò che
103
Tutte le scoperte di Mary Anning raccolte in un acquerello Henry De La Beche (1830).
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
fossero i resti di antiche creature marine. Eratostene studiò proprio il ritiro dei mari, utilizzando
come materiale primario i fossili di molluschi. Ma
nel Medioevo, epoca estremistica e buia, i fossili
erano stati bollati come scherzi della natura,
rocce dalla forma strana. Nel Rinascimento, geni
del calibro di Leonardo cercarono di far luce
sulla natura organica dei fossili, opponendosi
duramente alla cecità reduce dal Medioevo.
Ma sul finire del ‘700, un barone francese di
nome Georges Cuvier (1769-1882), zoologo e
tra i primi paleontologi, iniziò a pubblicare saggi
sui mammiferi preistorici, nel 1808 classificò
in Maastricht il rettile marino Mosasaurus, e in
Bavaria il rettile volante Pterodactylus. Fondatore
dell’anatomia comparata, Cuvier appartiene alla
generazione successiva a Lamark ed è uno dei
pochi a dichiarare esplicitamente convinzioni
creazionistiche. Comprende che i fossili non rappresentano scherzi della natura ma sono resti di
specie estinte da tempo. Sostiene una teoria catastrofica della successione della specie, secondo
la quale la storia della vita è stata contrassegnata
da diverse grandi catastrofi, ciascuna delle quali
ha portato alla scomparsa della vita, seguite
dalla creazione di nuove specie. Ogni creazione,
inoltre, rappresenta un progresso rispetto alla
precedente. Questa teoria sarà contrastata da
Lyell. Successivamente erede di Cuvier si considerò Owen. Nato a Lancaster il 20 luglio 1804, è
Chi era Mary Anning
104
Mary Anning è nata nel 1799 da Richard e Mary a Lyme Regis, situata sulla
sponda meridionale della Gran Bretagna. Le scogliere di Lyme Regis sono tuttora
ricche di fossili spettacolari provenienti dai mari del periodo giurassico. Quand’era
poco più di una poppante, Mary venne colpita da un fulmine. La donna che la teneva
fra le braccia e le due ragazze che erano al suo fianco morirono ma lei sopravvisse. I
suoi genitori ebbero ben dieci figli, ma solo due di questi bambini, Mary e Joseph ,
raggiunsero la maturità. Richard era un falegname e nel tempo libero collezionava
fossili, purtroppo morì nel 1810 lasciando la sua famiglia fortemente indebitata.
Questa sua abilità di trovare fossili fu tramandata alla moglie e ai figli, i quali la utilizzarono come uno sporadico sostegno economico per la famiglia; la vera ricaduta
di tale ricerca, si è avuta, però, nel campo della paleontologia. La famiglia Anning
visse in povertà e in anonimato, tanto che, Birch, colonnello dell’ esercito inglese,
per sollevare le sorti degli Anning decise di aiutarli ricorrendo ad un’ asta della loro
bella collezione di fossili. Mary Anning si definì come “occhio acuto e anatomista compiuta della famiglia” infatti
a questa piccola donna nel 1811, quando aveva appena 10 o 12 anni, è stata accreditata la prima scoperta
di fossili di ittiosauro. In realtà, tutta la famiglia Anning fu coinvolta nella ricerca di fossili, ma l’abilità di Mary
e la sua dedizione a tale attività l’hanno portata ad essere una delle fossiliste più famose. Ma forse il suo più
importante fossile, da un punto di vista scientifico, è stato la scoperta del plesiosauro. La passione per i fossili
rese amiche Mary Anning ed Elizabeth Philpot, sua compaesana. Quest’ultima, però, non restò solo fedele
alla ragazzina, ma la protesse anche dai cacciatori di fossili, dagli avventurieri e dallo stesso colonnello Birch,
militare dritto e sicuro, che infranse il cuore di Mary. Con il passare del tempo, Mary Anning e la sua famiglia,
a causa della mancanza di adeguata documentazione delle sue speciali abilità, sono state dimenticate sia
dalla maggior parte degli storici che dalla comunità scientifica. Molti scienziati contemporanei di Anning non
riuscirono a credere che una giovane donna, vissuta in un contesto così deprivato, avesse potuto possedere le
conoscenze e le competenze adatte alla ricerca e al ritrovamento di fossili. Nel 1824 Lady Harriet Sivester ha
scritto nel suo diario, dopo aver visitato Mary Anning: “ …La cosa straordinaria di questa giovane donna è la
sua abilità nelle conoscenze scientifiche e nel riconoscimento di ossa alla tribù di appartenenza. Mary fissava
le ossa su una struttura di cemento e poi faceva disegni e le incideva…”. È chiaro, tuttavia, che Anning non era
solo una collezionista, ma era una vera scienziata- fossilista tanto da riscuotere il rispetto degli scienziati del
suo tempo, infatti le sue scoperte sono state importanti per ricostruire il passato del mondo e la storia della sua
vita. Durante l’attività di ricerca di questa giovane donna la geologia è alle primissime armi e la paleontologia
è inesistente perché c’è una radicata visione biblica della storia della Terra. Ma sono proprio i ritrovamenti,
come quelli di Mary, che cominciano a indirizzare le menti degli scienziati verso ‘pericolosi’ interrogativi: qual
è la natura degli enormi esseri riportati alla luce? Qual è la relazione con gli strati geologici? Qual è il ruolo
delle estensioni nella storia della Terra? Darwin, come molti altri scienziati, si è beneficiato di queste scoperte
per elaborare la teoria dell’evoluzione. Mary Anning sarebbe morta nel 1847 all’età di 48 anni.
stato un biologo e paleontologo britannico, ha
studiato anatomia comparata e ha partecipato a
molti dibattiti che seguirono alla pubblicazione
del trattato “L’origine delle specie” di Darwin,
entrando spesso in polemica con questi per
motivi di rivalità personale e non per il contenuto del trattato. Owen rappresentò la massima
autorità scientifica inglese per anni: infatti coniò
il termine Dinosauro per un particolare gruppo
di rettili terrestri del mesozoico, fu consigliere di
re, regine e principi e difensore dell’ortodossia
religiosa contro l’eresia evoluzionistica riuscendo
a costruire il Museo di Storia Naturale a Londra .
Nel tempo coltivò una passione per le creature
antiche, tanto da riuscire a trovare varie specie
di rettili marini e volanti; le sue scoperte vennero
classificate come “mostri antidiluviani” e iniziarono a scuotere l’Inghilterra ottocentesca. Nel
1822, un medico inglese di nome Gideon Mantell,
ispirato dalle scoperte della signorina Anning,
iniziò a cercare fossili, fino a quando non trovò
il primo resto di dinosauro documentato: i denti
di Iguandon. Due anni dopo, il geologo William
Buckland rinvenne la mascella di Megalosaurus,
primo dinosauro a ricevere un nome scientifico.
Era fatta: era nata una scienza, la Paleontologia,
così etichettata da un giornale francese nel
1822. Dopo la scoperta di altri dinosauri, come
Hylaeosaurus, l’anatomista inglese Owen conierà il termine Dinosauria, indicante un nuovo
ordine di rettili. Trent’anni dopo veniva scoperto
l’Archaeopteryx, il primo dinosauro piumato mai
scoperto, vera dimostrazione delle teorie di Darwin. Sebbene sia poco conosciuta, il contributo
maggiore alla ricerca dei fossili è stato offerto da
Mary Anning.
Alessandro Carbone
Cristina Crescenzi
Giannantonio Carbone
Ilaria Martorelli
Aristide Rendina
Alessandra Tiene
Carmela Fiore
Mariele Saggese
III B - Liceo Scientifico
Lyceum Dicembre 2009
Docente referente
Rosa Maria Aliberti 105
Percorso/Speciale Darwin
Evoluzione del pensiero darwiniano
I Taccuini di Darwin
Fra taccuini e libri,
come il pensiero darwiniano
sia andato crescendo nel tempo
L
a formazione di un’idea è un processo
graduale: Darwin, prima di arrivare alla
stesura de ”L’origine delle specie”, passa
per i suoi Taccuini. Tra il 1836 e il 1844 Darwin
compone i Taccuini rosso, B ed E. Il primo dà
una soluzione di tipo saltazionista cioè, manca
un passaggio graduale da una specie all’altra,
mentre, già in quello B, si delinea l’albero dell’evoluzionismo darwiniano.
I Taccuini. Ma che cosa sono questi Taccuini?
106 Rappresentano un insieme di disegni, schemi,
dati da ricordare, informazioni da cercare, citazioni di personaggi interessanti
reperiti nelle sue letture e domande da fare ai suoi consulenti
e corrispondenti. A ciò si aggiungono i pensieri su quella che egli
già definisce “la mia teoria” e gli
appunti sulla gestazione, accurati
e minuziosi. Decifrare tutto ciò è
stato difficile; sia per l’intimità di
questi documenti, Darwin scrive
in modo poco comprensibile e
senza badare alla forma, sia per la
mancanza di alcune pagine.
Ispirato da Malthus. Per
di più nella sua formazione ha
contribuito in modo determinante l’economista Malthus, che
descrive nella sua opera Saggio
sul principio della popolazione e
i suoi effetti sullo sviluppo futuro
della società, un primo esempio
della lotta per la sopravvivenza. Questo pensiero
influenzerà molto Darwin, come possiamo notare
già in alcune pagine dei suoi appunti: ”Quando
si moltiplicano [le nuove specie] richiedono la
morte della specie [antecedente] per tenere il
numero delle forme in equilibrio. Ma c’è una ragione per supporre che il numero delle forme sia
in equilibrio? Questo potrebbe essere il motivo di
continue suddivisioni e differenze tali da rendere
il numero delle forme costante”.
Lo stesso concetto lo ritroviamo rifinito anche
nel terzo capitolo de L’origine delle specie: ”Inevitabilmente una lotta per l’esistenza consegue
al veloce ritmo col quale
tutti gli organismi viventi
tendono ad aumentare di
numero…Quindi siccome
nascono più individui di
quanti ne possano sopravvivere, in ogni caso vi deve
essere una lotta per l’esistenza, sia tra gli individui
della stessa specie, sia tra
quelli di specie differenti”
(Taccuino B, p. 21).
Disputa con Lamarck.
Inoltre Darwin, durante
il suo viaggio sul Beagle,
arricchisce i suoi appunti
con nuove teorie: “I cambiamenti non dipendono
dalla volontà degli animali,
ma dalla legge dell’adattamento” e ancora “si potreb-
be dire che esiste una forza come di centomila cunei che cerca di spingere ogni genere di struttura
adatta nelle lacune dell’economia della natura, o
piuttosto di formare lacune spingendo fuori i più
deboli. La causa finale di tutta quest’azione dei
cunei deve essere quella di vagliare la struttura
appropriata ed adattarla al cambiamento”. In
queste ultime possiamo già scorgere i germi di
quella che sarà poi la selezione naturale, in chiara
antitesi con le teorie evoluzionistiche precedenti,
come ad esempio quella di Lamarck, il quale
enuncia che le specie hanno la facoltà di variare
in base alla necessità.
Evoluzione del pensiero. Come se non
bastasse una delle grandi modifiche apportate
da Darwin è stata quella del passaggio da un’evoluzione saltazionista ad una più graduale come
possiamo notare anche in questo passaggio del
taccuino B:“l’organizzazione è rappresentata da
un albero irregolare ramificato, alcuni bracci più
lontani da altri”.
Disputa teologica. Infine Charles nei suoi
appunti inizia con un’innocente provocazione
quello che sarà il futuro dibattito fra lui e il mondo religioso: ”il mondo deve essere più antico
di quanto pensano i geologi”. Con questa prima
zampata, esaminando le conoscenza a sua disposizione, il naturalista mette in discussione e critica
l’idea che voleva la terra nata, secondo un passo
della Bibbia, solo nel 4004 a.C. Ciò avvalorava ulteriormente la sua tesi, d’altro canto la selezione
naturale non avrebbe mai potuto agire in un arco
di tempo così breve, nè tanto meno si sarebbe
potuta formare una tale variabilità genetica come
quella ancora oggi visibile (Taccuino B, p.19).
Epilogo. Come abbiamo avuto modo di
vedere, il percorso, arduo e tortuoso, che porta
Darwin dalla scrittura dei Taccuini, alla stesura
de L’origine delle specie, è costellato di ipotesi,
talvolta riprese e talvolta cadute nel vuoto, di
speranze ed illusioni e tutto ciò va a confluire in
quello che resta, perché alla fine non ci insegnano
a ricordare gli uomini, ma le idee, anche se l’idea
non ha passato, non ha presente né futuro, l’idea
è soltanto un tessere discorsi che esistono finché
ci sarà qualcuno pronto ad ascoltarli.
Christian Basile
Gaetano Russo
Mariarosaria Di Nardi
Angela Martorelli
Esperanza Pappacena 107
Anna Esposito
III A - Liceo Scientifico
BIBLIOGRAFIA
Darwin Charles, Origine della specie, Newton,1872.
Darwin Charles, Taccuino Rosso, Taccuino B, Taccuino E, Laterza, 2008.
Malthus Thomas Robert, Saggio sui principi della popolazione, Tecalibri, 1798.
Lamarck Jean-Baptiste, Philosophie zoologique, pubblico, 1809.
Lyceum Dicembre 2009
Docente referente:
Rosa Maria Aliberti
Percorso/Speciale Darwin
scienza, arte & letteratura
La trottola dei saperi
Uno story-board
per raccontare la Terra...
108
U
n’esperienza insolita tra scienza e
letteratura, tra arte e creatività hanno
vissuto gli allevi della Terza D del Liceo
Scientifico di Sarno, collaborando al progetto
Darwin. Esso intende celebrare l’anniversario
dei 150 anni della scoperta che ha rivoluzionato
gli studi sull’evoluzione, contribuendo a creare
le basi di un progresso negli ultimi decenni nel
campo della genetica e delle altre scienze ad essa
correlate, che ha sicuramente migliorato
la qualità della vita in genere.
Tutti i 22 alunni, durante le 3 settimane precedenti la presentazione
del 30 novembre al Centro sociale di
Sarno, si sono impegnati moltissimo
trascorrendo anche interi pomeriggi dedicandosi proprio a questo progetto, che
inizialmente voleva realizzare un cartone
animato partendo dal primo racconto
delle Cosmicomiche di Italo Calvino, nel
quale appunto è raccontata in modo
fantastico-scientifico la nascita della
Terra e la sua evoluzione. Una rappresentazione
grafico creativa di un testo scomposto in sequenze, che ha poi determinato lo storyboard di
un percorso che in futuro cercheremo di
realizzare anche come video. Inizialmente
gli alunni si sono divisi in 2 gruppi,ma si
che dovevano rappresentare, si sono resi conto
che era un po' difficile, ma pian piano sono riusciti
a capire come fare. In definitiva, queste 3 settimane di intenso lavoro hanno portato un ottimo
risultato,che si spera sarà gradito,e con i complimenti da parte dei professori. Così gli alunni si
sono sentiti orgogliosi e soddisfatti del proprio
lavoro, ma soprattutto hanno capito che si può
imparare tanto anche divertendosi e sfruttando le
proprie competenze; se un compito ci sembra noioso, la creatività te lo rende leggero e piacevole. 109
Leggere è alla base di
ogni sapere che diventa nelle competenze e
nelle conoscenze un
saper essere e saper
fare! Chissà se Darwin
sono resi conto che era un lavoro che
dovevano fare tutti insieme.
Per avere un risultato più veloce ed
efficace, i ragazzi si sono divisi i compiti,
anche secondo le proprie abilità artistiche: c’era
che scriveva,chi disegnava,chi colorava, altri
che, anche con piccole cose, hanno dato il loro
contributo,e chi fotografava quei momenti per non
dimenticare il tempo trascorso con gli amici. Questo progetto ha portato i ragazzi a lavorare anche
in classe,dato che non tutti erano disponibili nel
pomeriggio. Colui che ha dato tutto se stesso nella
realizzazione del disegno,grazie anche alle sue
doti artistiche,è stato l’alunno Domenico Raffone.
Durante il lavoro gli alunni, leggendo il racconto
sarebbe stato
contento di
noi! Non lo
sapremo mai,
ma certo chi verrà a vedere il nostro lavoro saprà dirci se siamo
stati capaci di coniugare scienza e creatività!
Mariangela Trani
3D - Liceo Scientifico
Docente referente:
Antonella Esposito
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
L’EVOLUZIONE
DELL’EVOLUZIONE
“E sopra il mondo m’assale il pensier di come tutto
ciò che vedo c’è“
La cosmogonia è sempre
stata argomento di studio e di
ricerca. A parlare per la prima
volta di tale argomento fu Esiodo, seguito poi da numerosi
filosofi. Gli scienziati moderni
hanno ripreso i concetti degli
antichi filosofi introducendo
nuovi concetti e affascinanti
teorie.
110
T
Esiodo, iniziatore della teoria cosmogonica
utti, almeno una volta, si sono posti l’affascinante domanda di come ciò che ci circonda si sia formato, di come il Tutto abbia
avuto origine; magari guardando un paesaggio
mozzafiato, un cielo stellato, o semplicemente
riflettendo sulla vita e sui suoi processi. Innegabile escludere che ciò avvenisse anche in epoche
passate, e proprio in passato vennero esposte
le primissime teorie riguardo l’evoluzione e lo
studio di tale argomento che fu poi denominato Cosmogonia. Partendo dall’antichità e dalle
credenze che il mondo in sé sia stato il frutto
di unioni divine si arriva alle peculiari riflessioni
filosofiche che attestano la creazione mediante
vari metodi, per poi giungere infine alle odierne
teorie scientifiche.
Colui che diede impulso alle teorie riguardanti la nascita del cosmo fu Esiodo, che pubblicò numerose opere su tale argomento; dopo
di lui si susseguirono numerosi filosofi che si
dedicarono a questo ragionamento e non solo.
Uno di questi fu Eraclito, che nacque ad Efeso
nel V secolo a.C., e fu noto in antichità per la sua
cripticità; egli sostenne che la nascita di ogni cosa
era legata al fuoco; un fuoco puro che, tramite
la condensazione, diveniva acqua e poi terra e
rarefacendosi poi tornava nuovamente acqua e
poi di nuovo fuoco.
Dopo Eraclito un altro filosofo che formulò
allettanti teorie sulla nascita del cosmo fu Empedocle, che nacque in Sicilia nel 490 a.C. e fu di
una personalità unica tanto che la sua figura e la
sua morte misteriosa si trasformarono presto in
leggenda. La realtà ai suoi occhi appariva divisa
in quattro radici, ovvero l’acqua, l’aria, la terra e il
fuoco che non hanno origine e possono modificare le loro caratteristiche sotto la spinta dell’Amore
unificatore, o della Discordia disgregatrice: due
forze che reggeranno la terra per l’eternità. Il mondo gli si configurava avente origine dall’“empiria”,
ovvero da quel mondo in continua trasformazione
e soggetto ad una vicenda ciclica che attraversa
varie fasi: dapprima, con il prevalere dell’Amore
unificatore, le quattro radici sono unite; durante il
passaggio tra l’Amore e l’Odio si assiste alla nascita
del mondo e dei viventi; infine, con la prevalenza
dell’Odio, le quattro radici sono completamente
Cosmogonia, Giulio Tamburini (1978)
divise. Empedocle ci fornisce in tal modo una sua
cosmogonia particolare e avvincente.
Posteriore ad Empedocle è Anassagora, che
nacque a Clazomene nel 496 a.C., si interessò particolarmente alla natura e fu accusato di empietà
per le sue opinioni riguardanti il Sole e la Luna,
ritenuti rispettivamente una massa incandescente
e un globo roccioso, anziché delle divinità.
Anassagora reputava che la Terra fosse
collocata al centro dell’universo e avesse forma
discoidale, mentre gli altri pianeti apparivano
masse incandescenti e rocciose con un movimento rotatorio uguale alla Terra. Il mondo, secondo
Anassagora era passato da un “chaos” iniziale a
un “Kosmos” ordinato grazie all’intervento di una
forza spirituale detta “nous”, ovvero l’ intelligenza;
egli sosteneva inoltre che l’universo fosse infinito
come gli elementi che lo compongono.
Questo pensiero è rimasto ben noto in una
sua massima che attesta che in ogni cosa si trova
parte di ogni cosa eccetto che dell’intelligenza,
ma vi sono cose nelle quali è presente anche
l’intelligenza.
Il discorso di Anassagora fu ampliato da un
ulteriore grande filosofo: Democrito.
Democrito nacque a Abdera, 460 a.C. Fu
atomista e scrisse molte opere, le quali trattavano vari argomenti, ma principalmente alla base
dei suoi studi c’era la ricerca di una spiegazione
casuale degli aspetti del mondo. Democrito
chiama gli atomi e il vuoto rispettivamente
“essere” e “non essere” e tramite l’atomismo
si propone di spiegare il cosmo.
Essendo gli atomi infiniti, saranno poi
anche infiniti i mondi che si formeranno dalla loro unione; gli atomi vagano in maniera
casuale e a volte si scontrano e tutti questi
movimenti avvengono nel vuoto che è fondamentale per il nascere di mondi. In questo
modo è possibile spiegare sia la nascita dei 111
mondi sia la nascita degli esseri viventi con i
loro processi biologici. Democrito fu definito
poi da Dante come “colui che il mondo a caso
pone” poiché è come se per lui tutto andasse
a caso senza uno scopo finale; ma per Democrito invece tutto cambia e dipende da
individuo a individuo.
Lo studio e l’amore per la conoscenza portarono questi filosofi a formulare esclusive teorie
che circolarono in ambienti sempre poco inclini
ad accoglierle: le salde credenze religiose e il
pensiero comune furono spesso il freno alla piena
e rapida diffusione di alcune riflessioni filosofiche.
Non si dimentichino le innumerevoli condanne
per empietà inflitte a filosofi come Anassagora,
Democrito e Socrate. La critica ad un pensiero
ritenuto “diverso” e “malefico” non salvò neppure quel grande studioso di fisica, di filosofia, di
matematica e di astronomia, ricordato come il
padre della scienza moderna: Galileo Galilei, e
tanti altri ancora, i quali furono attaccati per le
loro concezioni considerate immorali.
Possiamo infine affermare che malgrado le
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
numerose disapprovazioni, questi grandissimi
pensatori non si arresero e per amore del sapere continuarono il loro percorso; dando vita
a splendide teorie sulla nascita del mondo, del
cosmo e della vita, rispondendo anche a quelle
famose domande che l’uomo ha sempre sentito
il bisogno di porsi.
Sebbene questi pensieri filosofici possano apparire privi di qualsiasi base scientifica,
bisogna tener conto soprattutto del’epoca
in cui questi personaggi elaborarono le loro
112
argomentazioni, e apprezzare le loro intuizioni
sulla nascita del mondo, le quali appaiono come
fondamento primario dell’evoluzione e senza di
esse oggi non potremmo affermare pienamente
e con certezza scientifica questo argomento che
affascina l’uomo da millenni e sempre lo stupirà
con i suoi meravigliosi processi.
III G - Liceo Scientifico
Docenti referenti:
Gabriella Penta
Anna Rosa Berardi
D
arwin nella sua teoria sull’evoluzione ci
ha indicato l’origine e la moltiplicazione
delle specie, tra cui la nostra. La definizione di specie deve tener conto dell’enorme
variabilità esistente fra gli individui e del fatto che
i gruppi possono appartenere a specie distinte
anche se molto simili. Nel 1942 E. Mayr definì il
concetto di specie biologica come gruppi di
popolazioni in grado di incrociarsi tra di loro e
isolati riproduttivamente da altri gruppi simili.
Tale concetto di specie, però, è una definizione
ingannevole in quanto non si applica agli organismi a riproduzione asessuata (batteri, alcuni
funghi e anche alcune piante), né agli organismi
estinti. Il concetto di specie biologica,inoltre,
non si applica sempre nemmeno agli organismi
che si riproducono per via sessuata. In definitiva
potremmo dire che le specie sono entità biologiche, indipendenti dalle definizioni che possiamo
darne, anche se a volte sono difficili da definire. I
taxa superiori, cosi come le sottospecie e le razze,
sono raggruppamenti ancora più soggettivi.
La concezione di specie quindi è cambiata nel
tempo. La teoria dell’evoluzione di Darwin è stata
sempre in conflitto con il racconto biblico della
creazione e con l’essenzialismo; oggi la teoria
evoluzionistica viene ampiamente confermata
perché è stato analizzato il DNA delle diverse
specie, ricostruendo in tal modo l’origine delle
specie per discendenza da un antenato comune.
Il dibattito sulla definizione di specie, è tutt’altro
che concluso, visto che gli organismi sono in continua evoluzione. Pur non avendo una definizione
esauriente di specie, e nessuna disciplina sembra
essere in grado di darla, ciò non ha impedito
la classificazione delle stesse specie. Si deve a
Linneo(18° secolo) una classificazione scientifica
degli esseri viventi e la standardizzazione della
nomenclatura (doppio nome latino). Tale approccio è superato, ma la classificazione linneana è
ancora oggi usata dai biologi . Da approcci diversi
sia alla filosofia che alla biologia e ai problemi
evolutivi, possiamo definire la specie in diversi
modi. Dalla visione platonica che intendeva gli
individui di una specie come copie più o meno
imperfette dell’archetipo della specie stessa,
passiamo alla definizione essenzialista,che
Perché
è difficile
definire
una
specie?
113
definisce la specie come un gruppo di organismi
sufficientemente simili gli uni agli altri; questa
definizione non tiene conto delle modificazioni
concettuali introdotte dalla teoria di Darwin
nella biologia. Un’altra definizione è quella isolazionistica o biologica, che definisce la specie
come gruppi di organismi interfertili. In seguito è
stata introdotta la definizione di riconoscimento, molto simile alla precedente che esamina i
gruppi di organismi che si riconoscono come
partner sessuali. Abbiamo poi altre definizioni
come quella coesionale o ecologica, che tiene
conto dell’interazione degli organismi con la loro
nicchia ecologica; vengono incluse anche specie
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
a riproduzione non sessuale in relazione al loro
ambiente e questo è un fatto importante spesso
trascurato. La definizione evolutiva poi tiene
conto delle specie presenti attualmente sulla
Terra, che nel tempo si sono evolute separatamente dalle altre specie e quindi viene spostata
l’attenzione sulla diacronia (la progressione nel
tempo) sottolineando che il mondo attuale non
è solo ciò che appare ai nostri occhi, ma ciò che si
è modificato nel corso del tempo. Infine abbiamo
la definizione più completa, cioè quella della
cladistica: la specie è definita come un insieme
di individui che mostrano una coesione sessuale
all’interno del gruppo e che seguono una linea
evolutiva ben precisa.
In conclusione l’impianto concettuale della
biologia evolutiva non può che essere un evento
storico.La maggior parte degli organismi ha in
114
comune la stessa biochimica cellulare e la stessa
tecnologia di informazione sotto forma di DNA e
RNA.Quindi tutti discendono da un unico antenato.Questa complessità crescente, dovuta alla
storia evolutiva, è il progresso; questo progresso
non implica che l’evoluzione sia progettata per
produrre organismi di complessità crescente,cioè
non ha nessun obiettivo da raggiungere.Un
contributo a sostegno di quest’idea ci viene dato
dal paleontologo e scrittore S.Jay Gould.Quindi
questo nostro mondo sembra sia composto da
organismi che si sono evoluti nel tempo e discendenti da un antenato vissuto oltre 3,5 miliardi di
anni fa, sopravvissuti a catastrofi e distruzioni
provocate dalla selezione naturale.
IV C - Liceo Scientifico
Docente referente:
Francesco Annunziata
Tra Evoluzione e Creazione:
il Disegno Intelligente
F
orse è dalla rivoluzione copernicana che
il dibattito su evoluzione e creazione tira
avanti. Con numerosi passi avanti, l'argomentazione dell'una e dell'altra tesi si va a fare
sempre più accesa e, nel corso dei secoli, alimenta
polemiche di non poca portata, destabilizzando
sicuramente la condizione d'equilibrio interiore
di chi si è ormai convinto che le due strade hanno
lo stesso inizio.
Purtroppo è inquinato da posizioni politiche,
oltre che ideologiche, e ciò non giova a una
serena discussione. Nel dibattito, infatti, certe
affermazioni di gruppi fondamentalisti americani
hanno fatto riemergere nell’ambiente scientifico
posizioni scientiste, tipiche della cultura ottocentesca. “I Fondamentalisti vogliono prendere
alla lettera le parole della Bibbia”, che non hanno
“dimostrazione scientifica”. Il Vaticano, da anni, ha
accettato le teorie dell’ evoluzionismo, con la sola
premessa che la spiegazione scientifica dei “passaggi” attraverso cui è avvenuta l'evoluzione dell'
universo e il cammino per tappe, che ha portato
all' uomo, non debba a sua volta tramutarsi in
una specie di religione positivista con l’obbligo di
credere nella nascita della materia dal nulla.
Dio, insomma, resta creatore dell’universo,
perché ha dato origine al tutto, ma non agisce
come un meccanico che interviene a mettere un
bullone qua e là. E nemmeno come l’orologiaio
che pianifica a tavolino il prodotto, secondo
un’immagine dei neofondamentalisti americani
che propagandano il cosiddetto “Intelligent
Design”. “Quando la Genesi nel primo capitolo ci
parla dell’origine del mondo - spiega Poupard quello che interessa è la lezione che ci viene da
questi testi. E cioè, che l’universo non si è fatto
da solo e ha un creatore. Ma sulla modalità della
creazione la discussione è aperta da secoli e
continuerà tuttora”. Per i credenti, ha continuato
Poupard, è importante capire come la scienza
vede le cose. Citando il pensatore cristiano
Pascal, il porporato ha sottolineato che “scienza
e teologia agiscono in campi diversi, ciascuno
nel proprio”.
Monsignor Basti, direttore del Progetto Stoq
promosso dal pontificio Consiglio per la Cultura
(il progetto vuole costruire un ponte filosofico tra
scienza e teologia), è ancora più netto. La posizione dei creazionisti è “falsa”, afferma convinto.
“Dire che il principio di evoluzione è contro il
principio di creazione non sta né in cielo né in
terra”. Il prelato ricorda le parole di Giovanni Paolo
II, quando affermò che “il principio dell’evoluzione è più che un’ipotesi”, per rilevare che ormai
si tratta di una “teoria scientifica abbastanza
consolidata”. La conclusione è senza ombre: “Il
principio di evoluzione e il principio di creazione 115
possono convivere, essendo su due piani completamente diversi”.
Sulla stessa linea anche il biblista Gianfranco Ravasi, per il quale “è ovvio che l’evoluzione
esiste, non si possono ignorare i risultati della
scienza”; inoltre Ravasi ha
spiegato che
teologi, filosofi e scienziati
si muovono in
“terreni diversi”, “ma l’importante è che
la linea di demarcazione non sia una ‘muraglia
cinese’ o una ‘cortina di ferro’, oltre la quale non si
guarda per disprezzo o per non-desiderio”.
Allo scopo di fare luce è utile porsi un interrogativo: “C'è spazio per la creazione e per un
progetto di Dio?”. Giovanni Paolo II risponde così:
“Una fede rettamente compresa nella creazione
e un insegnamento rettamente inteso dell’evoluzione non creano ostacoli… L’evoluzione
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
116
suppone la creazione, anzi la creazione si pone
nella luce dell’evoluzione come avvenimento
che si estende nel tempo, come una creatio
continua”. “La creazione non è uscita dalle mani
del Creatore interamente compiuta, Dio ha creato
un mondo in stato di via verso la sua perfezione
ultima. Questo divenire nel disegno di Dio con la
comparsa di certi esseri la scomparsa di altri, con
il più perfetto anche il meno perfetto”.
Durante l'udienza alla Pontificia Accademia
delle Scienze, tenutasi il 31 ottobre del 2008, il
papa Benedetto XVI si mostrava concorde con il
suo predecessore, Giovanni Paolo II, e afferma
che “In un'ottica di fede, leggere l'evoluzione è
come leggere un libro la cui storia, la cui evoluzione, il cui 'essere scritto' ed il cui significato, noi
'leggiamo' in base ai diversi approcci delle scienze”. “La verità scientifica – ha concluso ricordando
un intervento di Giovanni Paolo II del 2003 –, che
è di per sé una partecipazione alla verità divina,
può aiutare la filosofia e la teologia a comprendere ancor più pienamente la persona umana e la
Rivelazione di Dio sull’uomo, una rivelazione che
è stata completata e perfezionata in Gesù Cristo».
Nemmeno uno dei più famosi scienziati, come
Albert Einstein, ha potuto negare l’esistenza di
un essere superiore che ha dato vita a tutto. Ad
Einstein una volta Count Kessler disse: “Professore! Ho sentito che Lei è profondamente religioso”.
Con calma e grande dignità, Einstein replicò:
“Sì, può ben dirlo. Provi a penetrare con i nostri
limitati mezzi i segreti della natura e troverà che,
dietro ogni discernibile concatenazione, rimane
qualcosa di sottile, intangibile e inesplicabile.
La venerazione per questa forza che sta al di là
di tutto ciò che può essere compreso è la mia
religione. In tale senso, io sono religioso”.
In conclusione, per citare le parole di Fiorenzo
Facchini, possiamo dire che non siamo uomini
per caso e neppure per necessità, e che la vicenda
umana ha un senso e una direzione segnate da
un disegno superiore.
Lucia Gatti
IV B - Liceo Scientifico
Docenti referenti:
Rosa Aliberti e Giovanna Vaccaro
Evoluzionismo
e creazionismo:
una conciliazione
possibile?
O
Edoardo Boncinelli
ltre la sostanza di una forma, chiara e definita, oltre la pelle, concreta e tangibile,
oltre i tessuti, dentro la più piccola cellula del nostro corpo dominano, nella regione di
confine tra l’esistenza e l’inorganicità, i frammenti
infinitesimali della vita, invisibili, custodi di una
storia dimenticata di migliaia di anni: i geni.
Nella loro struttura estremamente complessa, caratterizzata da processi velocissimi
pressoché infallibili di duplicazione del DNA,
queste schegge d’eternità racchiudono in sé il
codice ancora criptico e umbratile della vita, determinano, come un corso d’acqua carsico sotto
il velo del tempo, la periodica apparizione entro
forme contingenti e mortali dei diversi caratteri
esteriori ereditati e ricombinati nelle stagioni
delle varie generazioni.
Sarebbero passati circa cento anni per l’intuitiva scoperta della struttura del DNA ad opera
di Watson e Crick da quando nel 1859 il biologo
inglese Charles Darwin pubblicò la sua rivoluzionaria opera “On the
origin of species by means of natural selection”.
Eppure, già allora la sua
ipotesi, formulata sulla
base dell’osservazione
sperimentale diretta
della distinzione morfologica all’interno di una
stessa specie, presupponeva un meccanismo di
trasmissione di determinate caratteristiche dai
genitori ai figli. La spiegazione di tali differenziazioni all’interno di una specie e tra le specie era da
ricercare, per lo studioso inglese, nella comparsa
di mutazioni casuali (oggi sappiamo nel corredo
genetico) su cui l’ambiente esterno agiva da
elemento discriminante attraverso il meccanismo
della selezione naturale, in base alla quale solo
gli individui con caratteristiche più favorevoli alla
vita in un determinato habitat nell’ancestrale e
istintiva lotta per la vita avrebbero primeggiato
117
raggiungendo l’età adulta e trasmettendo le
proprie caratteristiche ai discendenti.
Un moderno “dio” dal duplice aspetto, quello
dell’evoluzione, si rivela così alle menti addormentate dei suoi moderni adepti, che riuscirono
a spiegare con la sua presenza i dati della paleontologia contemporanea, il ritrovamento, cioè,
in strati superiori di resti fossili animali, il cui
scheletro presentava sensibili modifiche rispetto a quelli degli strati inferiori più antichi. Ma,
fin dai suoi primi ed entusiastici passi, la teoria
evoluzionistica -che scaraventa dal
suo illusorio piedistallo di grandezza
e unicità l’uomo, inserito nel quadro
poco piacevole della lotta contro
tutti, piegato a meccanismi casualiha provocato accese tensioni con la
cultura religiosa creazionista, che,
con la Bibbia alla mano, afferma che
tutto ciò che esiste nell’universo sia
stato creato dal nulla per volontà di
Dio in forma via via più perfetta e
immodificabile.
L’opposizione è netta: due wel-
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
tanschauung, due sistemi con i propri “dogmi” e
le proprie convinzioni, come due giganti costretti
a stare in un mondo troppo stretto, si scontrano
campeggiando su posizioni antitetiche e negandosi a vicenda. Almeno questo è apparso
agli occhi dell’uomo, vistosi improvvisamente
precipitato dalla sua bella posizione di privilegio
nell’universo, vacillante per la caduta, dimidiato
tra l’evidenza dell’esperienza e le sue aspirazioni
trascendenti. Ma, quando la certezza sembra perdersi e la coscienza annullarsi, ecco che giunge in
aiuto la sua eterna compagna: la ragione. L’esperienza ci suggerisce continui esempi di variabilità
dei caratteri e mutazioni soprattutto negative
(malformazioni); del resto, anche ammettendo
che l’uomo sia stato creato così com’è, si deve
riconoscere che da allora abbia subito delle
modifiche e che si sia evoluto (dal momento che
Adamo non poteva essere contemporaneamente
di pelle chiara, scura, gialla o olivastra).
Tentenna quindi la concezione “fissista”; ferito, ma non vinto, il creazionismo, preso atto della
validità dell’evoluzione, tenta di adeguare ad essa
118 i suoi principi. Si sente parlare così di Intelligent
Design e evoluzione teista, correzioni dei due
modelli, che, basandosi sulla grande complessità
delle attuali forme di vita, ne ricollegano le origini
ad una entità intelligente creatrice, negando la
generazione casuale. Soprattutto esse nascono
come reazione alla semplificazione, entro schemi puramente meccanicistici, dell’uomo, spina
nel fianco della selezione naturale, con i piedi
nell’animalità e con gli occhi rivolti alle stelle,
capace di sopprimere nella regione dell’inconscio
gli istinti primordiali e definire il mondo con la
propria razionalità, che non può, né vuole essere
ridotto ad una probabilità. L’idea di causa e quella
di finalità gli sono necessarie, connaturate, vitali.
Già il neonato, a pochi mesi, è spinto a ricondurre l’origine di ogni movimento ad un agente
causale; solo a tre anni acquista l’idea di fine e
attribuisce un’azione ad una mente intelligente
che vuole e progetta.
Queste doti sono così ben radicate in noi che
si possono considerare “innate”, quasi derivate
dalla stessa spinta evolutiva che ci porta a far credere, come afferma Edoardo Boncinelli, “che tutto
abbia una causa e uno scopo”, compresa la nostra
esistenza. È per questo che l’evoluzione, dopo
aver perfettamente modellato le caratteristiche
umane, nei secoli è stata beffardamente guardata
con diffidenza dall’uomo stesso, che non accetta
nei suoi meccanismi la mancanza di cause, ma allo
stesso tempo la sente una spiegazione più concreta e verosimile dei fenomeni che riguardano gli
esseri viventi. L’incertezza resta. La Scienza avanza
scortata dal Dubbio. L’uomo con la sua morale,
con il suo atteggiamento altruistico che va al di là
del naturale istinto di conservazione inscritto nei
suoi geni “egoisti”, sfugge alle regole della selezione. La sua coscienza, il suo senso del bene e del
male, nonostante la fioritura delle neuroscienze,
si possono spiegare solo con i modi sempre più
raffinati e sublimati dell’evoluzione?
E se dell’evoluzionismo, che resta pur sempre
una teoria non dimostrabile sperimentalmente
poiché agisce in milioni di anni, si accogliesse
solo il significato fondamentale, quello di evoluzione di esseri viventi? Il problema sarebbe: chi
ha posto gli esseri viventi?
Nunzia Carbone
III B - Liceo Classico
Docente referente:
Franco Salerno
“Il via”
all’universo
intero
D
a sempre l’uomo ha avvertito la necessità
di indagare sulle proprie origini, come
se questo fosse un bisogno insito nella
sua essenza, ponendosi continuamente le stesse
domande: “Chi sono?” e “Da dove vengo?”. Alcuni
sono giunti alla conclusione che non può esserci
altra spiegazione, se non quella per cui è stato
Dio a creare il cosmo, il mondo e tutti gli esseri
viventi, uomo compreso. Per altri, invece, noi
siamo il frutto di un lungo e complesso processo
evolutivo. Che ci si voglia appellare al creazionismo o all’evoluzionismo, un problema balza in
primo piano quando proviamo a confrontarci,
nel primo caso, con il livello cronologico. Dio
avrebbe deciso di dare il via all’universo intero,
ma quando? Varie sono le date assunte come
emblematiche, ma è interessante soffermarsi sugli studi dell’arcivescovo irlandese James Ussher
(1581- 1656) che cercò di calcolare, attraverso un
accurato studio delle Sacre Scritture, la data della
creazione del mondo.
Il suo calcolo, contenuto nel libro Annales
Veteris Testamenti, a prima mundi origine deducti
(Annali dell’Antico Testamento, a partire dalla
prima origine del mondo) è il frutto di un lavoro
duro e complesso, a causa di grossi vuoti cronologici all’interno della Bibbia. In un suo articolo,
il professore scozzese James Barr (1924-2006),
ha identificato tre periodi storici con cui Ussher
ha dovuto confrontarsi: i “Primi Tempi”(dalla
creazione a Salomone), di cui la Bibbia fornisce
una precisa e ininterrotta discendenza maschile; la “Prima Epoca dei Re” (da Salomone alla
distruzione del Tempio di Gerusalemme e alla
cattività babilonese), della quale la Bibbia riporta
Ussher
Stabilire l'anno esatto della creazione è uno degli obiettivi principali dei creazionisti. Tra le tante
ipotesi, vi è quella dell'arcivescovo James Ussher, che ci propone
un'innovativa interpretazione
delle Sacre Scritture.
solo, ambiguamente, la durata dei regni e che,
pertanto, portò Ussher a operare un confronto
tra le registrazioni bibliche e le date conosciute
di personalità coeve; la “Tarda Epoca dei Re” (da
Esdra e Neemia alla nascita di Gesù), della quale
le Scritture non forniscono alcuna informazione,
e che costrinsero l’arcivescovo a cercare un collegamento tra un evento noto del periodo e un
evento databile di un’altra civiltà.
Usando questi metodi, Ussher fu in grado
di datare la creazione, approssimativamente, al
4000 a.C., data che anticipò al 4004 a.C. tenendo
conto dell’errore di Dionigi Piccolo, creatore del
sistema di numerazione dell’Anno Domini. Circa,
Lyceum Dicembre 2009
119
Percorso/Speciale Darwin
poi, la stagione in cui tutto ebbe inizio, contrariamente a molti studiosi, che ritenevano fosse
la primavera, Ussher sostenne che si trattasse
dell’autunno, che segnava l’inizio dell’anno ebraico. Infatti, affermò che la creazione era iniziata
una domenica vicina all’equinozio d’autunno
e, utilizzando, molto probabilmente, le Tavole
Rudolphinae di Keplero, concluse che tale giorno
era il 25 ottobre. Tuttavia, grazie alle equazioni
moderne, possiamo stabilire che la data esatta
dell’equinozio, oggigiorno utilizzata da molti
creazionisti, fu domenica 23 ottobre 4004 a.C.
Purtroppo, però, per quanto abbia cercato di
essere minuzioso rivisitando continuamente le
proprie deduzioni e i propri calcoli, Ussher non
è riuscito a dare certezze, una volta per tutte, sul
120
mistero della creazione. Infatti, è davvero difficile
esprimersi su una questione di così grande portata. Basti pensare che, ancora oggi, gli studiosi
portano avanti un’incessante ricerca, sia in campo
creazionistico che evoluzionistico, sperando di
poter appagare la brama di conoscenza degli uomini con delle verità inattaccabili. Questo perché,
seppur riconoscendo i propri limiti, l’uomo non
può fuggire da se stesso, non può fuggire dalla
propria esistenza, e diventa così inevitabile che
cerchi un “come” e un “perché”. Anzi, la sua vita
dipende proprio da queste domande.
Loredana Gaudino
II C - Liceo Classico
Docente referente:
Angelina Rainone
I
Evoluzione e
speciazione
l celebre naturalista inglese Charles Darwin, nato a Shrewsbury, in Inghilterra il 12
febbraio 1809, fu uno dei più importanti
teorici dell’evoluzione. Nel 1831 salpò per il
Sud-America e lungo le sue coste ebbe modo di
osservare e studiare le diverse varietà di specie
animali e vegetali del continente americano. La
tesi evoluzionistica Darwiniana si fonda su due
osservazioni fondamentali fatte durante il suo
viaggio: la prima afferma che in una specie, il numero degli individui che nascono è maggiore del
numero di coloro che possono rimanere in vita;
la seconda dimostra che esiste una variabilità
biologica tra gli individui di una stessa specie,
i quali si differenziano per vari caratteri, fra cui
quelli morfologici, fisiologici e comportamentali. Quindi solo gli organismi che si adattano
meglio alle condizioni ambientali dell’areale
raggiungono l’età adulta. Siccome le capacità
di sopravvivenza e riproduzione sono ereditate
dalle generazioni successive, questo comporta
la formazione di una nuova specie dalla trasformazione della specie originaria.
Nel 1859 Darwin pubblicò l’opera On the
origins of species by means of natural selection,
in cui sviluppò la sua teoria dell’evoluzione che, 121
contrapposta al fissismo (concezione fino ad
allora accettata secondo cui le razze sono fisse e
immutabili) presume la derivazione degli attuali
organismi pluricellulari da altri esseri unicellulari
primordiali. Il naturalista inglese ipotizzò l’esistenza in natura di un meccanismo in grado di selezionare i fenotipi capaci di procurare all’individuo un
vantaggio per la sopravvivenza e la riproduzione,
nonché un valore adattativo maggiore di altri.
La selezione naturale, dunque, favoriva la permanenza e conservazione delle variazioni utili,
procedendo allo stesso tempo alla cancellazione
di quelle dannose. Oggi le migliaia di studi su
specie animali e vegetali hanno dimostrato la
validità delle scoperte darwiniane e i biologi e gli
scienziati hanno dedotto che la selezione naturale
può agire in tre modalità diverse: la selezione
direzionale, stabilizzante e divergente.
Nella selezione direzionale il fenotipo
estremo di una popolazione diviene più diffuso
di quello intermedio, es: la taglia del ghepardo
è diminuita perché la selezione naturale ha favorito l’allele con un fenotipo più leggero e agile;
l’uso degli insetticidi ha favorito le popolazioni
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
di insetti più resistenti; l’uso degli antibiotici
ha favorito popolazioni di microrganismi più
resistenti.
La selezione stabilizzante, poi, favorisce
la classe intermedia di una determinata specie
eliminando, generazione dopo generazione, gli
alleli portatori di caratteri estremi e recessivi, e ciò
è evidente nella nostra specie in cui si manifesta
principalmente un fenotipo intermedio per il
carattere “altezza”.
La selezione divergente, a differenza di
quella stabilizzante, è caratterizzata dalla prevalenza di fenotipi estremi che predominano su
quelli intermedi come per la farfalla Pseudocraea
Eurytus, preda molto appetita degli uccelli, che
ha una livrea simile a quella di altre due specie
sgradite ai predatori, per cui gli individui che
manifestano questo fenotipo sopravvivono più
facilmente di quelli con il fenotipo intermedio.
Il processo di adattamento all’ambiente avviene soprattutto per mezzo della speciazione
che, tramite l’isolamento, porta alla formazione
di nuove specie animali e vegetali per accumulo
122 di mutazioni. Distinguiamo quattro processi di
speciazione: allopatrica, parapatrica, peripatrica e simpatrica.
La speciazione allopatrica consiste nell’isolamento di una parte di popolazione da quella
originaria e ciò può essere il risultato dell’emigrazione attiva di una piccola popolazione
dall’areale di quella parentale, il risultato di un
cambiamento di ambiente o il sorgere di barriere
fisiche. A seguito della separazione una popolazione può sviluppare meccanismi di isolamento
riproduttivo nei confronti della popolazione
d’origine. Un esempio classico di speciazione
allopatrica è quello dei fringuelli di Darwin. Egli,
infatti, nel viaggio sulle isole Galapagos, che
si trovano a circa 1000 km ovest dall’Ecuador,
riscontrò che 14 specie di fringuelli differenti tra
loro per la forma del becco avevano caratteristiche simili a una specie che si trovava solo sulle
coste occidentali del continente. Studiandoli,
Darwin intuì che fossero specie diverse derivate
da un antenato comune, dal quale si sarebbero
differenziate per la necessità di trovare cibo,
quindi l’isolamento dalla popolazione originaria
fece sviluppare delle caratteristiche necessarie
alla sopravvivenza in quell’habitat.
La speciazione parapatrica si verifica quando
due popolazioni, pur separate geograficamente,
continuano a mantenere un certo contatto spaziale e riproduttivo tra loro mediante una zona di
confine detta zona ibrida. Condizioni necessarie
per cui il fenomeno abbia successo sono il mantenimento di un debole flusso genico tra le due
popolazioni ed una diversa pressione selettiva
nelle due diverse zone.
La speciazione peripatrica o speciazione
per “effetto del fondatore” avviene quando un
piccolo numero di individui costituisce una
nuova popolazione ai margini dell’areale della
specie di origine, ad esempio colonizzando una
piccola isola vicina alla costa. La nuova popolazione può rapidamente evolvere in una nuova
specie, sviluppando differenze biologiche dalla
popolazione originaria.
La speciazione simpatrica consiste nella
formazione di nuove specie mediante isolamento
riproduttivo all’interno della stessa areale senza
che intervenga isolamento geografico. Essa si
verifica quando, a causa di una o più mutazioni,
una piccola parte della popolazione presenta una
barriera che la isola riproduttivamente da quella
d’origine. Un esempio di speciazione simpatrica
che ha tempi molto brevi è quello degli organismi
poliploidi cioè individui con un numero di cromosomi multipli rispetto a quelli della specie, spesso
dovuto a una non disgiunzione dei cromosomi
durante il processo meiotico o mitotico.
Come visto fino ad ora, l’evoluzione può avvenire all’interno delle popolazioni e delle specie
e in questo caso parliamo di microevoluzione,
oppure interessa i livelli sistematici superiori
a quelli della specie (generi, famiglie, classi) e
questa è la macroevoluzione. Quest’ultima si
occupa dell’evoluzione su vasta scala, prendendo
in considerazione le modalità generali dei fenomeni evolutivi. Il processo di evoluzione ha due
dimensioni: l’anagenesi è l’evoluzione all’interno
di una linea di discendenza, la cladogenesi è la
diversificazione che interviene sempre nell’ambito di una linea. La grande diversità del mondo
vivente è il risultato dell’evoluzione cladogeneti-
ca, che si verifica quando
una linea filetica si divide
in due o più linee.
L’esteso campo della macroevoluzione si
interessa degli eventi di formazione ed estinzione
che si inseriscono nello
studio delle linee evolutive, ossia le sequenze che hanno condotto
dalle specie ancestrali a
quelle discendenti. Prove
a favore dell’evoluzione
furono rilevate già nel
Settecento: la scoperta
di nuovi territori in Africa,
Asia e America, indusse i naturalisti ad obbiettare l’ipotesi di una creazione statica grazie alla
constatazione dell’ esistenza di enormi varietà
di specie viventi. Dal confronto scaturì l’idea
secondo cui gli organismi viventi derivassero da
un unico progenitore comune. Contemporaneamente gli scavi condotti per la costruzione di
strade, miniere e canali in quei territori portarono
alla scoperta di strati diversi di rocce, all’interno
dei quali si disponevano, secondo uno schema
pressoché regolare, pietre dalle forme bizzarre,
che risultarono in seguito essere fossili. Si rilevò,
inoltre, a partire dagli strati più profondi in su, un
graduale cambiamento di questi fossili in termini
di complessità e di somiglianza agli organismi
moderni. Tipi diversi di esseri viventi, dunque,
erano esistiti in varie
epoche del passato.
La chiesa fino ad ora
ha preferito non pronunciarsi riguardo alla
tesi darwiniana, non
avendo gli strumenti
per giudicarne la valenza scientifica. Ci sono,
tuttavia, autorevoli personalità che tentano di
conciliare creazionismo
ed evoluzionismo. Un
illustre esponente della
tesi conciliatrice è lo
scienziato don Fiorenzo
Facchini, docente di
antropologia e paleontologia all’Università di
Bologna, il quale ha dichiarato che “I sostenitori
dell’Intelligent Design non negano l’evoluzione,
ma affermano che la formazione di certe strutture
complesse ha richiesto interventi particolari di
Dio nel corso dell’evoluzione e risponde a un
progetto intelligente”. A dispetto delle polemi- 123
che che circondano la figura di Charles Darwin,
la sua teoria dell’evoluzione costituisce uno dei
cardini della scienza moderna, ed è alla base del
progresso.
II A e II B
Liceo Classico
Docente referente:
Giuseppe Crescenzo
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
L’evoluzione
del sistema
scheletrico
L
a teoria dell’evoluzione della specie è uno
dei pilastri della biologia moderna. Nelle
sue linee essenziali, essa è riconducibile
all’opera di Charles Darwin (che vide nella selezione naturale il motore fondamentale dell’evoluzione della vita sulla terra) e alla genetica di
Gregor Mendel.
Per la teoria di Charles Darwin l’evoluzione
della specie avviene attraverso la selezione
naturale, che consiste nel fenomeno per cui
organismi della stessa specie con caratteristiche
differenti ottengono, in un dato ambiente, un
diverso successo riproduttivo; di conseguenza
124
le caratteristiche che tendono ad avvantaggiare la riproduzione diventano più frequenti
di generazione in generazione. Per la genetica
di Mendel, invece, nell’evoluzione della specie
concorrono le mutazioni, che consistono nella
comparsa improvvisa, casuale, ed ereditabile
nelle future generazioni, di caratteristiche non
possedute dagli antenati degli individui che le
presentano.
Considerando specificamente l’evoluzione
umana, essa riguarda l’emergere dell’uomo
dagli altri primati. Questi ultimi, ripercorrendo
un albero filogenetico che affonda le radici
alle origini della vita sulla terra, discesero da
esponenti insettivori appartenenti alla classe
dei mammiferi.
Proseguendo nel percorso evolutivo, dai
primati si diramarono le attuali scimmie antropomorfe e da queste ultime i primi ominidi.
Molti aspetti evolutivi si comprendono
meglio se impariamo ad analizzare la struttura
anatomica dal punto di vista funzionale magari raffrontandola con quella di altri gruppi di
animali. Bisogna sempre tenere presente che
tutti gli ordini di mammiferi, ad eccezione dei
primati, svolgono la loro vita in funzione del cibo
e dell’accoppiamento, per cui tutte le loro strutture anatomiche si sono evolute e specializzate
per garantire il massimo successo possibile in
questi due campi.
Per una visione più semplice e globale, è
conveniente distinguere lo scheletro della testa
o cranio (suddiviso in neurocranio e splancnocranio) dallo scheletro propriamente detto o
postcraniale ( suddiviso nella parte assile e in
quella appendicolare).
A questo punto è opportuno osservare l’evoluzione di ognuna delle parti che compongono
lo scheletro.
La colonna vertebrale si sviluppa in ciascuna
specie animale in relazione alla locomozione;
il rachide nei primati ha infatti un andamento
pressoché rettilineo o leggermente arcuato a
convessità dorsale, mentre nell’uomo assume
delle curvature caratteristiche: due a cavità
posteriore (tratto cervicale e lombare) e due a
convessità posteriore (tratto toracico e sacrale).
Questa particolare disposizione della colonna
vertebrale permette l’ammortizzazione del peso
corporeo durante la deambulazione ed evita
in parte le patologie a carico dei dischi che ne
potrebbero conseguire.
Le vertebre coccigee formano la coda che
nei primati arboricoli ad arrampicamento verticale tende a svilupparsi notevolmente e viene utilizzata da timone durante il salto e da bilanciere
negli spostamenti sui rami. Nelle antropomorfe,
nella bertuccia e nell’uomo si riduce, in seguito
ad un non utilizzo, sino alla scomparsa totale.
La gabbia toracica, invece, nei primati,
salendo nella scala evolutiva dai lemuridi sino
all’uomo, cambia forma; l’asse
dorsoventrale
tende a diminuire a favore
dell’asse trasversale. In pratica si
ha un allargamento progressivo a scapito della
profondità del torace che raggiunge l’apice
nell’uomo.
Anche il cinto pelvico subisce notevoli modificazioni lungo l’albero evolutivo dei primati. Nelle forme più “basse” della scala filogenetica esso si
presenta piuttosto allungato e del tutto simile a
quello degli altri mammiferi; nelle antropomorfe
esso tende ad accorciarsi e ad espandersi in senso
mediolaterale. Nell’uomo si assiste ad un ulteriore accorciamento del bacino, l’ala iliaca aumenta
la sua superficie incurvandosi, nella sua porzione
posteriore, verso il basso e si dispone medio lateralmente. Queste modifiche del cinto pelvico si
possono mettere in relazione con l’adattamento
dell’andatura bipede. L’ampiezza della cavità
pelvica, attraverso la quale dovrà passare il feto,
che possiede già una notevole dimensione della
testa, è massima nell’uomo. Cinti pelvici, partendo da destra: uomo, orango, macaco Lo scheletro appendicolare comprende gli
arti toracici e quelli pelvici; l’arto toracico è formato dal cinto toracico o scapolare, dall’omero,
dal radio e l’ulna, dal carpo e metacarpo ed
infine dalle falangi.
Il cinto scapolare assume nei primati una
configurazione particolare presente in pochi altri
gruppi di mammiferi; in essi, che necessitano
di una maggiore mobilità dell’arto toracico, in
relazione alla locomozione arboricola e ad un
uso manipolativo della mano, il cinto toracico
viene completato dalla presenza della clavicola.
Nella scala evolutiva dei primati, la scapola tende
progressivamente, procedendo verso l’uomo, a
disporsi dorsalmente.
Le ossa del braccio e dell’avambraccio
tendono ad essere simili, per quanto riguarda la
lunghezza, o più corti nei primati che si spostano
per arrampicamento verticale, dei corrispettivi
dell’arto pelvico.
Nei lemuri, che utilizzano il salto per spostarsi
tra i rami, sono decisamente più corti; nei primati che praticano invece la brachiazione l’arto
anteriore si sviluppa notevolmente in lunghezza
tanto che, ad un individuo posto in stazione
eretta, tocca ampiamente il suolo. Nell’uomo
lo sviluppo è intermedio per quanto riguarda la
lunghezza, notevolmente inferiore si presenta
la robustezza delle ossa lunghe, considerate in
relazione alla minor dimensione della muscolatura delle braccia.
Le ossa della mano, corrispondenti a carpo,
metacarpo e falangi, seguono in specializzazione quelle del braccio, ossia assumono particolari
forme che facilitano l’animale negli spostamenti
quotidiani.
Nelle scimmie quadrupedi, che si arrampicano verticalmente, non si presentano particolarmente sviluppate; nei lemuri, che si
spostano mediante il salto, tendono ad ingrandirsi notevolmente; nei brachiatori le ossa del
metacarpo e le falangi tendono ad allungarsi;
queste assumono una forma arcuata ad “uncino”.
Nell’uomo la mano si è mantenuta relativamente 125
indifferenziata; il pollice si è allungato favorendo
la completa opponibilità, indispensabile per la
manipolazione.
L’arto pelvico è composto da femore, tibia,
tarso, metatarso e falangi. In genere le specializzazioni più marcate si notano nei primati
adattati al salto e nell’uomo che si è evoluto alla
stazione eretta. Nei lemuridi l’arto posteriore tende ad allungarsi notevolmente rispetto a quello
anteriore per aumentare la leva di spinta; nelle
scimmie, data l’importanza della locomozione
arboricola, gli arti inferiori sono molto meno sviluppati degli arti superiori. Nell’uomo l’arto inferiore si presenta fortemente specializzato: le ossa
lunghe sono estremamente allungate e gli arti,
in stazione, si dispongono a piombo con il suolo
e non flessi come nelle antropomorfe. Il piede, a
livello della pianta, presenta due curvature: una
longitudinale e una, più lieve, trasversale. Questa
conformazione aumenta l’ammortizzazione del
peso corporeo durante il movimento.
Il neurocranio racchiude il cervello per cui
rappresenta un importante punto di riferimento
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
per la valutazione dell’evoluzione umana. Alcuni
primati hanno sviluppato a livello
di questa regione
alcune escrescenze ossee che permettono l’inserzione dei potenti
muscoli del collo per mantenere in equilibrio la
testa.
Al confine tra il neurocranio e lo splancnocranio troviamo le cavità orbitarie che subiscono, a partire dalle topaie e risalendo la scala
evolutiva, modificazioni notevoli: in questi animali
le orbite sono orientate lateralmente; procedendo
con i lemuri, l’orientamento delle orbite tende ad
essere più frontale; nel tarsio si ha una frontalizzazione delle orbite e la comparsa di un setto che
divide la cavità orbitaria dalla fossa temporale.
La frontalità della orbite e la loro separazione
dalla fossa temporale si mantiene in tutti gli altri
primati, compreso l’uomo.
Lo splancnocranio ha subito notevoli mo126 dificazioni nella scala filogenetica dell’ordine dei
primati; dalle proscimmie sino all’uomo e anche
nell’ambito dell’evoluzione umana essa assume
un importante valore distintivo per l’identificazione dei vari livelli evolutivi.
Per un’analisi più schematica lo si può
suddividere in tre gruppi: il blocco facciale, la
dentatura, la mandibola. Uomo, gorilla, cebo
cappuccino e lemure variegato
Il blocco facciale comprende le ossa della
faccia quali nasali, mascellari, palatine, etc.
Fondamentalmente risalendo nella scala filogenetica dalle proscimmie all’uomo, esso ha subito
un notevole accorciamento che ha influenzato
sia l’olfatto che il numero dei denti che sono
collegati alla conformazione del muso. I lemuri
presentano un massiccio facciale notevolmente
allungato. Negli altri primati il blocco facciale tende progressivamente ad accorciarsi e si perdono
gran parte delle capacità olfattive.
La dentatura segue l’andamento evolutivo
del blocco facciale, nel senso che si è avuta una
riduzione dentale dalle topaie sino all’uomo.
Tra i carnivori, per esempio, i Canidi hanno una
dentatura piuttosto completa mentre i felini ne
hanno una piuttosto ridotta. Nei primati la riduzione non è stata così drastica, infatti nei lemuri il
numero dei denti è 38, mentre nell’uomo, che tra
i primati è quello che presenta il blocco facciale
più corto, è 32.
La mandibola nelle proscimmie è conformata come nella maggior parte degli altri mammiferi ed ha subito piccole modifiche correlate
alla masticazione.
V MSA
Docente referente:
Imma Ingenito
Un battito lungo
600milioni di anni...
“M
i propongo di dare qui un breve
compendio del progresso delle
idee sulle origini della specie. Fino
a poco tempo fa, la maggioranza dei naturalisti
credeva che le specie fossero immutabili e che
fossero state create l’una indipendentemente
dall’altra. Alcuni naturalisti, invece, erano convinti
che le specie subissero modificazioni e che le attuali forme di vita discendessero per generazione
regolare da forme preesistenti”.
Sono queste le parole con cui uno dei più
geniali e rivoluzionari scienziati, Charles Darwin,
esordiva nella sua opera più importante, “L’origine della specie”.
Tutte le parti del corpo di un organismo
vivente hanno subito, nel corso delle ere geologiche, mutazioni che hanno consentito un
migliore adattamento ai mutabili ecosistemi;
possiamo parlare di adattamenti e di conseguenti evoluzioni anche per quanto riguarda il
cuore e il sistema circolatorio, ossia quel muscolo
propulsore e quel sistema di vasi che hanno il
compito di raccogliere e distribuire sostanze
all’interno dell’organismo. Esso può essere distinto in due tipi: il sistema circolatorio aperto
e quello chiuso.
Gli insetti, i molluschi e tante specie di animali
invertebrati, chiamati così in quanto mancanti di
colonna vertebrale, sono caratterizzati dalla presenza di un sistema circolatorio aperto, definito
tale perché il liquido in esso circolante simile, ma
non del tutto paragonabile al sangue (si tratta
comunque di liquido extracellulare chiamato
emolinfa) viene pompato da un lungo cuore tubulare in condotti, che lo distribuiscono in tutto
il corpo negli spazi fra i tessuti.
L’emolinfa poi ritorna al cuore mediante piccole aperture dette ostii che, grazie all’azione di particolari muscoli, richiamano il liquido letteralmen-
te aspirandolo
nel muscolo
cardiaco. Può
capitare però,
specie negli
insetti, che a
causa della
specifica confo r m a z i o n e
anatomica
che riduce il
lume dei condotti, la circolazione risulti
ostacolata;
questo avvie127
ne in particolari zone, dette
appendicolari,
quali antenne
e ali, dove, per
arginare il problema, si trovano piccole fibre muscolari in grado
di pulsare il liquido e di imitare quindi la funzione
caratteristica del cuore.
Quattrocento milioni di anni fa, nacquero i
primi animali terrestri come gli scorpioni, ma nello
stesso periodo nei mari erano in piena evoluzione
i pesci, che per primi presentarono un sistema
circolatorio chiuso. Sostanzialmente possiamo
dire che il sistema circolatorio chiuso dell’uomo e
degli altri vertebrati funziona nello stesso modo,
differenziandosi solo per alcuni particolari. Quello
dei pesci, ad esempio, appare notevolmente
semplificato; il loro sistema circolatorio è di tipo
semplice e completo: è detto semplice perché
il sangue passa una sola volta per il cuore, e
completo in quanto il sangue ossigenato non si
mescola mai con quello non ossigenato.
Nel loro cuore infatti circola solo sangue
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
venoso, cioè carico di anidride carbonica, e poi
dal cuore il sangue è sospinto alle branchie,
dove invece avviene l’ossigenazione. Il sistema
circolatorio si è poi modificato gradualmente in
seguito all’evoluzione del sistema respiratorio.
Quando la vita cominciò a svilupparsi anche sulla
terra, nei vertebrati apparvero nuove strutture,
i polmoni, che gli conferiscono numerosi vantaggi rispetto alle branchie dei pesci. I polmoni,
infatti, trovandosi all’interno del corpo, riescono
a mantenersi umidi e al tempo stesso al riparo
da traumi. Così dai primi pesci si sono sviluppati
gli anfibi anche se questi ultimi non si staccheranno mai completamente dall’acqua, infatti le
femmine vi devono fare ritorno per deporre le
uova, che schiuderanno dando vita ad organismi
acquatici: i girini. Anche il sistema circolatorio
risulta cambiato: ora la circolazione è doppia ma
incompleta, doppia in quanto il sangue passa per
ben due volte attraverso il cuore, ma incompleta
poiché all’interno dell’unico ventricolo il sangue
venoso si mescola con quello arterioso.
Il cuore anfibio già presenta una parziale
128 divisione in tre cavità. Le due superiori sono gli
atri, di cui quello destro riceve il sangue dalla
circolazione generale, mentre quello sinistro
dai polmoni e dalla pelle, che negli anfibi ha
anch’essa una funzione respiratoria. La sottostante cavità, chiamata ventricolo, è unica e riceve,
mescolando solo parzialmente, però, il sangue
dai due atri sovrastanti. La teoria dell’uso e del
disuso, i cambiamenti climatici, le mutazioni degli
ecosistemi e la selezione dei più adatti all’ambiente hanno fatto sì che poi, da alcuni anfibi, si
sviluppassero i rettili.
Quando poi le mutazioni hanno dotato le
uova di guscio calcareo e hanno fatto sì che la
pelle si ricoprisse di scaglie, per ridurre al minimo
la perdita dell’acqua, ecco che i rettili si sono diffusi velocemente e, per un’intera era geologica,
hanno popolato e dominato la terra.
Il loro sistema circolatorio è pressoché
uguale a quello degli anfibi; anche il loro cuore
presenta infatti le tre cavità già menzionate, con
un ventricolo parzialmente diviso che impedisce, meglio di quanto già avveniva negli anfibi,
la mescolanza del sangue non ossigenato con
quello ossigenato.
Il cuore dei coccodrilli è più evoluto rispetto
agli altri componenti della loro specie. Infatti
il ventricolo, già praticamente diviso in due
parti, completerà poi la sua totale separazione
negli uccelli, derivati direttamente dai rettili, e
nei mammiferi. Questi ultimi, affermatisi dopo
l’estinzione dei rettili giganti, i cosiddetti dinosauri, hanno sviluppato caratteristiche quali la
comparsa dei peli e l’omeotermia, cioè la capacità
di mantenere la temperatura corporea costante e
la viviparità, ovvero una strategia di riproduzione
grazie alla quale gli embrioni vengono nutriti e
protetti all’interno del corpo
materno.
Nel sistema circolatorio di
tutti i mammiferi, come anche
in quello degli uccelli, la separazione del cuore in quattro
camere separate è completa. Il
sangue scorre in due circuiti distinti: in uno è spinto dalla metà
destra del cuore ai polmoni per
eliminare l’anidride carbonica
e potersi ossigenare, per poi
ritornare al cuore; nell’altro,
dalla metà sinistra del cuore, è
pompato ai tessuti dell’intero
organismo per ossigenarli, nutrirli e depurarli caricandosi di
prodotti di rifiuto delle cellule. Con il ritorno del
prezioso liquido alla parte destra del cuore può
riprendere così un nuovo ciclo.
È il fenomeno della mutazione la chiave
della nostra evoluzione, che ci ha consentito
di “trasformarci” da organismi monocellulari a
specie dominante sul pianeta. Questo processo
è estremamente lento e complesso, richiede
milioni di anni, tuttavia esso è inesorabile.
Proprio questo percorso evolutivo del siste-
ma circolatorio ha permesso il maggiore sviluppo
nel corpo umano di organi molto importanti,
quali il cervello, grazie a cui l’ homo sapiens
sapiens ha imposto il suo dominio sulle altre
specie viventi.
Chiara Ceriello
IV MSB
Docenti referenti:
Maria Rosaria Langella
Adriana Buonaiuto
129
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
Le chiocciole:
esempio evidente
di biodiversità
L
a chiocciola è un gasteropode polmonato,
cioè prende aria da un
foro posto sotto la conchiglia.
Il suo corpo è molliccio, allungato e ricoperto da una secrezione mucosa, a differenza del
guscio che è più duro ed ha
una forma elicoidale. Abita in
ambienti estremamente umidi. La conchiglia ha due funzioni principali: generalmente
130
rifugio dai predatori mediante
i disegni presenti sul guscio
che favoriscono la mimetizzazione (tale variazione spaziale
è detta mimetismo criptico) e,
nelle varietà terrestri, riparo
dalla disidratazione. Il tipo di
minerali presenti nel cibo consumato ne determinano il colore che varia considerevolmente da
specie a specie. Si muovono grazie a una serie di
contrazioni muscolari ondulatorie: movimento
generalmente favorito da minuscole ciglia o
dalla secrezione della bava mucosa. Si nutrono
prevalentemente di alghe e di materiale organico
in decomposizione. All’interno della bocca possiedono una sorta di lingua (ratula) costellata di
piccoli denti che viene strofinata su rocce e foglie
per raschiare le particelle nutritive. Gli organi di
senso sono localizzati sul capo e consistono di
uno o due paia di tentacoli ricchi di terminazioni
nervose tattili e olfattive. L’olfatto guida la riproduzione sessuata. Quando si incontrano inizia
il corteggiamento: prima si accarezzano con la
ratula, poi si posizionano faccia a faccia tenendo
in posizione quasi verticale la parte anteriore al
corpo, dopo di che si accoppiano. Molte specie
sono ermafrodite, capaci di autofecondazione.
Questo aumenta la capacità riproduttiva in quanto risultano molto lenti i processi di fecondazione.
Le chiocciole depongono le uova (bianche, piccole e di diametro pari a 5 millimetri) nel terreno e
sono del tutto simili all’individuo adulto.
Le chiocciole sono un esempio di biodiversità poiché vi è variabilità genetica all’interno di
una singola specie. La variabilità genetica è una
caratteristica degli ecosistemi o di un pool di
geni comunemente ritenuta vantaggiosa per la
sopravvivenza: essa descrive l’esistenza di molte
versioni diverse di uno stesso organismo. E’ dovuta principalmente alle mutazioni e ai processi
di ricombinazione genetica. Le mutazioni in particolare portano alla formazione di nuovi alleli; la
ricombinazione li rimescola
creando nuove combinazioni
alleliche nelle generazioni
successive. Queste possono
verificarsi in ogni momento
della vita dell’organismo, ma
saranno trasmesse (e quindi
contribuiranno alla variabilità)
solo se interessano le cellule della linea germinale o i
gameti. Il senso di rotazione
del guscio dipende dal modo
in cui il gene Nodal si può
esprimere durante lo sviluppo
embrionale delle chiocciole.
Il gene regola l’asimmetria
destra-sinistra in altri organismi. Se durante la
fase dello sviluppo embrionale il gene viene inattivato, nascono chiocciole con il guscio liscio.
La chiave di riconoscimento è principalmente
il labbro che può essere bianco o non bianco
(rosa, marrone, marrone-chiaro). Altri
elementi sono l’ombelico (aperto,
chiuso, quasi chiuso) e le bande
(continue, discontinue, tratteggiate,
striate).
Distinguere un esemplare giovane da un adulto è semplice, basta
verificare due caratteristiche. Gli
esemplari adulti hanno il labbro intorno all’apertura della conchiglia molto
spesso, e leggermente rovesciato.
Negli esemplari giovani di chiocciola,
invece, la conchiglia verso l’apertura è
fragile e sottile. I giovani presentano
un foro a fessura nella parte inferiore
centrale del guscio chiamato ombelico. Negli adulti l’ombelico scompare.
Elisena Franzese
Liceo Scientifico
Docente Referente:
Rosa Maria Aliberti
131
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
Evoluzionismo
e Razzismo
Come le teorie scientifiche di Darwin influenzarono
il dibattito ottocentesco sulla superiorità
di alcune razze su altre.
I casi di De Gobineau e Lombroso
L
’opera di Darwin nella seconda metà
dell’Ottocento avrà una enorme risonanza
ed influenzerà notevolmente il dibattito
culturale del tempo. Ad essere distorte e male
interpretate furono, soprattutto, le sue teorie
scientifiche sull’evoluzione della specie. Osservando piante e animali Darwin aveva rilevato
che due individui di una popolazione non sono
132
perfettamente identici: gli organismi differiscono
per dimensioni, colori e molti altri caratteri. Lo
scienziato intuì che sono le variazioni, piuttosto
che i caratteri acquisiti, a essere trasmesse alla discendenza (selezione naturale). Concluse, quindi,
che gli organismi che non hanno successo nella
competizione per le risorse, hanno minori probabilità di sopravvivere in quell’ambiente. Solo gli
organismi che sopravvivono, trasmettono i propri
caratteri alla generazione successiva, e dunque
in ogni nuova generazione i figli degli individui
più adatti saranno
più numerosi. Le
teorie di Darwin
erano sicuramente
un attacco ai fondamenti della morale
del tempo, imbevuta di religiosità
bigotta. Nessun Dio
era mai intervenuto
a determinare il numero e la quantità
delle specie viventi,
ma queste erano il risultato della modificazione
di antichi progenitori.
La legge della lotta per la vita venne, però,
estesa dalla natura alla società e la sopravvivenza dei più adatti venne interpretata come la
vittoria dei migliori.
Ed anche se del tutto involontariamente,
Darwin, contribuì, dunque, allo sviluppo e alla
diffusione dell’ideologia razzista, che venne
utilizzata brutalmente dai colonizzatori europei
della seconda metà dell’Ottocento.
Il razzismo
Joseph Arthur Gobineau, è considerato uno
dei padri del razzismo moderno. Intellettuale
francese, nato nel 1816 e morto nel 1882, volle
spiegare perché gli Stati e le nazioni sorgono,
raggiungono l’apice e si avviano al declino.
Egli giunse alla conclusione che il declino di un
popolo è conseguente al suo degenerare, intendendo per “degenerata” una
popolazione il cui “valore
è stato modificato da
successivi connubi” e
nelle cui vene non
scorre più lo stesso
sangue. Le civiltà,
infatti, sarebbero
espressioni di razze
giovani, integre ed il
loro declino sarebbe
dovuto esclusivamente
Uomo o donna non importa... Criminali
si nasce, non si diventa
Il 27 novembre, in occasione del centesimo anniversario della morte di Cesare
Lombroso, l’università di Torino, il Comune
e la Regione Piemonte, hanno riaperto nel
palazzo degli istituti anatomici, il
museo a lui dedicato.
Ma chi è Cesare Lombroso?
Il nome di Cesare Lombroso è
fortemente legato all’antropologia
criminale, di cui è considerato il fondatore, benché infatti le sue teorie
siano state oggetto di molte critiche, al Lombroso va riconosciuto il
merito di aver contribuito a spostare
definitivamente l’oggetto del diritto
penale dal reato al delinquente e alle
cause personali e sociali del delitto.
Nato a Verona nel 1835, ben
presto, già nel 1862 (all’età quindi
di 27 anni) venne chiamato a tenere
un corso sulla sulle malattie mentali
all’università di Pavia, per poi, molti anni dopo
trasferirsi a Torino dove ottenne la Cattedra di
Antropologia Criminale.
In questi anni venne in contatto con il positivismo francese e inglese i cui tratti fondamentali
sono costituiti dall’esaltazione del valore sperimentale, contro le costruzioni metafisiche della 133
filosofia idealistica e della considerazione della
scienza, come il solo strumento atto a garantire
lo sviluppo umano e sociale.
Il Positivismo si fuse, nella persona di Lombroso, con la teoria evoluzionistica di Darwin,
e spinsero il criminologo a formulare l’idea che
“il delinquente nato” abbia delle caratteristiche
anatomiche che lo differenziano dal non-delinquente (teoria esposta nello scritto “L’ uomo
Delinquente”)
Più che caratterizzate
da componenti ambientali e socio-economiche, la
condotta di un criminale
sarebbe determinata da
ereditarietà e da malattie
nervose, il Lombroso è, infatti, convinto che la costituzione fisica sia la più potente
causa di criminalità e nella
sua analisi attribuisce una
fondamentale importanza
al cranio:
Cesare Lombroso
a motivi di carattere razziale,
al loro progressivo mescolamento etnico. Questa riflessione esposta nel suo “Saggio
sulla ineguaglianza della razza
umana” (1853-1855), diede
avvio alla teoria delle tre razze
(bianca, nera, gialla) e alla
convinzione che la stirpe superiore nonché “ariana”, fosse
quella bianca, in cui si riscontravano amore per la libertà,
coraggio e spiritualità.
Nel suo saggio Gobineau
riprende da Johann Friedrich
Blumenbach la suddivisione
delle razze umane in gialla,
nera e bianca e attribuisce a ciascuna razza determinate caratteristiche morali e psicologiche
innate; sono appunto tali peculiarità che determinano la superiorità dei bianchi sui gialli e sui
neri. Per Gobineau, la razza gialla è materialista,
portata al commercio e incapace di esprimere
pensieri metafisici; la razza nera presenta una
modesta capacità intellettiva; la razza bianca (o
ariana), che incarna le virtù della nobiltà e i valori aristocratici, sarebbe invece contraddistinta
dal suo amore per la libertà, per l’onore e per la
spiritualità. La razza bianca, originaria dell’India,
si sarebbe sovrapposta alle prime popolazioni
europee (che secondo Gobineau erano di razza
gialla) per formare il ceppo teutonico destinato
a dominare l’Europa nei secoli successivi. Ma
l’inevitabile incrocio con le altre razze ne
avrebbe corrotto la nobiltà, e gli ariani
avrebbero progressivamente assunto alcuni dei tratti deteriori delle razze inferiori
(il materialismo dei gialli e la sensualità dei
neri), in un processo degenerativo che Gobineau considerava ormai irreversibile.
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
“La capacità cranica dei
criminali misurata con pallini
di piombo offre in media cifre
inferiori alle normali, e con
una seriazione diversa, cioè
con un maggior numero di
grandi, 1600-2000 c.c., e di
piccole, 1100-1300 c.c., capacità: eccedono cioè nel troppo
o nel troppo poco sugli onesti
e sono inferiori sempre nelle
cifre medie. Vi è prevalenza di
capacità minime nei ladri; e
quando le grandi capacità dei
rei non sono effetto di idrocefalia, sono spesso giustificate
da un’intelligenza maggiore del normale come in
certi capibriganti: Minder-Kraft c.c. 1631, Pascal
1771, Lacenaire 1690”
“I criminali presentano l’esagerazione degli
indici etnici senza predominio dell’una o dell’altra
forma in essi e secondo i vari reati. Etnicamente
prevalgono i brachicefali nell’Italia settentrionale,
134 i dolicocefali nell’Italia meridionale e insulare; è caratteristica l’iperdolicocefalia nella Sardegna, nella
Garfagnana e Lunigiana (Lucchesia), nella Calabria
e in Sicilia, e l’ultrabrachicefalia nel Piemonte e nel
Veneto; però gli assassini avrebbero in molte regioni
d’Italia l’indice cefalico piú elevato”.
Tra le opere di maggiore interesse pubblicate dal Lombroso vi è sicuramente “La donnadelinquente, la donna-prostituta e la normale”
testo monumentale della misoginia
positivistica.
Secondo Lombroso infatti, “anche
una sposa esemplare ha molti caratteri
che l’avvicinano al selvaggio, al fanciullo
e quindi al criminale: irosità, vendetta,
gelosia, vanità”.
Lo studioso, si soffermò ancora una
volta sugli studi anatomici: “In 234 prostitute trovammo la distribuzione virile del pelo nel 15% mentre sul normale era il 6%, sulle criminali il 5% . Viceversa
la peluria che va al 6% nelle prostitute russe,
scende al 2% nelle omicide per poi sparire del
tutto nelle oneste e nelle ladre..”
L’opera “La donna-criminale” ebbe al
tempo un notevole successo. Il progressista Cesare Lombroso era tale, purché il progresso non
si applicasse alla donna, considerata più stupida
e debole degli uomini e per questo meno incline
a commettere atti criminali, che comunque sono
nella sua natura. Ma mentre l’uomo criminale fu
duramente contestato, la donna criminale, invece,
fu apprezzata per lungo tempo.
Bianca Corrado
Maria Monteleone
Luigi Danilo Rainone
Eleonora Salerno
III A Liceo Classico
Docente referente:
Anna Pumpo
CREATIVITà E SCIENZA
Tra letteratura,
rappresentazione grafica
e sapere scientifico
L’evoluzione
della Terra raccontata
con l’invenzione
L
’Allegra Brigata è il nome con cui si identifica un gruppo poliedrico di giovani del
Liceo Scientifico “Galileo Galilei” di Sarno
che, per il bicentenario della nascita di Charles
Darwin, padre della teoria dell’evoluzione della
specie animale e vegetale, ha concretizzato una
serie di lavori ideati e realizzati nell’officina del
proprio laboratorio teatrale, sintetizzando le proprie conoscenze e competenze scientifiche con la
naturale predisposizione all’arte creativa. È stato
prodotto un racconto fantastico intitolato “La
storia delle storie”, un racconto inventato, frutto
della fantasia dei ragazzi, sollecitato in parte dalla
creazione delle scenografie per le rappresentazioni teatrali che ha indirizzato questa creatività
135
nel disegno artistico in modo tale che dalle parole
del testo sono arrivati ad attuare e a modellare
una forma da cui prende vita ZY, un esserino
poco più grande di una palla da tennis, nato sul
pianeta Antar che, con l’aiuto di uno scienziato
matto viene catapultato sulla Terra e assiste alle
varie fasi dell’evoluzione. È un connubio perfetto
per poter spiegare in maniera semplice e chiara
la storia del nostro pianeta.
Partendo dalla base scientifica e dalle nozioni
inerenti al libro “L’origine delle specie” di Darwin,
abbiamo immaginato questo viaggio fantastico
diviso in tappe secondo i 12 mesi dell’anno,
dove ZY si trova su una strada percorribile in
ambedue i sensi, perché da una parte assiste
alle trasformazioni, ai processi morfologici e
climatici del pianeta Terra, alla nascita della vita
e dei primi organismi, mentre dall’altra osserva
come ciò avviene tramite la fantasia e l’irrealtà, tra
l’immaginario e il divertente sfogliando le pagine
di questo volume del tempo, alle avventure del
nostro piccolo amico che vedrà davanti a sé un
cratere di un vulcano da cui fuoriesce del pomodoro piuttosto che della lava, oppure le monta-
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
gne che assomigliano a degli imbuti capovolti o
ancora fare amicizia con dei dinosauri animati
che richiamano i pupazzi con i quali eravamo
soliti giocare durante l’infanzia.
Fondamentale nella realizzazione di questo
progetto è stato il lavoro di squadra, la suddivisone dei compiti, poiché i ragazzi provengono
dal mondo teatrale e dunque sono abituati
all’improvvisazione, ad esternare la creatività non
solo nell’interpretazione ma anche nelle scenografie e nei costumi, adattando questa capacità
di inventiva al mondo della scienza, regolato da
leggi matematiche e fisiche, trasformandolo in un
mondo fantastico. Dunque è stato un progetto
finalizzato a fondere la scienza e la creatività
in quanto ZY, protagonista di un susseguirsi di
avventure, ci accompagnerà in questo percorso
mostrandoci come è divertente imparare con
l’immaginazione e l’ illustrazione.
Questa è “La storia delle storie”
136
PROLOGO
Da qualche parte nell’universo, miliardi di
anni fa, c’era un pianeta di nome Antar, abitato
da tanti esserini che, nonostante le piccole dimensioni, infatti erano grandi poco più di una
pallina da tennis, erano molto intelligenti. Tra
questi spiccava un ominoide un pò strano, una
sorta di scienziato matto di nome Miù che portava delle lunghe scarpe nere, un camice bianco e
dei grandi occhialoni e aveva inventato tantissimi
marchingegni molto complessi che lo avevano
reso famoso su Antar. Una volta l’esserino ZY era
venuto a conoscenza della bravura di Miù e aveva
fatto di tutto per incontrarlo perché voleva essere
spedito su un altro pianeta. Era stanco di vivere su
Antar a causa delle troppe esserine che lo corteggiavano e perché era in cerca di qualcosa di più
buono da mangiare, in quanto sul suo pianeta gli
abitanti si nutrivano esclusivamente di moscerini
essiccati e di foglie secche. Lo scienziato, nel giro
di due mesi, inventò una grossa macchina capace
di spedirlo nell’universo:si trattava di un’enorme
catapulta. Stabilito il giorno della partenza, 1°
gennaio, ZY era pronto per intraprendere una
nuova esperienza. Miù preparò la macchina e
quando tutto fu pronto ZY si sedette sulla catapulta e fu scaraventato nell’universo. Il colpo
fu talmente forte che egli d’improvviso si trovò
sospeso nell’universo oscuro e poi atterrò sulla
Terra.
GENNAIO
Era buio e poi comparve la luce, poi ancora
buio e di nuovo la luce, ZY non capiva il perché di
quell’alternanza, ma forse era dovuto a quella sfera splendente che lo accecava se guardava in alto.
Si divertiva a giocare a nascondino, mostrandosi
e dopo un po’ nascondendosi. Vicino al sole si
trovava una sfera più piccola, tutta bianca e opaca
e la si vedeva solo quando il sole si nascondeva.
Era la luna che, triste, preferiva rimanere nel buio
circondata da tanti puntini bianchi e brillanti che
le facevano compagnia. Ricordava che sul suo
pianeta aveva letto in un libro astronomico che
l’universo si era formato dopo una violentissima
esplosione conosciuta come Big-Bang. Poi si
formò una nebbia luminosissima che, espandendosi, diede origine all’Universo. Le polveri e i gas
formarono un disco che cominciò a girare su se
stesso, dentro a questo disco si formò un nucleo
più denso e più caldo:il sole. Le polveri e i gas
continuarono a girare su se stessi e man mano
che si allontanarono diedero origine ai pianeti,
tra cui nacque la Terra.
Sulla Terra c’era una temperatura altissima
dove era impossibile la vita anche per lo stesso
ZY, ecco perchè prima di atterrare si mise in una
sfera di vetro dove regolò la temperatura al suo
interno permettendogli di vivere.
FEBBRAIO
ZY, comunque, iniziò a girovagare per quel
luogo desolato e inospitale dove tutto era immobile e scolorito, incominciò a pentirsi dei suoi
capricci e cercò di trovare un modo per tornare
su Antar. Il fatto era che non c’era niente o nessuno che lo avesse potuto aiutare, né un’enorme
scala, né una catapulta, né una molla, niente di
niente. Nel luogo in cui si trovava, l’aria era piena
di gas proveniente da imbuti capovolti da dove
fuoriusciva del pomodoro rosso acceso. Passava
il tempo e lui si sentiva sempre più solo, ma so-
prattutto aveva sempre più fame. Era disperato
e piangeva tanto da versare lacrime a non finire
che cadevano al suolo e man mano si ammucchiavano formando dei piccoli laghetti. In cielo i
gas degli imbuti si condensavano e si formavano
delle nuvole. Queste diventavano sempre più
gonfie fin quando decisero di trasformarsi in
gocce d’acqua, nacquero così le piogge che, mescolandosi con le lacrime di ZY, si trasformarono
in mari e oceani. ZY meravigliato dalla grandezza
di quei grandi specchi d’acqua azzurri e lisci, non
potè fare a meno di tuffarsi per vedere cosa ci
fosse e se c’era qualcuno, poi scoprì che quella
meraviglia in realtà era statica, l’oceano era vuoto.
Deluso ritornò sulla terraferma.
MARZO
Sulla terraferma anche, tutto era così immobile, tutto avvolto in un sonno profondo finchè non
ci fu un grande boato.
Accadde che uno di
quegli strani imbuti
iniziasse a brontolare
forte e poco dopo ci
fu un’esplosione di
pomodoro e di grosse
lenticchie che andavano dappertutto, ZY
esultò dalla gioia, contento di aver trovato
qualcosa da mangiare.
Quando il pomodoro
si raffreddò divenne duro e si formarono le
rocce vulcaniche, che erano parenti delle rocce
sedimentarie, perchè il materiale che i fiumi trasportavano fino agli oceani derivava dalla distruzione di rocce vulcaniche e quindi le prime rocce
sedimentarie nacquero grazie alla distruzione
delle prime rocce vulcaniche. Tutto però iniziò a
tremare e non capiva se era lui stesso a muoversi
o il resto attorno a sé. Si rese conto che era una
zolla di terra che si era scontrata con un’altra zolla
e dal basso si alzarono le catene montuose con
le punte aguzze.
Quando smise di girare di qua e di là, ritornò
la calma.
Nell’aria si sentiva qualcosa di nuovo, sembra-
va pulita e fresca e ciò era tutto merito di quelle
piante acquatiche che si trovavano vicino ai mari
e, siccome avevano tanto freddo, perché vicino
all’acqua, ringraziavano il sole per la sua gentilezza poiché le aveva riscaldate con i suoi raggi e le
piante felici emanavano nell’aria delle particelle
piccolissime che la rendevano respirabile. Grazie
alla fotosintesi si accumulò nell’aria l’ossigeno.
APRILE
La Terra era in continuo mutamento, vide
nell’acqua tanti organismi che iniziavano a moltiplicarsi e poi a dividersi e a fondersi con altri di
varia specie:erano così tanti che era impossibile
contarli. Questo era il mese cpiù importante per
la vita sulla terra. Prendevano vita i primi organismi pluricellulari. Il numero delle specie degli
organismi unicellulari era già diventato molto
grande, così come le modalità di riproduzione
degli stessi. All’interno
di questo importantissimo passaggio evolutivo
avvenne anche un altro
fatto importante: la com- 137
parsa della riproduzione
tramite meiosi. Accadde
che alcuni organismi cominciassero a produrre
piccole cellule riproduttive contenenti metà delle
proprie informazioni genetiche, per fondersi con
altre loro analoghe ma di altri individui.
MAGGIO
Sulla terraferma iniziavano a crescere le piante e anch’esse si diversificavano. Faceva molto caldo e ZY decise di farsi una nuotata, mise le pinne,
la maschera, prese la bomboletta d’ossigeno e
si tuffò nell’oceano. Tra gli organismi dell’oceano vedeva che c’era tanto traffico nelle strade
acquatiche e alcuni non rispettavano i semafori
e il codice civile del mare, in particolare i pesci
che avevano due pinne e una coda flessuosa
che gli permetteva di nuotare velocemente. Qui
incontrò il pesce palla che si era gonfiato perché
arrabbiato con il pesce martello che non aveva
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
rispettato il semaforo. Più in profondità vide i pesci pagliaccio che giocavano a nascondino tra le
alghe marine con i pesci gatto. Più in là si vedeva
un banco di sardine e di acciughe, subito dopo
dei cavallucci marini. Tra i pesci alcuni erano cattivi e mangiavano gli altri animali acquatici:erano
gli squali, di grandi dimensioni e con un’ampia
bocca da dove si intravedevano dei denti affilati. Il
più terribile di tutti era lo squalo bianco.Una volta
ZY, mentre era in compagnia del pesce pagliaccio
con cui stava giocando, per prendere la palla che
si era persa, si era spinto fin troppo nelle profondità marine dove lo aveva incontrato, per fortuna
grazie all’aiuto dei suoi amici pesci, era riuscito a
scappare dalla sua grossa bocca.
GIUGNO
Era estate, l’evoluzione della Terra continuava
molto lentamente, in effetti erano iniziate le vacanze e anche la Terra meritava un po’ di riposo.
ZY si stava annoiando, non sapeva che cosa fare,
allora prese il foglio del desiderio, un pastello e
disegnò una rana tutta verde con delle macchie
138 di un verde più scuro. Tutto ciò che disegnava su
quel pezzo di carta prendeva vita, ed ecco all’improvviso uscire dal foglio una rana che saltellava.
Chiamò la rana Winky, questa portava un papillon
giallo e aveva la pelle inumidita. Passavano le
giornate a giocare a saltarello, un gioco al quale
vinceva colui che faceva il salto più lungo e ZY
perdeva sempre, nonostante avesse ai piedi due
grandi molle che lo facevano andare su e giù. Il
ranocchio si sentiva
solo e triste, allora disegnò una ranocchia,
Dinka, con un fermaglio rosa in testa, e poi
altri ranocchietti, in
modo che tutti potessero giocare insieme
e stare in compagnia. I
suoi ranocchi si divertivano, facevano tanti
giochi nello stagno,
gare di nuoto, si era
creata una bella famiglia. Un giorno decise
di salutare tutti e di partire per avventurarsi ed
esplorare il pianeta Terra. Prese la bussola e puntò
verso ovest, ma per poter andare dall’altra parte
della Terra costruì una barca a remi con una vela
rossa e iniziò a remare. Un nuovo viaggio stava
per incominciare.
LUGLIO
ZY sbarcò su un’isola e vide dello zucchero
filato verde che era alto fino a toccare il cielo e
ce ne erano molti altri di varia grandezza. Sentì
dei rumori e vide qualcosa che si muoveva, sbucò
un dinosauro, con le zampe enormi e gli occhi
grandi e dolci, simile ai pupazzi che aveva sul suo
pianeta, solo che questo era vero e moriva dalla
voglia di fare un giro sul suo dorso. Si chiamava
Pif, portava un berretto blu e nero a strisce. Per
avvicinarlo prese un po’ di zucchero filato che
mangiò in un boccone e abbassò la testa per
farlo salire. Si fermarono vicino a un laghetto
dove si trovava il villaggio di Pif. Conobbe la sua
famiglia, mamma Paf portava un cappello rosso
e una collana di perle bianche, mentre papà Pof
portava degli occhiali che erano così spessi che
i suoi occhi sembravano due punti neri.
Era il villaggio Dinolandia, dove vivevano
tanti dinosauri, alcuni gialli con macchie nere,
altri arancioni a pois e altri ancora verdi che avevano sul dorso delle placche appuntite. Avrebbe
voluto portarli con sé su Antar per vantarsi con i
suoi amici e così tutti lo avrebbero invidiato. Era
divertente giocare con loro, scivolare sui loro
dorso saltando
sull’uno e sull’altro come se fossero le montagne
russe. Non tutti i
dinosauri erano
buoni come a Dinolandia, alcuni
vivevano isolati
ed erano diventati cattivi come
il pericolosissimo
Tyrex. Una volta
lo incontrarono
e dalla sua bocca
usciva del fuoco e dalle narici del fumo, per fortuna aveva con sé dei palloncini d’acqua, glieli
lanciarono sulla testa e il fuoco si spense.
Il Tyrex scappò infreddolito con la coda tra
le zampe. Luglio stava per finire e ZY era pronto
per ripartire e continuare la sua esplorazione.
Salutata la famiglia di Pif, riprese il viaggio via
mare. Aveva una strana sensazione quando
salutò Pif, Paf, e Puf, sentiva che quella sarebbe
stata l’ultima volta che li avrebbe visti e così fu. Il
cielo iniziò ad oscurarsi, le nuvole si addensavano,
si vedevano i fulmini e si sentivano i tuoni e una
forte pioggia iniziò a cadere. Guardò in alto e vide
una palla infuocata, avvolta da una luce rossa e
gialla, piena di energia che si dirigeva sull’isola
di Pif a tutta velocità. Si schiantò, non riusciva a
vedere nulla se non tanta polvere e fumo che
gli accecavano gli occhi. Dopo che il caos svanì,
l’isola era scomparsa, non esisteva più. I suoi amici
dinosauri si erano estinti.
AGOSTO
Si ritrovò su un’altra isola che era abitata da
animali pieni di peli. Camminavano a quattro
zampe, alcuni vivevano sugli alberi e altri nelle
grotte, erano così diversi, per esempio vicino a
una pozza d’acqua si vedevano degli animali che
avevano due zanne lunghe e ricurve al posto delle narici, per non parlare del naso che era lungo e
floscio con il quale prendevano l’acqua, poi continuando ad esplorare vide un cucciolo che aveva
la testa incastrata in un tronco d’albero e non
riusciva a liberarsi, allora lo prese per le zampe e
tirò con tutta la forza che aveva. Rotolò all’indietro
e prese una gran botta in testa ma il cucciolo era
libero. Era un piccolo orsetto, aveva le orecchie
appuntite, il muso lungo, un naso nero e un pelo
folto di colore marrone. Lo mise in un cestino e
lo portò con sé. Dopo un po’ che camminavano
videro davanti a sé non più la terra, gli alberi, i fiumi, i cespugli e i laghetti ma la neve e i ghiacciai.
Indossò il cappotto, i guanti, la sciarpa, mise un
cappellino di lana in testa all’orsetto e per ultimo
gli sci. C’era una forte tempesta di neve, videro
da lontano i pinguini neri e bianchi, le foche con
dei lunghi baffi neri e una coda a forma di pesce
che giocavano a palla e anche degli orsi simili
al suo orsetto, solo che il loro pelo era bianco,
sembravano dei batuffoli di cotone.
SETTEMBRE
Stanco di quel freddo gelido e intenso, ritornò indietro felice di rivedere il sole. ZY si inoltrò
in mezzo a quella meraviglia con il desiderio di
conoscere gli animali volanti. Però, mentre camminava, il suo sguardo fu colpito da strane palline
bianche che si trovavano su un ramo d’albero
circondate da tanti fili d’erba. Così si arrampicò per
guardarle più da vicino: erano due, lisce e calde.
D’improvviso però gli si scaraventò addosso un
grosso pennuto di colore marrone che lo pizzicò.
Quello doveva esser lo strano animale volante
pensò ZY. Il pennuto lo allontanò da quelle palline e sembrava tanto arrabbiato, così decise di
rimettersi in cammino. Per la strada incontrava
di tanto in tanto piccoli animaletti, alcuni di essi
erano minuscoli e avevano le ali e poi si imbatté
in un altro pennuto più piccolo del precedente ma
anche col becco più appuntito, quindi ZY subito si
nascose dietro un albero. Il pennuto però lo aveva
visto e gli volò incontrò dicendo: “Salve piccolo 139
sconosciuto, anche se la mamma dice di non parlare con gli estranei, voglio dirti solamente di non
aver paura, noi uccelli non siamo cattivi”.
Allora ZY uscì allo scoperto e gli raccontò che
ne aveva già incontrato uno cattivo mentre stava
guardando le palline bianche. Il piccolo uccello
gli spiegò che in quelle palline c’erano i babyuccelli e che quel pennuto che prima lo aveva
assalito era la mamma intenta a proteggere i suoi
figli. Tutto gli fu chiaro e, insieme al suo amico
uccello, andò a scusarsi con mamma pennuta
per averla fatta arrabbiare e decise di trascorrere
un po’ di tempo con i suoi nuovi amici. Assistè
anche alla schiusa delle uova di mamma pennuta
e conobbe i suoi due figli, baby-uccello Tic e Tac.
Era invidioso di loro perché potevano sentire il
vento che li accarezzava, attraversare le nuvole,
parlare con il sole e vedere ogni cosa dall’altro.
Da qualche parte nella sua borsa aveva con sé un
mantello magico che gli permetteva di volare, lo
indossò, fece una lunga rincorsa e si alzò da terra
andando sempre più in alto, fino a raggiungere
gli uccelli e insieme danzarono nell’aria. Fino a
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
quando non sentì del fumo, non capiva bene da
dove provenisse ma ben presto si accorse che
il suo mantello stava bruciando poiché stava
volando troppo vicino al sole. Precipitò e si infilò
tra i rami di un albero, per la stanchezza si addormentò sotto l’ombra di una quercia.
OTTOBRE
La terra iniziava a colorarsi, stavano sbocciando i fiori sugli alberi e sui cespugli, nell’aria
si sentiva un gradevole odore. Era circondato
da colori. ZY si rimise in cammino, attraversò le
fitte foreste e di tanto in tanto incontrava qualora uccelli qualora lucertole, gli veniva voglia di
sdraiarsi sugli immensi prati, e riposarsi del viaggio, dove ascoltava il canto degli uccelli che lo
deliziavano. Proprio durante una sosta conobbe
dei nuovi amici, erano alti circa un metro, camminavano appoggiando le zampe anteriori sulla
terra, avevano una lunga coda, erano pelosi e neri
con un’espressione molto simpatica, si trovavano
sugli alberi e mangiavano tanti frutti.
Erano delle scimmiette molto curiose, infatti
140 non appena si accorsero di ZY gli andarono
incontro per salutarlo. Una di loro gli offrì tante
banane, ne mangiò tantissime, erano molto dolci
e non esistevano su Antar, infatti si riempì l’intera
sacca che aveva con sé per portarla ai suoi amici.
Anche tra le scimmiette c’erano le baby-scimmie,
ma, a differenza degli uccelli, non si trovavano
nelle uova, bensì nella pancia delle loro mamme.
Queste avevano la pancia grande e camminavano in modo goffo. Erano molto premurose con i
loro figli, quando nacquero li tenevano in braccio
senza mai lasciarli un secondo.
NOVEMBRE
Tra gli alberi vide una scimmia diversa da tutte le altre perché non era ricoperta da tanti peli e
usava le mani per afferrare le liane e per spostarsi
da un albero all’altro. Era il primo ominide con
il muso schiacciato, si avvicinò per conoscerlo
ma l’ominide non sapeva parlare, gesticolava
per comunicare ed emetteva degli strani suoni.
Lo portò nella sua caverna e sulle pareti si vedevano dei disegni incomprensibili. Arrivarono
altri come lui che portarono sulle loro spalle dei
conigli uccisi con delle pietre appuntite. Insegnò
loro come accendere il fuoco, strofinava fra loro
due legnetti secchi finchè si scaldavano e così si
incendiavano. I piccoli ominidi si spaventarono
nel vedere quelle lingue di fuoco, le toccarono e
poi subito ritrassero la mano, si agitarono come
dei matti, allora ZY gli spiegò, tramite un disegno,
che il fuoco non era pericoloso anzi potevano
usarlo per cucinare la carne che avevano cacciato
e per farla diventare più saporita. Notarono che
tutti gli animali avevano paura delle fiamme e
potevano così rimanere più tranquilli se vicino a
loro c’era un focolare acceso.
Il cibo e la raccolta venivano sempre divisi nel
gruppo e aumentò così la solidarietà e l’amicizia.
L’uomo imparò a volersi bene e a vivere insieme
non solo perchè nel gruppo poteva essere “più
forte” ma anche perchè apprezzava la compagnia
di altri. Gli insegnò a parlare, impararono i nomi
dei fiori, delle piante, dei pesci e degli altri animali.
Camminava stabilmente in posizione eretta. Utilizzando le sue forti e grandi mani procurava il cibo,
bacche, radici e carcasse di animali, aiutandosi
anche con bastoni, era abile a lavorare la pietra e
costruiva strumenti rudimentali, che erano sassi
scheggiati e resi taglienti. L’uomo preistorico ebbe
ben presto bisogno di una casa per il riparo. Usò
caverne, costruì capanne con rami e paglia e fece
tende con pelli di animali. Le palafitte furono le
abitazioni più ingegnose, costruite sopra pali
conficcati sulla riva del lago. Erano nate per il
bisogno dell’acqua che l’uomo sfruttò per bere,
pescare e navigare. Ultima grande scoperta fu
quella dei metalli. Molte armi vennero usate per
uccidere gli animali ma, purtroppo, anche per
combattere contro i nemici. Giorno dopo giorno
l’uomo si evolveva, da uomo-scimmia a uomo
vero e proprio.
DICEMBRE
Erano passati 12 mesi e ZY aveva assistito
all’evoluzione della Terra, dalla nascita delle piante
e dei primi animali fino all’uomo.Anche se un pò
dispiaciuto di lasciare quella splendida natura e
soprattutto di lasciare tutti i suoi amici che si erano
comportati in modo cordiale con lui, era giunto il
momento di partire e di ritornare su Antar. Si era
ricordato che lo scienzato Miù gli aveva detto che
se voleva ritornare a casa doveva pronunciare
queste parole “L’avventur io ho cercato, per di qua
e per di là io son andato, il tempo è ormai passato,
su Antar voglio tornare e le mie avventure voglio
cantare”. E così ritornò su Antar.
EPILOGO
Per non dimenticare la sua avventura decise di scrivere un libro in cui percorrere tutti i
momenti vissuti, intitolandolo “La storia delle
storie”.Un libro che avrebbe donato a tutti i
suoi amici di Antar, in modo da condividere
con loro tutte le magnifiche esperienze vissute
sulla Terra.
Rosa Lieto
IV C - Liceo Scientifico
Docente referente:
Antonella Esposito
141
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
Gould ed Eldridge:
la teoria degli
equilibri punteggiati
N
“Le innovazioni evolutive possono insorgere in molti modi. Niles Eldredge e
Stephen Jay Gould hanno ipotizzato che
l’evoluzione di nuove specie procederebbe
a scatti.”
el 1972 Stephen Jay Gould e Niles Eldredge pubblicano per la prima volta, all’interno del saggio intitolato Punctuated
Equilibria: an alternative to Phyletic Gradualism,
142
la teoria degli equilibri punteggiati, che avrebbe
negli anni successivi contribuito a rivitalizzare
fortemente il dibattito tra evoluzionisti di diverse
scuole di pensiero in merito al concetto di gradualità nell’evoluzione biologica.
L’ultimo fascicolo della rivista Evolution: Education and Outreach pubblica uno straordinario
articolo in cui Niles Eldredge racconta le origini
della teoria degli equilibri punteggiati e come
Eldredge e Gould arrivarono a formulare la loro
teoria (anche se questo articolo tende a valorizzare maggiormente il contributo di Eldredge
rispetto a quello di Gould).
Principi della teoria. La teoria del saltazionismo è anche nota come evoluzione per
equilibri intermittenti. Recentemente l’ipotesi
che l’evoluzione proceda mediante il lento accumulo di piccole mutazioni genetiche e/o di
ricombinazioni geniche è stata messa in dubbio
da diversi biologi, quali Niles Eldredge e Stepen
Jay Gould. Quest’ultimi ribattono che, se si analizzano attentamente i reperti fossili, il processo
di speciazione non appare graduale, ma che
nuove specie possono apparire all’improvviso.
Alla base di tali convinzioni - sostenute con vigore - vi è la considerazione che spesso mancano
testimonianze fossili di forme di transizione da
una specie all’altra e che, di solito, esiste una
mancanza di continuità tra forme chiaramente
affini, ma distinte. Secondo i gradualisti, nelle
specie si accumulano cambiamenti strutturali
anche quando le condizioni ambientali sono relativamente stabili, mentre per i sostenitori degli
equilibri intermittenti le specie permangono in
una situazione di sostanziale equilibrio fintanto
che le condizioni ambientali non vanno incontro
a un cambiamento significativo.
La teoria degli equilibri
intermittenti ci fornisce una
spiegazione di come possano
persistere nel tempo delle
specie dalle caratteristiche
ben riconoscibili. Se le specie
originano improvvisamente
per drastica rottura dell’equilibrio, e permangono poi in una
situazione di equilibrio stabile
fino al successivo periodo
di speciazione, esse rappresentano entità distinte con
una struttura e un periodo di
esistenza ben determinati.
L’esempio della scomparsa dei Dinosauri è
forse quello più lampante: gli autentici dominatori della terra scomparvero in pochi anni a
causa di improvvise modificazioni ambientali
(l’oscuramento della luce solare, dovuto all’impatto di un meteorite sulla terra o ad una lunga
serie di violente eruzioni vulcaniche), lasciando
il terreno libero ai Mammiferi, che al tempo
erano principalmente animali notturni e meglio
adattati in ogni caso a condizioni ambientali
crepuscolari.
Come è ben evidente, questo esempio enfatizza un aspetto fondamentale di tale teoria:
la casualità a cui questi eventi sono legati, che
sottolinea che la storia evolutiva non ha sempre
premiato gli esemplari, o le specie, meglio adattati alle condizioni ambientali esistenti, ma quelle
meglio adatte a resistere a quegli eventi fortuiti
che hanno modificato in maniera sensibile tali
situazioni, portando ad eventi di speciazione tra
gli organismi esistenti. Insomma, una visione ben
distante dall’idealismo dei gradualisti, secondo
cui sono sempre le specie meglio adattate ad
ottenere il successo evolutivo.
Tre concetti fondamentali. La teoria degli
equilibri intermittenti consta di tre concetti
fondamentali:
1. I cambiamenti che portano alla speciazione, cioè alla formazione di una nuova specie, si
verificano in tempi geologici ridotti, dell’ordine
di pochi migliaia di anni.
2. La rapida evoluzione
di una nuova specie coinvolge quasi esclusivamente popolazioni di piccole
dimensioni e i caratteri fenotipici che si vengono ad
affermare sono abbastanza
diversi da quelli della specie
ancestrale.
3. Dopo che si è verificata la speciazione le caratteristiche fenotipiche si
mantengono pressoché
inalterate, magari per milioni di anni, sino all’estinzione delle specie stesse
Critica alla teoria. Evoluzionisti neodarwiniani criticano la teoria degli equilibri punteggiati
in quanto affermano che nel formulare questa
teoria Gould e Eldredge hanno distorto il senso
del gradualismo.
Nel libro L’idea pericolosa di Darwin, Daniel
Dennett si fa carico delle posizioni di questi
scienziati. Il punto della discordia sta nel fatto 143
che si pensa che il termine evoluzione graduale
sia sinonimo di velocità costante dell’evoluzione.
Dennett fa osservare che il termine gradualismo
si riferisce al lungo periodo necessario a formare
una nuova specie ed è stato scelto in contrapposizione all’evoluzione per salti o saltazionismo
che invece ipotizza la formazione d’una nuova
specie in poche o direttamente in una sola generazione. Il termine velocità evolutiva invece
si riferisce alla costanza o meno dell’evoluzione
in relazione al tempo, cioè se l’evoluzione d’una
specie è costante o intervalla momenti di stasi a
momenti di veloce evoluzione.
Il primo a sostenere che la velocità dell’evoluzione non è costante è stato lo stesso Darwin
che nel 1872 nel capitolo XV della 6° edizione
de L’origine delle specie afferma: «Molte specie,
dopo essere state formate, non sono mai andate
incontro a ulteriori mutamenti (...) ed i periodi,
durante i quali le specie sono andate incontro a
modificazioni, anche se lunghi misurati in anni,
probabilmente sono stati brevi in confronto ai periodi in cui hanno mantenuto la stessa forma».
Lyceum Dicembre 2009
Percorso/Speciale Darwin
Conclusioni. Questi diversi aspetti della
teoria evoluzionistica non sono in contrapposizione tra loro ma testimoniano l’attualità e la
vivacità del pensiero darwiniano. In effetti, è
possibile considerare la teoria evoluzionistica
come un work in progress, al quale nel tempo si
aggiungono sempre nuovi tasselli. Altrettanto
chiaramente va detto che non esiste un’unica
ed esauriente teoria in grado di rendere ragione
di tale fatto: le teorie evolutive per spiegarne
i meccanismi, sono tante e diversificate ed è
un’operazione culturalmente equivoca, anche
se diffusa, quella di trasferire la certezza circa il
fatto dell’evoluzione su una data teoria evolutiva attribuendo a quest’ultima indebitamente
una validità che è ben lungi dal possedere.
Anna Artillo
Felicia Carbone
Enza Filardi
Viviana Limpido
Alessia Volpe
III A - Liceo Scientifico
Docente referente
Rosa Aliberti
144
Riferimenti bibliografici:
Eldredge, N.; Gould, S.J. 1972: Punctuated Equilibria: an Alternative to Phyletic Gradualism. In Schopf, T.M.
(ed.) 1972: Models in Palaeobiology. Freeman Cooper, pp. 82-115.
Gould, S.J.; Eldredge, N. 1993: Punctuated Equilibrium Comes of Age. Nature 366: 223-227.
Itinerari
La sezione Itinerari, che in questo numero si apre con l’affettuoso ricordo del collega Gabriele
Loguercio, prosegue con la presentazione dei successi dell’Istituto, in campo sia scientifico che
umanistico. Le eccellenze che arricchiscono il patrimonio del “T. L. Caro” hanno sfoderato prove
e prodotti davvero eccezionali. A testimonianza del fatto che, quando la didattica è al centro
dell’azione dei docenti e la prospettiva metodologica sorregge lo studio che diventa razionale e
consapevole, gli allievi si sentono proiettati in un agone stimolante e arricchente.
Ma il Liceo di Sarno quest’anno, come ormai da anni, si cimenta anche in altri settori, ormai
consolidati da riconoscimenti e successi, come la produzione artistica e il teatro, due settori teoricamente extra-curriculari, ma sostanzialmente orientati a consolidare l’offerta formativa. Dello
svolgimento dei PON si darà ampia informazione nel prossimo numero.
Per Gabriele
N
on sono io a cercare le parole, ma le parole a cercare me e a descrivere il dolore
immenso per quanto la vita ti ha riservato: lasciare i tuoi cari, la tua casa, i tuoi libri, amici
inseparabili e insostituibili lungo il cammino della
professione di insegnante, apparentemente austero ma, in fondo in fondo, sempre dalla parte
degli alunni, non in modo ostentato, ma sentito
nel profondo del cuore e con un unico fine, indirizzare tutti verso l’amore per gli studi classici,
arma sempre vincente.
E le parole continuano a cercarmi, e a descrivere le appassionate discussioni politiche che in
molte occasioni ci hanno indotto ad alzare la voce
perché ognuno di noi voleva convincere l’altro
della bontà della propria analisi e, naturalmente,
dell’erronea posizione dell’altro.
Parole che vanno a ricostruire i tanti momenti
trascorsi insieme quali accompagnatori delle
nostre classi in viaggi d’istruzione a Barcellona, a
Lisbona, a Parigi. Quanti bei giorni trascorsi insieme ad altri colleghi e ad alunni gioiosi, entusiasti,
a volte un po’ stanchi ma pronti a ricaricarsi per le
uscite serali, in uno spirito comitale e goliardico
che fa emergere aspetti e tratti della personalità
che non sempre vengono alla luce nel chiuso delle
aule sotto il ritmo incalzante che scandisce le giornate di lavoro intenso per insegnanti e alunni.
Ma le parole si affollano, scalpitano, fanno a
gara per mettersi insieme, in modo da descrivere il
clima festoso del 19 giugno scorso quando, dopo
l’ultimo Collegio dei docenti, ti abbiamo salutato
con orgoglio e stima ma soprattutto con tanto affetto perché varcavi una soglia, quella che separa
il docente in servizio dal docente in pensione.
Ricordo che con le lacrime agli occhi e con
un dolce e compiaciuto sorriso hai ringraziato
tutti noi e poi in un orecchio mi hai detto: sono
contento di veder coronata la mia carriera, ma
anche triste perché lascio tutti voi, questa bella
e grande famiglia, dal vissuto quotidiano fatto di
alti e bassi, come ogni famiglia con i tanti problemi da affrontare e cercare di risolvere nel modo
migliore, una famiglia che già mi manca tanto
che non so come dal prossimo primo settembre
147
impiegherò le mie giornate.
Ed io a ricordarti che tra una lettura e qualche
preparazione, una passeggiata col nipotino e la
cura delle cose a te più care non ti saresti accorto
delle ore, dei giorni, degli anni che passano.
E invece…
Ecco la triste sorte che ti aspettava dietro
l’angolo, ecco la beffa del destino a strapparti alla
vita nel momento in cui avresti potuto goderne
al meglio.
Ed è per questo che invidio chi ha radicata in
sé una fede profonda…
Chi crede in modo assoluto sa che per te si è
aperto un nuovo orizzonte.
Angelina Rainone
Lyceum Dicembre 2009
Itinerari
I LABIRINTI
148
Man Ray,
Venere restaurata,
1936
Milano,
Collezione Schwarz
Progetto di Arte Visiva
DELLA BELLEZZA
Q
uando alla fine del ‘700, Johann J. Winckelmann disse che la bellezza, quale espressa
nell’ineguagliabile scultura classica, era
un principio perenne e non mutevole dell’Arte,
propose qualcosa che il successivo corso della
storia si affrettò a smentire fino alla forme antigarbate e scioccanti delle avanguardie. Nel corso del
‘900 poi, soprattutto nel primo decennio di questo
terzo millennio, più di una manifestazione dell’arte
contemporanea ci costringe a chiederci se quell’affermazione winckelmaniana non contenesse,
non dico la verità assoluta, ma una delle tante
verità , sia pure relative e talvolta irriducibilmente
contraddittorie dell’Arte. Da questo interrogativo
sulle diverse idee e forme della bellezza, nasce il
progetto d’arte visiva di quest’anno.
Gli alunni che sceglieranno di frequentarlo
si porranno come obiettivo primario di dare uno
sguardo proprio, alla bellezza vista più nella sua
essenza, proiettandosi ed addentrandosi nei vari
meandri e labirinti segreti delle diverse idee che
l’hanno caratterizzata nel corso dei secoli: dal
fascino archetipico della preistoria, all’idealizzazione estetica greco rinascimentale, dal sublime
della natura alle provocazioni antiestetiche delle
suddette avanguardie. Un argomento, quindi,
che soprattutto dall’inizio del ‘900 ha aperto un
dibattito contraddittorio su cui intellettuali, artisti
e scrittori hanno detto tanto e scritto fiumi di
considerazioni senza risposte. Ma forse è proprio
149
in questo il fascino della bellezza ed è proprio in
questo interrogativo senza risposta che vogliamo
addentrarci, realizzando dei manufatti artistici
liberi nel corso del progetto che toccherà le
cinque tematiche seguenti durante le 20 ore di
lavoro in cui mi avvarrò della collaborazione della
professoressa Adriana Buonaiuto:
• Il fascino della bellezza primitiva nel
linguaggio archetipo della preistoria.
• La forza della classicità tra armonia e
disarmonia.
• Uno sguardo alla bellezza d’Oriente.
• L’infinito della natura nella bellezza del
sublime.
• Lo spirito nuovo del ‘900 dalle forme
astratte al profondo della materia.
A fine corso, così facendo, quasi tutti i ragazzi,
aldilà della validità dei risultati artistici ottenuti,
avranno maturato una esperienza intrigante
sulle varie forme della bellezza e soprattutto
avranno vissuto una appassionante avventura
intellettuale ed emotiva.
Ernesto Terlizzi
Docente referente
Lyceum Dicembre 2009
Itinerari
GIOCHI DELLA CHIMICA
Nuova partecipazione,
nuove vittorie
S
abato 9 maggio 2009 si è svolta, presso
la Facoltà di Farmacia dell’Università di
Fisciano, la fase regionale dei Giochi della
chimica.
Com’è consuetudine da qualche anno, gli
alunni del Liceo classico “T.L.Caro” hanno partecipato con entusiasmo alla competizione, dando
prova del loro valore, grazie al conseguimento di
risultati soddisfacenti.
Hanno contribuito ad esaltare il buon nome
del liceo gli studenti del T.L.Caro che quest’anno
hanno preso parte alla gara e che sono stati:
- per la classe “A”: Ambrosio Giusy, Ambrosio Veronica, Caiazzo Francesca,
150
Carillo Consiglia, Giugliano Anna (attuale
III MS);
- per la classe “B”: Adiletta Carmela, Vastola
Mario (attuale V MSA), Gaudiello Maria,
Rendina Carmen (attuale V MSB), De Vivo
Andrea, De Vivo Domenico, Perrino Aristide (ex V MSA), Ambrosio Antonio, Massa
Nicola (ex V MSB), Sequino Alessandra
(attuale 3 C classico);
ed i docenti che hanno curato la loro preparazione: la prof. Ingenito, la prof. Langella, la prof.
Fiore e la prof. De Masi.
Occorre di certo ricordare che i Giochi della
Chimica vengono organizzati annualmente dalla
Divisione Didattica Chimica della SCI (Società
Chimica Italiana) per conto del Ministero della
Pubblica Istruzione e sono volti alla selezione della squadra italiana che parteciperà alle Olimpiadi
Internazionali della Chimica, che quest’anno si
sono svolte a Londra.
La competizione si articola in tre classi di
concorso:
- classe A, riservata agli studenti del
biennio;
- classe B, riservata agli studenti del
triennio;
- classe C, riservata agli studenti degli
istituti ad indirizzo chimico.
Ogni partecipante è chiamato a rispondere
a 60 quesiti a risposta multipla in 150 minuti; le
classi A e B hanno in comune i primi 40 quesiti
mentre gli ultimi 20 sono differenti; per la classe C
tutte le 60 domande sono diverse da quelle delle
altre categorie perché più specifiche.
Il punteggio viene calcolato in base ai seguenti criteri:
- + 3 punti per ogni risposta esatta;
- 0 punti per ogni risposta omessa;
- - 1 punto per ogni risposta errata.
Anche quest’anno i risultati raggiunti risultano considerevoli.
Per la categoria “A”, infatti, l’alunna Caiazzo
Francesca ha raggiunto il terzo posto, mentre
per la categoria “B” l’alunna Adiletta Carmela ha
ottenuto una menzione speciale.
Inoltre il Liceo “T.L.Caro” ha conseguito il
secondo posto nella gara a squadre per la classe
di concorso “A”, per merito di Caiazzo Francesca,
Carillo Consiglia e Ambrosio Giusy.
Infine è stata premiata la professoressa Maria
Rosaria Langella per la preparazione di Francesca
Caiazzo.
La cerimonia di premiazione si è svolta
Sabato 23 maggio 2009 presso la Facoltà di
Farmacia dell’Università degli Studi “Federico
II” di Napoli.
Dunque anche quest’anno grazie all’impegno e al duro lavoro di insegnanti ed alunni,
che con passione ed entusiasmo hanno dato il
meglio di se durante la competizione, il liceo
classico T.L.Caro ha mostrato le proprie qualità,
la propria preparazione ed il proprio interesse per
una disciplina importante come la chimica.
Grazie alla partecipazione a questo tipo di
iniziativa il nostro liceo aderisce ad un più ampio
progetto finalizzato all’avvicinamento dei giovani alla chimica o, più in generale alla scienza;
per questo motivo è ardente in noi studenti la
speranza di ripetere esperienze che risultano
essere così stimolanti e che ci permettono di
confrontare le nostre capacità con quelle dei 151
nostri coetanei.
Carmela Adiletta
V MSA
Lyceum Dicembre 2009
Itinerari
Olimpiadi delle
Scienze Naturali 2009
PREMI
I
l giorno 31/03/09 si è svolta la fase regionale della VII Edizione delle Olimpiadi delle
Scienze Naturali promossa dall’ associazione
ANISN (Associazione Nazionale Insegnanti Scienze Naturali).
Le Olimpiadi delle Scienze Naturali perseguono i seguenti obiettivi:
- fornire agli studenti un’opportunità per
verificare le loro inclinazioni e attitudini
allo studio e alla comprensione dei fenomeni e dei processi naturali;
- realizzare un confronto tra le realtà scolastiche delle diverse regioni italiane;
- avviare, alla luce del confronto effettuato
con realtà scolastiche diverse, una rifles152
sione sugli eventuali aggiustamenti da
apportare al curricolo di riferimento.
La prima fase delle Olimpiadi è stata divisa in
due categorie : biennio e triennio .
Il Liceo “T.L.Caro”di Sarno ha partecipato al
concorso con gli alunni : Ambrosio Giusy, Ambrosio Severino, Caiazzo Francesca, Giugliano Anna
per il biennio, preparati dalla prof.ssa Fiore e per
il triennio con Paduano Antonio, Vietri Giovanni,
Pinto Martina, Rendina Carmen e Pandino Lucia
preparati dalle professoresse Langella, Ingenito,
De Masi e Fiore .
La prova è articolata
in 30 domande a risposta
multipla divise tra Biologia
e Scienze della Terra per il
biennio, mentre per il triennio sono previste domande
unicamente di Biologia da
svolgersi in 45 minuti.
Il punteggio viene calcolato in base ai seguenti
criteri:
1. +3 punti ogni risposta esatta
2. 0 punti per ogni risposta omessa
3. -1 punto per ogni risposta errata
Alla fine della fase regionale gli alunni del
nostro Liceo hanno ottenuto ottimi risultati;
in particolare per il biennio l ‘alunno Ambrosio
Severino si è classificato terzo mentre Giugliano
Anna si è classificata decima. Le premiazioni per
i primi 10 classificati si sono tenute presso la
Facoltà di Scienze dell’Università degli Studi di
Napoli Federico II .
Gli allievi dopo aver ascoltato una interessante conferenza su Frigento , osservatorio privilegiato sul paleolitico della Campania interna, sono
stati premiati ricevendo libri e una pergamena
come attestato di partecipazione .
In particolare, l’ alunno Ambrosio Severino si
è classificato in posizione utile per partecipare
anche alla fase nazionale delle Olimpiadi ,
preparato ulteriormente dalla prof.ssa Fiore Anna
Luisa.La prova si è svolta il giorno 09/05/2009 a
Castellammare di Stabia nella splendida cornice
dell’ Istituto Internazionale Vesuviano per l’Archeologia e le Scienze Umane.
Alla finale nazionale hanno partecipato
100 studenti vincitori delle selezioni che si
sono svolte in tutte le regioni d’Italia, accompagnati dai docenti referenti regionali.
La gara ha visto competere più di quattrocento scuole e ha
coinvolto complessivamente quasi ventiduemila studenti e
ottocento docenti del
biennio e del triennio
della scuola secondaria
superiore.
Grande emozione
ha suscitato l’ arrivo di J.D. Watson , icona mondiale della molecola della vita, il DNA .
Grande generosità nel donare attenzione
e tempo ai 100 giovani studenti pronti per la
gara nazionale delle Olimpiadi delle Scienze
Naturali .
Il suo racconto di come sia avvenuta la
scoperta della struttura della doppia elica ha
contagiato tutti per l’ indomabile e ancora viva
e vitale passione per la comprensione profonda
dei segreti della vita.
Il premio Nobel ha indossato la maglietta
delle Olimpiadi , un gesto che ha espresso un
augurio forte e un buon auspicio per i giovani
talenti italiani. ....Straordinaria la risonanza!
I test della fase nazionale si sono svolti similmente a quelli della fase regionale e l’ alunno
Ambrosio Severino si è classificato in ottima
posizione, distinguendosi tra gli allievi degli altri
Istituti campani partecipanti alla selezione.
Il giorno successivo si è svolta la cerimonia
di premiazione dei vincitori. Erano presenti la
Dott.ssa Annamaria Fichera, in rappresentanza
del Ministero della Pubblica Istruzione, che ha
evidenziato come le Olimpiadi rientrano tra
le iniziative sostenute dal Ministero per promuovere le eccellenze degli studenti italiani.
Una volta tornato a scuola Severino ha ricevuto
i festeggiamenti dei suoi compagni ed i complimenti da parte del Dirigente, dei professori e di
tutti gli alunni del “Tito Lucrezio Caro”. Auguriamo a tutti gli alunni del Liceo di ripetere questa
magnifica esperienza per dimostrare la qualità
dell’offerta didattica di questa scuola.
II MS
153
Lyceum Dicembre 2009
Itinerari
PREMIO “INNER WHEEL”
Antiche o nuove regole?
Il comportamento nella scuola
tra etica e regolamento
Dalla parte delle regole
Antiche o nuove regole, nella scuola di oggi?
Ci verrebbe da rispondere: semplicemente
regole.
Scegliere, infatti, le antiche regole significherebbe unirsi al coro di coloro che lodano in
maniera indiscriminata tutto ciò che appartiene
al passato, senza tener conto dei cambiamenti
che la società e la scuola hanno subito. In una lettera pubblicata sul Corriere della sera l’1/8/2008,
l’ex ministro della Pubblica Istruzione, Luigi
Berlinguer, critica, appunto, lo stereotipo della
laudatio temporis acti, dominante in Italia, e
l’abitudine a comparare situazioni non omoge154
nee. La scuola di oggi è, infatti, molto diversa da
quella del passato e, per fare un solo esempio,
gli alunni, in circa cinquant’anni, sono aumentati
di sette volte.
Scegliere, viceversa, le nuove regole è decisamente arduo, perché di regole nella nostra
società e nella scuola di oggi sembra che ce ne
siano davvero poche. O meglio, le regole ci sono,
ma difficilmente vengono fatte rispettare. Eppure, come scrive Mario Pirani su La Repubblica, in
un articolo del 2005, l’assenza di vincoli e divieti
facilita l’estendersi di fenomeni negativi e il bambino, prima, e il ragazzo, poi, vivranno con meno
frustrazioni ma, una volta nella società, pagheranno caro il prezzo. Anche a questo proposito un
solo esempio: il fenomeno del bullismo.
Dunque, abbiamo scelto di stare dalla parte
delle regole, senza aggettivi o specificazioni. La
cosa sembrerebbe scontata, perché oggi tutti
parlano della necessità di regole, ma non moltissimi anni fa, in tempi di permissivismo educativo,
questa scelta sarebbe stata giudicata senz’altro
negativamente. Certo, a tutti piacerebbe una
società in cui ogni individuo si comporti secondo
quella voce interiore che Socrate chiamò daimon
e noi chiamiamo coscienza. L’imposizione di un
regolamento appare
spesso come il fallimento della capacità
di autoregolazione
del comportamento
e dell’etica del singolo e l’obiettivo più
alto in campo educativo è, senz’altro,
l’acquisizione di una
morale che faccia
agire gli individui
non per conseguire
premi, come le foche
ammaestrate, ma con
la consapevolezza
che il bene per sé è il
bene per tutti. Tutta-
via, la realtà non ci consente di avere una visione
completamente ottimistica dell’animo umano e
ci ha dimostrato che le regole sono necessarie sia
per il singolo, che acquisisce delle certezze, sia
per la società, che si presenta ordinata e sicura.
Così come sono necessarie le punizioni, nel caso
che le regole vengano trasgredite.
Dalla parte della comprensione
Certamente non si può ignorare che le regole
non sono ben viste dai giovani perché sono vissute come una limitazione alla libertà. Esse fanno,
insomma, storcere il naso e, spesso spingono ad
infrangerle. Un esperto di problematiche giovanili, il dottore Ingrascì, in un intervista rilasciata
al Corriere della sera scrive che “in genere, durante
l’adolescenza il ragazzo agisce con trasgressione,
mette in discussione regole educative e sociali, ha
bisogno di autonomia per dimostrare al mondo
che non è più un bambino”. Per questo, un educatore intelligente non imporrà solo regole e non
darà solo punizioni, ma cercherà di motivare i
suoi alunni, sostenerli con incoraggiamenti ed
elogi per permettere loro di vivere positivamente
il momento scolastico. Quest’ultimo obiettivo,
poi, non è di secondaria importanza, soprattutto
se si pensa ai tanti episodi di violenza che si stanno verificando nelle scuole di vari paesi evoluti
ad opera di giovani studenti ed ex studenti che
hanno maturato rancori o risentimenti per vere
o presunte vessazioni.
Per dare una risposta a questi problemi, di
disciplina da un lato e di dialogo dall’altro, può essere utile ricordare che molte scuole, nei loro POF,
hanno previsto delle norme di comportamento
per studenti e studentesse ed attivato centri di
ascolto e consulenza per alunni con difficoltà
relazionali o psicologiche. Tuttavia, anche noi vogliamo dare un contributo pratico, proponendo
un decalogo che dia i principi fondamentali ai
quali devono attenersi i principali protagonisti
del processo educativo scolastico, gli studenti e
i docenti. Esso, lungi dall’essere un regolamento
d’istituto, come ce ne sono tanti nelle nostre
scuole, vuole essere una sorta di Costituzione che
stia alla base di un sereno e corretto rapporto tra
insegnanti e alunni.
Decalogo per docenti e discenti
Il docente deve:
1- essere modello di vita per i propri alunni,
mostrandosi autorevole ma non autoritario.
2- far comprendere la funzione dei ruoli,
senza pericolose confusioni. Amici degli
studenti sono i loro coetanei; la cordialità,
che deve caratterizzare i rapporti, non va
155
confusa con altro.
3- dare poche prescrizioni, ma farle rispettare. E’ inutile che minacci punizioni che sa
già che non comminerà, pena la perdita
di credibilità.
4- guardare negli occhi i propri alunni,
cercando di coglierne malesseri e turbamenti. Le stragi nelle scuole ad opera di
giovani studenti non si combattono solo
suggerendo norme di difesa, ma cercando di prevenire situazioni di disagio.
5- mostrare competenza e serietà nel proprio lavoro.
L’alunno deve:
1. ricercare il senso delle cose che fa. Se
frequenta la scuola per compiacere i genitori o perché non ha nulla di meglio da
fare, non troverà mai la sua vera strada.
2. comprendere che la lezione in classe ha
bisogno dell’apporto di tutti e, perciò,
partecipare con interventi e contributi
che aiutino anche i compagni in difficoltà.
Lyceum Dicembre 2009
Itinerari
3. cercare di mantenere vive la curiosità e
la volontà di capire che caratterizzano i
bambini e si affievoliscono, invece, con il
tempo. Anche da adulti è utile chiedere
e chiedersi: perché?
4. ritenersi un privilegiato perché in tante
parti del globo ci sono ragazzi della stessa
età che non possono frequentare le scuole e, invece, vorrebbero farlo.
5. capire che la sua formazione, sulla quale
lo Stato investe tanti milioni di euro, è
necessaria per la sua realizzazione personale ma anche per il progresso di una
nazione che, proprio per gli scarsi risultati
nell’istruzione, rischia di essere destinata
al declino.
I C - Liceo Classico
Questo saggio è stato insignito del primo Premio al Concorso bandito
dall'Associazione “Inner Wheel” di Nocera Inferiore-Sarno
156
PREMIO ALBATROS/ 1
Sono ricordi…
157
Una finestra, immenso sguardo verso l’avvenire: sagome confuse
ondeggiano tra le vie e gli alti lampioni della città.
Le ombre della mia vita si rincorrono sull’asfalto...
poi l’oscurità mi avvolge, in un caldo abbraccio materno.
Lenta, si consuma la candela al buio, toglie il fiato e crea
spettacoli di luce incomprensibili, ed io tesso, paziente, attimo dopo attimo,
la ragnatela del mio presente di variopinti e fragili fili di seta.
Ricordi, per creare l’illusione di un’effimera eternità: sono miei,
nessuno li può violare, possono ingrigire, ma nessuno mai li potrà cancellare,
ancore tra le tempeste della vita, libri da sfogliare nei malinconici pomeriggi autunnali,
luce che illumina e guida il mio cammino verso il domani.
Ad un passo dall’orizzonte indefinito, inizia la mia storia di sogni infranti,
ancora da realizzare, gioie immense troppo brevi da assaporare, battaglie perdute
o mai combattute, vittorie troppo belle da intrappolare con l’inchiostro.
Lyceum Dicembre 2009
Itinerari
Attimi infiniti si posano gli uni sugli altri, polvere di matite colorate
riempie magicamente i cassetti del mio cuore; come nella roccia scolpisco
secondi troppo fugaci, in un tempo che tutto travolge e poco lascia,
per fermarli, tenerli al sicuro dentro di me o talvolta, invano, tentare di distruggerli.
Occhi coperti da un velo che non si può risollevare
vagano come un valoroso cavaliere nella fitta nebbia del domani;
cerco il sole, un brivido che scaldi, una dolce salsedine,
mentre nell’animo si agita l’ansia del futuro.
Poi l’alba, finalmente, segna il labile confine tra “ero” e “sono”;
una frizzante brezza mattutina inonda i teneri polmoni di una forza sempre nuova:
un passato ingiallito si posa sulla mia spalla, mentre ricomincio a tessere
i miei ricordi, ad intrecciare una trama così resistente, da sopportare il peso
di enormi manciate d’attimi, ma fragile ed esile, da non tollerare una lacrima.
Un nuovo sole oltrepassa le nuvole dell’esistenza...
fugge, come un ladro, verso l’avvenire: il ricordo.
Nuovi cieli e nuove terre, orizzonti sconosciuti si stagliano
dinanzi ai miei occhi e si risvegliano nel profumo di primavera;
ali di vento mi accarezzano, mi abbracciano, mi avvolgono in silenzio.
158
Valentina D’Avino
III B 2009 - Liceo Classico
A questa poesia è stato assegnato il Premio Nazionale Albatros 2009 per la poesia (Primo posto)
PREMIO ALBATROS/ 2
Tutta la mia vita
in quelle parole
M
i trovavo, in
un pomeriggio di fine
estate, seduta su
una panca della
stazione. Le nuvole erano ancora
cariche di pioggia, e dovunque
si scorgevano i
segni e le tracce
del temporale che
prima aveva imperversato sulla
città. Era strano
come tutto sembrasse diverso
dopo la pioggia.
Pi c c o l e g o c c e
pendevano da
qualsiasi oggetto
o edificio; persino l’orologio che segnava le 17:00
era grondante d’acqua.
Non c’era un’anima in quella stazione, o
almeno mi sembrava che non ci fosse nessuno,
forse perché non avrei comunque, visto nessuno.
Tutto era vuoto e silenzioso. L’unica cosa che si
udiva era il picchiettio leggero delle ultime gocce di pioggia che rimbalzavano leggiadre sulle
pozzanghere e che si andavano ad aggiungere
al resto del copioso mucchio.
Avevo lo sguardo fisso nel vuoto, come cercando qualcosa o qualcuno che mi risvegliasse,
che mi scrollasse di dosso quel torpore che mi
stava annichilendo, che mi riportasse alla realtà.
Lacrime distratte scendevano lungo le mie guan-
159
ce, creando solchi invalicabili nella mia anima. Si
rincorrevano, lente e umide, confondendosi con
le ultime gocce di pioggia.
Rigiravo tra le mie dita quel biglietto, che
ogni minuto diventava sempre più sgualcito e
consumato.
Piccolo, bianco, insignificante, eppure sembrava pesare come marmo tra le mie mani. Era
da quasi un’ora che lo rigiravo e lo accartocciavo,
sperando che i caratteri neri si unissero agli spazi
bianchi cancellando per sempre quello che c’era
scritto, quel che era stato e non avrebbe mai
dovuto essere. Ma non era possibile, pensai con
rabbia.
Quel che c’era scritto sarebbe rimasto lì in
eterno, sarebbe stato inutile buttarlo via, bru-
Lyceum Dicembre 2009
Itinerari
ciarlo, lasciare che il vento lo portasse lontano.
Il suo significato non sarebbe mutato e avrebbe
comunque lasciato un’orma indelebile dentro di
me. Quel minuscolo biglietto sembrava ingigantirsi tra le mie dita, come a voler cercare di attirare
l’attenzione su di sé. Sapevo che dovevo leggerlo,
160
ma non ne avevo la forza. Lo lasciai cadere nella
tasca della mia giacca e chiusi gli
occhi, lasciandomi cullare dal suono
della pioggia e del vento. Mi chiedevo com’era possibile che tutto ciò
accadesse, che per qualche strano
scherzo del destino fosse capitato
l’inimmaginabile.
Avevo letto storie di persone
sopraffatte da sentimenti così forti
da offuscare la vista e tutti gli altri
sensi, e forse questo era uno di quei
momenti.
Il dolore era così grande, che,
pur aprendo gli occhi, sapevo che
non avrei visto altro che un baratro
senza fondo. Non sentivo altro che
le tacite grida che la mia bocca
avrebbe emesso, se avesse potuto.
Cercai di isolare le singole parti del
mio corpo, ma era come se la sofferenza si fosse impossessata di tutta
me stessa. Non riuscivo nemmeno
a muovere le dita. Mi lasciai accarez-
zare dal dolore. Divenni parte di
esso. Mi sembrava di stare al confine della vita, come se un muro
avesse diviso per sempre la mia
esistenza prima e dopo ciò.
Stavo lì a crogiolarmi nel mio
dolore, quando rammentai che
tu non avresti voluto questo, non
l’avresti voluto mai. Tu non mi
avresti mai permesso di rinchiudermi nei ricordi e di smettere di
vivere. Era inutile dirmi che ero
forte, non lo ero più. Ero spezzata,
dilacerata, ma dovevo reagire.
Io che avevo sempre vissuto
in un mondo tutto mio, dovevo
scendere in campo e affrontare
la realtà. Pian piano aprii gli occhi.
Aveva smesso di piovere, anche le ultime gocce
di pioggia stavano sparendo, insieme alle nubi e
alle mie lacrime oramai asciutte.
Mi alzai di scatto e mi guardai intorno. La scena di fronte ai miei occhi era sempre la stessa. La
stessa stazione grigia e desolata, ma avevo capito
che il mio posto in quel momento non era lì. Presi il
primo treno che passava, e arrivai dove non ti avrei
mai voluto vedere. Una folla umana mi precedeva.
Uomini, donne, bambini, anziani. Persone diverse,
unite dal dolore, sembravano stringersi le une con
le altre in un unico grande abbraccio.
Mi feci largo tra quella moltitudine e varcai le
porte di quel luogo. File di stendardi americani si
intervallavano a immense composizioni floreali.
Le bandiere sembravano danzare al suono di una
musica inesistente, mentre tutti con lo sguardo
vitreo fissavano gli occhi al suolo, incapaci di alzare il capo e guardare la realtà dritta negli occhi.
Il prete stava quasi per finire il suo discorso
lungo ed elaborato, ma le sue parole mi sembravano prive di senso, vuote, ce ne sarebbero volute
mille e mille altre per descriverti.
Il tempo parve fermarsi lì in quella enorme
chiesa di New York.Non pensai alla mia situazione, alle centinaia di persone intorno a me che
probabilmente soffrivano esattamente nello
stesso modo, non pensai a cosa era successo, e
non pensai nemmeno a te, semplicemente smisi
di pensare. All’improvviso tutti si allontanarono
e la immensa sala si svuotò, o almeno così mi
parve, ma io rimasi per un altro po’ seduta lì
immobile, aspettando che tu uscissi insieme a
me da quel luogo.
A distanza di anni, l’11 settembre verrà ricordato da tutti come la tragedia che ha cambiato
la storia moderna, che ha dimostrato come la
nazione più potente, più forte e temuta al mondo
potesse essere colpita nel profondo un mattino
come un altro.
L’immagine delle Twin Towers, emblema della
metropoli più famosa al mondo, avvolte da una
densa coltre di fumo nero, s’impossessò delle
menti di milioni di persone. Si aveva paura di
quel che si credeva l’impossibile, mentre i nomi
dei morti aumentavano ora dopo ora, insieme a
quelli dei feriti e dei dispersi. Tutti si sentivano
Americani, ma quelli che lo erano veramente
riuscivano solo a chiedersi: “Perché?”
Quando trovai la forza di alzarmi dalla mia
panca e di avviarmi verso l’uscita, ricordai il tuo
biglietto nella tasca della giacca. Lo presi. Era il
tuo ultimo messaggio prima di morire, tu, diversamente dagli altri, avevi almeno potuto dare 161
l’estremo saluto alla vita in un ospedale, anziché
tra le macerie di un grattacielo:
Lyceum Dicembre 2009
Itinerari
“Continuerò a vivere attraverso te, ma tu
non morire a causa mia.”
Le tue semplici parole lasciarono la pagina
e si riversarono dentro di me, nella voragine al
centro esatto del mio petto. Era come se tutta
la mia vita fosse confluita in quelle parole, e loro
in me. Il biglietto che ora mi sembrava leggerissimo, ormai era solo un vuoto foglio bianco,
così come mi sembrava la mia esistenza senza
di te. Lo lasciai insieme ai tanti altri ricordi, foto
e scritti dei parenti delle vittime lì nella chiesa,
e uscii fuori.
162
Mi sentivo leggera, quasi evanescente, come
se avessi lasciato tutto, dolore, frustrazione,
rabbia, malinconia, anche il mio stesso corpo, lì
dove era sepolto il tuo. La folla si era diradata, le
nuvole erano scomparse, e il sole languidamente
donava i suoi ultimi raggi della giornata alla città
silenziosa e calma. Guardando il cielo, ricordo che
mi sembrò quasi impossibile osservare che tu te
ne eri andato, e che c’erano ancora cose normali
come un tramonto.
Luisiana Levi
III B - Liceo Classico
A questo racconto è stato assegnato
il Premio Nazionale Albatros 2009 per la narrativa (Secondo posto)
La nuova avventura teatrale
dell’Allegra Brigata tra
letteratura e spettacolo
“A
Le maree dell’animo
femminile
l centro dei Fiori del male di Charles
Baudelaire vi è il tema del viaggio,
che diventa la chiave per affrontare
il problema dell’esistenza e delle possibilità di riscatto poetico attraverso l’evasione in un altrove,
in un virtuale spazio dell’anima prima che del corpo. Accedere a tale dimensione consente di scavalcare i condizionamenti di una società, che si
illude di trovare nella razionalità le risposte ai suoi
problemi. Questo altrove corrisponde allo spazio
aperto del mare, metafora della libertà, che, con
il suo dilatarsi ampio sulla sfera dell’orizzonte,
allude alla spazialità seducente dell’apertura alla
natura. Il mare però è anche specchio dell’animo
turbato, ansioso e instancabilmente coinvolto “...
nell’infinito srotolarsi dell’onda...”. Il mare è “... abisso
non meno amaro” è “lamento indomabile e selvaggio” in cui si riflettono i turbamenti profondi ed
inconsci dell’io, inconoscibili,
La lettura di Baudelaire nonché dell’ultimo
romanzo di Isabelle Allende che come gli altri
parla sempre dell’animo femminile che nel corso
della storia ha sempre dovuto combattere per
riscattare la propria indipendenza e la propria
posizione in una società da sempre maschilista
ha rappresentato per l’Allegra Brigata il punto di
partenza per costruire un canovaccio scenico tra
poesia e romanzo sulle donne, su quelle piene
di passione e di fermezza, capaci di grandi amori
e di grandi battaglie.
Come le eroine di Isabel Allende il testo che
sarà portato sulla scena a giugno dai nostri giovani attori reca il medesimo tratto dominante:
la passione. Sono le passioni a scolpire il destino
di queste donne, alleanze, al muoversi febbrile
dei personaggi più diversi - soldati e schiavi
guerrieri, sacerdoti e frati cattolici, matrone e
cocottes, pirati e nobili decaduti, medici e oziosi
bellimbusti. Contro il fondale animatissimo della
storia, la protagonista dello spettacolo, spicca
Lyceum Dicembre 2009
163
Itinerari
bella e coraggiosa, battagliera e consapevole,
un’eroina modernissima che arriva da lontano
a rammentarci la fede nella libertà e la dignità
delle passioni.
Il nostro carrozzone sarà come sempre
guidato dalle docenti referenti Antonella Esposito e Grazia Celentano a cui si affiancherà la
presenza del regista e attore Antonio Avigliano.
Il nostro viaggio tra scene, costumi e musiche
sarà condotto dagli stessi ragazzi che avranno
164
l’opportunità di esprimere la loro creatività,
le loro competenze e le loro attitudini perché
possano avvertire la rappresentazione stessa
come qualcosa che li coinvolge nella sua totalità
e complessità. Il senso del laboratorio è questo
ossia un’officina di saperi in movimento che
nella ludica creazione diventa un momento significativo del percorso culturale e ed educativo
di ogni discente.
Antonella Esposito
Il nuovo lavoro teatrale
della Nave dei Folli
Il Potere in scena
Esistono persone speciali. Che combattono
non con la loro forza fisica o con il potere esercitato sugli altri. Ma con le loro idee, i loro sogni, le
loro utopie. Sono, queste, le persone che hanno
cambiato il mondo e lo hanno reso migliore o,
comunque, capace di affrancarsi da uno stato
di minorità, in cui i “pezzi grossi” vorrebbero
mantenere i “pezzi piccoli”.
Perciò il nuovo lavoro teatrale della Nave dei
Folli denuncia polemicamente il Potere, quello
incarnato da chi ha dalla propria parte i ceti
dominanti, gli strumenti della forza economica
e militare, i megafoni delle ideologie di massa,
con cui appiattire le menti di coloro che vengono messi in condizione di “non pensare”: un
ignorante fa più comodo a chi comanda di un
cervello pensante.
La Nave dei Folli, fedele alla sua tradizione -ormai quindicennale- di riscrizione dei grandi Classici latini e greci (quelli che parleranno per sempre
al cuore dell’uomo), con il suo Progetto teatrale Il
Potere in scena, intende individuare i protagonisti
della Storia che, con il loro esile corpo, sono stati
capaci di fermare eserciti furiosi e sovrani armati.
Quei sovrani, che non vogliono vedere, che non
vogliono sapere. Quei sovrani, che sono incapaci
di sentimenti nemmeno quando madri silenziose
unite nel dolore a giovani donne, piangono il corpo del figlio o dello sposo, la cui giovane esistenza
è stata mietuta come tenero grano dalla Nera
Signora con la falce e con la clessidra.
Lo Spettacolo, che sarà presentato in Festival
e Rassegne nazionali, è incentrato sul testo scritto
da Franco Salerno, sulla regia di Fulvio Montuoro
e Franco Salerno, sulle musiche di Ciro Ruggiero
e sugli effetti speciali di Francesco Coppola (aiuto regia: Viridiana Myriam Salerno e Francesco
Mancuso).
Il Potere in scena intende proporre l’attenzione
ai valori che vivono -non scritti- in un angolo del
Lyceum Dicembre 2009
165
Itinerari
nostro cuore. Ed educare i giovani, spesso disviati
da disvaslori e disabituati al segreto del mondo,
a capire la bellezza delle cose incantevoli. Ma a
sapere anche al tempo stesso, con struggente
nostalgia, che esse, appena scoperte, svaniscono,
durando solo un respiro di vento.
Perciò il nostro lavoro, configurandosi come
un antico-nuovo musical, punta anche sulla musica, sul canto e sulla danza. La cosa più dolce al
mondo, le note musicali, nel nascere già fuggono
166
e trascorrono: esse, eterei soffi e aliti sommessi,
durano solo quanto un battito del cuore. Di contro alla fragilità delle cose belle qualcosa di forte
si accampa (e i nostri giovani attori lo grideranno
forte): la speranza, parola di vento ma anche di
fuoco. E noi la cantiamo. Perché, nonostante il
dolore e l’errore, speriamo. Speriamo, soffriamo
e tuttavia cantiamo.
Franco Salerno
Fulvio Montuoro
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