International RIVISTA TELEMATICA QUADRIMESTRALE - ANNO XXX NUOVA SERIE - N. 89 –MAGGIO-AGOSTO 2016 This Review is submitted to international peer review ISSN:1121-6530 1 Direzione Giovanni Invitto (Direttore, [email protected]) Daniela De Leo (Co-direttore - [email protected]) Comitato di Redazione Angela Ales Bello - Università Lateranense; Angelo Bruno Università del Salento; Pio Colonnello - Università della Calabria, Daniela De Leo - Università del Salento; Antonio Delogu -Università di Sassari; Marisa Forcina - Università del Salento; Elena Laurenzi, Università del Salento; Aniello Montano -Università di Salerno; Paola Ricci Sindoni - Università di Messina. 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Staff di redazione Daniela De Leo (responsabile); Siegrid Agostini, Lucia De Pascalis; Maria Teresa Giampaolo. 2 Sede Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Studi Umanistici, Università del Salento – Via M. Stampacchia – 73100 Lecce. Periodico iscritto al n. 389/1986 del Registro della Stampa, Tribunale di Lecce. Segni e comprensione International Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, oggi Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma, diretto da Angela Ales Bello. La versione elettronica della rivista Segni e Comprensione è disponibile ai seguenti indirizzi: http://siba-ese.unisalento.it/index.php/segnicompr http: //www.segniecomprensione.it http://dipfil.unisalento.it/ http://www.mannieditori.it/rivista/segni-e-comprensione (1987-2009)” NOTE PER GLI AUTORI I testi vanno inviati alla Direzione, indirizzati alla seguente e-mail: [email protected] e per conoscenza a [email protected] I testi, in forma anonima, verranno esaminati da due referees, esterni al Comitato Direttivo e competenti nelle diverse tematiche trattate dai contributi. Questi forniranno al Comitato Direttivo gli elementi necessari per valutare la correttezza e l’utilità, segnalando la necessità di modifiche o integrazioni per migliorarne le caratteristiche o evidenziando gli aspetti che, se non correttamente modificati, ne potrebbero impedire la pubblicazione. 3 News di Redazione L'Anvur ha classificato la Rivista Segni e Comprensioni come Rivista Scientifica nell'Area 11 4 INDICE Editoriale PERCHE’ PERDONARE Daniela De Leo 7 Saggi “CHIEDERE PERDONO” IL PRIMO DOVERE DEL MEDICO Luisella Battaglia 13 COLPA, PENTIMENTO, PERDONO UNA INTRODUZIONE ETICO - RELIGIOSA Paola Ricci Sindoni 36 Note PERDONO DI SÉ E PERDONO IN SÉ NELL’ULTIMO DOSTOEVSKIJ Federica Bergamino 53 “IL Y A LE PARDON”. PICCOLA FENOMENOLOGIA DEL PERDONO, A PARTIRE DA PAUL RICOEUR Annalisa Caputo 75 EN EL AÑO DE LA MISERICORDIA Juan Carlos García Jarama 111 PERDONO E RICONCILIAZIONE: SONO ANCORA CONSIDERATI NECESSARI NEL MONDO CONTEMPORANEO? Augusta Fiore 130 5 LUIGI STURZO E “LA MISERICORDIA”, TEMA DEL GIUBILEO STRAORDINARIO DI PAPA FRANCESCO Salvatore Latora 152 LA MISERICORDIA COME ‘PRINCIPIO PEDAGOGICO’. LA POIESI DI UNA NUOVA FORMA COMUNICATIVA Gaspare Pitarresi 157 PAROLA, RESPONSABILITÀ, PERDONO: UNA PREMESSA FILOSOFICA Romano Romani 177 Resoconti RÉFLEXIONS SU MARCEL CONCHE Santo Arcoleo 180 UNA LINEA INTENSIVA. RIFLESSIONI SU DELEUZE E FOUCAULT A PARTIRE DA L’ORDINE DISCONTINUO DI DEBORAH DE ROSA Claudio D’Aurizio 215 UNA FILOSOFIA “MILITANTE”. TRACCE DI LETTURA SU LA LOTTA PER LA SCIENZA DI GIUSEPPE SEMERARI Rossana de Gennaro 231 6 Daniela De Leo Nel discorso filosofico internazionale contemporaneo, anche prima dell’avvento di Papa Francesco, che ha dato a questo tema, soprattutto con l’indizione del Giubileo della Misericordia, un impulso formidabile, il tema del perdono ha sempre avuto una rilevanza fondamentale. Ecco perché con questo numero monografico sul Perdono i saggi ospitati nella nostra Rivista si prefiggono come scopo quello di contribuire a tale dibattito. L’intento è di “attrezzare” il lettore perché possa rintracciare le potenzialità e le possibilità di rielaborazione semantica che lo stesso termine “perdono” dischuide. Punto di partenza la Lettera Apostolica redatta a conclusione del Giubileo straordinario della Misericordia: “E tutti uscirono di scena. Soli restarono Lui e lei; restò il Creatore e la creatura. Restò la Miseria e la Misericordia, lei consapevole del suo reato e Lui che ne rimetteva il peccato” queste parole del commento di Sant’Agostino al Vangelo di Giovanni, rappresentano l’icona di quanto celebrato nell’Anno Santo. Perché partire da quell’episodio per spiegare il senso del perdono, e soprattutto perché il perdono può trovare un senso in questo incontro tra l’adultera e il Signore? EDITORIALE L’APERTURA DEL PERDONO 7 Una donna e Gesù si sono incontrati. Lei, adultera e, secondo la Legge, giudicata passibile di lapidazione; Lui, che con la sua predicazione e il dono totale di sé, che lo porterà alla croce, ha riportato la legge mosaica al suo genuino intento originario. Al centro non c’è la legge e la giustizia legale, ma l’amore di Dio, che sa leggere nel cuore di ogni persona, per comprenderne il desiderio più nascosto, e che deve avere il primato su tutto. In questo racconto evangelico, tuttavia, non si incontrano il peccato e il giudizio in astratto, ma una peccatrice e il Salvatore. Gesù ha guardato negli occhi quella donna e ha letto nel suo cuore: vi ha trovato il desiderio di essere capita, perdonata e liberata. La miseria del peccato è stata rivestita dalla misericordia dell’amore. Nessun giudizio da parte di Gesù che non fosse segnato dalla pietà e dalla compassione per la condizione della peccatrice. A chi voleva giudicarla e condannarla a morte, Gesù risponde con un lungo silenzio, che vuole lasciar emergere la voce di Dio nelle coscienze, sia della donna sia dei suoi accusatori, i quali lasciano cadere le pietre dalle mani e se ne vanno ad uno ad uno (cfr. Gv 8,9). E dopo quel silenzio, Gesù dice: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (vv. 10-11). In questo modo la aiuta a guardare al futuro con speranza e ad essere pronta a rimettere in moto la sua vita; d’ora in avanti, se lo vorrà, potrà “camminare nella carità” (cfr. Ef. 5,2). Una volta che si è rivestiti della misericordia, anche se permane la condizione di debolezza per il peccato, essa è sovrastata dall’amore che permette di guardare oltre e vivere diversamente. Il perdono diventa sigillo tra i due 8 protagonisti, si proietta nel futuro di un progetto di vita diverso, ma ha anche una potenzialità celata: perdonare per riconoscersi misericordiosi. Perdere la dimensione storico-oggettiva del giudicare per assumere quella storico-attuativa del mettersi in ascolto prima in se stessi e poi degli altri. “Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! Siate invece benevoli misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo” (Ef 4:31-32). La dimensione del perdono prende forma: è uno spazio in cui c’è un incontro profondo tra i due protagonisti, una intesa in cui ci si sente accolti, accettati, non un semplice “far finta” che ciò non sia mai accaduto, ma riconoscere che ciò che è accaduto deve essere distinto. Il perdono occupa uno spazio, ma anche un tempo. Non è però il tempo del presente, dell’ora in cui si riconosce l’errore e si dona il perdono, ma il tempo del futuro. Sì, il perdono è da collocarsi nel futuro. L’atto del perdonare proietta entrambi i protagonisti – la peccatrice e il Salvatore - in una dimensione futura. Ciò che è ora stato perdonato è diviso da ciò che è stato ed è direzionato nel futuro, in un vivere diversamente da prima. L’essenza del perdono consiste nel restituire la capacità di agire a colui che rischierebbe di restare inchiodato all’azione compiuta, se non gli si offrisse la possibilità di diventare qualcosa di diverso da ciò che ha fatto. Nel perdono c’è l’irriducibilità di ognuno ai suoi fallimenti. Perdonare infatti non vuol dire solo ricostruire una relazione interrotta in seguito a un’offesa: si tratta di riaprire per l’altro le relazioni di vita. 9 “Il perdono instaura un’era novella, istituisce nuovi rapporti, inaugura una vita nova. La notte della colpa, nel graziato, presagisce una nuovissima aurora; l’inverno del rancore in colui che grazia, annuncia una nuovissima primavera”1. Per conoscere il perdono occorre, dunque, sperimentarlo. Il provare misericordia, cioè quel sentimento di pietà e di comprensione, spinge al perdono. La misericordia spinge verso il perdono e predispone, prepara, fa comprendere ed amare colui che perdoneremo, libera dall’odio e dal rancore. Il perdono inizia da se stessi per potere essere donato, questo il fondamento del termine, di cui il rimando etimologico chiarisce il senso. Perdono dal latino medievale perdonare, comp. di pĕr rafforzativo e donāre. Questo rafforzativo ci fa comprendere che il termine perdono non rimanda ad un semplice condonare – rimettere i peccati, ma ad un processo di “sentire se stessi”, come attanti del donare incondizionatamente. Il perdono infatti non è un semplice “fare pace”, un “non rispondere alle offese”, ma è un atto volontario incondizionato e gratuito: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23:33). Perdonare fino a “settanta volte sette” (Mt 18:21-22) risulta così educativo per un formarsi etico. Il perdono si applica a ciò che deve essere perdonato, non scusato, si può dunque occupare solo di ciò che va oltre la semplice scusa, perché non si cura di giustificarsi dato che non può fornire ragioni a suo favore. Esso 1 V. Jankélévitch, Le pardon, Aubier - Montaigne, Paris 1967, trad. it di L. Aurigemma, Il perdono, I.P.L., Milano 1968, p. 215 10 perdona a chiunque, all’uomo in quanto uomo non secondo le sue particolari determinazioni. Il perdono, come l’amore, “perdona qualunque cosa indistintamente, così come perdona a chiunque; perdona tutto a tutti e non si attarda a far distinzioni fra le colpe gravi e le colpe leggere”2 . Si è capaci di perdonare, se si è stati perdonati, cioè si è in grado di comprendere cosa sia il perdono solo nella misura in cui abbiamo una certa esperienza del perdono, ricevuto ed esercitato nella realtà quotidiana. Perdonare non è un semplice saldare un debito, ma ricostruire sulle rovine di una richiesta. Infatti il perdono si costruisce sul dialogo tra colui che chiede il perdono e colui che risponde a tale richiesta. Dunque il perdono aiuta a ricostruire, in quanto aiuta colui al quale si perdona a comprendere se stesso, ad accettarsi, a rinunciare alle proprie rivendicazioni relative all’esaltazione e all’umiliazione. Ma tale cammino, lo scandire di tali tappe, è un perdere qualcosa, è un cambiare. Un guardare con occhi diversi l’oggettività dell’accaduto, non orientarsi verso la colpa, ma scorgere l’altro come altro da se, entrare nel conflitto delle interpretazioni, per riemergere con una ermeneutica della compassione: dare alla peccatrice la possibilità di entrare nella dimensione dell’essere salvata. È questa l’apertura che la riflessione diversificata e articolata nel presente volume offre al lettore: perdonare è un per -donare, cioè sperimentare il donare se stessi quale modello per interrogare gli eventi. 2 Ivi., p. 141 11 Si perdona l’offesa non nel momento in cui viene impressa sulla propria carne la cicatrice dell’offesa ricevuta e grava come un peso, ma quando si avverte la leggerezza del proprio essere, è questo il vivere diversamente da prima, quell’essere misericordiati che crea il circolo salvifico del perdono, misericordiati per misericordiare. 12 SAGGI “CHIEDERE PERDONO” IL PRIMO DOVERE DEL MEDICO Luisella Battaglia “Il medico incline alla saggezza è simile a un dio”. Ippocrate 13 In una delle scene più intense ed enigmatiche de Il posto delle fragole (1957), il capolavoro di Ingmar Bergman, il protagonista Isak Borg, un grande medico a fine carriera, sogna di rifare l’esame di stato per l’abilitazione alla professione. Gli viene chiesto qual è il primo dovere del medico ma lui non sa rispondere. Eppure, insistono i commissari, è semplice: “il primo dovere del medico è chiedere perdono”. Mi sono da sempre interrogata su questa risposta ricchissima di suggestioni di cui coglievo, insieme, il mistero e la profondità. Che cosa intendeva dire Bergman? E a quali riflessioni può introdurci oggi questa risposta che, al di là della vicenda umana del protagonista, apre a interrogativi sulla natura stessa della professione medica? Certo, il tema del perdono è profondamente intrecciato alla storia personale di Isak Borg, ma quel “dovere” assume una risonanza speciale per il suo essere medico e anticipa profeticamente molte delle questioni che agitano il dibattito contemporaneo. La nascita della bioetica negli anni settanta ha posto, infatti, al centro della discussione il grande tema della crisi della medicina occidentale del nostro secolo, una medicina che punta sempre più sulla tecnologia, sulla perfezione della diagnosi e sempre meno sul rapporto tra medico e paziente. Tale crisi sembra attribuibile in parte ai medici, sempre più burocratizzati, e in parte alle esigenze di un’organizzazione che spinge ad aumentare la loro produttività, in nome dell’economia e dell’efficienza. Siamo in presenza di un sistema che non attribuisce più una valenza positiva al tempo trascorso con il paziente, tempo che, al contrario, viene associato al concetto di perdita invece di essere considerato un investimento e valutato come una parte importante della stessa terapia. Per studiare questo fenomeno può essere utile partire da una sia pur sommaria riflessione sulla natura stessa della medicina, una riflessione, appunto, a cui il film ci invita, ricordandoci che, prima di essere un sapere, la medicina è innanzitutto un rapporto che si instaura tra due persone: colui che cura e colui che è curato. Originariamente la medicina è dunque un dialogo, una reciprocità che non può stabilirsi che nel colloquio singolare della relazione tra due soggetti. Il medico e filosofo Georges Canguilhem sottolinea lungamente nelle sue opere il significato e l’importanza di tale singolarità. 14 Il colloquio è singolare – scrive – proprio perché individualizzato, tale da ricominciare ogni volta e quindi non classificabile in quanto relazione tra due individui assolutamente unici1. È proprio sul finire degli anni 50 che comincia a profilarsi una crisi della medicina che si manifesta soprattutto nei suoi modi d’essere relazionali con la società, la cultura, le istituzioni, i pazienti. Un film come Il posto delle fragole lo testimonia esemplarmente mostrando come il medico debba ormai fare i conti con un approccio riduzionistico che lo induce a vedere nel paziente non tanto una persona nella sua integralità, quanto piuttosto una somma di parti o di organi. Da qui il pericolo di un progressivo impoverimento della relazione terapeutica che rischia di approdare – come ha osservato Giorgio Cosmacini - ad una sorta di “nichilismo curativo”, caratterizzato dall’assenza di ascolto e di dialogo e da una generale carenza del ‘prendersi cura’2. Emblematica è la figura del protagonista, un medico di chiara fama e illustre ricercatore che appare tuttavia incapace di esercitare l’ippocratica ars curandi e, soprattutto, è dimentico dell’importanza del com-patire, del sentire come propria la sofferenza dell’altro. Ripercorriamo brevemente la trama del film. In una sorta di presentazione, Isak Borg spiega le ragioni del suo progressivo isolamento dalla vita sociale attraverso una constatazione assai amara: “i nostri rapporti con il prossimo si limitano, per la maggior parte, al pettegolezzo 1 G.Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998. G.Cosmacini, La qualità del tuo medico. Per una filosofia della medicina, Laterza, Roma-Bari1995. 2 15 e a una sterile critica del suo comportamento. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni. Ho dedicato la mia esistenza al lavoro e di ciò non mi rammarico affatto. Incominciai per guadagnarmi il pane quotidiano e finii con una profonda, deferente passione per la scienza”. Dopo aver descritto la sua famiglia - la madre vecchissima chiusa nei suoi ricordi, la moglie non amata e non rimpianta, morta da diversi anni, il figlio medico freddo e distante, la giovane nuora che soffre di un rapporto tormentato col marito - sente il bisogno di fornire un’ulteriore informazione: “dovrei aggiungere che sono un vecchio cocciuto e pedante. Questo fatto rende sovente la vita difficile sia a me che alle persone che mi stanno vicine. Mi chiamo Isak Borg e ho 78 anni. Domani nella cattedrale di Lund si celebrerà il mio giubileo professionale”. Siamo dinanzi al lucido autoritratto di un professionista stimato che tuttavia, dietro la facciata di bonarietà, di modi gentili e formalmente corretti, si rivelerà gelido, egoista, sordo ai bisogni e ai sentimenti degli altri, oppresso da pensieri angosciosi e oscuri presagi. Anche la mattina della partenza per Lund, Borg è scosso da un sogno inquietante. Si trova in una città sconosciuta dove gli orologi pubblici sono privi di lancette e avvengono episodi spaventosi: un uomo senza volto si accascia improvvisamente a terra, un carro funebre si schianta contro un lampione facendo cadere una bara da cui esce una mano che lo afferra, la mano di un morto in cui riconosce sé stesso. L’incubo evoca chiaramente un presagio di morte, quella morte non solo fisica ma soprattutto interiore da cui Borg è terrorizzato. Il viaggio in macchina da Stoccolma a Lund in compagnia 16 della nuora, attraverso deviazioni non previste del percorso verso quei luoghi della giovinezza di cui il “posto delle fragole” è il magico simbolo, sarà l’occasione di rivivere ricordi penosi e memorie dolorose che daranno, tuttavia, origine ad un radicale ripensamento della propria esistenza. Cammino, dunque, di conversione e di cambiamento, tragitto a ritroso nel tempo ma, insieme, viaggio all’interno di sé stesso per ritrovare antiche radici, scoprire insanabili contraddizioni, confessare tragici errori. Particolarmente significativa, come si è detto, è la sequenza dell’esame, il momento rituale che – come sottolinea James Hillman - mette alla prova non solo le nostre capacità e le nostre conoscenze ma anche la nostra vocazione. “Il mio daimon vuole davvero la strada che ho scelto? La mia anima è davvero coinvolta?”3. Se il riuscire bene in un esame può rappresentare una conferma, una bocciatura può essere il modo in cui il daimon ci fa sapere che abbiamo preso la direzione sbagliata. È appunto ciò che si chiede angosciosamente Isak Borg, dal momento che l’esame sembra rivelare in modo clamoroso la sua incompetenza. Batteriologo di fama, non risulta in grado di riconoscere i batteri al microscopio, dichiara morta una persona che invece è viva, e, infine, non sa rispondere alla domanda cruciale relativa al suo dovere professionale di medico. Il giudizio finale non solo sarà negativo ma verrà gravato da accuse di indifferenza, di incomprensione e di insensibilità che comporteranno un verdetto inappellabile: la condanna alla solitudine. Attraverso un continuo gioco di rimandi, per cui 3 J. Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano 1997, p.138. 17 l’esame di stato si trasforma in un vero e proprio giudizio che provocherà, a sua volta, un ineludibile esame di coscienza, il “chiedere perdono” riguarderà ormai non soltanto la sua vita professionale ma coinvolgerà la sua intera esistenza. A proposito dei suoi sogni angosciosi, Isak confesserà infatti: “è come se cercassi di dire qualcosa a me stesso, qualcosa che non voglio udire quando sono sveglio. Quel ‘qualcosa’ è che sono morto, pur essendo vivo”. La confessione allude chiaramente alla morte dei sentimenti, alla freddezza glaciale che ha improntato i suoi rapporti con gli altri e che ha anche comportato l’oblio del nucleo etico e della dimensione antropologica della sua professione. Viene in tal modo prefigurata nel film una situazione che stiamo oggi vivendo. La medicina scientifica ha compiuto straordinari progressi: tecniche sempre più sofisticate consentono al malato di vedersi in tre dimensioni, il medico lo può curare a distanza grazie alla telemedicina, il chirurgo può operare senza toccare direttamente il malato. Progressi innegabili che celano tuttavia un pericolo, quello di vedere l’individuo oltrepassato dal sovra-individuale, ignorato nella sua singolarità dalle esigenze classificatorie. Che resta allora della relazione originaria, di quel colloquio descritto fin dall’antichità da Ippocrate e dai suoi discepoli dell’isola di Kos? Il malato è solo un “caso”? Sarà curato secondo le norme ottenute attraverso la somma di casi comparabili? Le conferenze di consenso rappresentano, lo sappiamo, un tentativo di universalizzazione delle conoscenze mediche al fine di una cura sempre più efficace. Un’impresa di grande rilievo ma – e qui si ripropone la domanda – quanto 18 compatibile con quell’ideale medico ippocratico dell’accompagnamento individuale e individuato di ogni malato, con la relazione definita come colloquio singolare? È sempre Canguilhem a ricordarci che la definizione della malattia richiede, come punto di partenza, la nozione di essere individuale. Si tratta di un’affermazione ancora valida? Qual è il posto del malato nella malattia, in una medicina sempre più spinta verso l’universalizzazione e chiamata a divenire una scienza dell’oggetto umano? La medicina della persona Ritorniamo a Isak Borg. Quali sono i peccati che deve farsi perdonare? Si tratta solo degli errori inevitabili commessi nel corso della sua carriera? A questo riguardo, occorre sottolineare che Borg è stato, almeno all’inizio della professione, un medico molto apprezzato dai suoi pazienti, come dimostra una scena significativa del film in cui una coppia di benzinai rifiuta recisamente di essere pagata per il rifornimento della benzina in nome della perenne gratitudine (“noi non dimentichiamo!”) che nutrono per quello che fu il loro medico condotto. Ed ecco il primo momento di rammarico del protagonista: aver abbandonato la professione per dedicarsi alla ricerca: “Non avrei dovuto allontanarmi da qui”. Non è casuale, a ben vedere, la scelta della sua specializzazione - la batteriologia –, una scelta che sottolinea ulteriormente il suo distacco, il guardare la realtà attraverso uno strumento, il microscopio, che ha accentuato il suo 19 ‘sguardo clinico’, non certo empatico, contribuendo a rafforzare il suo isolamento dagli altri. A lui, in quanto specialista, non sembra interessare, dal punto di vista professionale, la persona intera in cui si imbatte e tanto meno il suo vissuto, cioè il modo in cui vive il suo rapporto col mondo e la malattia. Il suo interesse di “medico nell’età della tecnica” – per riprendere il titolo di un celebre libro di Karl Jaspers – si focalizza ormai solo sulla specifica parte malata del corpo. Per questo, dinanzi alla parcellizzazione specialistica delle competenze sanitarie, il malato “si vede di fronte a medici nessuno dei quali è il suo medico”4. Ma perché si afferma quello ‘sguardo’ che avrà tanta importanza nella storia della medicina? In Nascita della clinica Michel Foucault tratteggia magistralmente il cammino compiuto dalla medicina moderna, dalla metà del XVIII secolo, concentrandosi sul momento – la rivoluzione francese – in cui essa si distacca dalla metafisica: si sviluppa lo “sguardo clinico” e l’ospedale, inteso come ““cittadella fortificata della salute”“, consente di collocare il fatto patologico in una serie, permettendone la classificazione5. Lo sguardo clinico perfetto, che appare come lo sforzo della razionalizzazione di un’intuizione, corrisponde per Foucault al sogno di una struttura aritmetica del linguaggio medico legato al mito di un sapere oggettivo che vuole liberarsi da una soggettività – quella appunto del colloquio singolare tra due esseri umani – ritenuta nociva alla conoscenza. Si intende, pertanto, studiare direttamente quel corpo umano che diviene a tutti gli 4 5 K. Jaspers, Il medico nell’età della tecnica, Cortina, Milano 1991, p. 51. M. Foucault, La nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969. 20 effetti l’oggetto del sapere medico. In tal modo viene messo in evidenza quello che può considerarsi lo statuto epistemologico della medicina moderna: l’affermazione di una verità come adeguazione (vedere/sapere) che costituirà il fondamento del cosiddetto “paradigma biologico”. Con esso ci si propone di costituire un sapere oggettivo del corpo nel quadro di una medicina intesa come scienza esatta: una visione ancora pesantemente positivistica, secondo la quale non vi sarebbe sapere medico senza l’oggettivazione della malattia e del malato. Ciò che conta è la precisione matematica dei dati di laboratorio, piuttosto che l’intuizione e l’interpretazione dei segni clinici, perché intuizione e interpretazione appartengono al campo delle informazioni che vengono ritenute aleatorie e inattendibili. Il rischio, tuttavia, è di “sradicare” il soggetto, di non rendersi conto delle difficoltà della clinica, della diagnostica e della presa in carico terapeutica, in nome di una medicina troppo sbilanciata sul versante delle scienze naturali, incapace di integrare il sapere che deriva dalle discipline umanistiche. È questo fondamentalmente il modello cui si ispira Isak Borg che agisce come puro tecnico, senza rischiare alcun coinvolgimento emotivo, rifugiandosi nel laboratorio dove spirito e corpo possono essere separati con rassicurante nettezza. Il suo è un blocco affettivo, una patologia dei sentimenti e della comunicazione. Al di là degli errori di distorsione prodotti dallo ‘sguardo clinico’, potremmo forse suggerire che la richiesta di perdono implichi anche l’ammissione di non sapere, e quindi la confessione socratica della propria ignoranza? In un testo dedicato specificamente all’importanza della 21 formazione etica in medicina, cioè Manuale di etica per il giovane medico, vengono sintetizzate efficacemente le domande che un medico dovrebbe porsi per entrare nel territorio dell’etica: “Sto facendo la cosa giusta? Mi sono comportato onestamente? Ho calpestato un diritto? Sto difendendo un mio interesse? Ho procurato una sofferenza ingiustificata? Cosa significa rispettare l’autonomia del paziente? Quanta parte di verità dovrei rivelare?” Secondo il manuale ci sono una serie di peccati per cui il medico dovrebbe chiedere perdono. Innanzitutto “per la presunzione comune a molti di noi medici, forse alla maggior parte, di credere di poter davvero esaudire la domanda di ascolto e di attenzione insita in ogni relazione di cura. O, ancora, per la trascuratezza e la superficialità con cui abbiamo soppesato un’espressione insopportabile, ascoltato una frase spiazzante, liquidato un caso sconveniente. O, infine, per il torto di non aver mostrato lo sguardo inconfondibile di chi è pronto a vegliare su chi soffre come se fosse un figlio proprio. Insomma, per aver dimenticato la nostra umanità”6. Il guaritore ferito Giungiamo qui al punto veramente essenziale: per poter curare le altrui ferite occorrerebbe ammettere la propria vulnerabilità. Affiora inevitabilmente, nell’ethos che dovrebbe informare il comportamento del medico, l’immagine classica del ‘guaritore ferito’ rappresentato, nel 6 U. Veronesi, G. Macellari, Manuale di etica per il giovane medico, F. Angeli, Milano 2016, p. 284. 22 racconto di Apollodoro, dal centauro Chirone. Il quale – si ricorderà - insegna l’arte medica ad Asclepio dopo essere stato ferito da una freccia che gli procura una piaga inguaribile, ciò che gli consentirà di sviluppare una profonda sensibilità e una totale disponibilità a sentire come proprio l’altrui dolore. Ecco l’importanza del compatire, della condivisione della sofferenza7. Ne deriva – lo rileva Gadamer - una configurazione dell’arte medica come intreccio tra competenza tecnica e disponibilità umana, tra sapienza scientifica e saggezza personale8. La relazione tra medico e paziente, di conseguenza, riesce a realizzarsi pienamente quando il medico assume su di sé il limite esistenziale implicito nell’offesa invalidante della malattia. Il dovere del medico di chiedere perdono sembrerebbe, pertanto, riguardare la sua incapacità di accettare e sentire come propria la sofferenza dell’altro. Potremmo aggiungere, seguendo ancora James Hillman, che la cura della malattia è dentro la malattia stessa la quale dovrebbe essere integrata nella vita, indagata problematicamente nei suoi aspetti, al di fuori soprattutto degli schemi causalistici che pretendono di dar conto di come certi eventi avvengano senza indagarne il perché9. Saranno allora le trame perdute, gli orditi complessi che appartengono all’esistenza quotidiana – e complicazioni sentimentali, i drammi individuali, i conflitti interpersonali, le aspettative e le delusioni – che abbiamo “perduto”, perché appunto le abbiamo smarrite lungo il cammino 7 A. Montano, Il guaritore ferito, Bibliopolis, Napoli 2004. H. G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Cortina, Milano 1994, p. 79. 9 J. Hillman, Trame perdute, Cortina, Milano 2001. 8 23 delle spiegazioni deterministiche e delle strategie di sicurezza e di benessere, a ritrovare la loro centralità. L’invito di Hillman è di contrastare quella spinta verso la normalizzazione che ci rassicura per la sua uniformità, che ci fa capire perché siamo malati, perché lo siamo delle stesse malattie e che ci cura con gli stessi farmaci: occorre invece recuperare la diversità, la differenziazione, la molteplicità, riconoscendo che la malattia è una presenza costante e corposa della nostra vita, un segnale della sua precarietà, nella estrema varietà delle sue componenti affettive, emozionali e culturali. Esiste, in altri termini, un “lato d’ombra” anche nelle malattie del corpo che ne rappresenta la componente psicologica, inafferrabile e che appartiene al paziente in modo così peculiare da poter affermare che “la malattia è il paziente stesso”. Ancora una volta, anziché attenersi ai modelli generali di riferimento per conoscere la malattia, è necessario individuare gli scarti che sempre esistono tra i modelli e il singolo malato. La ricostruzione etimologica di alcuni termini chiave si rivela, in questo quadro, particolarmente utile. Hillman ci ricorda, ad esempio, che medicus richiama il verbo latino mederi che significa “prendersi cura” e che la parola greca therapeia ha anch’essa tale significato: “la sua radice Dher vuol dire portare, sostenere [...]. Il terapeuta è uno che porta e presta attenzione nello stesso modo di un servitore”10. Per questo, il medico che passeggia “lungo le sale bianche dell’ospedale, con graziose nozioni della sofferenza, della causalità, della malattia e della morte” 10 Id. Il suicidio e l’anima, Astrolabio, Roma 1999, pp.90-91. 24 dovrebbe ritrovare la strada verso la visione più antica e integrata della sua vocazione, specie in quelle situazioni difficili della medicina moderna che “mostrano come l’aspetto umano sia caduto nell’ombra”. È la stessa predilezione per la patologia scientifica ad allontanarlo dalla comprensione della sofferenza in favore della spiegazione della malattia: la sua attenzione è spostata dal soggetto all’oggetto, da colui che è disturbato al disturbo e alla sua causa. Ma soprattutto diventa immemore della sua stessa vulnerabilità. “I medici” rileva Hillman “sono notoriamente cattivi pazienti forse perché hanno perduto la capacità di essere feriti11. In conclusione: Isak Borg dovrebbe chiedere perdono per non aver riconosciuto la propria vulnerabilità, per non aver saputo essere un “guaritore ferito”? Mi sembra un’ipotesi degna di interesse che potrebbe essere suffragata dalla definizione della medicina proposta da Paul Ricoeur ne Il giudizio medico come “una delle pratiche fondate su una relazione sociale che ha nella sofferenza la motivazione fondamentale e nella speranza, per l’ammalato, di essere aiutato e guarito, il suo telos”.12 Si sottolinea, in tal modo, la struttura relazionale dell’atto terapeutico il cui nucleo etico è costituito dal patto di fiducia che impegna quel paziente e quel medico e che conclude un percorso segnato all’inizio da una notevole asimmetria: da un lato colui che sa e sa fare, dall’altro colui che soffre. 11 12 Ivi, p.103. P. Ricoeur, Il giudizio medico, Morcelliana, Brescia 2006, p.31. 25 La lezione di Ricoeur. Il ‘patto di cura’ L’istituzione di un patto di cura può considerarsi come un vero e proprio cammino che prevede una serie di passi da parte di entrambi i partner per colmare il fossato iniziale. Innanzitutto il paziente “porta al linguaggio” la sua sofferenza, la descrive, ne narra la storia; avanza la sua richiesta di salute e promette di osservare il protocollo del trattamento proposto. A sua volta, il medico compie l’altra metà del cammino, attraverso l’accettazione del malato, la formulazione di una diagnosi, la prescrizione di una terapia, e quindi la promessa di seguire il paziente. Un impegno, come si vede, che vincola entrambe le parti e che fa sì che il patto di cura divenga una sorta di alleanza contro il nemico comune: la malattia. Ma come comunica il medico e come dovrebbe comunicare? Isak Borg agisce da puro tecnico, senza rischiare alcun coinvolgimento emotivo e senza aver vissuto i sentimenti da cui la tecnica prescinde: dolore, impotenza, paura, disperazione. Eppure occorre trovare le parole perché l’alleanza terapeutica possa effettivamente realizzarsi. Con la crisi del modello positivistico è emersa la necessità di ripensare lo stesso vocabolario medico relativo alla malattia. Sentiamo ormai di avere un vocabolario colpevolmente povero per “dire” la sofferenza umana: per questo dovremmo moltiplicare le nostre parole, elaborare concetti per nominare in modo più attendibile l’universo così multiforme, variegato, plurimo del disturbo, della sofferenza, della dissonanza. L’interpretazione del termine malattia, così come ci è fornita dalla scienza medica, non ci soddisfa più giacché la malattia, nella coscienza collettiva, ormai non è solo un problema 26 biochimico, genetico o disfunzionale ma è un concetto che si allarga fino a includere disagio, dolore, malessere. Ne discende una diversa visione della malattia come esperienza di un soggetto in una data situazione e un richiamo alla dimensione soggettiva della sofferenza: si può certo partire dal dolore in generale, elaborando categorie utili a fissarne e a precisarne la fenomenologia ma il rischio è di dimenticare l’individuo che soffre. Da qui una crescente attenzione per le modalità personali, esistenziali, profonde con cui il singolo vive e si rappresenta la sua malattia. Grazie alla medicina antropologica si è fatta strada la consapevolezza dell’insufficienza di un approccio meramente quantitativo alla sofferenza: ciò ha significato il recupero dello spazio della soggettività e il riconoscimento delle dissonanze inevitabili tra le categorie generali dei manuali e i vissuti concreti dei sofferenti. Ma pare soprattutto importante considerare con la massima attenzione tutte quelle auto rappresentazioni cariche di significati simbolici secondo cui il soggetto vive il suo dolore. In tal modo si assiste a quello che potremmo chiamare il passaggio della medicina dalla misurazione alla narrazione13. Ricoeur – che ha posto con forza l’accento sul racconto, incardinandolo nella condizione umana – sottolinea a ragione il profondo significato del “portare al linguaggio” la sofferenza da parte del paziente, come di un momento fondativo del patto di cura, cogliendone la duplice valenza etica e epistemologica. Il dolore che il paziente narra non coincide infatti esattamente con il male che il medico 13 B. Good, Narrare la malattia, Ed. di Comunità, Torino 1999. S. Spinsanti, La medicina vestita di narrazione, Il Pensiero Scientifico edizioni, Roma 2016. 27 cerca. Accanto al semplice recupero espressivo della sofferenza, che rappresenta un primo elemento di elaborazione, esiste infatti un secondo livello nel corso del quale la malattia è ricostruita nella sua genesi e inserita in un contesto individuale che può favorire sia l’anamnesi esistenziale e relazionale del vissuto del paziente, sia la costruzione condivisa con il medico del significato del vissuto della malattia. In tal modo il rapporto viene a configurarsi come un’autentica relazione ermeneutica. Ricoeur non si nasconde tuttavia la fragilità di un patto insidiato fin dall’inizio dal sospetto, il contrario quindi di quella fiducia che è minacciata, dal lato del paziente, dalla diffidenza nei confronti del potere medico e dei suoi possibili abusi e, dal lato del medico, dall’intrusione sia delle scienze biomediche, tendenti all’oggettivazione del corpo umano, sia dalla prospettiva della sanità pubblica, che verte sull’aspetto non più individuale ma collettivo del fenomeno generale della salute. Ancora una volta, Isak Borg sembra testimoniare col suo comportamento questa oggettiva difficoltà, laddove la forte connotazione etica del patto di cura intende appunto contrastarla con il suo riferirsi alla aristotelica phronesis, alla saggezza pratica, che, sul piano medico, si traduce per Ricoeur in tre fondamentali precetti. Vale la pena, ai fini del nostro discorso su “il primo dovere del medico”, seguirne analiticamente il percorso. Innanzitutto, il riconoscimento del carattere singolare della persona del paziente e quindi della situazione di cura: dietro ogni malattia c’è la presenza di un soggetto che struttura la sua sofferenza, facendone un elemento della sua biografia. Solo rispettando questa indicazione si può 28 umanizzare la scienza medica e recuperare il rapporto del medico con un soggetto che è l’uomo nella sua totalità. In secondo luogo, l’indivisibilità della persona, da cui discende il dovere di considerare non una molteplicità di organi e di funzioni ma il malato nella sua integralità, evitando ogni frammentazione e sfasatura tra dimensione biologica, psicologica e sociale. Infine, la stima di sé, e quindi il riconoscimento del proprio valore da parte del paziente stesso, di grande importanza poiché la situazione di cura, specie nell’ospedalizzazione, induce la regressione a comportamenti di dipendenza umilianti per la dignità della persona. È questo, occorre aggiungere, un rischio cui si è particolarmente esposti specie quando si entra nella fase dei trattamenti invasivi o nelle situazioni che si possono definire terminali. In tali casi, tende infatti insidiosamente a ristabilirsi quella condizione di ineguaglianza da cui la costituzione del “patto di cura” presumeva di allontanarsi: occorre pertanto ritornare all’esigenza di base del patto che prevedeva il coinvolgimento e la corresponsabilità di entrambi i partner chiamati a una vera e propria alleanza. Le virtù del medico e la ‘buona cura’ La classica virtù della prudenza, chiamata da Ricoeur “saggezza pratica”, richiede che si precisino esplicitamente gli elementi più determinanti di ogni situazione particolare per contestualizzare nel modo migliore la decisione che verrà presa e le sue 29 giustificazioni etiche. L’esercizio della prudenza cerca infatti di assumere la doppia complessità della medicina, divisa tra istanze generalizzanti e situazioni singolari, dal momento che il passaggio dal tradizionale rapporto a due poli – paziente/medico – a un modello ramificato e composito rischia di trasformare la relazione interpersonale in relazione depersonalizzata, soprattutto se accompagnata a forme crescenti di burocratizzazione della figura del medico. Di conseguenza, l’autonomia, lungi dal ridursi alla sola accezione negativa della “non interferenza”, dovrebbe essere intesa positivamente sia come fonte del dovere del medico di informare il paziente e verificare, in un vero e proprio processo di comunicazione, l’effettiva comprensione dell’informazione data; sia come capacità dello stesso medico di ascolto e comprensione delle richieste del paziente, capacità necessaria per individuare le scelte terapeutiche più opportune e rispettose della persona nella sua interezza. Se l’informazione è lo strumento che consente di eliminare o, quanto meno, di attenuare l’asimmetria conoscitiva caratteristica del rapporto medico-paziente, il momento fondamentale di tale rapporto è tuttavia la comunicazione reale e non fittizia, sostanziale e non formale, che sola può consentire lo scambio di opinioni, ansie, dubbi. Nessuna scelta risulta facile e il medico oggi – in quanto destinatario di un fondamentale dovere di garanzia nei confronti del paziente – dovrebbe diventare sempre più consapevole che alleanza terapeutica significa condividere le gioie e le sofferenze che fanno parte dell’evoluzione della malattia. Decisivo è dunque il momento dell’ascolto in cui il medico è impegnato a 30 recepire i bisogni, le aspirazioni e i valori della persona che ha di fronte al fine di umanizzare il trattamento sanitario e individuare la soluzione ottimale per quel soggetto.Sembra riaffiorare qui il tema classico – delineato da Seneca – della philíaiatriké, da intendersi come relazione in cui la reciprocità diviene reciproco riconoscimento di cui entrambe le parti beneficiano. Ritorniamo qui al punto essenziale del patto di cura che vede il ‘consenso informato’ come fase finale di un processo nato da un rapporto di comunicazione empatica tra medico e paziente e richiama la capacità del primo di comprendere i tempi di cui il malato ha bisogno per assimilare la diagnosi e, soprattutto, di individuarne i meccanismi personali di difesa e di adattamento al fine di intenderne la reale volontà. Il ‘chiedere perdono ‘come primo dovere del medico coinvolge manifestamente livelli ulteriori e più complessi di responsabilità che rinviano al profondo significato del patto di cura. Parlare di relazione di fiducia significa affrontare un tema assai rilevante per la riflessione bioetica: quello dell’educazione del medico e degli operatori sanitari. Non ci si può illudere infatti che sia sufficiente definire alcune regole di comportamento o fissare alcuni obblighi cui ottemperare, giacché si tratta anche di acquisire capacità e pratiche di condotta in certo modo esemplari. Educare, dunque, a sviluppare una disponibilità all’ascolto, a ricercare la migliore comprensione dell’altro: ecco riemergere la virtù umanistica del prendersi cura. Questo progetto si fonda su una concezione della bioetica come pedagogia “allargata” e, quindi, come formazione 31 permanente di professionisti della salute, responsabili e consapevoli dei propri compiti ma anche dei propri limiti. Si chiarisce, dunque, come nel concetto di umanizzazione della medicina vi sia la volontà di contrastare talune derive della cosiddetta medicina tecnologica che hanno portato, coi progressi tecnico-scientifici, a una crescente professionalizzazione, ma hanno altresì condotto a una progressiva perdita d’importanza, nella prassi medica, delle virtù altruistiche. La salute e la ‘buona vita’ Ancora una volta, Il posto delle fragole mi sembra ne offra una significativa testimonianza, in particolare mostrando come, nel comportamento pur formalmente ineccepibile del protagonista, attitudini virtuose quali l’ospitalità, la filantropia, la simpatia, che per secoli avevano modellato l’atteggiamento terapeutico, tendano man mano a scomparire dalla sfera morale della cura della salute. Da qui l’invito di Ricoeur di ritrovare il segreto di una buona cura, alla luce del fatto che l’idea stessa di salute è andata evolvendosi, riproponendo il significato aristotelico della buona vita. Il bene possibile, in una rinnovata concezione del benessere, è infatti tutto ciò che, a partire dalle capacità e dalle opportunità materialmente offerte, è in grado di situare la salute all’interno di un progetto di autorealizzazione della persona. Quello che è in gioco è, dunque, il concetto stesso di salute, non separabile per la 32 sua intrinseca complessità dai nostri pensieri più profondi sui rapporti tra la vita e la morte, la nascita e la sofferenza, il sé e l’altro. È a questo livello che Ricoeur ritiene possibile inscrivere l’idea di salute nel quadro di una riflessione sulla buona vita. La salute è la modalità propria del vivere bene nei limiti che la sofferenza assegna alla riflessione morale [...]. Il desiderio di salute è la figura che, sotto il giogo della sofferenza, riveste l’auspicio di vivere bene”14. Riprendendo temi sviluppati in Sé come un altro, Ricoeur individua nell’etica, distinta dalla morale, la dimensione della vita pratica cui è propria la tensione verso l’autorealizzazione presente in ogni essere umano.15 Mentre la morale rappresenta il momento deontologico della norma, l’etica si caratterizza in senso teleologico per la presenza del telos della buona vita: “un orizzonte popolato dai nostri progetti di vita, le nostre anticipazioni della felicità, le nostre utopie, in breve tutte le figure mobili di ciò che consideriamo segni di una vita compiuta”.16 La deontologia è certo essenziale nel suo riferirsi a valori e a norme di carattere formale che mirano a temperare l’inevitabile relazionalità asimmetrica tra medico e paziente ma – come ci mostra il film – l’esercizio della professione medica esige un livello di consapevolezza e di responsabilità non del tutto realizzato né realizzabile dal solo codice comportamentale. 14 P. Ricoeur, Il giudizio medico, op.cit., p.53. Su una medicina come arte della cura cfr. M. Gensabella-Furnari, a cura di Il paziente, il medico e l’arte della cura, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005. 15 P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993. 16 Id., Etica e morale, Antologia a cura di D. Iervolino, Morcelliana, Brescia 2007, p. 34. 33 Se la richiesta del perdono è il primo dovere del medico, per Isak Borg si tratterrà indubbiamente di un perdono difficile che riguarderà inscindibilmente anche la sua vita personale. È Ricoeur, ancora una volta, a chiarire che ‘difficile’ è quel perdono che, se deve contribuire alla guarigione della memoria ferita, dovrà prendere sul serio il tragico dell’azione, puntare alla radice degli atti e affrontare il rischio del rifiuto17. Per ottenerlo, dagli altri e da sé stesso, Borg dovrà dunque risalire alla fonte dei conflitti e dei torti che hanno caratterizzato drammaticamente la sua vita di medico e di uomo, generando la sua insensibilità e la sua misantropia. Solo così, al termine del cammino, dopo aver avvertito il vuoto della sua esistenza, potrà ritrovare sé stesso e quel che resta della sua umanità instaurando una relazione d’affetto sincero col figlio e colla nuora e avviando un rapporto di autentica simpatia con i giovani compagni di viaggio. È qui, secondo Ricoeur, che il perdono confina con l’oblio attivo, non con l’oblio dei fatti, ma del loro senso per il presente e il futuro, Nel sogno catartico che conclude il film, in opposizione all’incubo iniziale, un paesaggio di straordinaria bellezza, immerso nella quiete e animato dalla presenza dei genitori che, giovani anch’essi, salutano Isak bambino, il protagonista ritrova l’incanto di quel ‘posto delle fragole’ che evoca nostalgicamente la stagione della felicità. I pensieri angosciosi si sono placati ed è possibile ormai, grazie al perdono che, anche semanticamente, è dono di 17 Id. Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna 2004, pp.116-117. 34 riconciliazione, fare pace col proprio destino e prendere serenamente congedo dalla vita. 35 COLPA, PENTIMENTO, PERDONO UNA INTRODUZIONE ETICO - RELIGIOSA Paola Ricci Sindoni Non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonare alcuno, a meno che non abbia dimostrato [6] di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. Primo Levi 36 “Il perdono è forte come il male, ma il male è forte come il perdono”1. Questa lapidaria affermazione di Jankèlèvitch – affermazione dal sapore biblico che rievoca il versetto 6 del capitolo 8 del Cantico del Cantici: Forte come la morte è l’amore- venne pronunciata all’indomani delle polemiche, intorno agli anni Settanta del secolo scorso, relative alla temuta prescrizione dei crimini nazisti. Segno che tale asserzione, ponendo sorprendentemente sullo stesso piano male e perdono, non fa che spalancare l’abisso tra l’assoluto della legge della misericordia e l’assoluto della libertà malvagia. Ed ancora: tra l’inaudita potenza del perdono e le profonde lacerazioni inflitte dal 1 V. Jankélévitch, Perdonare?, La Giuntina, Firenze 1987, p.10. male, indicando – se ce ne fosse ancora bisogno- che oblio e indifferenza, amnesia morale e perdonismo di bassa lega, che continuano a circolare anche negli ambienti intellettualmente impegnati, non possono più consegnare il perdono in pasto alla dialettica, utilizzata come anestesia metafisica, volta a guarire magicamente squarci di male troppo grandi2. Per questo occorre penetrare con realismo e con urgenza dentro il mistero della malvagità umana, perché dentro le mostruose “orge dell’odio” (P. Claudel) si annida il segreto di un possibile riscatto, sempre ambiguo e doloroso, quando non ci si accontenti di soluzioni facili e compensatorie, sia sul piano giuridico che su quello morale3. I “professori del perdono”, come li chiama Jankèlèvitch4, hanno facile gioco e come in una drammatica partita a scacchi spingono le loro pedine argomentative verso la scontata vittoria. Anche alcune frange della teologia, dovendosi muovere con disagio dentro temi tanto inusuali, come quello del “peccato della Chiesa” o del perdono come imperativo teologico5, sembrano nascondersi all’interno di un sottile gioco ad incastro, il cui esito finale sembra doversi aprire ad un ulteriore approfondimento circa il pentimento (più che il perdono) o al massimo alludere ad un perdonare “lieve”, che con insostenibile leggerezza sia capace di attenuare le contraddizioni, di disattivare le tensioni storiche, di 2 Ivi, pp.43 e sgg. Cfr. al riguardo M. G. Carnevale, Il perdono come problema filosofico in “Revista Direitos Humanos e Democracia, 1/2013, pp. 147-169. 4 V. Jankélévitch, Perdonare?,cit., p. 43-44. 5 Si noti in tal senso che neppure nel Nuovo Dizionario di Teologia, a cura di G. Barbaglio e S. Dianich, S. Paolo, Milano 1991, compare la voce: Perdono. 3 37 pretendere la neutralizzazione delle dinamiche del male; insomma una vera panacea da distribuire al bisogno dentro tutte le tragedie del dolore umano. Ben venga, al riguardo, la domanda lancinante, che si esprime nella doppia interrogazione – quale pentimento? E per quale perdono?- che sembra includere a sua volta la temibile questione: per quale male? C’è forse un peccato così grande, come quello rivolto da Giuseppe alla moglie di Putifar: “Come posso io fare un male così grande e peccare contro Dio?” ( Gn 39,9)? C’è dunque un male grande per il quale la richiesta del perdono, che è la grande dismisura, non riesca ad essere coperta da alcuna misura di pentimento? Questa ed altre domande sembrano dover intrecciare tre paradigmi – colpa, pentimento, perdono - che non possono essere semplicemente posti in una immediata consequenzialità sincronica, né tantomeno innestati dentro un movimento logico-dialettico, che li veda come posizione della tesi (colpa), dell’antitesi (il pentimento) ed infine della sintesi (il perdono), quanto ripensati nella loro tragica paradossalità, nella loro costitutiva incompiutezza. Sia che il perdono e il male si esprimano, come vuole Jankèlèvitch, nella loro forza egualitaria che non ammette né vincitori né vinti, come nella notte della lotta di Giacobbe con l’Angelo ( Gn 32, 23-32), sia che si pensi, come nel messaggio evangelico, che questa irriducibile tensione contenga una inesauribile carica di senso, non c’è logos conciliativo che tenga, non c’è alcuna promessa di soluzione indolore, non c’è spazio allo sterile gioco dei 38 concetti, alla mania ossessiva della rimozione e della dimenticanza6. “Perché caricarsi del passato, se dobbiamo guardare il futuro?”, si domandava non senza ironia von Balthasar7 e tale interrogativo ha continuato a circolare con cinico realismo in ambito cattolico, ad esempio durante la preparazione del Giubileo del Duemila ed ancora oggi nell’Anno della Misericordia promulgato da Papa Bergoglio. Quasi fosse possibile resecare la memoria della storia più o meno recente, ancora troppo invasiva, rinverdendo la distinzione comoda tra giudizio storico e giudizio teologico, creando in tal modo il vuoto di un presente che non tollera più la sua insostenibile usura, di un presente senza radici, come nota Hannah Arendt, esposto ai venti del momento e impotente ad esprimere orientamento e senso8. Vale la pena in tal senso entrare nel vivo della questione della colpa, del male commesso, e solo dopo aver tentato di scoperchiarne le sue dinamiche contorte, sarà possibile ripensare alla disciplina, che è insieme personale e comunitaria, del pentimento, per volgerci, infine, sulla paradossale fenomenologia del perdono. 6 Sul tema importanti osservazioni in P. RICOEUR, La memoria, la storia, l’oblio,Cortina, Milano 2003. 7 H. U. Von Balthasar, Verbum caro, Morcelliana, Brescia 1975, p.25. 8 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 83-98. 39 La colpa, evento teologico La colpa – basti pensare alla riflessione di Jaspers su questo tema9- va considerata come una componente delle situazioni-limite, volte a ricondurre la realtà e l’esperienza umana dentro uno specifico evento morale. Segno della contraddizione immanente alla libertà, la colpa diventa la cifra della non corrispondenza tra la dignità umana, espressa nel valore, nella legge giuridica, nella norma morale, e la sua libera attuazione. La colpa, insomma, è la libera degradazione della libertà umana, è la dignità che si dimette da se stessa. Ma, inversamente questa contraddizione può essere risolta allo stesso modo in cui è sorta: la libertà che si contraddice è anche la libertà che, in una prospettiva religiosa, viene illuminata dalla grazia, la sola in grado di sciogliere la contraddizione. L’uomo che si degrada è anche l’uomo che si riabilita; il male che l’uomo commette è anche il male che può riparare; egli infatti è capace del bene e del male, e poi ancora del male e del bene10. In tal modo, però, la realtà della colpa viene compresa dentro un cerchio concluso sul piano umano, diventa cioè un circuito morale chiuso, quasi privato e al cui interno Dio diventa il supremo valore e il garante dell’ordine della razionalità e della libertà, e non più il Dio della rivelazione e della salvezza. Così impostata all’interno dell’orizzonte della moralità, la colpa – o il peccato, come lo si caratterizza nella dimensione religiosa - si legittima nella sua autonomia, si 9 K. Jaspers, Filosofia 2. Chiarificazione dell’esistenza, Mursia, Milano 1978, pp. 220222. 10 R. Blomme, L’uomo peccatore, EDB, Bologna 1971, pp. 16-28. 40 garantisce e si definisce sul piano della coscienza morale e della dignità della persona umana, ed anche l’intervento della “grazia”, orientata sacramentalmente, assume il compito di risanare e di cancellare la trasgressione libera della legge divina11. Divenuta un capitolo della teologia morale, la colpa viene in questo contesto indagata nel suo aspetto formale e in quello materiale, al fine di definirne la natura. Vale la pena comunque allargarne la prospettiva, cogliendo il peccato non soltanto come colpa morale, ma soprattutto come un “evento teologico”, come una realtà di fede. Si commette peccato nella fede e dalla fede, quando fede significhi –in una prospettiva di filosofia della religione – indagine e riflessione sulla rivelazione e sul suo progetto di salvezza. Ciò significa che la colpa stessa è oggetto di rivelazione; è Dio insomma che ci rivela la nostra peccabilità e l’attualità delle nostre colpe, è sempre lui a rivelarne il contenuto, la struttura, la vicenda; è sempre lui ad illuminare il peccatore nel suo “essere – dentro – il male”12. È questa stessa rivelazione, che è anche promessa di salvezza, ad indicare al peccatore che il giudizio emesso sulla colpa esige superamento, pentimento, remissione, e dunque “grazia” del perdono. Tutto questo non è mera constatazione dottrinale o una specie di teoria morale; è azione salvifica di Dio, dono e comunicazione di grazia, riconoscimento, da parte dell’uomo, della possibilità di un superamento; è insomma 11 Cfr le acute pagine di S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, in Opere, La Nova Italia, Firenze 1972. 12 A. Molinaro, voce: Peccato,in Nuovo Dizionario di Teologia, cit., pp. 1107-1119. 41 la vittoria della grazia sul peccato: “Il principe di questo mondo è già stato giudicato” (Gv 16,11). La colpa, perciò, appartiene alla realtà della salvezza, più che al solo ordine della morale; indica infatti che le lacerazioni, che essa compie, non sono originarie, né definitive, ma solo intermedie e provvisorie nel giudizio di Dio, che ad un tempo condanna e perdona ( 1Gv 2,2), condensando la pienezza della rivelazione in Gesù Cristo13. Si legge in 2Cor 5,21: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio”. Come dire che Dio, divenendo altro da sé nel Figlio, divenuto parte finita del Padre, ha voluto indicare, dentro il dramma della lacerazione del male a cui si consegna, la sua risposta definitiva al peccato. Sin dall’origine, esso si qualifica come tragica esperienza della lontananza e dell’abbandono di Dio, ma anche si comprende in quanto pienamente assunto da Gesù Cristo, da lui giudicato e fatto oggetto di redenzione per tutta l’umanità attraverso il suo sacrificio vicario e la richiesta universale di perdono di fronte al Padre. Se il peccato, colto esclusivamente come colpa morale, viene ricondotto al circuito norma – libertà - grazia, solo quando è riconosciuto come evento teologico, rivelativo e redentivo, può aprirsi ad una dimensione universale e riconoscersi anche come un “fatto” che riguarda e appartiene a tutta la Chiesa. 13 Ivi, p.1114. 42 Nasce da questa consapevolezza quel “soprassalto profetico”14 di Giovanni Paolo II, quando nel novembre 1994 ebbe a sostenere nella lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente che “è giusto che [_] la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell’arco della storia, essi si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di antitestimonianza e di scandalo”(n.33). Questo paragrafo innovativo così continua: “ La Chiesa, pur essendo santa per la sua incorporazione a Cristo, non si stanca di fare penitenza: essa riconosce sempre come propri, davanti a Dio e davanti agli uomini, i figli peccatori” (ivi). Già qualche mese prima, nel giugno, il Pontefice aveva in modo più esplicito sostenuto, di fronte alla sorpresa e alla perplessità di molti cardinali riuniti in Concistoro, che “la Chiesa è certamente santa, come professiamo nel Credo, essa però è anche peccatrice”; ha dunque il compito di riconoscere gli errori commessi nella storia “da uomini suoi e in nome suo”, così da dover attivare una conversione radicale quale unica condizione dell’unione con Dio “sia delle singole persone come anche delle comunità umane e di tutta la Chiesa”15. Pur esistendo, al riguardo, una ricca tradizione, anche solo guardando al Novecento, rivolta ad approfondire sia l’aspetto sociale del peccato, sia la questione relativa al 14 L’espressione è di G. Alberigo, Chiesa santa e peccatrice. Conversione della Chiesa, Bose, Magnago 1997, p.74. 15 Ivi ,p. 71-78. 43 peccato come colpa nella Chiesa o della Chiesa, il problema rimane ancora aperto e nella ricerca teologica esposto ad una serie di interpretazioni diversificate16, quasi che parlare di una Chiesa peccatrice ponesse questioni teologiche irrisolvibili. L’idea prevalente, come sostiene Hans Küng, è quella secondo cui nel corso della storia i peccati, più che inerire costitutivamente alla Chiesa, siano piuttosto da riferire ad alcuni suoi figli17. Di conseguenza sono state viste come necessarie, specie come cammino di preparazione e di purificazione del Giubileo del duemila ed anche quello recente sulla misericordia, le rivisitazioni storico – critiche degli eventi che hanno coinvolto alcuni rappresentanti della Chiesa, insistendo comunque che solo quest’ultimi sono direttamente responsabili delle loro colpe. Opporre resistenza a questa pratica di riconoscimento della colpa comunitaria significa ricadere ancora nella concezione morale del peccato, che ha certamente una dimensione individuale, ma che va colto, come spesso ripete Papa Bergoglio, nella sua valenza rivelativa, quale realtà ecclesiale che esige anche un pentimento comunitario, diffusivo, quello pensato e testimoniato da intere generazioni, quelle narrate dalla Sacra Scrittura, da Genesi sino all’ Apocalisse. Con questo spirito si è di recente celebrato il Giubileo della Misericordia e fra le molte iniziative messe in atto, spicca quella voluta dal Pontefice nel suo viaggio in Svezia, il 31 ottobre 2016, specificatamente rivolto –in occasione dei 500 anni della 16 Cfr. G. Wainwright, Confessione delle colpe e riconciliazione delle Chiese, in “Concilium” 23/1987, pp. 333-345. 17 H. Küng, Riforma della Chiesa e unità dei cristiani, Borla, Torino 1965. 44 riforma di Lutero – a superare la colpa della separazione, fonte di sofferenze e di incomprensioni, attraverso una preghiera corale comune capace di guarire le ferite della storia e della memoria ecclesiale. Nell’intervista rilasciata il 28 ottobre 2016 al gesuita svedese Ulf Jonsson e pubblicata su “Civiltà Cattolica” papa Francesco ribadiva le ragioni di un necessario passaggio dal conflitto alla riconciliazione18 anche tramite quella che ha chiamato “grazia della vergogna”, scaturita dal riconoscimento del proprio peccato individuale e comunitario e ispirata dai versetti presenti in Ezechiele: “ Tu saprai che io sono il Signore, perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto” (Ez 16,6263). 45 Il pentimento, evento personale e sociale “Signore onnipotente – si legge nel libro di Abacuc – Dio di Israele, un’anima angosciata, uno spirito tormentato grida verso di te. Ascolta Signore, abbi pietà, perché abbiamo peccato contro di te” (Abc 3,1-2). Il pentimento, questo grido di dolore lanciato verso Dio, lacera molte pagine della Sacra Scrittura, spezzando in due l’essere della creatura, convocata dal suo Signore a riconoscere con sofferenza e amore la propria colpa. Anche il 18 Cfr. Documento interconfessionale fra cattolici e luterani: Dal conflitto alla www.vatican.va/.../rc_pc_chrstuni_doc_2013_dal-conflitto-allacomunione in comunione_it.html pentimento, al pari del peccato, diventa così fonte di rivelazione di Dio, lento all’ira e grande nella misericordia; attraverso il riconoscimento della propria malattia il credente e con esso tutta la comunità prende atto che la causa vera del proprio male è l’aver smarrito la fiducia nell’Altissimo. E’ dunque “cosa cattiva e amara aver abbandonato il Signore” (Ger 2,19). Solo mediante questa diagnosi precisa sul proprio male, sulla profonda e sofferta consapevolezza delle cause della propria malattia, ci potrà essere per il credente e la sua comunità un principio di guarigione. Certo Israele, si legge sempre nel libro di Geremia, è un malato grave; la sua infedeltà ha radici così profonde da sembrare inguaribile: “Da sempre tu hai infranto il tuo giogo” ( Ger 2,20); “il mio popolo mi ha dimenticato da giorni innumerevoli” (Ger 2,32). Ciò nonostante, evento inaudito scaturito dalla misericordia di Dio, è ancora possibile rileggere con uno sguardo nuovo il proprio passato, non per cancellarlo, ma per vederlo rivisitato dal perdono dell’Altissimo: “ Se vuoi, Israele, tu potrai tornare a me. Se rigetterai i tuoi abomini non dovrai più vagare lontano da me” (Ger 4,1). Se vuoi, Israele, se cioè l’intenzionalità del pentimento, ben più radicale del semplice rincrescimento o del momentaneo rimorso, sarà condotta sino in fondo, verso l’impietosa lettura della propria colpa. Il pentimento assume in tal senso la forma di una forza storica, di una potente interruzione del negativo, di una contestazione rigorosa del diritto del male ad intervenire dentro le vicende umane, della rottura 46 delle connessioni del peccato ed infine della inaudita posizione di un nuovo inizio19. Il pentimento, questo ponte lanciato dall’uomo verso Dio, volto a collegare il pilastro della volontà cattiva con quello della richiesta di perdono, gioca un ruolo centrale anche nel giudaismo postbiblico. Per i rabbini dell’epoca talmudica il pentimento è una realtà che l’Eterno ha creato prima della creazione del mondo, avendo Egli previsto che il mondo senza pentimento non avrebbe potuto sussistere ( b.Pesahim 54a). “È meglio un’ora di pentimento e di buone azioni in questo mondo, che tutta la vita del Mondo Avvenire”, si legge in Pirqè Avot,4,22; questo perché nell’ebraismo da sempre il peccato, di cui ci si deve pentire, è peccato contro Dio, costituendo la rottura con il suo volontà espressa nella Torah20. Come dire che senza la consapevolezza della densità rivelativa del male, non può esserci autentico riscatto, dunque, non esistono ulteriori possibilità di recupero di un nuovo inizio. In tale prospettiva solo il pentimento diviene la condizione necessaria di quel percorso inaudito che è la “conversione”, che non significa un generico cambiamento di rotta, ma un differente riorientamento verso il centro della propria relazione con Dio, dunque una sorta di “ritorno a casa”, come rivela il termine ebraico teshuvah, da Rosenzweig definito come ritorno continuo alla fonte originaria dell’essere21. 19 M. Buber, La fede dei profeti, Morcelliana, Genova 1983, pp.98-125. M. L. Solomon, La teshuvah. Une perspective juive, in “Sidic” XXIX/1, 1996, pp. 2-6. 21 F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 99-118. 20 47 Anche l’insegnamento del rabbi Gesù, ebreo di Nazareth, si muove su questa scia: “ Io sono venuto per chiamare i peccatori alla conversione” (Lc 5,32); ed ancora nel vangelo di Marco: “Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc, 1,15). L’urgenza del pentimento e della conversione non possiede certamente una connotazione moralistica, né un generico appello al ricentramento della fede personale, ma –per così dire- una esigenza messianica, quella di vivere la fedeltà a Dio senza comodi differimenti, ma con l’audacia di chi sa guardare il proprio passato, non solo quello personale, da una differente visuale, così che divenga possibile, anzi necessario, riorientare il proprio tempo verso il futuro. Ridurre la dinamica del pentimento cristiano alla sola ottica individuale è misconoscere la densità dirompente della conversione, il cui percorso consiste nel tener unite insieme sia l’aspetto spirituale, che esige una trasformazione interiore, sia quello etico, volto a mettere in atto azioni concrete verso il prossimo per il ristabilimento della giustizia offesa, sia quello sociale, capace di innervare di tensioni profetiche la complessità dei rapporti economici, politici e culturali in cui si è immersi22. Soprattutto da Giovanni Paolo II sino a papa Bergoglio il pentimento, frutto della conversione, punta in primo luogo a riconoscerne l’impatto sociale, che attivi una responsabilità collettiva nei confronti della purificazione della memoria storica e sia capace di 22 L. Thorson, Dimension communitaire de la repetance dans les liturgies juve et chretienne, in “ Sidic” XXIX/1, 1996, pp. 11-14. 48 riorientare il presente verso una visione complessiva della vita sociale, retta da giustizia, misericordia e da perdono. Il perdono, evento profetico Come il pentimento, anche il perdono esige un nuovo cominciamento, una rotazione del passato verso il futuro mediante una radicale rottura della catena dei risentimenti e dei rimorsi, delle vendette e delle ritorsioni. Se compiuto come necessaria propedeutica al riscatto del male sembra riaprire il campo delle possibilità sinora chiuse e prevedere la ricreazione di un nuovo evento che prima non c’era. Al pari del Creatore, anche chi perdona disinnesca un’azione compiuta nel male, riapre le porte del futuro a chi non ne aveva più, rompe con la feroce concatenazione della storia che però continua a riproporre la ingiusta divisione tra vittime e carnefici. L’ambiguità del perdono, anzi la sua insostenibilità di fronte al crimine “metafisico” di Auschwitz continua a tormentare la coscienza morale dei sopravvissuti, come molte pagine sofferte dei filosofi ebrei contemporanei continuano ad indicarci23. E’ indubbio che all’interno della pratica del perdono vada distinto chi chiede il perdono e chi lo offre, chi immagina implicitamente di cancellare la sua colpa e chi dona il proprio perdono a quanti non lo chiedono nemmeno. Come scioglierne il paradosso se da un lato “certi” crimini appaiono imprescrittibili, dunque indimenticabili, mentre dall’altro qualunque azione 23 Cfr. E. Fackenheim, La presenza di Dio nella storia, Queriniana, Brescia 1077. 49 malvagia sembra esigere la difficile disciplina della liberazione dal male, che solo un altro che perdona può attivare? Si può rispondere con Elie Wiesel, dicendo che c’è perdono e perdono e se ad Auschwitz il perdono è morto, ciò non significa che ogni ebreo credente, la sera di Yom Kippur, non sia obbligato a perdonare gli altri, all’ amico come ad ogni altro uomo, nella misura però che il suo atto cattivo non abbia sopraffatto nel profondo la dignità della persona24. Soltanto in questa circostanza devo perdonarlo solo se è lui a chiedere perdono, riattivando un circuito relazionale all’interno del quale la dismisura del perdono è calibrata sulla dismisura del pentimento. Il perdono insomma non ha il potere di annullare il passato con le sue pratiche violente e con la necessaria richiesta di memoria verso le vittime, ma solo di attivare un nuovo difficile inizio senza il quale la vita personale e sociale risulterebbe inattuabile. E’ quanto ha cercato di dire Primo Levi, nell’Appendice di Se questo è un uomo: “Non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora e in avvenire a perdonare alcuno, a meno che non abbia dimostrato (con i fatti, non con parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso sì, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico e cristiano di perdonare il mio nemico, 25 ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico” . 24 E. Wiesel, Il male e l’esilio, a cura di M. De Saint Cheron, Baldini & Castoldi, Milano 2001, pp. 98-99. 25 P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1984, p.223. 50 La rivelazione cristiana pretende comunque un altro difficile passo, quello che misura la pratica del perdono sotto l’ineliminabile segno della croce26. Va infatti ricordato come la richiesta del perdono sia uscita dal grido del Crocefisso: “ Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”(Lc 23-24)27. La richiesta di perdono e la pratica del perdonare, le due facce di questa rischiosa e complessa dinamica interpersonale, sembrano così rimesse nelle mani di Dio, che certo non annulla né il peso della responsabilità del male né l’esigenza paradossale di dare il perdono. “Perdonatevi scambievolmente: come vi ha perdonato il Signore, così fate voi”, si legge nella lettera paolina ai Colossesi (Col 3,13), che sembra direttamente richiamarsi a quell’esigente attitudine ebraica della “imitazione di Dio”: “Come l’Onnipotente è chiamato pietoso e misericordioso, siate voi pure pietosi e misericordiosi, e donate liberamente a tutti. Come il santo, benedetto Egli sia, è chiamato giusto, siate pure voi giusti; come Egli è chiamato pio, siate voi pure pii” (Sifrè Deut 49;85a). L’imitazione di Dio è dunque la prova che si può e si deve perdonare perché si è stati da sempre perdonati con quella grazia fondativa, scaturita –nella prospettiva cristiana- dall’evento della croce. Quest’ultima non annulla il peccato e la morte, ma li riconverte in una nuova energia, così che il percorso del credente, qualche volta difficile e oscuro dentro il passato della colpa, può essere ancora riorientato verso nuovi inizi. La memoria 26 H. U. Von Balthasar, Il tutto nel frammento, Jaca Book, Milano 1990, pp. 215-287. Si noti la rilettura di questo versetto evangelico fatta da Jankèlèvich: “Padre non perdonare loro, perché sanno quello che fanno” ( op. cit., p.33). 27 51 degli eventi trascorsi non è certo cancellata o lasciata irresponsabilmente alle spalle, ma recuperata nella sua densità rivelativa, la cui forza può provocare un differente e credibile orientamento storico, sia personale che sociale. “Non pensate di non poter essere perdonati”, ha precisato papa Bergoglio nel discorso tenuto ai carcerati il 6 novembre 201628, alla fine del Giubileo della Misericordia, quasi a dire che il grido di Crocefisso “ Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23-24)”, può anche essere ridetto così: “Padre perdona loro e aiutali a saper perdonare, perché da soli non ne sono capaci. Mancano di tutto; consegna loro il segreto della tua misericordia perché il dramma della salvezza non sia stato consumato invano”. 52 28 Discorso di Papa Francesco 6 https://it.zenit.org/articles/category/papa-francesco/ novembre 2016 in: NOTE PERDONO DI SÉ E PERDONO IN SÉ NELL’ULTIMO DOSTOEVSKIJ Federica Bergamino Introduzione È bene che l’essere ci sia? Questa è la domanda metafisica della post-modernità nella lettura del filosofo francese Remi Brague (2012). La bontà dell’essere stesso e quindi la sua generazione oggi sono poste fortemente in discussione. In una società che per tanti versi sembra indifferente alla vita in quanto tale, non a quella mia in particolare, ma alla vita in sé stessa che viene facilmente negata laddove mette a rischio il benessere della mia vita particolare (ivi, p.58), reintrodurre il tema del perdono significa affermare la bontà dell’essere nonostante tutto. Vivere il perdono implica infatti sostenere la bontà dell’essere nonostante la sua finitezza e le sofferenze che comporta, è dire: è bene che tu ed io ci siamo nonostante i nostri limiti e il male che possiamo causare con essi. Perdonare è invero un modo di generare: consiste nel ridare all’altro la sua dignità di persona e smettere di cosificarlo identificandolo con l’offesa che ci ha inferto (Bergamino, 2015); significa permettergli di vivere dentro e fuori di noi come un essere 53 umano che commette errori ma che non si riduce ad essi1. Se questo è vero, se perdonare consiste in una sorta di generazione, in che senso allora si può parlare di perdono di sé? Come può uno generare se stesso? Questo è quanto andremo a esplorare nel presente testo. La scelta metodologica è di affrontare la questione in modo descrittivo osservando il fenomeno del perdono all'interno di una narrazione letteraria. Detta scelta deriva dalla consapevolezza che il processo di perdono si sottrae ai sillogismi così come non è deducibile dalla struttura dell’essere umano. Esistono invero persone che non hanno mai perdonato e osservando le quali si potrebbe dedurre che esso è impossibile per l’uomo, almeno il perdono di certi atti2, ma vi è pure chi ha perdonato atrocità e offese aberranti, come ne testimoniano libri in cui si avvicendano storie di perdono difficili da immaginare se non fossero realmente avvenute (Eileen Borris-Dunchustang, 2010). Le narrazioni pertanto, anche letterarie in quanto esprimono l’esperienza dell’autore, costituiscono l’ambito privilegiato di osservazione di tale realtà perché forniscono la materia prima essenziale senza la quale diventa meramente ipotetico qualunque ragionamento. 1 Come attestano i più recenti studi di psicologia cognitiva le persone e quindi le relazioni esistono all'interno di noi. (Cfr. Michael Tomasello, 1999 e Giovanni Liotti, 2005). 2 Questo sostiene Hannah Arendt rispetto ai crimini dell’olocausto (Hannah Arendt, 1958). Per una discussione di questa e altre posizioni filosofiche sul tema del perdono si rimanda ad Antonio Malo, 2013. 54 Cenni sulla dinamica del perdono Quando ci si accosta a storie di perdono, si entra sempre immediatamente nella questione della violenza subita o effettuata. E la violenza, come ha ben sottolineato René Girard, è un meccanismo mimetico perverso, risultato malato della struttura imitativa dello stesso desiderio umano. La rivalità, spiega Girard (2006, pp.170-176)3, affonda le sue radici nel fatto che l’uomo desidera ciò che un altro desidera. E poiché l’oggetto del desiderio non può essere di entrambi, inizia la lotta da cui nasce l'offesa e che provoca la cosiddetta spirale della violenza. Se l’uomo, infatti, continua ad attingere dal rivale il suo desiderio, l'offesa genera altra offesa, la violenza altra violenza. Solo il perdono può spezzare la spirale mimetica (Girard, 2001, p.153)4. E ciò avviene quando chi è colpito ottiene da un altro l'aiuto per perdonare. Riassumiamo qui le principali costanti antropologiche rilevate nei casi in cui il perdono si realizza: a) la vittima che perdona trova un aiuto a farlo in qualcun altro che introduce in lei un nuovo pensiero o una nuova prospettiva dalla quale leggere la realtà dell’altra persona. b) Rivaluta quindi il proprio comportamento di distanziamento e di odio nei confronti dell’offensore e c) formula un nuovo giudizio sulla situazione con la conseguente decisione di perdonare. Questo percorso, a volte molto lento nel tempo, permette poi alla vittima di percepire la fragilità e debolezza del suo offensore e 3 Qui Girard offre una spiegazione del desiderio mimetico a partire dal testo di Dostoevskij l’Eterno marito (1870). 4 Per lo sviluppo del tema del perdono in Girard come completamento del desiderio mimetico sano si veda Federica Bergamino, 2013. 55 giungere a d) empatizzare con lui (a motivo della fragilità percepita) e quindi a mettersi al suo posto. È a questo punto che accade una sorta di rigenerazione: e) la vittima smette di identificare l’offensore con l’offesa, lo riaccetta come essere umano pari a sé, e in questo modo scioglie il conflitto interiore generando l'altro nella sua dignità di persona e una nuova relazione con lui. Tale relazione è innanzitutto interiore, l'offensore vive all'interno della vittima con l'offesa che le ha arrecato, e quando questa ha trasformato i suoi sentimenti da odio a benevolenza ricostituisce la relazione con lui internamente; in secondo luogo la relazione è potenzialmente atta a mutare anche esteriormente, sempre che non costituisca un pericolo per la vittima e se l’offensore accoglie il perdono (Bergamino, 2015). Di fatto si osservano casi di offensori perdonati che non accolgono il perdono. Non è sufficiente quindi che la vittima perdoni l’offensore perché questi perdoni se stesso; il perdono di sé richiede una indagine differente. Bisogna entrare nella prospettiva del colpevole. Il perdono di Zosima Un autore paradigmatico per addentrarsi nella psicologia del colpevole è Fëdor Dostoevskij. Nella sua opera tuttavia non è facile rinvenire un personaggio che riveli un vero e proprio processo di perdono. Solo nell’ultimo romanzo, I fratelli Karamazov, troviamo cristallizzata tale esperienza. Qui egli narra di due storie significativamente collegate che, per la diversità dei personaggi, possono aiutare nell’indagine che ci interessa. In punto di morte lo starec Zosima, figura di alta statura 56 morale, padre della crescita umana e spirituale di Alekseij, il figlio minore dei Karamazov, racconta ai confratelli alcuni momenti significativi della sua vita. Quando il monaco era ancora un giovane ufficiale, il suo carattere irruente e spavaldo lo condusse a sfidare a duello una persona con la quale cercava da tempo l’occasione di rivalsa. Ciò che faceva bruciare il giovane era di non aver saputo che la donna da lui prescelta fosse già fidanzata con un altro proprio quando lui si illudeva di conquistarla, per trovarla poi felicemente sposata al ritorno da un suo viaggio di alcuni mesi. Ritenendo un affronto questo essere lasciato all’oscuro della situazione, alla prima occasione favorevole si vendica e sfida a duello l’ignaro rivale. La sera, alla vigilia del duello, tornato a casa arrabbiato e sconvolto, si imbatte nel suo attendente e sfoga il malanimo prendendolo a schiaffi in modo brutale. Sulle prime la violenza gratuita del gesto sembra non intaccarlo, ma la mattina successiva, nell’aprire la finestra, la bellezza della natura mattutina lo mette a contatto con il suo stato interiore: “Che significa?" pensai, "Ho nell'anima un senso di infamia e di viltà? Non sarà perché mi accingo a versare sangue? No, non credo sia per quello. Non sarà perché ho paura della morte, ho forse paura di essere ucciso? No, nient'affatto, neppure lontanamente..." Ad un tratto indovinai di che si trattava: i colpi inflitti ad Afanasij! Mi ritornò alla mente la scena della sera prima e fu come se la rivivessi in quel momento: egli era di fronte a me ed io lo colpivo dritto in faccia mentre lui teneva le braccia giù, a testa alta, con gli occhi sbarrati, come sull'attenti, trasaliva ad ogni colpo, ma non osava nemmeno alzare le braccia per proteggersi: ecco fino a che punto si era ridotto un uomo, un uomo che picchia un suo simile! Che crimine! Fu come se un ago appuntito mi trafiggesse da parte a parte l'anima. Rimasi 57 come stordito, mentre quel sole splendeva, le foglioline luccicanti gioivano, e quegli uccellini, gli uccellini di Dio inneggiavano al Signore... Mi coprii il volto con entrambe le mani, crollai sul letto e scoppiai in un pianto dirotto. E allora mi ricordai di mio fratello Markel e di quello che diceva ai servi mentre si trovava in punto di morte: "Miei cari, miei amati, perché mi servite, perché mi amate, mi merito forse io che voi mi serviate?" "E io me lo merito?", quella domanda mi balenò in mente. "E, difatti, che cosa mi rende meritevole che un altro uomo, un uomo come me, fatto a immagine e somiglianza di Dio, mi serva?" Era la prima volta nella vita che quella domanda si insinuava nel mio cervello”. Le parole del fratello Markel continuano a risuonargli dentro: “"Mamma, gocciolina del mio sangue, in verità ciascuno è colpevole davanti a tutti per tutti, solo che gli uomini non lo sanno, ma se lo sapessero oggi stesso sarebbe il paradiso!" "Signore, può essere falso anche questo?" mi domandavo piangendo. "In verità io potrei essere più colpevole di tutti e il peggiore degli uomini del mondo!" E tutto d'un tratto la verità mi si rivelò in piena luce: che cosa mi accingevo a fare? Mi accingevo ad uccidere un uomo buono, intelligente, nobile, completamente innocente nei miei confronti e, privando per sempre sua moglie della felicità, avrei fatto soffrire e ucciso anche lei (Dostoevskij, 2014, pp.395-396). Quando il compagno lo viene a chiamare per andare ad affrontare il duello, una determinazione è entrata nel suo cuore, e prima di avviarsi obbedisce all’intimazione interiore: salii di corsa da solo nel mio appartamento, dritto nello stanzino di Afanasij: "Afanasij", gli dissi, "ieri ti ho colpito due volte sulla faccia, perdonami". Egli trasalì, come spaventato, mentre io mi resi conto che era ancora poco, troppo poco, e così all'improvviso, come mi trovavo, con tanto di alta uniforme, caddi ai suoi piedi e mi prostrai fino a terra davanti a lui: "Perdonami!" gli dissi. Egli rimase sbigottito: "Vostra eccellenza, signore, padrone, ma che cosa... mi merito io forse..." e scoppiò a piangere anche lui come avevo fatto io prima, si 58 coprì il viso con entrambe le mani e si girò verso la finestra, scosso dai singhiozzi; io invece raggiunsi di corsa il mio compagno e saltai in carrozza. "Hai mai visto un vincitore?" gli domandai. "Eccolo qui davanti a te!" Ero così esultante che non feci che ridere e parlare per tutto il tragitto (ivi, p. 396). Giunto sul posto del duello, il primo colpo spettava al rivale: Il suo colpo mi sfiorò appena la guancia e sibilò oltre il mio orecchio. "Grazie a Dio", gridai, "non avete ucciso un essere umano", poi afferrai la mia pistola, mi voltai e la scaraventai in alto, nel bosco. "Quello è il tuo posto", gridai. Mi rivolsi poi al mio avversario: "Egregio signore, perdonate uno stupido giovane come me, che vi ha offeso solo per colpa sua e adesso vi ha costretto a sparargli contro. Sono dieci volte peggiore di voi, anche di più, forse. Riferite questo alla persona che vi è cara più di tutti al mondo" (ivi, p.397). Tutti restano sbigottiti, alcuni lo tacciano di disonore al reggimento; lo stesso avversario si sente preso in giro. Ma questo è il momento che segna la conversione dell’ufficiale: darà le dimissioni perché ha deciso di cambiare vita, entrerà in monastero. Quegli errori che lo hanno portato a essere in punto di morte, paradossalmente lo hanno posto davanti alla vita in un modo rinnovato per riscoprirne tutto il valore. Senza entrare nei molti commenti che si potrebbero apportare al testo, ciò che qui interessa sottolineare è soprattutto il modo in cui Zosima è riuscito a rendersi conto della sua colpa e ri-orientare il suo comportamento. Il giovane è vicino alla morte, il suo livello di attenzione alla vita è quindi particolarmente elevato. Non stupisce pertanto che la contemplazione della bontà della natura 59 mattutina abbia un impatto sulla sua sensibilità e lo porti a percepire il contrasto con il suo stato interiore. Ciò che piuttosto può sorprendere è il passo successivo, ossia come dal suo stato d’animo passi al riconoscimento del male inferto (Afanasij non ha reagito mimeticamente ai suoi colpi) e ritrovi dentro di sé la memoria del fratello con i valori familiari in cui è cresciuto: la pari dignità fra gli uomini, e uno sguardo comprensivo verso la colpa; tutti siamo colpevoli verso tutti, dice Markel. Zosima è come risvegliato all'esistenza, appena scopre un altro modo di concepire la vita e il rapporto con gli altri, lo abbraccia. È la sua conversione. Michail, il visitatore misterioso Nonostante l'immediato sconcerto generale, l’autenticità del gesto del giovane Zosima verrà riconosciuta e l’ufficiale diventerà una sorte di eroe del piccolo mondo che lo circonda. È in questo frangente che appare il secondo personaggio che ci interessa, Michail, il visitatore misterioso. Questi, un signore di mezza età che da tempo frequentava i salotti dove l’ufficiale raccontava la sua storia di perdono e conversione, una sera si presenta a casa sua. L’interesse del visitatore era tutto nel gesto dell’ufficiale: Descrivetemi, se non vi disturba questa mia curiosità, forse, così inopportuna, che cosa avete provato nel momento in cui, durante il duello, vi siete deciso a chiedere perdono: siete in grado di ricordarlo? Non crediate che la mia sia una domanda frivola; al contrario, ponendovi tale domanda perseguo un mio fine segreto che vi rivelerò forse in seguito, se Dio ci concederà di avvicinarci ancora 60 di più". [...] "Voi mi domandate che cosa ho sentito nel momento in cui ho chiesto perdono al mio avversario", gli risposi, "ma è meglio che vi racconti tutto dall'inizio, cosa che non ho ancora fatto con nessuno prima di ora" e gli raccontai tutto ciò che era avvenuto con Afanasij e di come mi fossi prostrato ai suoi piedi. "Da questo potete rendervi conto da solo", conclusi, "che al momento del duello tutto mi è stato più facile giacché il processo aveva già avuto inizio a casa, e, una volta imboccata quella strada, non mi è stato difficile proseguire, anzi, per me è stato fonte di gioia e serenità" (ivi, p.401). Da quella sera il visitatore divenne un assiduo frequentatore della casa dell’ufficiale, voleva sapere di lui e della sua vita, ma non parlava mai di sé. L’ufficiale prese a volergli molto bene, lo considerava un uomo giusto e trascorrevano molte piacevoli serate insieme condividendo idee e sentimenti. Finché a un certo punto il visitatore si confida. "Che cosa avete?" gli domandai. "Vi sentite male?" Si era appena lamentato di avere mal di testa. "Io... sapete... io... ho ucciso una persona". Lo disse con il sorriso sulle labbra, ma pallido come un lenzuolo. "Perché sorride?" Questa domanda penetrò nel mio cuore prima che riuscissi a pensare a qualcos'altro. Impallidii anch'io. "Che cosa state dicendo?" "Vedete", rispose con un pallido sorriso, "quanto mi è costato caro dire la prima parola. Ma adesso l'ho detta e mi sembra di aver fatto il primo passo. Proseguirò" (ivi, p.404). Dapprima l’ufficiale faticava a crederci, Michail dovette raccontargli la storia più volte, ma alla fine tutto era chiaro. Molti anni addietro questa persona aveva ucciso per passione la donna di cui era innamorato poiché aveva rifiutato il suo amore a causa di un altro uomo. Dopo l’omicidio era poi riuscito abilmente a nascondere le prove e a fare ricadere l’accusa su un servo (morto poco dopo 61 per malattia), cosicché nessuno aveva mai lontanamente sospettato di lui. Il fatto sulle prime non gli provocò alcun rimorso tranne il dolore per aver ucciso la persona amata, tuttavia poiché gli era intollerabile che lei potesse essere di un altro, riteneva di non avere altra soluzione. Per diversi anni la sua determinazione nel lavoro e nelle opere di beneficienza gli fece quasi dimenticare il passato, ma a poco a poco iniziò a penetrare in lui l’angoscia per ciò che aveva fatto. In seguito si innamorò di una ragazza bella e intelligente e si sposò presto pensando che il matrimonio avrebbe alleviato il suo dolore e solitudine. Avvenne invece il contrario: Sin dal primo mese un pensiero incessante cominciò a turbarlo: "Ecco, mia moglie mi ama, ma mi amerebbe ancora se sapesse?" Quando ella fu incinta e ne dette notizia al marito, egli ne rimase subito turbato: "Do la vita quando io stesso l'ho tolta?" Arrivarono i figli: "Come oso amarli, istruirli, educarli, come farò a parlar loro della virtù, quando io stesso ho versato sangue umano?" Intanto quegli stupendi bambini crescevano, gli veniva voglia di accarezzarli: "Non riesco a guardare i loro visetti innocenti, luminosi; non ne sono degno". [_] Cominciò ad avere incubi spaventosi. Ma era un uomo dal cuore forte e sopportò a lungo questo tormento: "Espierò tutto con questo mio tormento segreto". Ma anche quella speranza si rivelò infondata: più andava avanti e più intensa si faceva la sofferenza. In società avevano preso a stimarlo per via della sua attività benefica, sebbene temessero il suo carattere severo e cupo, ma quanto più lo stimavano tanto più quella stima gli diveniva insopportabile. Mi confessò che aveva persino pensato al suicidio. Ma cominciò ad essere perseguitato da un altro pensiero, un pensiero che sulle prime gli era sembrato impossibile e pazzesco, ma che, alla fine, aveva così attecchito nel suo cuore che non riusciva più a sradicarlo. Ecco in che cosa consisteva: alzarsi, farsi avanti tra la gente e confessare davanti a tutti di aver ammazzato una persona. Erano tre anni che questo sogno lo accompagnava, gli si affacciava alla mente in forme 62 diverse. Alla fine si convinse con tutto il cuore che se avesse confessato il suo crimine, avrebbe guarito la sua anima e avrebbe ottenuto la pace per sempre. Ma questa idea gli riempiva il cuore di orrore: come l'avrebbe messa in atto? E poi, all'improvviso, era avvenuto l'episodio del mio duello. "Guardando voi, mi sono deciso". Io lo guardai. "È mai possibile", esclamai battendo le mani, "che un episodio insignificante come il mio abbia potuto generare in voi una simile risoluzione?" "La mia risoluzione è nata tre anni fa", mi replicò. "Il vostro episodio mi ha dato soltanto la spinta necessaria. Guardando voi, ho biasimato me stesso e vi ho invidiato", mi disse persino con durezza (ivi, p.407-408). Al contempo c’è in lui una grande paura, soprattutto per ciò che sarebbe accaduto ai figli e alla moglie, e poi per la separazione da loro. E chiede consiglio nuovamente all’amico, il quale lo incoraggia ad obbedire alla voce della coscienza che lo perseguita: 63 "E allora?" mi domandò guardandomi. "Andate", gli dissi, "proclamatelo al mondo. Tutto passa, solo la verità rimane. I figli capiranno, quando saranno grandi, quanta magnanimità si racchiudeva nella vostra grande decisione" (ivi, pp.408-409). Nonostante quel giorno si fosse congedato come avendo preso una decisione, per diverse settimane nulla accadde se non un tornare e ritornare sui pensieri che lo affliggevano; sembrava che si stesse preparando senza però decidersi. "Lo so che sarà il paradiso per me, nel momento stesso in cui lo dichiarerò. Per quattordici anni ho vissuto all'inferno. Voglio soffrire. Accetterò la sofferenza e comincerò a vivere. Si può attraversare il mondo facendo del male, ma indietro non si torna. Adesso non ho il coraggio di amare non solo il mio prossimo ma neppure i miei figli. Dio mio, i miei figli forse capiranno quanto mi è costata la sofferenza e non mi giudicheranno! Dio non è nella forza, ma nella verità!" [_] "Ho appena lasciato mia moglie" continuò lui. "Sapete che cosa è una moglie? I bambini mentre me ne andavo gridavano: 'Addio, papà, tornate presto a leggerci Il giornaletto dei bimbi'. No, non potete capirlo! La disgrazia di un altro, non riesci a capirla". Gli occhi gli brillavano e le labbra gli fremevano. All'improvviso sferrò un pugno sul tavolo, tanto che tutti gli oggetti che vi erano sopra sobbalzarono era la prima volta che faceva un gesto del genere, era una persona così pacata. "Ma sono tenuto a farlo?" gridò. "Sono obbligato a farlo? Nessuno è stato condannato, nessuno è ai lavori forzati al posto mio, quel servo è morto di malattia. E per il sangue versato sono stato punito con i tormenti. E poi non mi crederanno, non crederanno nemmeno a una delle mie prove. Devo dunque dichiararlo, devo forse? Sono disposto a patire i tormenti per tutta la vita per il sangue versato, a patto di non colpire mia moglie e i miei figli. Sarebbe giusto rovinarli insieme a me? Non stiamo commettendo un errore? Qual è la verità in questo caso? E la gente riconoscerà la verità, la apprezzerà, la rispetterà?" (ivi, pp.409-410). 64 Altri giorni passarono con quell’angoscia quando finalmente la dichiarazione avvenne nella festa del suo compleanno alla presenza dei molti invitati della città. Nel bel mezzo del festeggiamento Michail si alzò in piedi e iniziò a leggere la sua confessione mostrando le prove di ciò che aveva commesso. In realtà nessuno gli credette, eppure la dichiarazione pubblica, l’accettazione delle conseguenze delle sue azioni, gli ottenne la riconciliazione interiore con gli altri e con Dio. Confidò poi al suo amico: Non appena ho compiuto quello che dovevo, ho sentito subito il paradiso nel mio cuore. Adesso ho il coraggio di amare i miei figli e di baciarli. Non mi credono e nessuno mi ha creduto, né mia moglie, né i miei giudici: non ci crederanno mai neanche i miei figli. Scorgo in questo la misericordia divina nei confronti dei miei figli. Quando sarò morto, anche il mio nome rimarrà senza macchia per loro. Adesso sento l'avvicinarsi di Dio, il mio cuore gioisce come se fossi in paradiso... ho compiuto il mio dovere..." (ivi, p.413). La situazione esistenziale e interiore di Michail è completamente diversa da quella di Zosima. Qui abbiamo una persona che ha celato il male commesso e oppone resistenza a svelarlo. Nel suo caso accade letteralmente quello che si potrebbe chiamare il lavorìo interiore della colpa. La colpa, quella qualità che alberga al centro della persona attraverso i suoi atti cattivi, non consiste semplicemente in un fatto che rimane tra gli altri nella memoria, ma, se non la si smaschera, cresce nascostamente negli atti e nelle azioni che determinano lo sviluppo della persona e la consapevolezza che ha di sé (Max Scheler, 2014, p.58). A motivo di ciò, quando si commette un male e si ritorna poi su di esso, la difficoltà non sta tanto nell’ammettere l’azione compiuta e il suo disvalore, bensì nell’ammettere “che quell’azione l’ha compiuta quella parte dell’Io nella totalità della nostra persona da cui sorsero le radici dell’azione e l’atto di volontà” (ivi, p.37 ); non si dice invero: ““Ah, che ho fatto!”, ma più radicalmente: “Che uomo sono!”, oppure: “Che uomo devo essere, se ho potuto fare una cosa simile”“ (ibidem). È tutto l’io che viene coinvolto, e quanto più la colpa è stata nascosta nel tempo tanto più è parte del soggetto e difficile da sradicare. La persona è convinta ormai di essere cattiva perché la colpa ha pervaso ogni azione e l’intero modo di percepirsi. Il problema principale di Michail, infatti, è che non riesce più a guardare a sé come a un essere amabile e degno di amore; per questo 65 arriva a pensare addirittura al suicidio5. Lo stesso amore degli altri gli diviene insopportabile. Tale amore, ha invero il potere di risvegliare in lui il dolore per la colpa, e a causa di questa viene messa in discussione la possibilità dell'amore stesso. Si chiede infatti: mi amerebbero se sapessero ciò che ho fatto? Loro mi amano perché non sanno chi sono, e quindi in realtà non amano me. Michail è costantemente diviso dal desiderio di essere amato/amabile e la convinzione che per lui ormai sia impossibile. È mentre vive questo conflitto interiore che la figura del giovane ufficiale diventa chiave nella sua storia. Zosima ha avuto la forza di ammettere la sua colpa, di affrontare lo scherno dei compagni e le conseguenze delle sue azioni. Michail lo vuole imitare e ne diventa amico; l'esempio e la fiducia di Zosima sono essenziali per il percorso di Michail verso la liberazione dalla colpa e il perdono. Colpa e pentimento Quando si affronta il tema del perdono nella prospettiva del colpevole, due sono gli aspetti centrali che entrano in gioco: il rapporto del soggetto con la colpa e il pentimento. Per fare chiarezza occorre distinguere tra ciò che è la colpa, ossia quella qualità che agisce nell'anima legata all'azione cattiva effettuata, e il senso di colpa, vale a dire 5 Qui si rivela il significato ontologico e fondante dell’amore, nella linea delle affermazioni di Buber (Martin Buber 2004, pp.69-71) e Pieper (Josef Pieper, 1974, pp.97-98). 66 il rapporto che il soggetto stabilisce con essa. La psicologia contemporanea (Francesco Mancini, 2008) ha messo in luce l'esistenza di due tipi di sensi di colpa che generano due reazioni emotive differenti: il senso di colpa deontologico e il senso di colpa altruistico. Il senso di colpa cosiddetto deontologico nasce dalla trasgressione dei comandamenti dell’autorità morale, i quali sono progressivamente interiorizzati nel corso dello sviluppo del bambino, fino a costituire una delle strutture fondamentali della psiche. Il senso di colpa è l’espressione di un conflitto tra norme morali interiorizzate e le azioni o disposizioni all’azione dell’individuo (ivi, pp.123-124). Ora, una delle norme morali interne al soggetto umano, è il rispetto dell’altro e il dovere di difendere tale diritto. Le omissioni in questo senso possono provocare forti sensi di colpa; non tanto a motivo dell’affetto verso una persona concreta, ma a motivo della norma trasgredita, della consapevolezza che si doveva agire diversamente. È la propria dignità morale che c’è in gioco qui. E ciò che si prova di fronte a una omissione in questo senso è un profondo disgusto morale nei confronti di se stessi e un forte desiderio di punizione (ivi, p.133). Il senso di colpa altruistico invece è generato dal rapporto affettivo che si ha con una certa persona. Si è ferita questa persona e la reazione immediata sarà cercare di riparare in qualche modo, restaurare il danno inferto laddove è possibile. Talvolta anche tale senso di colpa si accompagna a disgusto morale, secondo le modalità in cui è avvenuta la ferita, ma nella maggior parte dei casi ciò che prevale in questo tipo di senso di colpa è il 67 desiderio di riparazione; ciò che muove è l’amore dell’altro più che la vergogna di sé. Nel caso di Zosima, sembra prevalere questo secondo senso di colpa, non tanto per il particolare affetto che lui avesse verso il suo attendente o il duellante, quanto per la nuova prospettiva esistenziale che gli si apre nella memoria del fratello: improvvisamente lui sembra rendersi conto di chi è un essere umano e cosa vuol dire ferirlo. Da lì nasce il suo dolore, e non per aver trasgredito una norma del suo codice morale. La sua attenzione non è su se stesso né sul disprezzo di sé per il male effettuato, bensì sull'altro; egli vuole riparare e per questo si inchina davanti ad Afanasij e chiede perdono all'avversario nel duello. Le relazioni familiari e i valori in cui è cresciuto Zosima hanno anche reso più immediato il riconoscimento del male commesso così che la colpa non ha potuto agire nascostamente in lui. Non che egli non si sentisse colpevole, anzi, la convinzione emersa dalle parole del fratello è che tutti siamo colpevoli di tutto. Ma la colpa nel suo caso non è un ostacolo per sentirsi amato o per amare, anzi, diventa generatrice di riparazione e di nuovi legami. Egli, nella relazione interiorizzata del fratello, porta già in sé la liberazione del perdono. Nel caso di Michail invece, come si è visto, la colpa è diventata parte di sé nel tempo, e pertanto il processo di pentimento e riconoscimento del male davanti agli altri è stato più lento e difficile. Il senso di colpa in lui è del primo tipo; egli si disprezza profondamente, non si ritiene più degno nemmeno di vivere o di dare la vita. Il suo dolore è per essere colpevole di aver trasgredito i suoi codici 68 morali. Tutta la sua preoccupazione sta nell'essere riconosciuto ancora degno di essere amato e di poter amare. Ciò che è interessante notare a questo punto è come il processo di pentimento che ha il suo culmine nella dichiarazione di colpevolezza pubblica, per entrambi i personaggi richieda l'intervento di una mediazione relazionale. Per Zosima è la memoria del fratello, la relazione interiorizzata che ha con lui che lo aiuta a scoprire l'entità del male commesso e il bisogno di riparare, per Michail sarà lo stesso Zosima. Questi è mediatore del desiderio dell'altro in due modi: da una parte è il modello che Michail ammira e invidia, colui che è riuscito ad affrontare il suo demone; dall'altra, è colui che può comprenderlo senza giudicarlo – ha avuto la sua stessa fragilità – e rende così più facile la confidenza; l’apertura con Zosima costituisce la breccia per confessare il suo crimine a tutti. La mediazione si rivela quindi essenziale per evitare l'insano mimetismo che la colpa può provocare nel soggetto nei confronti di sé stesso: l'Io che continua ad agire deterministicamente nella linea del male imitando continuamente il gesto cattivo e identificandosi con esso. L'effetto trasformante che le azioni umane hanno sul soggetto che le compie fa sì che l'offensore, compiendo il male, privi innanzitutto se stesso di bene, e per tornare buono, necessita di un terzo, un'altra sorgente di bontà. La narrazione ha altresì evidenziato la natura relazionale del pentimento: esso non è ritenuto compiuto finché la colpa resta nascosta agli altri. L'atto di pentirsi nella sua radicalità consiste nel ritornare della persona su se 69 stessa, su quella parte dell'Io che ha agito male, accettarla come tale e agire su di essa (Max Scheler, p.44). Ma senza la dichiarazione di colpevolezza, il pentimento e con esso la successiva liberazione della colpa e quindi il perdono, non si realizzano. Nella dichiarazione di colpevolezza diventa, infatti, reale l’assunzione di responsabilità del colpevole, ed è qui che la persona manifesta la verità del suo pentimento, nella misura in cui è disposta a subire le conseguenze del suo agire e a cambiare. Detta dichiarazione è al contempo un atto di coraggio e di abbandono: il coraggio di decidere di mettere a nudo la propria fragilità in modo che gli altri ne possano disporre. Tale coraggio in qualche modo dà al soggetto la consapevolezza di essere ancora capace di bontà, equivale a una sorta di gesto riparatore nel quale l'offensore ridona a se stesso una dignità. Tuttavia la forza di tale gesto nei due casi è attinta dalla fiducia nel paradiso. Per entrambi il gesto di abbandono è in definitiva un rimettersi nelle mani del Padre; Dio non è nella forza ma nella verità, diceva Michail. Si può quindi affermare che il processo di pentimento inizia, avviene e termina in relazione e con il supporto degli altri. Ultimo elemento narrativo da rilevare qui è che in entrambi i casi presi in esame non viene data una punizione ai colpevoli e quindi si evidenzia come la liberazione del perdono non derivi dalla sofferenza dell’espiazione, bensì consista in una sorta di dono legato al pentimento dichiarato. 70 Conclusioni Possiamo quindi offrire una risposta alla domanda sottesa a questa trattazione. In tutta la narrazione si rivela la dimensione intrinsecamente relazionale del processo e dell’esito finale di liberazione dal dolore della colpa e di ricostituzione in dignità del soggetto che ha commesso il male. Così come nei casi di perdono dell’altro, si osserva qui che, per attivare il processo di perdono di sé che passa attraverso il riconoscimento della colpa e il pentimento, è necessario l’intervento di un terzo che costituisca un’altra fonte di essere e di amore. Esiste però una differenza tra i due casi: in Zosima la mediazione relazionale è interna al soggetto, il fratello è dentro di sé con la prospettiva nuova di cui è portatore. Qui sembra che il soggetto abbia una fonte interna di perdono; di fatto la gioia propria della liberazione dal dolore della colpa in lui avviene già prima della dichiarazione di colpevolezza, quando riscopre attraverso il fratello chi è l'essere umano e quindi chi è egli stesso e a cosa è chiamato. Non ha bisogno della conferma degli altri fuori di sé per sentirsi buono e capace di bene; il perdono lo ha in sé attraverso le relazioni familiari interiorizzate. Nel caso di Michail invece la colpa lavora internamente ed egli tende a identificarsi con il male commesso, a cosificarsi. È necessario per lui interiorizzare lo sguardo empatico di Zosima che, amandolo pur nella sua fragilità, gli ridoni la possibilità di percepirsi come buono nonostante i suoi errori. Dalla narrazione e dai ragionamenti emersi si ritiene quindi che, se con l’espressione perdono di sé intendiamo 71 che il colpevole dà il perdono a se stesso, ciò non accade. Nel rapporto dell’offensore con la sua colpa egli non ottiene da sé la liberazione dalla colpa, ossia non ridona a sé la dignità di essere umano amabile e capace di bontà. Ciò non significa che la libertà del soggetto non abbia un ruolo decisivo nella dinamica; tale ruolo, per nulla banale, consiste essenzialmente nell’accogliere l’amore dell’altro, accettare il bisogno che sente di esso, chiedere aiuto e così poter affrontare la propria fragilità6. Ma è solo attraverso l’interiorizzazione di un altro che conferma il soggetto con il suo amore che questi può tornare a vivere libero dalla prigionia della colpa e a riconsiderarsi buono. 72 Riferimenti bibliografici Hannah Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958. 6 La psicologia contemporanea sta sviluppando diversi studi sul tema del perdono di sé in quanto costituisce un elemento essenziale nella psicoterapia. Nella prospettiva antropologica qui delineata si mette a fuoco l’elemento relazionale che non è sempre esplicito nelle trattazioni di carattere psicologico (Nicola Petrocchi, Barbara Barcaccia e Alessandro Couyoumdjian, 2013). Nicola Petrocchi, Barbara Barcaccia, Alessandro Couyoumdjian, Il perdono di sé: analisi del costrutto e possibili applicazioni cliniche, in Barbara Barcaccia, Francesco Mancini (a cura di), Teoria e clinica del perdono, Raffaello Cortina 2013, pp.185-227. Federica Bergamino, La trasformazione affettiva: narrazione e antropologia del perdono, in Federica Bergamino (a cura di), Liberare la storia, FrancoAngeli, Roma 2015, pp.15-35. Id., La res svelata dalla letteratura, in Federica Bergamino (a cura di) Alice dietro lo specchio. Letteratura e conoscenza della realtà, Edizioni Sabinae, Roma 2013, pp.121-158. Eileen Borris-Dunchustang, Perdonare, Elliot Edizioni, Roma, 2010. Remi Brague, Les ancres dans le ciel. Infrastructure mètaphisique, Editions du Seuil, Paris 2011, Ancore nel cielo. L’infrastruttura metafisica, trad. di Mario Porro, Vita e Pensiero, Milano 2012. Martin Buber, Ich und du, Insel, Lipsia 1923, Io e tu, in Il Principio dialogico e altri saggi, trad. di Anna Maria Pastore, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1993. Fëdor Dostoevskij, Brat’ja Karamazovy, “Il messaggero russo”, Mosca 1879-1881, I fratelli Karamazov, 1993, trad. di Agostino Villa, Einaudi Tascabili, 2014. René Girard, La voix meconnue du réel, Grasset & Fasquelle, Paris 2002, La voce inascoltata della realtà, trad. di Giuseppe Fornari Adelphi, Milano 2006. Id., Je vois Satan tomber comme l’eclair, Grasset & Fasquelle, Paris, Vedo Satana cadere come la folgore, trad. di Giuseppe Fornari, Adelphi, Milano 2001. Giovanni Liotti, La dimensione interpersonale della coscienza, Carocci, Roma 2005. Antonio Malo, Dono, colpa, perdono, in Barbara Barcaccia, Francesco Mancini (a cura di), Teoria e clinica del perdono, Raffaello Cortina 2013, pp.1-15. Francesco Mancini, I sensi di colpa altruistico e deontologico, “Cognitivismo clinico” 2008 (5-2), pp. 123-144. Josef Pieper, Über die Liebe, Kösel Verlag, München 1972, Sull’amore, trad. di Gianni Poletti, Morcelliana, Brescia 1974. 73 Max Scheler, Vom Ewigen im Menschen: Reue und Wiedergeburt, Bouvier, Bonn 1917, Il pentimento, trad. di Nicola Zippel, Castelvecchi, Roma, 2014. Michail Tomasello, The Cultural Origins of Human Cognition, Harvard University Press, Harvard, 1993. 74 “IL Y A LE PARDON”. PICCOLA FENOMENOLOGIA DEL PERDONO, A PARTIRE DA PAUL RICOEUR Annalisa Caputo Non è facile parlare ‘filosoficamente’ del perdono, facendosi largo tra gli (inevitabili) pregiudizi che lo colgono, per certi versi anche giustamente, come un tema forse più religioso-confessionale che critico-teorico. Non è facile parlare ‘fenomenologicamente’ del perdono, cercando di evitare tanto un’esaltazione fine a se stessa (sempre a rischio, sul crinale del moralismo e del formalismo legalista) quanto una negazione a priori della possibilità del perdonare (in quanto magari legata solo a falsa coscienza o a forme di risentimento). E forse anche per questo Paul Ricoeur – che abbiamo scelto come compagno di strada in questo cammino – parla da subito di “perdono difficile”1. E l’aggettivo possiamo spostarlo sulla questione del perdono.Interrogarsi sul perdono è difficile. E questa difficoltà è da assumere e non da scansare: pena la caduta nella retorica o nell’ideologia. Alcune presupposizioni ermeneutiche, allora, vanno date. Crediamo che del perdono si possa parlare filosoficamente. Crediamo che se ne possa parlare ‘sine ira necstudio’. Crediamo che esista una possibilità 1 P. Ricoeur, Il perdono difficile, Epilogo, in Id., La memoria, la storia, l’oblio, tr. it. di D. Iannotta, Cortina, Milano, 2003, pp. 649-717. 75 alternativa sia alla sua difesa tout court sia all’esserne inevitabilmente contrari. Il perdono “c’è, es gibt, thereis”, “il y a” – fa notare Ricoeur2. È un dato fenomenologico. Prima di poter (o dover) dire se è giusto o ingiusto, se serve o non serve, chi lo deve a chi, e come e perché, prima di tutto questo c’è un ‘prima’. In questo “c’è”, in questo “il y a” (in questa illeità) si articola, allora, il nostro percorso. Che di questo dato vuol provare a tracciare un’ideale fenomenologia. Non ‘ripeteremo’ l’articolazione argomentativa proposta da Ricoeur nei testi in cui tratta del tema, ovvero La memoria, la storia e l’oblio e Ricordare, dimenticare, perdonare3. Li useremo, invece, come ‘fondo’ testuale a cui attingere per tracciare il percorso. Nella consapevolezza che “partiamo da Ricoeur” e non da noi. Ma vogliamo comunque provare a pensare e descrivere a partire da noi. E allora iniziamo4. C’è il perdono facile Sotto questo titolo possiamo mettere tutte le esperienze retoriche del perdono. Con ‘retoriche’ intendiamo, in 2 Ivi, p. 662. P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, tr. it. di N. Salomon, Mulino, Bologna, 2004. 4 Scandiremo il discorso in tre passaggi: perdono facile, perdono impossibile, perdono difficile, seguendo idealmente l’affermazione che Ricoeur pone all’inizio dell’Epilogo già citato su Il perdono difficile: “perdono difficile: né facile, né impossibile”, La memoria, la storia, l’oblio,cit, p. 649. 3 76 questo contesto, le esperienze che si fermano al livello verbale, ma che non rendono la parola ‘atto’. Le ragioni per cui si innesca quel meccanismo che Ricoeur chiama il “perdono facile”5 possono essere innumerevoli. Qui le due matrici ‘classiche’ della ‘parola’ sul perdono (quella religioso-morale e quella psicanalitica) si incontrano: si perdona perché si deve perdonare. C’è un’istanza superiore che lo chiede: se sia Dio o il Super-Io (e dunque se di conseguenza sia un bene o una male)è relativo dal punto di vista dell’analisi del ‘soggetto’ del perdono. Il perdono è richiesta eteronoma. Si impone. C’è_ nel senso che si è sempre fatto così. E in fondo lo sai anche tu che, se non lo fai, sei cattivo. In fondo. Perché nella immemoriale memoria (della tua infanzia personale e dell’infanzia dell’umano) tutto questo è iscritto, come su tavole di pietra. E allora lo fai. ‘Ti perdono’ è espressione dovuta. Se sei uno ‘scrupoloso’ puoi persino riuscire a perderti nel ‘conto’ delle “settanta volte sette”. E puoi anche riuscire ad apparire sul teleschermo in TV, dopo che ti hanno ammazzato il figlio e dire che hai perdonato gli assassini. Poi però resti solo con te stesso. E arriva inevitabilmente il momento in cui ti chiedi: ho perdonato veramente? E lo meritava? E me lo ha almeno chiesto? E che senso ha tutto questo? E se l’offeso, l’offesa sono io: può realmente la vittima perdonare il carnefice (im/penitente, im/punito)? Basterebbe la lunga litania dei femminicidi quasi 5 Id., Ricordare, dimenticare, perdonare, cit., pp. 110 sgg. 77 quotidiani per rispondere: ovviamente no. Più che facile, un perdono di questo tipo è stupido, ottuso. Ricoeur dice: è una fuga. Il perdono facile, superficiale, impensato, acritico, è sempre una forma di fuga e rimozione. Da cosa? Da se stessi innanzitutto, da quanto accaduto. E dunque dal proprio passato6. Il perdono ha un rapporto particolare con ciò-che-è-stato e con il suo ricordo. Perdono e memoria: questo è il problema. Il perdono facile si illude di sganciarsi dalla memoria in nome di qualche Immemorabile che chiede la cancellazione della colpa (e/o del peccato). Apparentemente facile. In realtà impossibile. Perché il passato non si cancella. Jankélévitch lo dice in termini forti e poetici nel suo L’irréversible et la nostalgie: l’irrevocabile è che l’essere-stato non può essere disfatto7. È il peso del ‘Fu’, dell’Es warnietzscheano. Ma noi, questo peso dell’irreversibile, non siamo capaci di sopportarlo. E allora lo nascondiamo a noi stessi, illudendoci di averlo appunto ri-verso nel perdono, alleggerito (nell’alleggerimento della coscienza): insostenibile pesantezza della colpa, necessaria leggerezza del perdono: facile: facile illudersi quando l’impossibile si impone. Ma questo non è perdono se non nella ‘parola’: il resto è rimozione. E quante forme sottili può assumere questo perdono facile (o di fuga). La litania di “il y a” con cui Ricoeur inizia 6 In questo senso, il perdono facile porta il Sé nella chiusura della malinconia. Su questo ci siamo soffermati a lungo nel nostro Io e tu. Una dialettica fragile e spezzata. Percorsi con Paul Ricoeur, Stilo, Bari, 2009, pp, 146-158. 7 Il testo è citato da Ricoeur in una nota de La memoria, la storia_, cit., pp. 689-90. 78 i capoversi del passaggio in cui elenca una serie di possibili aspetti di questo (illusorio) perdono ci riporta alla cornice della nostra fenomenologia. Che in questo caso pare quasi una poesia. C’è innanzitutto il perdono di autocompiacimento, che non fa altro che prolungare idealizzandolo, l’oblio di fuga: che vorrebbe fare economia del lavoro della memoria. C’è il perdono di benevolenza, che vorrebbe fare economia della giustizia e cospira con la ricerca d’impunità. [_] C’è il perdono più sottile, quello d’indulgenza, dalla cui parte sta un ramo della tradizione teologica, secondo la quale il perdono significa assoluzione, [_] come se sulla tabella degli acquisti la colonna del debito fosse cancellata, [_] il che va nella stessa 8 direzione dell’oblio peggiore C’è il perdono di autocompiacimento Cioè oblio di fuga idealizzato. “Strategia di evitamento, motivata da una volontà oscura di non informarsi, non indagare [_], non voler sapere”9. Quel che è stato è stato. Inutile anche parlarne. Perché cercare di capirne_ ragioni, cause, errori? Tutti possono sbagliare. Tutti meritano di essere perdonati. Ma il migliore è sempre quello pronto a perdonare per primo e sempre. Nietzsche la indicherebbe come sottile forma di alterigia e superiorità. Il perdono del com-piacente (a cui piace perdonare, sempre, per primo) è l’assoluzione farisaica che il ‘piacente’ dà a se stesso. E certo conviene sempre perdonare la pagliuzza dell’altro in anticipo, se questo può evitare che l’altro noti la trave che sto ben nascondendo. 8 9 Id., Ricordare, dimenticare_, cit., pp. 112-13 Ivi, p. 106. 79 Forse innanzitutto davanti a me stesso, a me stessa. Il perdono di autocompiacimento non ‘scioglie’ le colpe. Semplicemente – come se fossero massi casualmente caduti sul percorso – le evita e prosegue. Non ‘sente’ il male compiuto o subìto (o, meglio, si sforza in tutti i modi di non sentirlo). E quindi non ‘sente’ nemmeno realmente il perdono. Tutto resta in superficie. Parafrasando Nietzsche: noi abbiamo scoperto il perdono, la felicità – dicono i piccoli uomini (del perdono autocompiacente); e ammiccano10. Lustrini di bravura e bontà. Tutta apparenza imbiancata e ammiccante. A nascondere tutto quello che è diventato piccolo. Il perdono facile di autocompiacimento è un perdono piccolo, meschino. Non solo perché è di facciata, ma perché è di maschera. Maschera di paura. Paura di affrontare la realtà, la vita, il male (subìto e/o commesso). Perché è molto più difficile chiedere: ma perché mi hai fatto questo? Che cosa è successo? (e affrontare il rischio del silenzio, dell’incomprensione, dell’attestazione di un fallimento, di un’impossibilità o incapacità); mentre è più facile dire: non è successo nulla, ti perdono. Lo scavo nella memoria pesa. Il lavoro sull’accaduto pesa. Pensare all’essente-stato pesa. Saltellano leggeri, invece, i piccoli uomini che sanno mediocremente accontentarsi delle convenzioni, dell’apparire, delle parole. 10 Stiamo chiaramente parafrasando la Prefazione di Così parlò Zarathustra, tr. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1991, p. 11. Nel testo nietzscheano i piccoli uomini si illudono di aver inventato la felicità (mentre in realtà nella loro semplificazione della vita hanno semplicemente rinunciato a cercarla, perché conquista faticosa). 80 C’è il perdono di benevolenza: E questo è il perdono ‘amico’ dell’impunità. Possiamo forse inserire in questo campo anche le non sempre chiare forme di amnistia, quando si “invita a fare come se l’evento non avesse avuto luogo. (_) Come se si potesse cancellare la macchia di sangue sulla mano di Lady Macbeth!”11. Come se il perdono potesse scavalcare la giustizia. Anche in questo caso sarebbe troppo facile. Non solo per il perdonato/reo, ma anche per il perdonante/benevolo. A livello sociale questo è evidente: le conseguenze di un male commesso o subìto non si chiudono nella relazione duale vittima/colpevole; e necessitano di una ‘terzietà’ giudicante, di giudizi, sanzioni e possibilmente riabilitazioni12. Paradossalmente questo sarebbe vero anche quando ci illudessimo di poter gestire in due la cosa, eliminando il livello ‘esterno’ dell’economia della giustizia. Perché la prima giustizia è sempre nei confronti di noi stessi. Lo accennavamo prima. Se io sono vittima di un tuo atto di violenza, io non posso perdonarti con un perdono di benevolenza, illudendomi di fare bene a me (e a te) facendoti scavalcare il peso di un giudizio: e quanto più grave è la violenza (la pena che tu mi hai inflitto) tanto 11 Id., Sanzione, riabilitazione, perdono, in Id., Il giusto,tr. it. di D. Iannotta, Sei, Torino, 1998, p. 178. Ancora, sulla critica ad un’amnistia usata in maniera indiscriminata, cfr. Id., Ricordare, dimenticare6, cit., pp. 111 sgg. 12 Su questo è da leggere tutto il saggio sopra citato: Sanzione, riabilitazione, perdono. Sul tema cfr. M. van derBrempt, Lecture de ‘Sanction, rèhabilitation, pardon’ de Paul Ricoeur; J. Fierens, Sanctionou pardon au Ruanda. A propos de ‘Sanction, rèhabilitation, pardon’de Paul Ricoeur, in F. X. Druet, E. Ganty (a cura di), Rendrejusticeaudroit. En lisant ‘Le Juste’ de P. Ricoeur, Pres. Univ. De Namur, 1999,rispettivamente pp. 251-268, 269-282. Ma anche O. Aime, Dei delitti, della pena, del perdono, in M. Piras (a curadi), Saggezza e riconoscimento. Il pensiero eticopolitico dell’ultimo Ricoeur,Meltemi, Roma, 2007, pp. 165-188. 81 più giusta sarà la pena che dovrai vivere se sarà grande. Il perdono (autentico) non scavalca la giustizia. Mai. Piuttosto la attraversa e la supera13. Altrimenti è un (falso) perdono che in realtà non vuole-bene (bene-volenza) e non fa bene né a chi a vissuto né a chi a commesso il male. Perché il male va sempre innanzitutto riconosciuto. E non rimosso. Poi c’è perdono d’indulgenza E questa sarebbe la remissione come cancellazione della colpa. Pia strategia a cui certe teologie e certe gerarchie religiose hanno in vari modi e tempi fatto ricorso14. Qui il discorso di Ricoeur è ancora più sottile di quanto non sia quello degli indulgenti. Lo sintetizziamo solo perché abbiamo scelto di non approfondire il ramo teologico del perdono. Il nucleo filosofico della questione è in ogni caso chiaro: c’è differenza tra colpa (o peccato) e debito. Pensare in termini di ‘debito’ (e dunque di credito) ci porta in una logica dello scambio e della retribuzione. Doppiamente paradossale. Primo perché ci rende eternamente debitori (anche quando i debiti ci vengono ufficialmente cancellati); infatti la nostra fallibilità e colpevolezza non sono mai cancellabili. Secondo perché se su un piatto della bilancia mettiamo noi stessi (con i nostri tanti debiti e pochi crediti) e sull’altro piatto della bilancia mettiamo il Divino Sempre Giusto, diventa evidente la sproporzione della nostra incancellabile 13 In questo senso Ricoeur si rifiuta di inserire il perdono nella logica del politico, o della giustizia; e, come vedremo, lo iscrive in quegli atti di gratuità assoluta che sono sovraetici. 14 Cfr. Id., Ricordare, dimenticare_, cit., p. 112. 82 miseria. In questa logica, ogni cancellazione è una presa in giro, una magia, una superstizione, che non merita nemmeno il nome di religione15. “Perdonare non significa semplicemente saldare, sopprimere un debito, ma ricostruire una memoria. E ci si scontra con qualcosa di irreparabile, di inestricabile, e anche, eventualmente di imperdonabile”16. Sembra che allora abbiano ragione i maestri del sospetto. Sembra, cioè, che, se un perdono si dà, si dà solo nella figura dell’impossibile. C’è il perdono impossibile Il y a. Conosciamo bene le sue forme. Tutte le volte in cui (non è che non vogliamo, ma_) proprio non possiamo perdonare. E sentiamo che è giusto così. Che ci sono delle cose imperdonabili. Che si passerebbe dalla parte dei carnefici giustificandoli. Che si deve avere il coraggio di dire che la Shoà è imperdonabile. Che i crimini contro l’umanità sono imperdonabili. Che quello che succede oggi in Siria (e in miriadi di altre parti del mondo, silenziosamente soffocate nella loro dignità di mondo ‘umano’) è imperdonabile17. 15 Su questo cfr. Id., Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, tr. it. di I. Bertoletti, , Morcelliana, Brescia, 1993. 16 Id., La logica di Gesù, tr. it. a cura di E. Bianchi, Qiqajon, Magnano (BI), 2009, p. 149. 17 Qui Ricoeur segue l’argomentazione di J. Nabert, Saggio sul male (1955), tr. it. di F. Rossi, La Garangola, Padova, 1974, analizzato alle pp. 656 sgg. de La memoria, la storia e l’oblio. 83 E, però, se questo è vero, è necessario essere ancora più radicali: Il termine [imperdonabile] non si applica soltanto ai crimini che, a ragione dell’immensa disgrazia da cui le vittime sono schiacciate, ricadono sotto la denominazione dell’ingiustificabile [_]. Esso non si applica nemmeno soltanto agli attori che hanno segnatamente perpetrato questi crimini. Si applica anche al legame più intimo che unisce l’agente all’azione. [_] L’azione umana è per sempre consegnata all’esperienza della colpa. Anche se la colpevolezza non è originaria, essa è per sempre radicale. Proprio questa aderenza della colpevolezza alla condizione umana, sembra renderla non soltanto imperdonabile di fatto, ma imperdonabile di diritto_ Strappare la colpevolezza all’esistenza equivarrebbe, così 18 sembra, a distruggere quest’ultima da cima a fondo . Primo dramma del perdono impossibile: io sono imperdonabile perché irrimediabilmente colpevole. Si tratta di un dramma dal duplice palcoscenico: ontologico (se non addirittura mitico) e ontico-personale. Palcoscenico più piccolo: ‘io’ sono imperdonabile perché sono fallibile e di fatto fallisco. E questo mio errore (piccola colpa o grande crimine che sia) non è qualcosa che ‘ho’, è qualcosa che ‘sono’. Io ‘sono’ i miei atti. Ogni atto è tale perché ascritto ad un soggetto19. E ogni soggetto è tale perché compie atti di cui è responsabile in prima persona. L’atto ‘fatto’ è irrevocabile. E se l’atto è colpevole, la sua colpevolezza (la mia colpevolezza) è irrevocabile. Nessuno può far sì che quanto fatto non sia. 18 P. Ricoeur, La memoria, la storia_, cit., p. 660. Cfr. su questo Id., La persona, tr. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 58 sgg. 19 84 Nessuno può far sì che non sia ‘io’ quella persona che ha ferito, umiliato, deluso, tradito20. E se anche un altro mi dicesse che non è così o che mi perdona, non cambierebbe questo ‘fatto’. Palcoscenico più grande, quello dei grandi miti, delle grande religioni o semplicemente delle filosofie esistenzialistiche ed ontologico-storiche: da quando “c’è” l’uomo “c’è” la colpa. Non esiste essere umano innocente. Sì, possiamo anche arrivare a credere o pensare che questo sia ‘accaduto’, in una contingenza e non sia ‘originario’. E si potrebbe anche arrivare a distinguere un tempo trans-storico diverso da quello storico21 in cui le cose sarebbero potute andare diversamente e potrebberotornare ad essere diverse (nel Mito adamitico questo è evidente: è il ‘prima’ del peccato, il ‘prima’ dell’Eden). Ma,ammesso pure tutto questo, resterebbeil fatto che “il male è già sempre l’empiria”22: è già sempre radicale e radicato nell’essere dell’uomo. A che, allora, il perdono? O, forse, ha ragione Derrida, è posta male proprio la domanda? Se mai un perdono si dà, se mai è possibile, è possibile solo senza a-che, senza finalità. Forse il perdono va iscritto esattamente a livello dell’impossibile23. Ma non rischia anche questa di essere solo messa in scena e retorica e letteraria? Se poi colleghiamo questa impossibilità del perdono a quanto detto a proposito del 20 Stiamo seguendo Id., La memoria, la storia_, cit., pp. 660-661, in cui Ricoeur riassume le tesi di N. Hartmann. 21 Cfr. ivi, pp. 659 sgg; più diffusamente Id., Finitudine e colpa,tr. it. di M. Girardet, , Il Mulino, Bologna, 1970, pp. 517 sgg. 22 Id., La memoria, la storia_, cit., p. 659. 23 Ivi, pp. 663 sgg., in cui Ricoeur si confronta con le tesi di Derrida sul perdono. 85 legame tra l’agente e le proprie azioni, l’impasse diventa due volte evidente. Ammesso e non concesso che sia possibile “separare il colpevole dal suo atto, altrimenti detto perdonare il colpevole pur condannando la sua azione, significherebbe perdonare a un soggetto diverso da quello che ha commesso l’atto”24. E qui forse più che Derrida è Nietzsche ad aver posto l’obiezione più efficace: che poi è la stessa obiezione (non a caso) che viene fatta nei confronti dello statuto della promessa25. In che senso? Perdono e promessa si radicano su un’illusione metafisica, su un’antropologia sostanzialistica (falsa dal punto di vista ontologico ancor prima che morale): l’illusione che io sia ‘sempre’ lo stesso, la stessa. Io non posso prometterti oggi che domani (e magari per sempre) ti sarò fedele, perché domani sarò diverso, diversa. E lo sarò ancor di più nel corso degli anni. Chi promette ora non è lo stesso che manterrà (o non manterrà) la promessa domani. E dato che, come sapevano gli Antichi, non solo non ci si può bagnare due volte nello ‘stesso’ fiume, ma nemmeno una volta (perché non esiste ‘uno stesso’ fiume, ma solo il fiume del divenire continuo), lo statuto della promessa è fallace e vano; così come lo statuto della soggettività sostanziale26. È chiaro che il perdono è impossibile, in questa logica. Per un motivo diverso (eppure forse ancor più evidente) rispetto a quello tracciato nel primo Primo dramma. 24 È sempre Ricoeur che riferisce e segue l’argomentazione critica, pungente che Derrida svolge nei confronti della possibilità del perdono (ivi, p. 697). Cfr. ivi, pp. 691 sgg., in cui appunto Ricoeur mette in parallelo il tema del perdono e quello della promessa. Il confronto con Nietzsche è alle pp. 692 sgg. 26 Sulla questione della promessa cfr. Id., La persona, cit., p. 56. 25 86 Secondo dramma (tragico-dionisiaco) del perdono impossibile: io sono imperdonabile perché irrimediabilmente innocente. Se il primo dramma ci portava a dire che io sono imperdonabile, perché irrimediabilmente colpevole, questo secondo dramma, al contrario, sottolinea l’irrimediabilità della nostra innocenza. E da qui lo sciogliersi del bisogno di perdono. Quello che ho fatto non mi appartiene (già) più. La colpa inchioda l’agente ad un passato che ‘resta’ solo se io voglio che sia. Viceversa ogni istante è nuovo inizio. “Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì”27.Se è vero che – per dirla ancora con Nietzsche –lo spirito deve diventare bambino, il primo risultato di questo divenire è la liberazione dai sensi di colpa, dai pesi dei rimorsi. Il che non significa (sarebbe scorretto nei confronti di Nietzsche) che ogni azione si equivale, e che non esistano discrimini e possibilità di scelta; né tanto meno che ogni istinto liberamente sfogato è sempre meglio della falsa coscienza del risentimento. Significa, invece, che nessuno può essere inchiodato alle proprie azioni, né tanto meno al proprio passato, perché nessuno è inchiodato a se stesso. Un’incrinatura, però, sembra insinuarsi nella figura del perdono impossibile. Un’incrinatura che scopriamo solo dopo aver attraversato i suoi due drammi e averli messi in 27 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 25. 87 uno di fronte all’altro. Che cosa li accomuna nella loro ‘impossibilità’? L’irrimediabilmente. L’idea che nulla è ri/mediabile. Che io non posso realmente mediarmi ‘altrimenti’, in maniera diversa. In una parola: nello scenario della colpevolezza assoluta come in quello dell’innocenza assoluta manca l’ipotesi del cambiamento. Nel primo caso perché il peso del passato mi schiaccia; nel secondo caso perché la leggerezza dell’attimo, nel suo inevitabile continuo mutare mi schiaccia (e non a caso l’eterno ritorno attimale del tempo è il peso più grande anche per Nietzsche). E allora è all’antropologia che si deve tornare, per ripensare “altrimenti” anche un possibile posto dell’esperienza del perdono. Rivelativa la ‘spia’ che Ricoeur pone in una nota, dopo aver citato Derrida e la sua idea per cui se il colpevole è “già un altro [_] non si perdona più al colpevole in quanto tale”. Ricoeur commenta e ribalta la questione. Il colpevole non è già un altro; è “lo stesso, ma potenzialmente altro”28. Come a dire: io sono ‘potenzialmente’ altro proprio perché sono me ‘stesso’, me stessa. Se si perde la ‘stessità’, si perde il divenire. Io non sono sempre, totalmente, necessariamente, in ogni istante altro a me stesso. Sono Sé come un altro29. C’è un’ipseità che si mantiene, che si può mantenere ‘nonostante’ il passare del tempo. E questa ipseità sono io e la mia storia di vita. Quello che vivo, esperisco, scelgo, lo riconosco come ‘mio’ perché c’è questa stessità in cui ciò che vivo si incatena. Il perdono (così come la 28 29 P. Ricoeur, La memoria, la storia_, cit., p. 697. Id., Sé come un altro, tr. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano, 1993. 88 promessa) sono alcune ‘possibilità’ estreme ‘tra’ le esperienze. Ma se si portasse la logica decostruttiva fino alle sue ultime conseguenze (se io non fossi anche ‘uno’, ma solo ‘nessuno’ e ‘centomila’), allora ‘per me’ non solo il perdono sarebbe impossibile, ma tutto sarebbe impossibile. Anche la gioia sarebbe impossibile, perché non esiste ‘la’ gioia, esisto io che gioisco, e io che ricordo che ieri ho gioito e che aspetto domani di gioire ancora, sebbene sappia perfettamente che questa gioia non è ‘uguale’ a quella di ieri e non sarà ‘uguale’ a quella di oggi. E anche la saggezza sarebbe impossibile, perché non esiste ‘la’ saggezza o ‘la’ verità, ma il ‘mio’ desiderio di cercare di capire, e, sbagliando, cercare di nuovo, correggere, correggermi, scoprire (e se io non esisto, chi cerca, chi desidera?). Alloraanche ‘la’ follia sarebbe impossibile, perché non esiste ‘il folleggiare’, ma esisto io con le mie piccole e grandi follie, insensate o forse anche più sensate di tutte le mie ragionevolezze messe insieme: quelle follie tutte e solo ‘mie’. E l’amore? Anche l’amore sarebbe impossibile, perché – senza identità, continuità, fedeltà e novità, passione e creazione, errore e scommessa, senza dono e rischio, senza tutto questo che ‘io’ (e ogni ‘io’) sente e soffre per un ‘tu’ – l’amore non esisterebbe. E però_ - scrive Ricoeur - “c’è (il y a) il perdono, come c’è la gioia, come c’è la saggezza, la follia, l’amore. L’amore precisamente. Il perdono appartiene alla stessa famiglia”30. 30 Id., La memoria, la storia6, cit., p. 662. 89 C’è. Il y a. Possiamo provare a negare tutto questo. Ma sul palcoscenico di ogni ‘io’ (dai tempi immemorabili in cui sul grande palcoscenico e-viene la storia), ogni volta che il dramma si ripete e la domanda dell’impossibile si riapre, insieme a questo impossibile ‘accade’ un c’è. Ac-cade. Da un’altezza, come ogni illeità (ci ha insegnato Levinas)31. “La grande poesia sapienziale, nel medesimo soffio, celebra l’amore e la gioia. C’è il perdono, dice la voce”32. Non sono ‘io’ che decido del perdono; esso si dà. O, meglio, prima ancora che io possa decidere del perdono, se sia giusto o no, possibile o impossibile, facile o difficile, da donare in questa contingenza o rifiutare, se ne valga la pena o no_, prima ancora di tutto questo, il perdono il y a, mi precede. Come una riserva che la storia dell’umano che mi ha preceduto (e mi attraversa) mi ha consegnato e mi consegna. “È una voce silenziosa ma non muta. Silenziosa, perché non è un clamore al pari di quella degli infuriati, non muta, perché non priva di parola”33. Prima di essere “di qualcuno”, è un “dono”. Dono che posso rifiutare, certo. Come ogni dono. Ma che non posso negare che si sia dato e si dia: come possibilità. E come auspicio. La forma poetica dell’inno, per questo, resta la più appropriata per 31 Ricoeur segue l’argomentazione di Levinas su questo tema in ivi, pp. 661 sgg. Su questo cfr. M. Agìs Villaverde, Le problème de la faute et duperdonchez Paul Ricoeur, in J.Porée, G. Vincent (a cura di), Répliquerau mal: Symbole et justicedansl’oeuvre de Paul Ricoeur, Pr. Univ. Rennes, Rennes, 2006, pp. 115 sgg.L’Autore rilegge la filosofia di Ricoeur tra i due poli della confessionedella colpa e dell’inno al perdono. E citando questo passo particolare de La memoria, la storia, l’oblio, commenta: “l’illéité (l’esserci, il darsi, l’il y a) è qui quella di una proclamazione che ha un’origine inassegnabile”; c’è ed è singolare e indefinibile_ come l’amore. 32 P. Ricoeur, La memoria, la storia_, cit., p. 650. 33 Ivi, pp. 661-662. 90 indicarlo: se anche avessi tutto, ma non avessi questo dono, non sono nulla34. È la sfida dell’umano al (proprio) nulla. La sfida della gioia al dolore, la sfida della saggezza alla malafede, la sfida della follia alla rigidità, la sfida dell’amore e della promessa al tempo e all’infedeltà, la sfida del perdono alla colpa e al peso dell’irredimibile. Una sfida che accade nel tempo, in ogni attimo, in ogni singolo, e che però “se si enuncia al presente, ciò dipende dal fatto che il suo tempo è quello della permanenza, della durata più inglobante, [_] che ‘non avrà mai fine’ [_], perché ‘essa rimane’. E rimane in maniera più eccellente delle altre grandezze, [_] perché è l’Altezza stessa”35. In questo senso paradossalmente è vero: si può perdonare solo l’imperdonabile, cioè tutto. Perché viceversa nulla sarebbe perdonabile “Il perdono si rivolge all’imperdonabile, oppure non è. Esso è non-condizionale, senza eccezione e senza restrizioni”. Nasce da “una sproporzione: la sproporzione tra la profondità della colpa e l’altezza del perdono”36. Ecco allora l’alternativa al perdono facile e a quello impossibile: il perdono come possibilità6 difficile, sproporzionata, folle, eccezionale: eppure assolutamente necessaria. Come necessaria per l’umano è ogni resistenza al nulla. 34 Ivi, p. 662, in cui Ricoeur richiama (secolarizzandolo) L’inno alla carità di Paolo di Tarso. Su questo cfr. L. Altieri,Le pardon difficile ou: la poétique de la volontéréconciliée,in Breitling, Orth(a cura di), Erinnerungsarbeit. Zu Paul RicoeursPhilosophie, cit., pp. 237-248. 35 P. Ricoeur, La memoria, la storia_, cit., pp. 662-63. 36 Ivi, p. 663. La colpa da Ricoeur non viene, dunque, negata, ma resa ‘possibile’ e liberata dunque dalla necessità che la rendeva irredimibile. Cfr. su questo Ivi, pp. 652 sgg., in cui Ricoeur segue le argomentazioni di K. Jaspers sul tema della colpa. 91 In cosa consiste il perdono difficile e in come, in che maniera, si pone (si può porre) come alternativa a quello facile e quello impossibile? C’è il perdono difficile Si dà, se si dà, quando si dà, solo dopo attraversato tutte le aporie delle false facilità e delle pesanti impossibilità. Si dà nel tempo, nel tempo della lentezza, dell’attesa37. Nel tempo discontinuo delle cadute e delle risalite, dei rifiuti e delle riprese, delle sconfitte e degli abbandoni. Si dà in maniera riflessiva, in prima persona, mettendo al centro il sé, mettendo al centro me. ‘Perdono’ prima di essere un sostantivo, in questa logica è il verbo alla prima persona. Io perdono. Perché nessuno può perdonare al posto mio, se non simbolicamente. Il perdono è ‘atto’ verbale, dice Ricoeur38. Non si dice ‘io perdono’, si fa ‘io perdono’ (dicendolo). Ma c’è una ragione ancor più profonda che collega il perdono all’io e al primo strato della costituzione della persona: la cura di sé, la stima di sé, la relazione con se stessi39. Il primo vero perdono ‘io’ lo do sempre a ‘me’. La prima persona non è solo il soggetto del perdono ma anche l’oggetto. Perdonare è sempre innanzitutto perdonar-si. Perdonare il passato, le ferite, ciò che non è più o non sarà mai; che non si è e non si potrà mai 37 P. Ricoeur, nel dibattito seguito alla relazionetenuta al Colloque international d'Amiens del 1997 sultitolo: La Justice, vertu et institution (relazioneedita in AA. VV., a cura di J. Barash e M. Delbraccio, La sagesse pratique. Autor de l’œuvre de P. Ricoeur, CNDP, Paris-Amiens, 1998, p. 21), dice che perdono significa “dare tempo al tempo – cioè esercitare una grande pazienza”. 38 Id., La memoria, la storia_, cit., pp. 678; 688. 39 Cfr. ancora Id., La persona, cit., pp. 39 sgg. 92 essere; gli sguardi che non sono stati di riconoscimento ma di violenza, le relazioni e le occasioni che non sono state di liberazione ma di oppressione, o di perdita. Perdonare se stessi. Altrimenti è facile: solo perdono facile, che non innesca nulla e nasconde tutto. Per comprendere quest’intuizione ricoeuriana è necessario tornare a collegare il perdono alla memoria, e al suo contrario, cioè all’oblio. Questo lo capiamo facilmente se pensiamo ad un torto subito, ad una violenza ricevuta, ad un tradimento, un abbandono. Generalmente le nostre reazioni oscillano tra due estremi (e tutte le sfumature che sono nel mezzo; spesso anche contradditoriamente legate tra loro). Estremi che possiamo stigmatizzare in un classico dilemma: dimenticare o ricordare? Apparentemente si tratta di due atteggiamenti opposti; ma in realtà spesso si tratta di un’unica postura e uno stesso rischio40. Ricordare, per certi versi, soprattutto all’inizio, è inevitabile. Il pensiero è sempre lì. Come quando si subisce un lutto. C’è una mancanza; e il pensiero ne è inevitabilmente attratto. Difficile dimenticare!Dimenticar-si! Eppure non tutte le dimenticanze sono errori. 40 O. Abel, L’indépassabledissensus, in O. Abel, E. Castelli-Gattinaraet al.(a cura di), La justemémoire. Lectures autor de Paul Ricoeur, «Labor etfides», 2006, pp. 20-48, parla della difficoltà del perdono (e dell’oblio)come della difficoltà di non cedere ad una duplice tentazione: da un lato “la vertigine dell’entropia, l’abitudine che relativizza tutto per cui tutto ritorna all’indifferenza” e dall’altro la negentropia, per la quale la memoriavorrebbe tenere e riprendere tutto (p. 46). 93 Alle volte errore è la troppa memoria. Troppo attaccamento al dolore del proprio passato41. Ci aiuta la plastica immagine di Baudelaire: “Ho più ricordi che se avessi mille anni” _“Un grosso mobile a cassetti, zeppo di conti, / versi, biglietti d’amore, processi, romanze / e pesanti ciocche di capelli avvolte in quietanze, / nasconde meno segreti del mio triste cervello. / È una piramide, un sepolcro immenso / con più morti della fossa comune. / Sono un cimitero aborrito / dalla luna, / dove, come rimorsi, lunghi vermi si trascinano / e infieriscono 42 sui miei morti più cari” . Un cimitero di rimorsi. Una piramide che mummifica insuccessi e delusioni. Un mobile zeppo di ricordi caotici, che pesano e feriscono. Senza ordine né senso. Da cui pare impossibile liberarsi. 41 Sarebbe interessante rileggere in quest’ottica Sé come un altro, che come ha detto a più riprese lo stesso Ricoeur, trova il suo motto esplicativo nel passo di G. Bernanos (Diario di un curato di campagna), che dice: “odiarsi è più facile di quanto di creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo” (cfr. Sé come un altro, cit., nota n. 43, pp. 100-101). 42 La poesia è citata da Ricoeur in La memoria, la storia_, cit., p. 111. 94 Ci prova, abbiamo detto all’inizio, il perdono facile, che Ricoeur collega all’oblio passivo43.Ci prova il (falso) perdono del supereroe-superman che, per smettere di piangersi addosso, per darsi la forza di andare avanti, indossa la corazza del ce-la-posso-fare. Ma resta appunto un oblio/perdono apparente, superficiale, ‘esterno’. Che si illude di schiacciare con una ‘pietra’ il passato, ma in realtà sta innescando solo una rimozione. Di facciata. Non è possibile perdonare realmente dimenticando ciò che è stato, cioè non pensandolo, non significandolo, schiacciandolo nell’abisso di ciò che non deve più risalire alla memoria. Perché l’esperienza (non solo psicanalitica) insegna che, ciò che si rimuove, più potentemente resta come ferita nell’intimo. Il sangue che si copre con la corazza non cicatrizza, incancrenisce. Ciò che in superficie si crede di poter perdonare dimenticando, più ferocemente torna a galla, all’improvviso, mascherato sotto altre forme di dolore, impotenza, incapacità. “La coazione a ripetere è caratterizzata dalla tendenza a mettere in atto un ‘sostituto’ del ricordo. [_] ‘Riproduce 43 Il discorso è in realtà più vasto perché Ricoeur distingue innanzitutto un oblio profondo, che divide in oblio per cancellazione delle tracce (tracce cerebrali e psichiche) e oblio di riserva, reversibile, che è quello a cui attingiamo per ‘recuperare’ i nostri ricordi. Sia la memoria che l’oblio si prestano ad usi e abusi (oblio e memoria impediti o manipolati o comandati), ma anche a ‘felici’ ritrovamenti o ‘felici’ dimenticanze. Poi individua quello che chiama un oblio inesorabile: “che non si limita a impedire (o amputare) il richiamo dei ricordi, ma si adopera anche nel cancellare la traccia di ciò che si è imparato, vissuto: erode l’inscrizione stessa del ricordo, se la prende con [_] le tracce. [_] Effetto malefico del Tempo, potere devastante. [_] Entropia universale: [_] una marcia verso la rovina di ogni conquista, di ogni acquisizione” (Id., Ricordare, dimenticare6, cit., pp. 99-100). E questo non dipende da noi. Non è in nostro potere la lotta contro questo tipo di oblio. Perché si staglia “su uno sfondo di inesorabile disfatta, come una battaglia di ripiegamento” (ivi, p. 100). Da questi distingue poi l’oblio passivo (di cui stiamo qui trattando) e quello attivo, di cui parleremo tra poco. 95 quegli elementi [dimenticati] non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete, ovviamente senza rendersene conto’”44. Ecco che un ‘errato’ (eccessivo) ricordare e un errato (illusorio) dimenticare/rimuovere si tengono per mano. In un caso come nell’altro qual è l’atteggiamento di fondo? È il pensiero che il male subìto, se è passato, se è ormai dato, è incancellabile. Inutile cercarvi un senso. Così è. È stato e sarà. Sì, la giustizia (se non la vendetta) potrà fare il suo corso: ma nulla mi restituirà la mia vita di prima (prima dell’offesa, della ferita, del lutto). E, allora, questo male insensato, non affrontato, non rielaborato, scende, e ci schiaccia, rendendoci un po’ per volta incapaci di rispondere di noi stessi. Non c’è un ‘perché’. C’è solo un ‘che’: il dato di fatto del non-senso. Da qui l’inevitabile coazione a ripeter(si). Qui paradossalmente l’avvitamento del colpevole su stesso è lo stesso avvitamento della vittima su se stessa. Perché entrambi restano inchiodati al proprio passato (quello che ha portato il primo a diventare colpevole e il secondo a diventare vittima). Nessun ‘io ti perdono’ fatto dall’esterno potrà liberare il colpevole dai propri sensi di colpa, se ‘io’ non perdono me stesso (colpevole). Nessuna vendetta o giustizia fatta dall’esterno potrà mai liberare la vittima dal peso di ciò che è stato e di ciò che ha perduto, se ‘io’ (vittima) non perdono/accetto quello che mi è successo. 44 Ivi, p. 73. 96 Qui, però, si gioca, si può giocare l’alternativa del ‘perdono difficile’, che si collega ad un’altra forma di dimenticanza: quella che Ricoeur chiama ‘oblio attivo’. Il perdono difficile (che è il ‘vero’ perdono), infatti, fa notare Ricoeur è esattamente il contrario dell’oblio passivo, tanto nella sua forma traumatica quanto in quella astuta dell’oblio di fuga. Sotto questo aspetto esso richiede un sovrappiù di ‘lavoro di memoria’. (_) È una sorta di oblio attivo, che però non verte sugli avvenimenti in se stessi, la cui traccia al contrario deve essere accuratamente protetta, bensì sulla colpa, il cui peso paralizza la memoria e, per estensione, la capacità di proiettarsi in modo creativo nel futuro. L’oggetto di oblio non è l’avvenimento 45 passato, (_) ma il suo senso e il suo posto . “Io ti perdono”, qui, non significa: non ricorderò più di ciò che è stato. Ma, al contrario, proprio perché lo ricordo e perché non posso dimenticarlo, proprio perché il peso di questo dolore è troppo grande per non incidere sulla mia storia e sul senso della mia esistenza, proprio per questo capisco che devo ‘significarlo’ in qualche maniera. E decido di significarlo con il perdono. Ricoeur fa qui l’esempio delle relazioni tra Stati46. Le memorie dei popoli sono ‘ferite’, perché ogni comunità nasce da una violenza fondatrice, da una guerra, da vincitori e vinti. Cicatrici mai cancellate alimentano lo spirito di vendetta, e lo spirito di vendetta moltiplica le ferite storiche. I totalitarismi hanno rimosso queste cicatrici e perciò hanno rimosso anche la memoria: hanno 45 Ivi, p. 100. Ivi, pp. 84 sgg.; ma cfr. al riguardo anche il saggio ricoeuriano L’identità fragile. Rispetto dell’altro e identità culturale, op. cit., pp. 38-48. 46 97 creato false memorie e false identità. Ma anche il contrario della rimozione, il ricordo fine a se stesso non aiuta la storia. Perché ogni Stato ha i propri ricordi e la propria identità e – nel nome di questa – è pronto a scatenare nuovi conflitti e ridestare l’odio sopito. Ecco, allora, l’oblio attivo e liberatore: il perdono ‘difficile’, non fatto sugli eventi, ma sulla colpa, il cui peso pietrifica il presente schiacciandolo sul passato e privandolo della capacità di progettare il futuro47. “Io ti perdono”, in questo caso, significa: so che mi hai ferito, ma guardo avanti e non indietro, perché solo così possiamo cominciare una storia diversa, che non si limita a rivangare le cicatrici del passato. E che questo perdono dia all’io e al tu la possibilità di creare una nuova storia ‘insieme’ (o che ognuno semplicemente continui la sua nuova vita), questo viene dopo. Prima viene la possibilità di dare a se stessi un ‘nuovo’48. Crederci. Liberarsi. Il perdono difficile “non cancella un debito su una tabella contabile”, ma “scioglie dei nodi” e proprio per questo consente di rompere con la logica della vendetta49. “Obliando non i fatti ma il loro senso” per il presente e il 47 Id., La memoria, la storia6, cit., pp. 647 sgg.; e Id., Ricordare, dimenticare, perdonare, op. cit., pp. 92 sgg. Può essere interessante segnalare, per inciso, quest’‘unità’ del percorso di Ricoeur, che ritorna – al termine della sua riflessione filosofica – nuovamente sul tema della colpa (dal quale era partito in Finitudine e colpa), ma lo affronta e lo ‘risolve’ eticamente, contrapponendogli il suo ‘altro’ dialettico, appunto il tema del perdono. “Dalla colpa al perdono” potrebbe essere un titolo per una ricostruzione del pensiero di Ricoeur. 48 Questa idea della possibilità di un ‘nuovo inizio ’Ricoeur la riprende anche dalla Arendt. Sul tema del perdono, in un confronto tra i due autori, cfr. J. Greisch, Paul Ricoeur. L’itinérancedusens, Millon, Grenoble, 2001, pp.332sgg. 49 P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare6, cit., p. 117. Cfr. anche La traduzione. Una sfida etica,Morcelliana, Brescia 2001, p. 103: “il perdono dice al colpevole: vali più dei tuoi atti. [_] V’è più senso di quanto tu non creda in ciò che professi; e il sovrappiù di senso è detto altrove che in te, da altri da te”. 98 futuro, aiuta ad accettare i “debiti che sono rimasti non pagati”, aiuta ad accettare il fatto di rimanere “debitori insolventi”, ad accettare che ci sia una perdita50. L’oblio liberatore fa sulla colpa il lavoro del lutto e fa emergere dalla malinconia del ‘sarà-sempre-così’. Se i fatti sono incancellabili, il loro senso non è fissato una volta per tutte, ma dipende dal senso che la volontà vorrà e saprà dargli51. “Il passato può venir appesantito o alleggerito a seconda che l’accusa imprigioni il colpevole nel sentimento doloroso dell’irreversibile, o che il perdono apra la prospettiva della liberazione”52. Alla stessa maniera, specularmente, potremmo dire: il passato può venir appesantito o alleggerito a secondache io-vittima mi chiuda nel sentimento doloroso dell’irreversibile, o che il perdono di ciò che è stato apra innanzitutto a me la prospettiva della liberazione. Se mai potrò arrivare un giorno a pensare di voler (più che dover) perdonare chi mi ha offeso o ferito, questo sarà non tanto (non solo e soprattutto non primariamente) per la ‘sua’ liberazione, ma per la mia. Il che ovviamente mai dovrà escludere (ma sempre implicare) il percorso della giustizia. Giustizia esterna nel caso si tratti di offese perseguibili penalmente; ma in ogni caso e prima di tutto giustizia nei ‘miei’ confronti. Mai si può perdonare l’atto, infatti; ma (se mai) sempre e solo l’attore. Mai si può perdonare il male; ma (se mai) chi l’ha commesso. Anche 50 P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare6, cit., p. 118. Su questo tema cfr. A. Breitling, S. Orth(a cura di), Erinnerungsarbeit.Zu Paul RicoeursPhilosophie von Gedächtnis, Geschichte und Vergessen,BerlinVerlag Arno Spitz, Berlin, 2004. 52 P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare6, cit., p. 141. 51 99 l’eventuale gesto (nobile) del perdono, non ha il potere né il dovere di alleggerir il male; al contrario ha il dovere di dichiarare e ricordare sempre l’ingiustizia (subìta); di dire (a se stessi innanzitutto) ‘questo è (stato) male’ e non è accettabile che si ripeta. Il perdono non fa sconti. A nessuno. Libera, se mai: più di quanto la mera giustizia riesca mai da sola a fare. Il perdono chiede un di più; non un di meno. Solo se si è attraversata la richiesta/accettazione di giustizia si può iniziare a provare ad attraversare anche l’odissea del perdono. Ma il problema resta. Se sono chiuso, chiusa nel cerchio malinconico e ferito della mia memoria/identità? Schiacciato dal mio passato (di carnefice o di vittima che sia)? Come passare dall’oblio passivo a quello attivo, dal perdono facile a quello difficile, dalla prigionia alla liberazione? La risposta di Ricoeur, cresciuto nell’ermeneutica del racconto, prima ancora che in quella del riconoscimento è: “lasciarsi raccontare altrimenti; lasciarsi raccontare dagli altri”53. Accettare la sfida di non ‘dirsi’ da soli il proprio passato e la propria identità, perché, finché sarà così, la frustrazione non potrà che rimanere nel proprio specchio di dolore. Accettare la sfida di ascoltarsi raccontare dagli altri, che - dall’esterno - possono vedere diversamente da noi la nostra identità e leggere diversamente da noi il nostro passato. Forse per qualcuno non sono solo la vittima. Forse per qualcuno non sono solo il carnefice. Forse qualcuno è capace veramente di pensare che io “valgo più dei miei 53 Ivi, pp. 43 sgg; ma cfr. anche La traduzione, cit., pp. 82 sgg.; La memoria, la storia, cit., pp. 636 sgg. 100 atti”: di quelli colpevolmente agìti e di quelli tragicamente subìti. Imparare a raccontarsi altrimenti, ascoltando il racconto degli altri e considerando il racconto degli altri fondamentale, almeno quanto quello che noi facciamo di noi stessi. Nessuno popolo è da solo il centro della storia. Nessun individuo è da solo il centro della propria storia. Lo scambio dei racconti è la via che può consentire il recupero di una diversa memoria, di una diversa identità e quindi di un diverso futuro. C’è da chiedersi, però: quando ci troviamo davanti ad un’auto-chiusura? È realmente possibile perdonare se stessi, il proprio passato, le proprie incapacità? Da soli no, non possiamo perdonarci. “Il perdono non può rimanere chiuso entro un rapporto narcisistico tra sé e sé, poiché presuppone la mediazione di un’altra coscienza, quella della vittima”54. Ma se la vittima e il carnefice sono la stessa persona? Se sono io (incapace di perdonare, perdonarmi, andare avanti) che ho ferito e sto ferendo me stesso? Se sono io che devo perdonare me stesso? Anche in questo caso, anzi a maggior ragione in questo caso – ci sembra di poter dire – è necessario un ‘terzo’ che faccia da mediatore tra i due, tra l’io offeso e l’io offensore. Anche qui ci sono ‘due’ che si scontrano: il passato da perdonare, il presente che non vuole perdonare. Anche qui c’è una vittima (l’io presente, ferito per colpa delle scelte dell’io del passato) e un carnefice 54 P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare6, cit., p. 100; cfr. anche Id., La memoria, la storia, cit., pp. 678 sgg. 101 (l’io del passato che ha ‘generato’, nella sua chiusura e nel suo blocco le chiusure dell’io del presente). L’io del presente può liberarsi solo con l’oblio attivo che dice al se stesso che è stato: io ti perdono. L’io del presente può cominciare una nuova storia solo se dice alla storia che è stata: non eri l’unica possibilità, non sei l’unica possibilità. L’io del presente può uscire dalla coazione a ripetere solo se torna a recuperare le possibilità che nel passato non si sono realizzate, ma che sono ancora lì, pronte per essere riprese e risignificate. Nella storia dei popoli, questo è l’affascinante compito che tocca – in maniera diversa – allo storico e agli “educatori pubblici”55. Nella storia delle singole persone questo è l’affascinante compito che tocca all’amore. L’amico, l’amante, colui il quale riconosce e ama, svolge nell’incontro con l’altro il ruolo che dovrebbe avere, nell’intuizione freudiana ripresa da Ricoeur, il terapeuta nei confronti del paziente: sanare le ferite del passato, risvegliare il senso del presente, riaprire la progettualità del futuro56. Al di là delle indicazioni cliniche, Freud formula due proposte terapeutiche che sono per noi della più grande importanza [_], la 55 “Gli uomini del passato, immaginati nel loro presente vissuto, hanno progettato un certo avvenire, ma la loro azione ha avuto conseguenze non volute, che hanno fatto fallire i loro progetti e deluso le loro speranze più care: [_] un cimitero di promesse non mantenute. Non è più compito dello storico di professione, ma lo è di coloro che possiamo chiamare educatori pubblici – di cui dovrebbero far parte anche i politici – quello di risvegliare e rianimare queste promesse non mantenute”: Id., Ricordare, dimenticare6, cit., p. 43. 56 Id., Il perdono può guarire?, tr. it. di I. Bertoletti, in “Hermeneutica”, 1998, pp. 157163. Ricoeur, parlando del perdono come atto contrario all’oblio di fuga, conclude_ che “perciò può guarire”, ma, per guarire, serve mediazione dell’altro. In questo senso, “non è un lavoro ma un dono”. 102 prima delle quali riguarda l’analista, la seconda l’analizzando. Al primo è consigliata grande pazienza verso le ripetizioni che sopravvengono sotto la copertura del transfert. [_] Al paziente è chiesto di cessare di lamentarsi o di nascondersi il proprio vero stato: ‘egli – scrive Freud - deve trovare ora il coraggio di rivolgere la sua attenzione alle manifestazioni della sua malattia. La malattia stessa deve cessare di essere per lui qualcosa di esecrabile e diventare piuttosto un degno avversario, una parte del suo essere che si fonda sopra buoni motivi, e da cui dovranno essere tratti elementi preziosi per la sua vita ulteriore. Altrimenti non c’è nessuna riconciliazione del 57 malato con il rimosso’ . Il secondo è il compito che abbiamo come identità ferite, come pazienti, come vittime di noi stessi e di ciò che non amiamo di noi e del nostro passato: il compito del coraggio della verità, del riconoscimento dei nostri limiti. Il primo è il compito che abbiamo come poeti dell’alterità: il compito dell’attenzione alle ferite dell’altro, della cura, dell’accoglienza e soprattutto della pazienza, dell’attesa, della non invadenza58. Il lavoro dell’incontro con l’altro si gioca tra questi due compiti “la pazienza verso la ripetizione e [_] il coraggio nel riconoscersi, [_] alla ricerca di un rapporto veridico con il proprio passato”59. 57 Id., Ricordare, dimenticare6, cit., p. 74. Già in Filosofia della volontà I, Il volontario e l’involontario, Ricoeur scriveva: “Vi sono certi incontri che non soltanto mi apportano ragioni di vivere che posso valutare, approvare, ma che veramente operano nel cuore del volere come una conversione, che la portata di una vera nascita spirituale. Questi incontri sono creatori di libertà; essi sono liberatori. Tali possono essere l’amicizia o l’amore di coppia. [_] L’azione in qualche modo ‘seminale’ che questi esercitano nel cuore stesso nel volere appartiene già all’ordine della ‘poetica’ della volontà” (Filosofia della volontà I, Il volontario e l’involontario, tr. it. di M. Bonato, Marietti, Genova 1990, p. 129). 59 Id., Ricordare, dimenticare6, cit., pp. 74-75. 58 103 In questo senso, nessuno può perdonarsi da solo, perché nessuno può guarirsi da solo, perché nessuno può essere veramente se stesso. Se al termine del lunga odissea del perdono difficile sono in grado di perdonare un altro è perché prima sono stato (stata) in grado di perdonare me stesso (me stessa). Ma se nella svolta decisiva del ritorno al sé (verso Itaca) sono stato in grado di perdonare me stesso, me stessa è perché mi sono lasciato, lasciata curare da uno sguardo paziente d’amore. Se, al contrario, chiuso nel cerchio dell’(auto)accusa non arrivo a perdonare la mia caduta nella colpevolezza (o nella malinconia), e non consento agli altri di curarmi e aiutarmi a perdonare questa caduta, questa ferita, sempre più inevitabilmente il cerchio dei sensi di colpa o del bisogno di vendetta si chiuderà intorno a me, fino al punto in cui arriverò a credere che il perdono è impossibile. L’esperienza insegna che colpevoli o incapaci di perdono non si nasce. Si diventa. E che, quindi, liberi si può sempre tornare ad essere. Nel coraggio dell’affidamento ad uno sguardo che dice: tu. Tu come sei nella tua originaria vocazione alla ri/creazione; tu come puoi tornare a diventare; non tu come credi di essere e di dover necessariamente rimanere. L’incontro con qualcuno capace di risvegliare in noi la nostra bellezza primordiale è nuova creazione che dice: ‘sia’60. Se questo qualcuno è poi un tu che mi ha perdonato (nonostante le mie colpe dei suoi confronti), se 60 Cfr. Id., La memoria, la storia6, cit., p. 186: “I miei più vicini sono coloro che approvano che io esista e dei quali io approvo l’esistenza nella reciprocità e nella parità della stima”. 104 la parola creatrice che mi viene rivolta è ‘io ti perdono’ (e questo è realmente un atto linguistico, un perdono difficile e non un dire retorico di facciata), allora questa parola è veramente un ‘raccontare altrimenti’. È un raccontare che non narra ciò che è stato e che non poteva non essere, ma ciò che poteva darsi diversamente e che ancora ‘può’ darsi. Il perdono canta il possibile. E per questo, nel deserto del nichilismo e dei sensi di colpa, schiude nuovi sentieri, traccia parole nuove. Ecco, allora, la proposta paradossale di Ricoeur, oltre le superficialità e le maschere del perdono facile; oltre le negazioni decostruttive del perdono impossibile: il rischio di un fragile perdono, difficile ma possibile. A chi ritiene che il perdono non esista, l’esperienza risponde semplicemente: Il y a le pardon. Si dà. Accade. Lo vedi. Possibile. In te. Attorno a te. Magari quando meno te l’aspetti. Dopo tempo. È stato il tempo. È stato lo sguardo di un altro nel tempo. E sei stato anche tu61. Il y a. C’è. C’era già. C’è sempre stato, come possibilità. Ad aspettarti. Ad aspettare che tu lo accogliessi, lo riconoscessi e lo rilanciassi. E la memoria si perde nell’immemoriale. A quella prima volta che io sono stato perdonato, perdonata. Da qualcuno. E forse non ricordo nemmeno da chi (forse da mia madre, da mio padre, da un’amica, un amico_). E forse non ricordo nemmeno perché. E la memoria si perde nell’immemorabile. A quella prima volta che ho sperimentato il perdono e tra le labbra quella 61 Cfr. Id., Responsabilité et fragilité (in «AutresTemps», 1992,36, pp. 7-21, la cui conclusione è: “c’è un tempo per l’imperdonabile e untempo per il perdono. Il perdono esige ‘lunga’ pazienza”. 105 parola ha acquistato per me un senso. Perduto poi nelle ferite della mia storia. E reso illogico, assurdo o forse solo maschera di una falsa coscienza. Ma non così all’origine dell’esperienza. E forse non così alla fine, se lo voglio (perché lo posso). Il y a il perdono: che mi precede, da sempre. Posso perdonare (e perdono) perché sono (già) stato perdonato. Almeno una volta. Tanto tempo fa. Capiamo, allora, perché la logica del per-dono per Ricoeur è comprensibile solo nella logica (autentica) del dono. La generosità del dono suscita non una restituzione che, in senso proprio, annullerebbe il primo dono, ma qualcosa come la risposta ad un’offerta. Al limite, occorre considerare il primo dono quale modello del secondo dono e pensare il secondo dono come una sorta di, se 62 così si può dire, ‘secondo primo dono’ . Vale per il perdono autentico quello che vale per il dono autentico (e l’amore autentico). È un ‘rischio’63. Si assume il rischio di essere rifiutato, di non essere riconosciuto, di non essere accettato, apprezzato. Si consegna alla possibilità della misconoscenza e dell’ingratitudine, della non 62 Id., Percorsi del riconoscimento, tr. it. di F. Polidori,Cortina, Milano, 2005, p. 270. “Questi comportamenti riconducono il primo dono al centro del quadro, e questo perché il primo dono diventa il modello del secondo dono” (ivi, p. 259). 63 Cfr. Ivi, p. 271 in generale sul tema del rischio del dono. Invece più in particolare sul rischio del perdono, cfr. Id., Ricordare, dimenticare_, cit., p. 111: “L’autore dei torti può soltanto chiedere il perdono; ancora, deve affrontare il rischio del rifiuto. In questa misura il perdono deve anzitutto essersi scontrato con l’imperdonabile. Questa possibilità ci deve perciò mettere in guardia contro la facilità del perdono: se esso deve contribuire alla guarigione della memoria ferita, è necessario che sia passato attraverso la critica dell’oblio facile” 106 reciprocità64. Il colpevole che chiede perdono può non essere perdonato dalla vittima. La vittima che accetta di iniziare un difficile percorso di perdono di sé (e dell’altro) può non riuscire ad arrivare al termine del percorso. Ma proprio per questo, l’odissea del perdono difficile (come quella del dono e dell’amore difficile) è anche e sempre un’attesa. Un’attesa che resta sempre aperta alla possibilità “di una sorpresa”. La sorpresa di un “ti perdono” che risponda alla mia richiesta di perdono; la sorpresa di un sentirsi perdonati che risponda alla mia attesa di riconciliazione con me stessa, con me stesso. Per questo, ogni perdono autentico ha un carattere “festivo”. Di sospensione della ferialità. Di eccezionalità. “Il festivo che può abitare i rituali dell’arte di amare, nelle sue forme erotiche, amicali e societarie, [_] così come i gesti di perdono”65: è poesia, non prosa quotidiana, dice Ricoeur66. Per questo, ogni autentico perdono donato e ricevuto si iscrive nel registro della gratuità. Gratuità che evoca 64 Così come per l’amore, anche per il perdono l’ideale di Ricoeur è quello di un mutuo riconoscimento. Cfr. ivi, p. 117, dove si parla di ‘mutuo perdono’, riconciliazione come ‘riconoscersi reciproco’. 65 Id., Percorsi del riconoscimento, cit., p. 273: “c’è qualcosa di festivo nelle pratiche di dono così comein quelle della solennità del gesto di perdono o della domanda di perdono,[_] come il gesto del cancelliere Brandt che a Varsavia si inginocchiaai piedi del monumento alla memoria delle vittime della Shoah. Gesti come questi non possono costituire un’istituzione, ma, portando in lucei limiti della giustizia dell’equivalenza e aprendo uno spazio di speranzanell’orizzonte della politica e del diritto sul piano postnazionale e internazionale,questi gesti producono un’onda di irradiazione che, in manierasegreta e obliqua, contribuisce all’avanzare della storia verso gli stati di pace”. 66 Sul tema della poesia e delle arti in Ricoeur, rimandiamo al numero monografico (a cura di A. Caputo) della rivista on-line “Logoi.ph”, I, 2, 2015: Paul Ricoeur e la sinfonia delle arti. 107 gratitudine. E gratitudine che chiama nuova gratuità. Reconnaissance (riconoscenza – riconoscimento)67. Il riconoscimento desta riconoscenza. Il sentirsi perdonati e riconciliati innanzitutto con se stessi genera perdono e riconciliazione. E solo perché, come dicevamo prima, il y a il perdono, solo perché abbiamo (già) fatto un’esperienza di perdono, solo perché qualcuno ‘prima’ ci ha perdonati_, solo ‘dopo’ anche noi diventiamo capaci – a nostra volta – di perdono. C’è, allora, un colpo di scena! Un risvolto paradossale della logica del perdono (del tutto simmetrico al paradosso della logica dell’amore): che non va dal perdono che do a quello che ricevo, ma da quello che ho ricevuto a quello che posso dare. Non dalla gratuità alla gratitudine, ma dalla gratitudine alla gratuità. Perché si tratta di un’osservazione importante, di un colpo di scena? Perché, se viene prima la gratitudine – se prima devo poter dire ‘grazie’ a te (_che mi hai perdonato), e solo dopo posso a mia volta donare e perdonare – allora questo significa che io non posso mai essere la ‘prima’, il primo a perdonare. Significa che io sono sempre ‘secondo’, ‘seconda’. C’è sempre un perdono che mi precede, che mi ha riempito e preceduto. Il y a il perdono. Nessuno è un primo perdonante assoluto. Ogni desiderio di perdono è sempre risposta, sempre un “secondo primo perdono” – possiamo dire 67 Cfr. a riguardo A. Martinengo, Ermeneutica del soggetto ed esperienza del perdono nel pensiero diRicoeur, in M. Piras (a cura di), Saggezza e riconoscimento, cit., pp. 189-208; e D. Iannotta, Verità, perdono, riconciliazione: PaulRicoeur, in «Esodo», 2005, 4. 108 parafrasando l’espressione di Ricoeur “secondo primo dono”. Nasce, allora, inevitabilmente una domanda, che in termini tecnici si direbbe ‘metafisica’. Qual è l’Origine del perdono? Come è possibile che nasca (o che si sia nato, originariamente) il perdonare, se è vero che siamo sempre secondi? Qui si apre l’enigma del perdono (che coincide con l’enigma dell’origine del dono e quindi dell’amore). E su questa soglia si biforcano nuovamente la filosofia e la religione. Se per la coscienza credente il Primo perdonante coincide con il Primo donatore (e Creatore e Padre), per la fenomenologia antropologica l’il y a resta, come enigma, in sospeso. Forse il filosofo in quanto filosofo– scrive Ricoeur –, deve confessare che egli non sa e non può dire se questo Altro, è un altro che io possa guadare in faccia , o i miei antenati, [_] o Dio – Dio vivente, Dio assente – o un posto vuoto. Su questa aporia 68 dell’Altro si arresta il discorso filosofico . All’origine c’è un Perdonate primo che possiamo chiamare ‘Dio’? È il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo? La filosofia si ferma su questa domanda-soglia. Una certezza solamente ci consegna, ed è quella dell’il y a che abbiamo ripercorso in queste pagine: bisogna sentirsi perdonati, per poter imparare a perdonare. Siamo secondi. Il perdono ci precede. Oltre questo dato, si apre l’enigma dell’Origine, enigma che è quello stesso della vita, della nascita e della morte. 68 È il noto finale di P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1993, p. 473. 109 Certo, se c’è (il y a) il perdono, ‘esso rimane’, come vien detto dell’amore nell’Inno che ne celebra la grandezza; se esso è l’altezza stessa, allora non permette né prima né poi, mentre la risposta del pentimento arriva nel tempo, che essa sia improvvisa, come in certe conversioni spettacolari, o progressiva, alla prova di un’intera vita. Il paradosso è, precisamente, quello del rapporto circolare fra ciò che 69 ‘rimane’ per sempre e ciò che accade di volta in volta . 110 69 Id., La memoria, la storia_, cit., p. 698. EN EL AÑO DE LA MISERICORDIA Juan Carlos García Jarama Me piden una pequeña contribución acerca del Perdón y he aquí que la presento con gusto pues, además de cumplir con tal solicitud, respondo también a un deseo interno del corazón. Sí, en efecto, “todos tenemos necesidad de contemplar el misterio de la misericordia”, como señala el Papa en la Bula de convocación de este gran Jubileo, que está para concluir. La sencilla reflexión que ofrezco presenta el itinerario por el que la meditación humana ha ido discurriendo, hasta alcanzar el sentido definitivo de este atributo esencial en el que se revela, de manera sublime, el rostro mismo de Dios. El esfuerzo fatigoso del entendimiento filosófico con sus limitados, pero meritorios logros, se ha encontrado con la rica aportación de una divina revelación, gratuitamente concedida; merced a ésta, aquél encuentra un resultado humanamente insospechado. En efecto, la misericordia y la compasión no siempre han sido comprendidas como cualidades nobles y dignas del humano adulto, menos como atributos propios de un ser trascendente y divino. Basta recordar algunas culturas de la antigüedad e incluso de la modernidad, para las cuales semejante modo de comportarse es equivalente a debilidad y flaqueza, siendo su paradigma la virilidad y la fortaleza. 111 De la omnipotencia a la misericordia - “Todos los hombres tienen naturalmente el deseo de saber”, dice Aristóteles al inicio de su Metafísica. Su entendimiento no queda detenido ante la seducción que le provocan las cosas sensibles en su manifestación; antes bien, en ellas encuentra siempre un reclamo para ir más adentro, al margen de su utilidad inmediata, y alcanzar su sentido más profundo. También al “filósofo” que todos llevamos dentro le importa saber lo que las cosas son, le inquieta saber qué es en realidad el mundo que le cobija y, por encima de todo, le preocupa saber quién es el y quiénes son aquellos con los que convive. No obstante, dentro de su inutilidad, una cierta dimensión práctica de este conocimiento le orienta también a saber a qué atenerse, a cómo comportarse, a preguntarse si vale la pena hacer esto o dejarlo pasar. Todo hombre, antes o después, a medida que va madurando, busca saber si tiene o no sentido cuanto hace, cuanto sufre o cuanto goza, cuanto ha vivido y cuanto proyecta vivir. En el fondo de la cuestión se esconde lo más propio y especifico del ser humano, pues el hombre es el único animal capaz de cuestionar su propia realidad y la de todo aquello que le circunda; el único que recoge en la memoria o que anticipa, en la esperanza, lo porvenir. Es el único que busca, sin descanso, la felicidad. Es en virtud de esta inclinación natural, precisamente, como el ser humano pasa del interrogante sobre el mundo a la pregunta acerca de sí mismo, y de ésta a la cuestión de la trascendencia después. Gracias a sus facultades naturales, el hombre es capaz de atisbar la 112 realidad de Dios, como un ser superior y omnipotente, al que atribuir el origen de cuanto existe y en el que pensar, también, como meta del devenir de la historia. La dimensión espiritual de la persona posibilita que, cuando ésta se sumerge en su propia intimidad, reconozca –o pueda reconocer, al menos- la huella de Otro mayor, anterior y necesario, que justifica y fundamenta la existencia contingente de que ella misma goza. El libro abierto del cosmos, gran muestrario de la intervención del Creador, así como el laberinto interno de la personalidad, constituyen vericuetos recorridos por el hombre, a lo largo de la historia del pensamiento, para descubrir a Dios. De la mano de la existencia divina, el entendimiento humano también puede descubrir algunos de sus atributos metafísicos, algunas de las cualidades, íntimamente conectadas con aquella forma de ser. No podemos tener, no tenemos de hecho, noticia alguna de la existencia de cualquier cosa sin tener, por lo mismo, alguna noción acerca de su esencia, por vaga e imprecisa que ella sea. También sucede así con Dios. Cuando nuestra inteligencia pasa del conocimiento de las cosas contingentes a la causa de las mismas, de alguna manera puede sospechar, en esta última, su razón de ultimidad, de Causa absolutamente necesaria e incausada, de perfección absoluta. Si lo que contempla en el mundo es una cualidad imperfecta, una belleza siempre incompleta, la bondad envuelta en fragilidad o una verdad fácilmente amenazada, no le será difícil postular al menos la existencia de una Perfección en grado pleno, fuente y origen de aquellos otros modos limitados. Cuando lo que despierta su curiosidad es, en 113 cambio, la armonía natural y el ordenamiento tan maravilloso del universo en que vivimos, no tendrá demasiado inconveniente en proponer al Artífice de semejante diseño inteligente y no absolutamente absurdo. Y si lo que sorprende al pensador es la presencia de una ley moral universal e incuestionada en su interior, sanción incondicionada y retribución sin excepción, tal vez pueda sospechar la intervención, en todo ello, de un Legislador divino. Así, por distintos caminos de aproximación, es como numerosos pensadores de la antigüedad, y también en nuestros días, se han acercado al Absoluto: un Dios inmutable y eterno, infinito y poderoso, necesario y trascendente, ser por sí, absolutamente independiente, origen y meta final de cuanto existe. Por muchas que sean las teorías que intentan dar razón del rasgo distintivo y específico del ser divino, que aquello que le resulta más característico, en el fondo se mueven todas ellas en el orden de un nivel metafísico, trascendente o sobrenatural. Si se trata de la omnipotencia, esta lo separa de la debilidad; si la principal cualidad considerada es la eternidad, esta lo coloca al margen de nuestra historia; si el distintivo de Dios es su santidad, no puede Dios tener comercio alguno con la criatura empecatada; si Él es el ser por sí, no resulta fácil comprender una amable relación con cuanto encuentra su radical explicación fuera de sí. Ante una realidad así, cabe preguntarse si el ser humano significa algo. Si el eterno es impasible, si el origen es inmutable, si Dios es trascendente, se abre una brecha que separa, irremediablemente, el dominio de ambos 114 mundos. El hombre tiene el peligro de quedar aislado, desorientado y olvidado, debatido en una huérfana existencia, indiferente para Aquél. No es de extrañar, entonces, que de este planteamiento se siga, con frecuencia, una especie de agnosticismo teórico que distancia al ser divino, hasta el punto de caer en un silencio práctico ante Dios. Pero puede suceder, por el contrario, que ávido de protección y abrigo, el hombre acerque tanto el eterno cielo a la pobre tierra que termine por concebir un Dios semejante y próximo, mas revestido, esta vez, de todos los defectos que encontramos en el propio ser humano. Agnosticismo y antropomorfismo, esas son las dos opciones de esta angosta encrucijada. No parece, pues, posible concebir la esencia metafísica de Dios sin padecer, en su trascendente lejanía, el desconcierto de una vida solitaria o el consuelo insatisfactorio de una proyección a la medida de la deficiencia personal. 1.2.- Ha sido gracias a la auto-revelación del Dios de los judíos, a lo largo de los siglos, como ha podido un pueblo, elegido de entre todos, descubrir algunas otras cualidades que se esconden en el corazón invisible de Dios. A la razón le ha superado la fe; al esfuerzo humano le ha coronado la gracia divina; lo que empezó el hombre, Dios mismo lo ha llevado adelante. La religión natural, como apertura y búsqueda infatigable de un sentido definitivo para el hombre, ha pasado a ser la relación personal y amorosa con Aquél que, además de ser origen, guía y meta del universo, manifiesta caracteres personales, esto es, se revela como Padre que conoce y que ama, que llama y que salva. De este 115 modo, irrumpe una concepción religiosa absolutamente original: la lejanía de Dios se convierte en presencia cercana, su trascendencia en curación inmanente, la eternidad divina entra en la historia y se hace éxodo temporal, su inmutabilidad asume el arrepentimiento y el cambio que hace pasar del enojo de los celos a la ternura paciente, de la pasión encendida al cuidado providente. La relación con este Dios, al que se pide y del que se espera, ya no es un mero o ilusorio sentimiento que vincula criatura y creador, el mundo de lo profano con el ámbito de lo sagrado impersonal y, generalmente, prohibido. La dependencia ahora incorpora la adhesión en libertad, la conciencia y el amor. Una nueva e inesperada visión religiosa se establece y, con ello, una nueva manera de entender la acción de Dios y la respuesta humana. Si Dios habla, el hombre debe escuchar, y si Dios actúa, el hombre ha de obedecer. Dios no es un insensible maquinista que ha dado cuerda al mundo y, en él, al hombre que lo habita. Revestido de entrañas propias de una madre puede, incluso cuando ésta se olvidara del fruto de su vientre, colmar en el corazón del hijo toda clase de impensable abandono. La misericordia divina, a favor de los hombres, no conoce obstáculo alguno ni limitación a su fidelidad. La debilidad y la pobreza de su criatura, lejos de impedir su intervención benéfica, la provocan y aceleran. De La Misericordia Al Perdón - Como venimos diciendo, en la revelación bíblica nos encontramos no sólo con un Dios que manifiesta su 116 poder en todo lo que hace, de manera justa y soberana, sino que además hayamos la acción de un Dios que se vuelve e interviene a favor de su pueblo, anticipo de la humanidad entera. Ser personal, el Eterno busca y llama, conoce y rescata. No es una realidad lejana a quien la vida del hombre resultara indiferente, antes bien, el comportamiento del hombre le grada u ofende, le complace o enoja. La experiencia progresiva de Israel va descubriendo las entrañas de un ser divino que, además de inefable y celeste, se revela también compasivo y misericordioso. El que ha creado, el que ha elegido, no permanece impasible ante la respuesta humana, ante su pobreza y necesidad, más aun, ante su pecado e infidelidad. El mensaje bíblico de la misericordia no es una cuestión meramente espiritual, sino que conlleva unas necesarias implicaciones concretas de tipo moral y social. El Dios misericordioso que salva no es un Dios de muertos, ni goza destruyendo la vida, sino que es un Dios de vivos, que ama y restablece la vida por él creada. Por eso, quien recibe y goza de su misericordia no puede sino devenir portador y testigo del mismo compromiso a favor de la vida (de todas las vidas). La misericordia significa que el propio corazón de quien la experimenta se vuelve hacia la pobreza de los miserables. En la Biblia no hay pobreza ni miseria mayor que la del corazón, es decir, la del sufrimiento moral y, sobre todo, la del pecado. La misericordia divina, por la que Dios se inclina para atender las heridas de la existencia humana, lejos de consistir en una muestra de fragilidad lo es de soberana fortaleza. En efecto, Dios 117 muestra su poder cuando perdona, cuando vacía su intimidad para arropar al miserable, al pecador. Aparentemente resulta difícil conciliar la misericordia con la justicia divina y, sin embargo, no hay más justicia, no hay más santidad, que aquella que disfruta compartiéndose en favor de los más desvalidos. Si la misericordia “se ríe del juicio” no es porque lo contradiga, sino porque lo trasciende. En su especial predilección por los más pobres, por los más débiles, la justicia inflexible de Dios se transforma en experiencia de ternura y compasión. En realidad no se contradicen, pues la misericordia es el verdadero nombre de la justicia divina. Una justicia que crea y que salva, una justicia que acompaña fielmente y que se comunica gratuitamente. Dios justo lo es porque no se contradice, porque obra conforme a su propio ser, porque actúa y habla como es. La justicia de Dios hace que su comportamiento sea conforme a su ser; pero su ser es amor, bondad y ternura: santidad. Por eso, la justicia de Dios es obrar santamente, más aun, obrar santificando cuanto juzga, cuanto hace justo (justi-fica) y bueno, como es Él. ¿Vamos a tener nosotros envidia de Dios, porque él sea bueno? Dios, tres veces santo, santifica en virtud de la alianza que establece con los hombres y a la que estos pueden responder creyendo. Pero entonces la fe no es una cuestión puramente teórica, no es simplemente considerar que debe existir Dios, o que lo que ha revelado debe ser verdad. La fe, en el contexto de la alianza misericordiosa, es algo más: una respuesta total, 118 una adhesión en libertad que provoca la donación del hombre al mensaje divino y a su portador. Si los profetas pregonan la misericordia de Dios, son los Salmos, experiencia poética de oración, donde se encierran las expresiones más bellas al respecto. En ella encuentra consuelo y esperanza el pecador; ella es una tabla de salvación para el pueblo también cuando debe asumir las consecuencias de su infidelidad. Lejos queda el dios impersonal del budismo o incluso la no violencia del hinduismo, las reglas del comportamiento ético o incluso el Dios del islam. El Dios de Israel ha mirado y ha visto la aflicción de su pueblo, y ha reaccionado. Pero no es otro, diverso de aquel Omnipotente para los filósofos antiguos. En un sentido hondo y real no podemos mantener la disyuntiva pascaliana; en todo caso, será obligatorio repensar el modo profundo de conciliar la imagen filosófica de Dios y su comprensión bíblica. El único Dios soberano, conmoviéndose, actúa, libera y salva. La misericordia y el perdón adquieren, a la luz de la revelación, una nueva dimensión: el auténtico nombre de Dios es Amor. Así, la potencia absoluta de Dios se muestra, precisamente, en que puede vencerse a sí mismo, puede hacerse donación a favor de los más desprotegidos e incluso de los pecadores. Bajo los efectos del marxismo y de otras ideologías semejantes se oyen, todavía hoy, voces a favor de la justicia social y en contra de la caridad, como si aquella fuera contraria a la misericordia cristiana. Según aquellas, no se trata de amar ni perdonar, de hacer limosna ni dar por caridad, cuando en realidad lo que se debe hacer es implantar la justicia social. No están lejos, quienes así 119 piensan, de aquella ética kantiana que se funda en la obligación de un deber, puramente racional, al margen de cualquier otro tipo de sentimientos morales. Pero si hay algo debido a todo hombre, en su humana menesterosidad, eso es precisamente el respeto, el afecto e, incluso, el perdón. En este sentido conviene recordar lo que apuntaba Benedicto XVI en su encíclica Deus caritas est: que no hay orden estatal, por justo que sea, que haga superfluo el servicio del amor. Desentenderse del amor significa, en el fondo, desentenderse del mismo hombre, pues de entre todas sus necesidades, no es la menor la del amor. Si es verdad, también antropológica, que "no sólo de pan vive el hombre", esto implica que junto a sus necesidades materiales hemos de atender a las no menos importantes necesidades anímicas, culturales y, sobre todo, espirituales. La misericordia de Dios Se ha encontrado, a lo largo de los siglos, con la ingratitud humana como respuesta. El pueblo elegido, objeto de las confidencias eternas de Dios y de su plan de salvación, ha olvidado una y mil veces las acciones de su Señor. El reproche de los profetas, primero, y su invitación, después, se dirigen a recordar las maravillas de su Salvador. El pueblo olvida, pero Dios se acuerda. Por eso la salvación consiste en hacer memoria, en actualizar la obra de Dios, viva en el corazón. Re-cordar (lo mismo que su contrario olvidar) ya no es una cuestión puramente intelectual o de la mente, sino algo que tiene que ver, más bien, con el corazón, con ese núcleo interior 120 de la persona donde se revuelven y saborean, donde se disfrutan y experimentan los beneficios de Dios. Así pues, podemos decir que también el olvido afecta no a la facultad cognitiva sino a lo profundo del corazón. Olvidar es no tener en cuenta, es caer en la ingratitud y comportarse de espaldas al don recibido, es cometer una grave infidelidad. De este modo, la gravedad del pecado pasa de pura trasgresión de un precepto legal o formal a una ofensa personal. El pecado se reviste también de connotaciones personales. Por eso, en adelante, la suprema manifestación que puede hacer Dios de su soberana omnipotencia, será precisamente la misericordia para con el hombre pecador. Para el hombre de todos los tiempos, su poder se muestra en una exhibición de fuerza sin medida, incluso de venganza, o de ajuste de cuentas sin piedad. Ante el rechazo humano, en cambio, la fuerza de Dios se hace misericordia y perdón. Porque Dios es ya en sí mismo amor eterno, es decir, donación recíproca e inmanente en virtud de su autocomunicación, puede salir y expresarse fuera de sí, misericordiosamente, sin perder ni ganar absolutamente nada de su realidad más íntima. Ciertamente la santidad de Dios se manifiesta, de manera excepcional, en el perdón del pecador. Totalmente otro, Dios es por su misericordia amigo y confidente, compañero y esposo, padre y pastor. Al hacerse cargo del pecado humano Dios se vacía, dándose, movido por su misericordioso amor. De este modo cumple su poder la cima más insospechada de fuerza: la de hacerse debilidad para fortalecer al débil por naturaleza. 121 Poco a poco se irá alejando la idea de un Dios violento y castigador, y se irá sustituyendo por la de quien no se complace en la muerte del pecador sino en su propio arrepentimiento y conversión. Dios no aguarda, para sorprender a traición, al hombre en su falibilidad y condenarlo; ante la ausencia de una respuesta fecunda, el divino viñador sabrá siempre dar una segunda oportunidad, no tanto porque el hombre se haga digno de ella, cuanto por Su misma paciencia y santidad. En la experiencia de la misericordia divina, el hombre descubre no sólo la fuente de su permanente consuelo, sino incluso el auténtico límite a la existencia y la fuerza del mal en el mundo. No sólo las catástrofes naturales, sino también las violentas reacciones de los pueblos, o los sufrimientos no buscados de los inocentes, han sido desde antiguo un gran motivo de escándalo y de confusión. Cuando el rostro de la misericordia divina se muestra, ofrece al interrogante humano no poca consolación. La suerte del Dios de Israel parece, en adelante, irse aparejando a la de su pueblo. En esta eterna misericordia tiene su origen tanto la creación como la salvación del mundo entero. Aun cuando el lenguaje bíblico encierre expresiones que nos lleven a pensar en la ira o la venganza de Dios, en el fondo tendremos que pensar que, tras ellas, lo que realmente se esconde es el fuego de su pasión por aquel al que ama, con el deseo de su definitiva salvación; la urgencia y gravedad de quien se toma en serio la suerte final, abocada a la muerte o a la vida eternas. El temor pasa por la conciencia de una posibilidad concreta, de nuestra parte (la del rechazo), abrazada a la tranquilidad 122 de una nueva oferta, por la suya (la del perdón). “Quién puede perdonar sino Dios”, le dijeron aquellos interlocutores a Jesús. En efecto, la ofensa del pecado es contra Dios y sólo él la puede perdonar. Por eso quien lo hace, ha de hacerlo en nombre suyo, como quien ha recibido algo nuevo que le es donado y que supera la misma disposición mundana; y si el Cristo se arroga semejante derecho es porque, en el fondo, lo que proclama es, sencillamente, su divinidad. Del perdón a la compasión Esta misericordia de Dios, si bien acerca el reino de su celeste trascendencia, de su alteridad absoluta y de su inefabilidad, no lo convierte en una especie de arbitrariedad a merced del creyente. Una familiaridad tal que olvidara la sublime santidad de Dios, reduciendo el trato a una inconsciente camaradería, significaría no haber entendido nada de su soberana majestad; por el contrario, acercarse a la presencia de Dios, víctimas del miedo y del pavor, implicaría no haber comprendido nada de su amor. Dispuesto a dejarse conmover por el hombre, su creatura, la misericordia de Dios es otro modo de contemplar su esencial santidad, diversa ciertamente de toda bondad humana y superior a cualquier afecto que nos rodea. El perdón de Dios es su amor continuamente ofrecido. Esta es la prueba mayor de su amor, que consiste en que nos ama no porque seamos justos –amables- sino, precisamente, por haber dejado de serlo. Médico de nuestras almas, se complace en venir a rescatarlas; 123 pastor de nuestras vidas, toma todo empeño en devolvernos a su redil. Pero no lo lleva a cabo en la distancia apática de quien no quiere sufrir contagio alguno. En su caso, la misericordia omnipotente se convierte en paradoxal proximidad (“projimidad”). La compasión no es sólo el modo como Dios se opone y se resiste al mal sino, ante todo, el modo como lo asume y lo comparte en primera persona. En unas ocasiones, para eliminarlo, en otras –si así se puede decir- para darlo significación. Por avanzada que se encuentre, en nuestros días, la técnica, y por desarrollados que vivan los países de la tierra, en el corazón del hombre laten interrogantes que aquella no puede disipar. El sufrimiento y la angustia, que anidan en lo profundo del ser humano y que lo incomodan hasta la desesperanza, muchas veces, ponen de manifiesto cuán necesario le resulta al hombre, en dichas circunstancias, la certeza de un Sentido en el que encontrar consuelo. Ponerse en el lugar de otro, así como el deseo de que los demás lo hagan en el nuestro, responde a un sentimiento siempre presente. Tal vez se habla más hoy de la empatía, para subrayar la dimensión psicológica de lo que, en otros tiempos ha sido una cuestión religiosa o moral. Pero el hecho, en el fondo, es el mismo. Para que las relaciones intersubjetivas sean buenas y felices, estas deben edificarse sobre el sólido cimiento de la compasión. Dado que el hombre es un ser esencialmente dialogal, que se desarrolla y crece en la comunicación, la compasión viene a ser una forma de salir de aquel aislamiento frustrante que amenaza al ser humano con impedirlo madurar. El amor compasivo tiene un lugar 124 fundamental en las relaciones humanas de convivencia. Lejos de lo que otras creencias religiosas o filosóficas puedan pensar, la compasión no muestra la debilidad de quien la cultiva sino su más profunda fortaleza, pues implica una actitud que brota del fondo del corazón, del centro de la propia personalidad y mira a compartir lo que en el otro también es nuclear. No es mero sentimentalismo, ni lástima que emana de la contemplación superficial del dolor ajeno. Cuando es sincera abarca mucho más. La cuestión, ahora, es saber si el Dios omnipotente, experimenta también la compasión. Verdaderamente el Dios judeo-cristiano es un Dios que se conmueve, que acompaña y hace suyo el dolor de su pueblo. Si este es consecuencia del pecado, ofrece su perdón; si lo es de una desgracia natural, su providencia será capaz de iluminar un sentido superior y hacer de la calamidad una ocasión para madurar en la libertad; cuando el sufrimiento es consecuencia de la infidelidad, la invitación a la obediencia puede, en adelante, ahorrar si no el dolor, sí vivirlo inútilmente. La teología tradicional, más edificada sobre las nociones metafísicas de Dios, tal vez encuentra alguna dificultad para conciliar la trascendencia de Dios con su simpatía por el hombre pecador. No se trata de negar, en nombre de una ingenua novedad, aquella omnipotencia a favor de esta debilidad. Tampoco la Escritura es ajena a la cercanía de Dios, en virtud de la cual, libremente se deja "afectar" por la respuesta humana. Esta inclinación de Dios a favor del hombre miserable encuentra, llegada la plenitud de los tiempos, su máxima 125 expresión: en efecto, Cristo es la misericordia de Dios encarnada. En Jesús, Dios mismo se hace todo corazón para los enfermos: Él es el perdón –es decir, el don rematadamente perfecto- de Dios, ofrecido al pecador, de quien no quiere la muerte sino su propia conversión; Él no sólo anuncia un mensaje de compasión sino que es, en persona, la divina compasión. Su amor solícito y preferido, en bien de los más pobres, constituye no sólo el núcleo del evangelio sino, por ende, del gusto de Dios. Si Cristo es la imagen visible del Dios invisible, icono carne del Dios todo espíritu, su modo humano de ser misericordioso revela, a los ojos de los hombres, la intimidad misma de Dios. Este amor sin medida, este perdón –que no pide ni espera nada a cambio- pone de manifiesto la esencia misteriosa de Dios. Sin contradecir aquellos atributos, a los que la metafísica nos acerca, la revelación evangélica nos ofrece una nueva dimensión, su verdadera significación. Dios es amor, y en su amor misericordioso queda desbordada toda medida humana de la mera justicia. Lejos de reducirse al mero dar a cada uno lo suyo, a un tratar a cada uno como se merece, la misericordia de Dios se dará a sí mismo en bien de quienes ama, incluso cuando el pecado introduce la ofensa y, con ella, el derecho a ser repulsado o excluido del hogar de Dios. De este modo aparece la misericordia de Dios y su perdón como la realización suprema del ideal de justicia anhelado por el hombre, pues en ella, también el hombre desfigurado recupera la dignidad perdida. Así podemos afirmar que la ternura de Dios y su compasión, lejos de 126 humillar y avergonzar al pecador, lo levanta y dignifica. En Cristo, Dios ya no acusa, sólo salva. Y si sus palabras sobre el juicio final desconciertan a veces, no es la suya una intención de venganza sino de encendido amor, la urgente invitación para aceptar la nueva oportunidad que brota de su corazón. En el acontecimiento de Cristo crucificado el sufrimiento del hombre se une para siempre al sufrimiento misterioso de Dios. Dios mismo sufre con el hombre y por el hombre. Si, esta es la muestra mayor de amor a los suyos que estaban en el mundo. No hay muestra de acercamiento mayor ni de compasión que la sustitución. La asunción vicaria del dolor ajeno, haciéndolo propio, con tal de evitar a quien se ama su lamento, su confusión. Esto es lo que hace un amigo de verdad, lo que vive un amante cuando arde, por su amada, en el fuego del amor. Pues también conmovido por la separación del hombre, su criatura, Dios mismo hace de su divino Hijo la víctima de reparación, a fin de evitarle a aquel su merecida condenación. En Cristo, Dios no nos ama en la distancia, ni tampoco en la oferta de palabras tiernas, pero tanto como inútiles; en Cristo, Dios se hace pecado para reconciliar al pecador. En Él se hace ofrenda, a fin de satisfacer la expiación. Dada la intrínseca implicación de todo hombre en la miseria del pecado no es posible que del género humano herido brote una pretendida reconciliación. No, el hombre no puede salir, por sí mismo, de su situación frustrante de separación pero sí puede, en cambio, ser sacado; sí puede ser reconciliado por quien ha sido ofendido y ahora ofrece, gratuitamente, la mano de su perdón. Dios no 127 quiere la muerte del pecador y, sin embargo, todo hombre está abocado inevitablemente a ella; por ello Cristo asume, en primera persona, la condena a muerte para hacer de ella el pago en recompensa que devuelva al hombre su anhelada libertad. En la cruz el mundo es juzgado como reo y absuelto, pues el Crucificado, exaltado como juez poderoso, ha suplicado misericordia al Padre y ha obtenido el perdón de la redención. Si la ofrenda vicaria de Cristo sustituye el pago –imposible de satisfacer por el propio pecador- no reemplaza, en cambio, la personal adhesión que, responsablemente, tendrá que presentar en adelante a fin de hacerse acreedor de la gracia recibida. La sangre de Cristo nos justifica, nos hace justos ante Dios en su misma justicia; lo cual no obsta para que, merced a nuestra propia responsabilidad, nos hagamos merecedores de ella. No hay motivo mayor para la esperanza humana que la de saberse gratuitamente salvado. Incluso en tiempos como el nuestro, en los que no faltan ecos de aquella voz profética que anunciara la muerte de Dios, y con él la de los valores cristianos, el anuncio renovado de la verdad evangélica de la salvación ofrece a todo ser humano un motivo para seguir esperando en Dios. No hay motivo para el miedo o la desesperación. La misericordia crucificada es más fuerte, en su debilidad, que el peso mismo de la ley, que la carga del pecado o que la esclavitud de nuestras pasiones. Si el hombre no puede vivir sino a la búsqueda de un sentido pleno, he aquí que lo puede hallar definitivamente. 128 La radical novedad de la Buena Nueva hace del hombre hijo de Dios. Compasión mayor no cabe, en la que participamos del mismo ser, pues se nos da a recibir, como propia, la misma naturaleza de Dios. Dios, en Cristo traspasado, se vacía para colmar de este modo nuestro deseo interior, ese que desemboca tantas veces en el sinsentido y la angustia, en la amargura, el odio o el rencor. Y esta es, precisamente, la nueva luz que orienta toda la doctrina social de la Iglesia; ella -signo esperanzador- no existe sino para acercar a todo hombre la misericordia de Dios. 129 PERDONO E RICONCILIAZIONE: SONO ANCORA CONSIDERATI NECESSARI NEL MONDO CONTEMPORANEO? Augusta Fiore Racconta un midrash che Dio, prima di creare Adamo, volle consultare gli angeli. Si crearono due diverse fazioni: alcuni erano favorevoli alla creazione dell’uomo mentre altri vi si opponevano. La Bontà affermava: “Che sia creato perché farà opere di bene!”. La Rettitudine protestava:”Non deve essere creato perché sarà pieno di falsità!”. La pace: “Non lo creare perché sarà sempre in lotta!”. La Torah affermava: ”Peccherà senza dubbio”. Ma Dio decise di creare l’uomo e le sue parole furono:”Sono buono, sopporto a lungo e sono pronto a creare l’uomo nonostante le vostre obiezioni”1. Ancora, raccontano i saggi, Dio, prima di creare questo mondo meraviglioso, come un bravo architetto fece dei disegni. Vedendo che la libertà dell’uomo, così grandiosa, poteva creare degli squilibri, creò prima un’altra cosa: la teshuvah, la conversione, la possibilità del ritorno al piano di Dio. 1 Comunità ebraica di Roma 25/9/2013 in Blog/News, Parashà di Berishit: il Midrash sulla creazione dell’uomo. 130 Questi due racconti mettono in evidenza, pur nella loro semplicità, due punti essenziali: la prevista debolezza della condizione umana e la disponibilità infinita di Dio ad accogliere l’uomo e a perdonarlo. Ci sembra opportuno, infatti, iniziando a parlare di perdono, mettere in evidenza questi presupposti essenziali che si attribuiscono sia all’uomo che a Dio. Vogliamo sottolineare, infatti, che il perdono, la possibilità di ottenere misericordia, dipendono dalla natura o sostanza di Dio; l’uomo, di conseguenza, assumendo un atteggiamento di pentimento, si giova di questa disponibilità di Dio. Il Perdono è un dono di Dio che può essere colto dall’uomo che, consapevole dei propri errori, sceglie di compiere un radicale cambiamento. La Misericordia è una qualità di Dio che, secondo un piano provvidenziale, viene manifestata all’uomo che è predisposto ad accoglierla; egli comprende e desidera per sé e per il mondo circostante questo bene, in maniera profonda ed esistenziale, esprimendo poi gratitudine per i benefici che un tale dono arreca. Mettere Dio al primo posto, così come la tradizione ebraica e cristiana ci insegnano, significa spesso, nel mondo contemporaneo, evidenziare una verità obsoleta: l’uomo cartesiano, nell’età moderna era considerato il centro speculativo della realtà; nell’epoca contemporanea per molti filosofi, Heidegger in particolare, l’uomo è considerato un ente che viene progettato “ad essere gettato” nel mondo secondo una continuità di necessità e possibilità. “Dio è morto” dice Nietzsche e Sartre afferma che “l’altro” è un nemico. 131 Il post-moderno rivendica, infine, la necessità di dare un “altro inizio” al percorso filosofico in cui Dio, in definitiva, non c’è e non esiste nemmeno il senso del sacro: gli enti hanno perso il loro significato sostanziale. L’occidente, come già diceva Heidegger, è ormai la terra dell’occaso e del tramonto dell’essere e Vattimo aggiunge che il tramonto definitivo avviene perché all’essere forte della tradizione e della metafisica è subentrato un essere “debole” che non è fondante, che non unifica, che non possiede alcun fine nételos ed è soltanto accadimento. Afferma ancora il filosofo che, finché si parla di Dio, diventa necessario essere atei e, più precisamente, che rappresentando la tradizione ebraico-cristiana insieme al pensiero greco “punti fondanti”, di riferimento culturale, essi offrono, proprio perché tali, all’uomo postmoderno la possibilità di non pensare più e di non cercare il senso dell’essere perché da forte il pensiero è diventato debole e così chiudere, definitivamente, con la religione2. In questo orizzonte culturale e filosofico, il Giubileo annuncia il perdono, la riconciliazione e la rigenerazione, come un tentativo di ridare un senso, un significato profondo alla realtà che ci circonda. È necessario, infatti, dare all’uomo una speranza che lo riconduca a considerare il metafisico e a riscoprire il significato ontico della realtà. Realtà che la tradizione religiosa ci aiuta a comprendere come espressione di un piano di salvezza voluto da Dio, nella Sua infinita misericordia, per l’uomo. La tradizione ebraica e poi quella cristiana ci propongono un itinerario, un percorso, un cammino di riscoperta di Dio 2 N. Abbagnano, Storia della filosofia,Gruppo editoriale l’Espresso, Roma 1996. 132 e dell’uomo, non teorico e astratto ma sperimentato attraverso la storia concreta di tutti i giorni, gli avvenimenti, le celebrazioni e le liturgie. In tal modo tutta la realtà acquista un significato profondo che viene vissuto esistenzialmente nel profondo di ogni uomo che sente la speranza di nascere secondo una nuova vita che è quella che il Signore dona attraverso il perdono. Particolarmente significativa per la tradizione ebraica è la festa dello Yom Kippur o giorno dell’Espiazione; è una delle feste più importanti per il mondo ebraico fin dai tempi più antichi. In questo giorno il popolo può ricevere la misericordia di Dio, il perdono, per questo fa penitenza e compie dei riti. Dio offre all’uomo la possibilità della teshuvà, della conversione, del ritorno a Lui;ma è soprattutto Dio che, donandogli il perdono, ritorna a lui, facendolo partecipe della Sua natura. È Dio stesso, infatti, che dona la conversione all’uomo,di essere con Lui in comunione. Misericordia in ebraico si dice rahamim che più esattamente significa “viscere di misericordia” del nostro Dio. È questa, infatti, una parola legata ad un’altra parola ebraica che è rechem che vuol dire utero. Il significato di queste parole vuole indicare la ”maternità” di Dio che è capace di rigenerarci, come attraverso un utero, a vivere un nuova vita di grazia. Per i cristiani, Gesù Cristo manifesta quello che è già compreso in Dio: rivela, rende evidente e concretizza, con la Sua morte e Resurrezione, quelle viscere di misericordia che sono destinate all’uomo. Legato a quello della misericordia è il significato ebraico del termine “peccato”: esso significa, letteralmente, “fallire il bersaglio”. Sta ad indicare precisamente quell’azione 133 per cui, tirando con l’arco, il tiratore sbaglia il bersaglio. Il peccato ha questo significato esistenziale: è il tentativo di cercare la felicità ma di sbagliare la mira, fallire nello scopo. È la situazione dell’uomo che cerca la felicità, la pienezza, il raggiungimento del proprio essere in tante cose ma, sbagliando il bersaglio, fallisce. L’accostamento dei significati delle due parole, in realtà delle due situazioni esistenziali è fondamentale per comprendere la portata, nel mondo contemporaneo, dell’annuncio del perdono che la Chiesa ha compiuto in occasione del Giubileo. La tradizione ebraica ci aiuta a penetrare e a valutare meglio il suo valore. Infatti il giorno dello Yom Kippur, dell’espiazione, può essere considerato per gli ebrei come la risposta a questo fallimento dell’uomo, al peccato. Vengono perdonati, condonati, cancellati i fallimenti, gli errori, le colpe. Tale azione necessita di una preparazione di quaranta giorni. Il suono dello shofar, di un corno, indica che è iniziato questo periodo: ricorda l’ariete che YHWH volle al posto di Isacco sul Monte Moriah, per il sacrificio. Attualizzando, è la voce di Dio che chiama al pentimento affinché la Sua misericordia sia resa evidente: come provvede all’ariete che viene ucciso al posto del figlio di Abramo così provvede a cancellare ogni colpa, ogni errore3. Per i cristiani anche questa festività fornisce l’opportunità di fare riferimento alla figura del Cristo, vero ariete e nuovo Isacco. Lo shofar, il suono della misericordia di 3 J. Maier e P. Shafer (a cura di), Piccola enciclopedia dell’ebraismo, trad. di D. Leoni, Marietti, Casale Monferrato 1985. PETUCHOWSKI J.J, Le feste ebraiche. Le tradizioni ebraiche, Dehoniane, Napoli 1987. 134 Dio, del perdono dei fallimenti dell’uomo, suona, fa sentire la sua voce ogni volta che l’uomo lo sente risuonare nella sua coscienza e così ritorna a Lui. La Scrittura dice che Cristo si è fatto peccato per i peccatori e, facendo riferimento alla festa dello Yom Kippur che prevedeva l’adempimento di molti riti fra cui quello dell’entrata del Sommo Sacerdote nel luogo del Sancta Sanctorum, dice che è Cristo il Sommo Sacerdote che è entrato, definitamente, nel luogo sacro, alla presenza di Dio. In definitiva, per il cristiano ogni giorno è Yom Kippur; ogni giorno, infatti, può giovarsi della misericordia di Dio attraverso il sacramento della penitenza, convertirsi ed iniziare una nuova vita. Come già si è affermato, la possibilità che Dio usi misericordia è prevista dall’eternità perché questa fa parte della natura stessa di Dio. Questo concetto appare particolarmente sentito dal filosofo ebreo Gershom Scholem. Studioso di mistica ebraica, approfondì questo argomento considerandolo il nucleo, il punto più profondo e centrale dell’ebraismo. L’esegesi, compiuta dal filosofo, sul libro di Giona, libro della Sacra Scrittura che viene letto nel giorno dello Yom Kippur, mette in evidenza il significato peculiare della profezia che contiene e preannuncia la giustizia di Dio che è misericordia4. È interessante notare, dice lo studioso, che il libro di Giona è collocato nella Bibbia a metà dei libri profetici minori, pur non contenendo alcuna profezia. Conoscendo il contenuto del libro, sarebbe stato più logico inserirlo fra i libri agiografi, come ad esempio, il libro di Ester e Rut. 4 G.SCHOLEM, Giona e la giustizia, Morcelliana, Brescia 2016. 135 Ma, in realtà, il libro contiene la chiave per la comprensione del fenomeno del profetismo e ha, per questo motivo, uno scopo didattico, pedagogico. Viene descritta, infatti, l’educazione e la preparazione che deve essere compiuta dal profeta per poter svolgere la missione che Dio gli ha affidato: annunciare la misericordia e il perdono. È questo il motivo, sostiene Scholem, per cui il testo occupa una posizione centrale fra i libri profetici e, aggiunge, il suo contenuto è fondamentale, decisivo, valido per tutti i profeti e costituisce anche una lettura fondamentale per la celebrazione dello Yom Kippur. Questo è l’elemento centrale della istruzione e formazione del profetismo; nel caso di Giona, in particolare, Dio non eseguirà il giudizio di distruzione annunciato ai Niniviti perché concede loro la possibilità di convertirsi, di ritornare a Lui. Non tutti gli abitanti di Ninive però accetteranno questa possibilità di conversione; questo è un motivo per Giona di grande sofferenza, perché con questo rifiuto verrà segnata la loro sorte. Durante il combattimento interiore, il protagonista vede inutile la sua missione di richiedere il pentimento agli abitanti della città perché comprende che la misericordia di Dio è già prevista e anticipata rispetto alla loro conversione e questo perché la misericordia è compresa nella Sua natura. Scholem chiarisce anche il significato del concetto di giustizia secondo la tradizione: essa è allontanamento, differimento del giudizio di Dio e quindi della punizione. La legge evidenzia i limiti previsti della norma ma, ritornando l’uomo a Dio, attraverso il pentimento, induce Dio a protrarre l’esecuzione del giudizio e della pena in caso di 136 colpevolezza. In definitiva Giona, ma anche tutti i profeti, annunciano la giustizia il cui significato proprio è misericordia perché significando questa parola allontanamento all’infinito del giudizio compiuto attraverso il confronto con la legge, in realtà significa non solo poter godere del perdono di Dio ma anche ottenere una vicinanza e un incontro con Lui, in definitiva, un’intimità interiore. La differenza sussistente tra giustizia, giudizio e amore, più tardi con il Cristianesimo, è fondamentale. Giustizia è infatti allontanamento infinito della pena, giudizio, confronto con la legge; amore, nel caso del Cristianesimo, annullamento, cancellazione definitiva del giudizio e della colpa. In sintesi si può dire che giustizia e diritto si completano e trovano una coincidenza nella sospensione della pena; amore e diritto, invece, si escludono reciprocamente. Il perdono nel caso del cristianesimo, è definitivo e per sempre anche se si rinnova opportunamente con l’accusa dei peccati e il pentimento. Sarebbe un errore, quindi, pensare, secondo Scholem, che il centro del libro di Giona sia la conversione di Ninive o solamente la dimostrazione dell’effetto positivo, convincente, della sua parola profetica che prevede punizioni, disastri e castighi; l’elemento centrale è da individuare nel continuo differimento del giudizio divino che realizza e concretizza l’essenza di Dio che è misericordia. In questo senso è anche comprensibile, nel libro, l’invito del re della città che all’arrivo di Giona, invita i niniviti al pentimento dei propri peccati: infatti senza il pentimento non ci può essere il perdono. Si comprende anche, in questo modo, la motivazione per cui questo 137 libro viene letto durante la liturgia dello Yom Kippur, del giorno dedicato alla riconciliazione fra Dio e l’uomo. La giustizia, secondo la tradizione ebraica, non può essere anticipata e resa definitiva come nel Cristianesimo che prevede, accompagna e porta a compimento l’esercizio del perdono. Per l’Ebraismo infatti la giustizia o misericordia non è una azione valida, come per il Cristianesimo, una volta per tutte: per gli ebrei, di fronte alla colpa, c’è il differimento della punizione, della colpa fino al Giudizio finale. Diversamente, con la morte in croce, Gesù Cristo, come già abbiamo accennato in San Paolo, ottiene per noi, il perdono in assoluto e per sempre. In questo consiste anche la differenza nell’interpretazione del libro di Giona di San Girolamo5 che vede nella conversione dei Niniviti cioè dei pagani, in generale, la condanna del popolo eletto, la sua esclusione, definitiva, dalla storia della salvezza, perché non è disponibile a convertirsi riconoscendo in Gesù Cristo il Figlio di Dio. Questo mancato riconoscimento segnerà la linea di separazione e di distinzione tra il popolo eletto egli altri popoli: non lasciare la legge, non passare dal giudizio all’amore comporta questa condanna. In ogni caso, il perdono anche se con le distinzioni evidenziate, viene annunciato a tutti perché è nella natura di Dio. Altrettanto essenziale è la conversione, il riconoscimento dei propri peccati, la consapevolezza di “aver sbagliato il bersaglio” per ottenere la felicità. Per “ritornare a Dio” è, infatti, necessaria la conversione, il 5 San Girolamo, Commento al libro di Giona, Città nuova editrice, Roma 1992. 138 pentimento; per ottenere questi, è necessaria la preghiera, l’invocazione del perdono come ci insegna il Padre Nostro. Questa preghiera è meritevole anche se pronunciata per mezzo della giustizia di pochi, come leggiamo nel libro del Genesi (cap. 18): Abramo prega per Sodoma e Gomorra e dice che “se solo ci fossero almeno dieci giusti” questa città non sarebbe distrutta. Lo Shabbat o l’esultanza della Eucaristia è il riconoscimento della potenza di Dio per la storia di salvezza compiuta nella nostra vita: Dio è Rahamim, speranza perché perdono, misericordia e quindi rigenerazione. °°° Interessante è approfondire il senso del perdono che finora abbiamo analizzato attraverso le tradizioni interiorizzandone i contenuti per mezzo della fede e servirci ora della ragione e della ricerca filosofica; in questo modo, sebbene secondo un livello diverso, otteniamo anche la dimostrazione dell’esistenza di Dio e del Suo rapporto con l’ uomo. La lettera enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II esplicita l’importanza della relazione esistente fra le due forme di conoscenza. Bellissima è l’immagine usata nell’incipit dell’enciclica: “La fede e la ragione sono come due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della Verità”6. Attraverso l’indagine razionale e la riflessione filosofica, dunque, sulla dimensione religiosa del fenomeno specifico, possiamo anche conoscere l’antropologia dell’essere umano, della 6 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, Paoline, Roma 1998. 139 realtà in cui vive e, soprattutto, la natura divina che è nella creazione. Il momento iniziale della nostra conoscenza è l’autoriflessione che si realizza attraverso la coscienza: tramite essa prendiamo atto della realtà che ci circonda e possiamo esaminare le dimensioni, le strutture che sono proprie del corpo, dell’anima e dello spirito di ogni essere umano. Tali strutture, sono indicate, individuate e considerate fondanti sia dalla tradizione filosofica che da quella religiosa perché attraverso esse i fenomeni “parlano”,esplicitano i contenuti e mostrano il loro significato più profondo. È possibile, di conseguenza, studiare le incidenze che essi hanno soggettivamente come esperienza interna ad ogni individuo ed oggettivamente come possibilità conoscitiva della realtà. In particolare, il fenomeno religioso mostra, più specificatamente, per la peculiarità del suo contenuto, il senso profondo della realtà, il nucleo di ogni oggettività che è l’Assoluto, l’Infinito, Dio7. Il metodo fenomenologico, a cui facciamo ora riferimento, considera il soggetto protagonista di ogni processo conoscitivo. La sua struttura è composta da tre dimensioni: corpo, anima o psiche, spirito,strettamente connesse fra di loro dalla coscienza. I fenomeni sono “vissuti”, costituiscono un insieme di esperienze che compongono il momento conoscitivo e che provengono dalla realtà delle le cose con cui il soggetto si rapporta proprio secondo queste tre dimensioni. “Riducendo”, sospendendo, eliminando ogni giudizio pre-concettuale, si 7 A.Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, Studium, Roma 1985; Id., La teologia in un inedito husserliano, “Aquinas”, XXV, 2, Roma 1982, pp. 349-356. 140 giunge all’epochè, all’assenza di ogni giudizio; su questa assenza è possibile costruire la conoscenza del senso delle cose, secondo una direzione trascendentale che va oltre la realtà concreta. Nell’uomo, in questo modo, attraverso la coscienza vien riconosciuta l’esistenza di un fondo ontologico che, oltrepassando i confini della concretezza fisica, giunge ad affermare l’esistenza di una realtà, appunto, ontologica. La coscienza, come abbiamo già affermato, coglie e prende atto, attraverso l’ attività intenzionale, di questo trascendimento8. Il filosofo Husserl ritiene che il metodo fenomenologico, in questo modo, non solo può conoscere la realtà oggettiva, esterna all’uomo e la realtà soggettiva che è interna al suo essere, ma coglie anche il presupposto conoscitivo di questo atto, anteriore a tutti gli altri atti che successivamente vengono registrati dalla coscienza. Questo presupposto si chiama “sintesi passiva”, latente nella coscienza, determinante e di riferimento per l’intero percorso conoscitivo. Stabiliamo, infatti, in questo modo, rapporti di continuità e discontinuità, di omogeneità ed eterogeneità con le cose e fra le cose che sono precedenti alla percezione stessa, operazioni che vengono compiute a livello passivo, che, come si è già detto, sono preesistenti. Queste operazioni sono di due tipi: di carattere logico e di carattere trascendentale e costituiscono un fondo, un punto di partenza, da cui attingere elementi per realizzare la conoscenza delle cose e della realtà metafisica ed ontologica. Possiamo 8 A. Ales Bello, Introduzione alla fenomenologia, Aracne, Roma 2009; E. HUSSERL, Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano 2001; E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia contemporanea, Biblioteca Einaudi, Torino 2002. 141 affermare che costituisce un principio, un “qualcosa” che è nella coscienza dell’uomo, preesistente ad ogni elaborazione conoscitiva, una via atea di dimostrazione della esistenza di Dio. Il “vissuto” che, secondo la filosofa Edith Stein, discepola di Husserl, è determinante in questo percorso è quello dell’empatia che evidenzia la presenza di una struttura comune in tutti gli esseri umani che rende possibile fra loro un rapporto spirituale, intersoggettivo9. Tra gli atti spirituali che sono intellettuali, razionali, morali, legati alla volontà, ci sono anche atti religiosi. Questi, essendo “vissuti”, si muovono in un fluire continuo e rimandano costantemente la coscienza all’intuizione di un Principio Assoluto, indiscutibile, illimitato. Di conseguenza a questo atto, si acquista anche la consapevolezza chel’essere umano, non è assoluto e non è illimitato. Ci sono, dunque, dei flussi di coscienza che indicano questa realtà, che ci indicano che esiste“. Qualcosa” che ci trascende ma che è già in noi, consentendoci di avvertire questa distinzione10. Sulla base di questi studi, la Stein analizzò anche l’esperienza del fenomeno mistico. Ella compì questo percorso che la portava alla “Verità” secondo una linea logica-razionale ma concluse che la vera conoscenza è vivere nella fede questo percorso, all’interno del proprio animo, assaporando un “affidamento” a Dio11. Ella 9 E. Stein, Empatia, prefazione A. Ales Bello, Studium, Roma 2012. Id., Essere finito ed Essere eterno, prefazione A.Ales Bello, traduzione L. Vigone, Città Nuova, Roma 1999. 11 Id., Natura, persona mistica, a cura di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 2002. 10 142 afferma che la “Verità” è Dio che si rivela attraverso la scientia crucis, attraverso Gesù Cristo. Questa esperienza interiore si concretizza nella vita reale della filosofa che muore ad Auschwitz in un campo di concentramento. La spogliazione di sé che comporta vivere la scientia crucis porterà la filosofa a vivere, innocente fra gli innocenti, l’esperienza della sofferenza suprema della persecuzione e della morte insieme al suo popolo12. Questa morte è però un annuncio di speranza, di resurrezione: il destino degli ebrei, ma possiamo aggiungere di tutta l’umanità, non è quello di finire nel nulla, nell’assurdo ma di godere della definitiva alleanza che Dio fece con Mosè sul Sinai: la vita eterna, la Sua santità che è perdono, misericordia, grazia. Questa consapevolezza è presente in Sant’Agostino, in Sant’Anselmo. Il fenomeno religioso, infatti, è, innanzitutto, un’esperienza dell’essere umano dell’esistenza di “Qualcosa” o di “Qualcuno” superiore a lui che è presente in noi e in tutti gli altri uomini. Si può dire che è in noi la traccia dell’Illimitato, dell’Assoluto, di Dio, nucleo, centro di tutte le esperienze religiose13. Come abbiamo già affermato, due sono le vie della conoscenza di Dio: la via oggettiva e la via soggettiva che può essere filosofica e religiosa. In ogni caso l’elemento fondamentale di ambedue è l’esperienza secondo cui è possibile armonizzare la dualità del percorso di conoscenza e affermare, come dice Edith 12 Id.,Vado per il mio popolo, a cura di A. Ales Bello, Castelvecchi, Roma 2012. Id., Husserl. Pensare Dio. Credere in Dio, in Tracce del sacro nella cultura contemporanea, n. 32, collana diretta da G. Penzo, Messaggero, Padova 2005. 13 143 Stein, che il compito della filosofia “è mettere armonia tra ciò che essa ha elaborato con i suoi propri mezzi e ciò che viene offerto dalla fede e dalla teologia”14. Procedendo in un analisi del pensiero di alcuni filosofi certamente personale, ma opportuna per evidenziare la presenza di Dio nella esperienza propria di ogni individuo, è interessante accennare anche alla filosofia di Bergson. Egli afferma che l’intuizione è un mezzo di conoscenza che precede ogni atto analitico compiuta dalla ragione e fornisce, anticipatamente rispetto a questa, attraverso, una visione d’insieme dell’oggetto, l’essenza profonda della realtà. La ragione e l’intelligenza non sono dunque l’unico strumento di conoscenza; l’intuizione coglie in modo più completo e totalizzante l’essenza della realtà in tutte le sue dimensioni chiamata dal filosofo “slancio vitale”.Questo slancio è lo slancio creatore di Dio stesso che esprime anche un amore totale e assoluto per le sue creature. La conoscenza di Dio diventa, quindi, anche in questo caso, esperienza profonda di Dio15. In modo più specifico, mi è sembrato opportuno il riferimento al pensiero di questi filosofi a proposito del tema del perdono di cui, nella realtà della vita contemporanea, avvertiamo la necessità, essenziale, per percorrere una autentica via di conversione e per riparare ad una visione deterministica del mondo che non comprende e non vuole accettare la presenza di Dio e che nega ogni approccio metafisico ed ontologico della realtà. L’esperienza di fede che accompagna questa 14 E. Stein, Essere finito e essere eterno, cit., p.60. H. Bergson, Introduzione alla metafisica, a cura di R. Ronchi, traduzione D. Giordano, Orthotes, Napoli-Salerno 2012. 15 144 visione filosofica diventa una forma di conoscenza intuitiva, non razionale, dell’esistenza di Dio. È necessario, in questo modo, vivere un rapporto intimo con Dio che inizia con il perdono di Dio e il pentimento da parte dell’uomo. Particolarmente interessante ed utile per la nostra riflessione, è il saggio di Max Scheler, “Il pentimento”16. Lo studio si svolge secondo il procedimento fenomenologico ed indaga i moti interiori dell’anima. Il pentimento è per l’appunto considerato un fenomeno, un moto interiore che viene analizzato come tutti i fenomeni, secondo cause ed effetti; viene individuata la ragione profonda del suo essere, la centralità, il nucleo, che è il rinnovamento interiore della persona. L’analisi delle caratteriste proprie dell’essere umano e degli atti specifici del fenomeno del pentimento, ci riporta a quella visione iniziale del perdono descritta precedentemente. Nei moti di coscienza, afferma il filosofo, l’occhio spirituale della fede percepisce la presenza di un giudice invisibile ed eterno. Questi moti si presentano come fenomeni oggettivi in cui appare evidente la loro relazione di senso con la presenza di Dio. Nel vissuto di questi fenomeni,si percepisce “Qualcosa” che trascende ciò che è dato materialmente, ma che comunque viene percepito insieme ad esso; infatti, dalla unità della coscienza viene percepito un insieme di atti che portano al pentimento e al rinnovamento interiore. Tra questi moti è certamente compresa una attività giudicatrice riferita ad episodi vissuti nel passato che però acquista, sotto l’aspetto morale, la forma di una 16 M.Scheler, Il pentimento, Castelvecchi, Roma 2016. 145 autoguarigione, l’unica via da percorrere per riacquistare le forze spirituali perdute. Sotto l’aspetto religioso, il pentimento ha un significato ancora superiore: è l’atto naturale che Dio concede all’anima perché essa possa ritornare a Lui quando sene allontana. Continua il filosofo: il pentimento uccide “il nervo vitale della colpa” che spesso viene eliminata dalla coscienza dell’uomo perché non gradita ma che produce impedimento e schiavitù. In questo modo, invece, la persona, riacquista la libertà, può vivere una rinascita spirituale, una vita nuova. La vera mancanza di libertà di un individuo, sta proprio nel non voler riconoscere la colpa personale dei propri errori ma,in tal modo, impedisce all’anima di esprimere la propria vitalità che si manifesta anche nel riconoscere la colpa, nel cercare di essere veritieri con se stessi. Si può affermare che è essenziale per l’uomo la disposizione al pentimento e quindi all’umiltà che si oppone alla naturale superbia umana che frena ogni slancio e dinamismo interiore. La grazia, dal punto di vista religioso, cancella la colpa dopo un completo pentimento e assume il carattere di una vera conversione, di un cambiamento di mentalità, di una trasformazione della coscienza. Molto interessante è anche ciò che dice Scheler circa il pentimento collettivo per colpe accumulatasi nel tempo. La storia spesso registra eventi drammatici e la cultura afferma a volte teorie aberranti, evidenziando il comportamento umano che spesso travalica i limiti imposti dall’ etica: esistono, infatti, colpe che, in questo senso, possono essere ritenute collettive. 146 Universale, possiamo dire, deve essere anche il rimedio: il Giubileo che interpreta questa necessità e proclama l’anno del perdono. Esistono esempi vari nella storia in cui la Chiesa, vigile come solo una madre può essere, avverte il bisogno di una rigenerazione dell’intera umanità e proclama la misericordia di Dio. In conclusione, attraverso l’ analisi condotta dallo Scheler sul moto della coscienza, si evidenzia un ordine naturale della nostra anima che si mostra attraverso il fenomeno del pentimento e acquista via via un significato sempre più profondo, mettendosi in connessione con il mondo metafisico- religioso. Viene a caratterizzarsi con maggiore chiarezza il senso del male, della colpa, definito dalla religione “peccato” che si confronta attraverso la legge e la dottrina e, nello stesso tempo, è esaltato il senso di rinnovamento interiore che viene dal pentimento e dalla remissione dei peccati. Scheler afferma anche che se non ci fosse altro nel mondo che attesti l’esistenza di Dio, il pentimento e il conseguente senso del perdono, ne sono una prova. L’insieme del percorso che abbiamo appena abbozzato, è infatti una manifestazione di questa Presenza: l’accusa, la confessione della colpa,il pentimento, la liberazione dalla colpa sono momenti di un processo esistenziale che portano a Dio, infinita misericordia . °°° Veramente provvidenziale, alla luce della riflessioni che sono state fin qui condotte, la proclamazione del Giubileo per i nostri tempi! Esso è frutto della consapevolezza delle problematiche che “la città dolente”, come definisce 147 Dante l’inferno, ma possiamo dire l’umanità intera a causa di perverse politiche, si trova a vivere. Sono problematiche diverse che interessano tutti gli aspetti della nostra società e che rispondono certamente ad una visione della vita in cui Dio è stato allontanato dalla concretezza delle scelte della vitaquotidiana. Le conseguenze di questo allontanamento sono facilmente individuabili anche ad un sguardo superficiale. Il disorientamento culturale e morale è evidente; spesso si seguono filosofie che producono incertezze, specie nei giovani; si afferma la libertà che è autodeterminazione e spesso licenza; l’intelligenza dell’uomo che vuole sostituirsi a Dio, l’esercizio della propria volontà che diventa arbitrio. Il Giubileo provvede e, come nella tradizione ebraica, suona lo shofar e richiama il popolo con la voce di Dio; è necessario un rinnovamento, una rigenerazione, un cambiamento che solo il “perdono” di Dio può dare. Le parole di Paolo agli Efesini (4, 1-24) giungono opportune:”Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera”. Il Giubileo diventa un messaggio, un annuncio di conversione che la Chiesa ha previsto da secoli per amore dei suoi figli e che oggi si rinnova perché necessario agli occhi attenti e vigili della Chiesa. Si compie, anche oggi, la lotta che nell’Apocalisse viene descritta fra il drago e la donna. (cfr. 12,4): il drago si posò davanti alla donna che stava per partorire in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito. Questa è l’immagine della Chiesa che lotta per i suoi figli contro la schiavitù del peccato. 148 È necessario ed opportuno, quindi, il Giubileo; la Chiesa, nell’ esprimere la carità di cui è generatrice, ha visto questa necessità e desidera essere fucina di rinnovamento, madre di una nuova vita interiore, portavoce del messaggio del perdono. Comprendere la profondità di questo messaggio significa anche che tutti possono divenire annunciatori della buona notizia che Gesù Cristo è venuto a darci, vera scientia crucis: la morte di Gesù Cristo, vissuta nelle sofferenze, nei drammi della umanità, è chiamata alla resurrezione, alla speranza, a vivere una vita nuova nello Spirito. Per concludere, è possibile attualizzare il contenuto di queste riflessioni facendo riferimento ad una festa ebraica che è chiamata Khanukà o festa della dedicazione, della ricostruzione del tempio di Gerusalemme. Questa festa è descritta e narrata nel libro dell’Antico Testamento dei Maccabei. Si racconta che il re Epifane IV,discendente di Alessandro Magno, nel 167 a. C., conquista Gerusalemme e profana il tempio, ruba tutti gli arredi liturgici e compie un gesto terribile: porta via il candelabro, la Menorah, il candelabro prezioso che illuminava in modo perpetuo il tempio, simbolo della shekinà, della presenza di Dio. Attualizzando la storia si può dire che anche nei nostri giorni, nel tempio del Signore che non è solo la costruzione del tempio ma ogni cristiano, attraverso filosofie e ideologie, può insinuarsi il culto pagano di mettere un idolo al posto di Dio e così credere ad altri dei. Tuttavia come la famiglia dei Maccabei insorge e così il tempio viene riconquistato e ricostruito, ognuno di noi è chiamato ad assumere questo ruolo e consentire che Dio, 149 vera luce, vinca l’oscurità del paganesimo di ogni tempo. Il Talmud racconta che il miracolo del tempio non è ancora completo perché nonostante la ricostruzione, la luce nel tempio non poteva essere ancora accesa perché nel tempio non c’era l’olio sacro che serviva appunto per l’accensione del candelabro. In questa situazione fu trovato miracolosamente un vasetto d’olio che era sufficiente per illuminare il tempio appena per un giorno. Fu acceso e si vide, invece, che quest’olio durò otto giorni. Per questo motivo, la festa viene celebrata per otto giorni. Giuseppe Flavio, storico contemporaneo a Gesù, parlando di questa festa dice: “Dal giorno dei Maccabei fino ad oggi, noi celebriamo questa festa e la chiamiamo festa della luce”17. La liturgia della festa, infatti, celebra la luce di Dio che nei tempi di crisi, di fallimento, brilla e illumina l’uomo. In ultimo, semplice ma significativo è il contenuto di un midrash che dice che la festa di Khanukà risale ad Adamoperché questo, dopo il peccato compiuto con Eva, vide che i giorni si accorciavano e diveniva buio presto; si spaventò moltissimo e pensando che non ci sarebbe stato più il sole, fece una preghiera e disse:”Signore, abbi pietà di me, è vero ho peccato e per questo sono venute le tenebre, il caos”. Da quel momento i giorni si allungarono ed Adamo fu consolato. Anche per noi cristiani la Croce di Cristo, nei momenti di maggiore crisi e di oscurità, è divenuta gloriosa. La sofferenza, il non senso della vita riacquista un significato perché solo in questo modo si sperimenta la presenza di 17 G. Flavio, Antichità giudaiche, XII, UTET, Torino 2013. 150 Dio. È questo un annuncio di speranza per tutti gli uomini che a volte vedono che nella loro vita e nel mondo circostante è entrata l’oscurità del peccato. Proprio in questi momenti, la luce del Messia trionfa sulle tenebre. Per questo motivo si può dire che non solo Gesù Cristo è il nuovo tempio ma anche tutti i cristiani riconciliati per Suo merito, attraverso il Battesimo e la Penitenza, segni sacramentali che sanciscono una nuova natura e il pentimento dei propri peccati, segnano il ritorno di Dio all’uomo e di questo a Dio attraverso un percorso di chiarificazione e di identificazione. Possono essere loro stessi questa Menorah, luce e speranza per il mondo. 151 LUIGI STURZO E “LA MISERICORDIA”, TEMA DEL GIUBILEO STRAORDINARIO DI PAPA FRANCESCO Salvatore Latora Perché questo titolo che indica una viva coincidenza con il tema del Giubileo? Senza ricorrere a schemi di preveggenza, temi come questo scorrono nel fiume storico del cristianesimo e riaffiorano di tanto in tanto in base alle esigenze del tempo. È certo però che le parole di Luigi Sturzo, che riporteremo dalla sua opera: Problemi spirituali del nostro tempo, Zanichelli Bologna 1961, ci stupiscono per la profondità e una certa coincidenza con il tema del Giubileo,dovute alla genialità del suo Autore. Diciamo in premessa, che nei momenti di crisi come quella attuale due punti luce o modelli di comportamento potremo tenere presenti: la fervida attività e le opere di Papa Francesco che, in modo innovativo, vuol fare scoprire a tutti il valore liberante del cristianesimo; e la personalità del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha respirato fin dalla sua famiglia d’origine i principi sturziani. Sottolineamo inoltre che c’è affinità tra papa Francesco, papa delle periferie e Luigi Sturzo che, con la sua azione 152 politica, ha voluto dar voce a quei ceti che non l’avevano avuto durante il Risorgimento, che è stato frutto di una élite; il nostro papa vuole una chiesa di popolo; Sturzo ha voluto una politica di popolo. Luigi Sturzo, a giudizio di molti storici, è una delle voci più creative del pensiero politico moderno, ma viene conosciuto generalmente come il fondatore del PPI, nato il 18 gennaio 1919 (il fatto nuovo della politica italiana, come hanno compreso Gobetti, Gramsci e Chabod! che ebbe 100 deputati tra cui anche il padre del pontefice Paolo VI), mentre le opere più importanti dal punto di vista storico- dottrinale e filosofico- sociale sono state scritte durante i 22 anni di esilio in Inghilterra e in America, fino al ritorno in Italia nel 19461.Nei brani tratti dall’opera che abbiamo citato, Sturzo esordisce con la V Beatitudine, che come sappiamo sono 8. Esse sono veramente un cantico che assume in sé l’insegnamento evangelico e non vanno confusi come spesso accade, precisa Sturzo, con i cosiddetti consigli evangelici di povertà, castità ed ubbidienza, che sono le basi dei voti pronunciati dagli appartenenti alle comunità religiose. Esse sono invece otto itinerari di perfezione per la vera felicità che, insieme con l’inno alla carità (Paolo, Corinzi 12,31 ss.) andrebbero insegnate in tutte le scuole! 1 Alcuni degli studi che Luigi Sturzo scrisse all’estero e che hanno un valore prospettico di attualità: La vera vita. Sociologia del soprannaturale; Chiesa e Stato,2 Voll.; La sociologia storicistica:La società Sua natura e leggi; del metodo sociologico. Studi e polemiche; Sintesi sociali. L’Organizzazione di classe e le Unioni professionaliPolitica e Morale- Coscienza e Politica- Problemi spirituale del nostro tempo- La comunità internazionale e il Diritto di Guerra. Corrispondenza con il fratello , Mons. Mario (5 Voll.). 153 “Beati i misericordiosi, perché essi troveranno misericordia. La giustizia non basta; è necessaria anche la misericordia nelle nostre relazioni con gli altri, proprio come noi domandiamo sempre misericordia a Dio per i nostri peccati ripetendo nel Pater Noster: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Come si potrebbe vivere nel mondo sotto il rigore della giustizia se non esistessero anche la misericordia, la compassione, la pietà, la clemenza – tutto quello che dà la testimonianza di un’anima disposta a comprendere e ad aiutare gli altri, dimenticando le loro offese?”(op. cit., p.105). In un altro brano Sturzo ricorda che nei rapporti con Dio solo il presente è in nostro potere! “Nei rapporti con Dio non possiamo far altro che lasciare il nostro passato alla sua misericordia; il nostro futuro alla sua provvidenza, mentre il presente è nostro perché si redima un passato di colpe e perché si ottenga un futuro di grazie. Il presente solo è l’ora nostra; l’ora dei nostri pensieri e delle nostre azioni; l’ora del bene e del male”(Ivi p.183). E allora viene da chiedersi che cos’è il presente? “ È l’attimo che passa e che è nostro e del quale e nel quale possiamo fare tutto il bene o tutto il male che noi vogliamo. Questo presente è in noi stessi; è il nostro essere: pensiero, volontà, azione. Questo momento presente, che dura per noi tutta la vita e per l’umanità i secoli e i millenni, è registrato da un organo simbolico e vivente, il cuore”(Ivi p. 225). Il cuore in senso biblico racchiude la pienezza della vita spirituale, cioè l’energia di tutte le forze dell’anima e del 154 corpo (Mat 25, 31 ss.) o in senso pascaliano: le coeur a ses raisons, que la raison ne connait point. “ “Dov’è il vostro tesoro lì sarà il vostro cuore”. Il resto è fuori della nostra cerchia di azione, il resto non esiste. Il cuore è dentro di noi, esso vive del nostro presente col palpito che ama, teme, spera, gioisce, dolora. Perché sciupare questo tesoro nella vita materiale che è solo un mezzo e non cercarlo nella vita dello spirito che è di per sé una gioia, un godimento, una perennità felice, anche in mezzo ai dolori e alle afflizioni del nostro pellegrinaggio verso il cielo?”(Ivi pp. 225, 226). Misericordia ,da miserere e cor cordis= sentimento di compassione e pietà, grazia e perdono. È la prima invocazione nella Divina Commedia:miserere di me gridai a lui, (Inferno, c.I, 65); Sturzo richiama le 7 opere di misericordia corporale e le 7 opere di misericordia spirituale. “Non disse il Maestro che al giudizio finale darà il premio a chi avrà fatto il bene ai fratelli, ai più bisognosi e derelitti; a chi aveva fame o sete, al carcerato, all’ammalato, al nudo ecc. come se fosse fatto a Lui stesso?”(Ibid.) Il campo specifico di Luigi Sturzo è stato quello sociopolitico, mentre il fratello vescovo, oltre alle tante opere di teologia, di pedagogia, di pastorale, di poesia è stato il fondatore di una Rivista di autoformazione e il creatore di una nuova filosofia, il Neo -Sitetismo. La forma più alta di carità, ha proclamato Paolo VI, è la politica e a questa si è dedicato con grande impegno per tutta la vita Luigi Sturzo. 155 “La società si trasforma solo con le virtù, cardinali, sul piano umano speculativo: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, e sul piano divino con le virtù teologali:fede , speranza e carità _ Se è naturale pensare alla società in termini di timore: - che sarà di noi, famiglia o classe? Di noi città o nazione? Di noi occidente o oriente? Di noi società o chiesa? È più utile e doveroso dire, continua Sturzo: che debbo io fare oggi per la famiglia, per la classe, per la città, per il paese, per la cultura, per la scuola, per la chiesa? Qual è il mio dovere? Che cosa mi dice il cuore? Che cosa mi insegna Gesù? L’oggi è vita, è lavoro, è combattimento, è sacrificio: coraggio piccolo gregge, a voi è dato il regno, perché ogni buona azione, ogni atto di dovere, ogni buona parola è il tesoro con il quale si compra il regno dei cieli”(Ivi , pag. 226) A questo punto bisogna leggere e meditare: l’Appello a tutti gli uomini liberi e forti; il Programma del Partito Popolare Italiano, e l’individuazione contro Le tre malebestie: statalismo, partitocrazia, sperpero del denaro pubblico! 156 LA MISERICORDIA COME ‘PRINCIPIO PEDAGOGICO’. LA POIESI DI UNA NUOVA FORMA COMUNICATIVA Gaspare Pitarresi “La Misericordia di Dio non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. È veramente il caso di dire che è un amore “viscerale”. Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, 1 fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono” . Papa Francesco 157 Introduzione Posto che la “misericordia umana” è la “forma concreta della misericordia di Dio nel mondo”2 e non costituisce quindi un’idea astratta, l’obiettivo che ci poniamo con il presente contributo è quello di captare l’inaugurazione di una nuova forma di “comunicazione” a partire dalla Misericordia. 1 Francesco, Misericordiae Vultus. Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia, 11 Aprile 2015, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, pp. 183-184. 2 Cfr. M. Naro, Teologia della misericordia, teologia dalla misericordia, in: G. Alcamo (cur.), Con il cuore di Padre. Rivelazione di Dio e stile pastorale per la Chiesa, Paoline, Milano 2016, p. 85. Oggi l’idea di Misericordia, la cui immediata traduzione può essere quella di compassione3 (cum patior), in recenti studi di psicologia e pedagogia è sovente espressa tramite il termine empatia o enteropatia4. Il fenomeno dell’empatia è stato definito come: Atto intenzionale ed esperienziale eterocentrato, che consente cioè il riconoscimento dell'alterità personale, in una più ampia epistemologia dei vissuti coscienziali concepita quale analitica fenomenologica della persona umana. Di tale riconoscimento si può parlare soprattutto a proposito dell'appartenenza alla medesima specie umana che sperimentano ogni giorno persone di etnie e culture molto diverse o distinte tra loro in base a età, sesso, linguaggio, classe sociale. Si danno diversi casi di entropatia, dal suo più semplice, immediato aspetto di percezione o intuizione dell'altra esistenza alle forme di 3 Già nel Vecchio Testamento Dio sceglie la modalità di “entrare nella cultura di un popolo” per costituire un’alleanza. Il vocabolario veterotestamentario dispone di ampia teoria di lemmi atti a significare la misericordia di Dio: il termine ebraico rahamim, che deriva da rehem, ovvero grembo materno, le “viscere materne”; oiktirmós indica la compassione, la commozione e la disponibilità ad aiutare; éleos che sta ad indicare il sentimento di commozione; il rapporto tra misericordia e giustizia, invece, è espresso dal termine è hesedh, che può rendersi con amicizia, favore immediato, grazia. Il termine biblico che ci fa cogliere a pieno l’idea di Misericordia è lebh, cuore. Uno dei volti del Dio vetero-testamentario - mutuando le parole del profeta Osea 11, 8 - è quello di un Dio che si muove a compassione, che si commuove. Nessuna traduzione sarebbe in grado di restituirci la ricchezza di senso dell’amore smisurato e appassionato di Dio per la sua creatura. La stessa compassione emerge in Esodo 3,7, ove si dice che Dio “scende”, mosso a compassione, in ascolto del grido di sofferenza del suo popolo. Una ‘compassione’ che sarà promessa poi in Esodo 6,7 sì da instaurare un’amicizia misericordiosa duratura. La Misericordia, dunque, manifesta la realtà intima di Dio: «l’essere di Dio è esistenza per il suo popolo e con il suo popolo» (W. Kasper). È nel volto di Gesù che la Misericordia spiega e dispiega l’essere di Dioper-l’altro, nel “qui e adesso” della storia. 4 Si tratta di un “atto” importantissimo evidenziato dalla lezione della fenomenologia, da Husserl prima e Stein dopo: “Fra i nostri diversi vissuti, ce n’è uno che definiamo Einfühlung, e la sua peculiarità è farci sentire immediatamente che stiamo in contatto con un altro essere umano, di modo tale che possiamo dire “noi”. [_] Entropatia vuol dire che sento l’esistenza di un altro essere umano, come me: è, pertanto, una sensazione immediata di somiglianza”. A. Ales Bello, Introduzione alla fenomenologia, Aracne, Roma 2009, pp. 44-45. 158 rispetto che generano comprensione e presentano motivi di reciprocità e di associazione, fino all'atto di immedesimazione nel 5 sentire dell'altro. Trascendendo il piano dell’analisi fenomenologica degli atti di empatia, la riflessione proposta di seguito vuole invitarci ad un confronto diretto con un’esperienza di vita concreta. Muovendo da questa considerazione, “la virtù dell’empatia diviene allora un modo d’essere, un caratteristico stile esistenziale e un’esperienza di valore che può investire ogni incontro, realizzarsi con ogni interlocutore; per tale ragione, essa promuove un’azione trasformante per quanti prendono parte al processo e alla sua dinamica propria”6. La Misericordia, del resto, colta nel suo aspetto etimologico, biblico e pastorale, non è che dimostrazione di un movimento di “decentramento” verso l’altro, atto che implica comunque una revisione del paradigma educativo tout court e al contempo predilige nel dialogo la scelta etica (responsabilità-per-l’altro), per inaugurare, tramite gesti concreti e visibili, una profonda e proficua “cultura del contatto”. 5 G. Morselli, “Mettere al mondo”. Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 17 (2015) [inserito il 30 dicembre 2015], disponibile su World Wide Web: http://mondodomani.org/dialegesthai/>, [108 KB], ISSN 1128 -- 5478. 6 A. Bellingreri, Il metodo educativo “centrato sull’empatia” in “Studium Educationis”, 2/2013, p. 14. 159 L’urgenza di misericordia L’atteggiamento di ostilità oggi molto frequente nei confronti dell’altro in quanto diverso, verso i migranti in primiis, affonda le sue radici più recenti nell’ideologia nazista, la quale invogliava al disprezzo dell’uomo. La lezione che le nostre società occidentali hanno raccolto dalle pagine di storia del XX secolo può riassumersi nel tentativo-bisogno di prevaricazione sull’altro e sulla sua cultura, sì da elevare “un atteggiamento dei forti”, al fine di esprimere se stessi. La conseguenza immediata è l’incapacità di abitare il limite, tant’è che: Quando l’uomo dimentica di abitare il limite, non è più capace di prossimità e pretende di abitare nella totalità. Ma il pensiero di totalità non riconosce più alcuna esteriorità, differenza e diventa totalitarismo, nazismo e olocausto. Educare dopo i fallimenti del XX secolo significa allora accettare di abitare il limite, condizione per 7 rispondere sinceramente “eccomi” al volto che mi fa visita . Eppure, “un punto resta comunque assodato: di fronte allo straniero, cede ogni possibile linguaggio dell’unicità”8. Lo “straniero” ci inquieta perché rivela la nostra stessa estraneità, la non coincidenza interna a noi stessi, poiché l’identità non è un dato da cui si possa partire, quanto piuttosto il risultato di un cammino attraverso il quale si giunge a riconoscere la propria identità soltanto attraverso la relazione con l’altro uomo9. La presenza dell’altro, dello “straniero” ci costringe a ridestare una capacità e una necessità ormai sopita, anzi 7 S. Curci, Pedagogia del volto. Educare dopo Lévinas, editrice Missionaria Italiana, Bologna 2002, p.109. 8 U. Curi, Straniero, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 13. 9 Cfr. M. Ghilardi, Filosofia dell’interculturalità, Morcelliana, Brescia 2012, p. 131. 160 repressa in noi, ossia quella di comunicare. Il sorgere di questo bisogno fa paura, rende nudi, depaupera l’individualità di ciascuno di noi. Di fronte a quest’atteggiamento è significativa la trasmutazione di senso dei termini “compassione” e “misericordia”, i quali appaiono sempre più desueti, privi di consistenza o intesi come stati d’animo dal sapore esclusivamente sentimentalista. Gli studi più recenti nel settore delle scienze umane si sono sforzati di plasmare un nuovo paradigma di Vita nella forma della compassione come “capacità di comprensione”, giacché “l’empatia è atto originario in primo luogo perché è atto di costituzione dell’altro da me come soggetto che ha parte al mio stesso mondo; ma soprattutto perché la costituzione dell’altro io è la condizione di possibilità per la costituzione del proprio io”10. Il teologo Walter Kasper in Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo – chiave di vita cristiana opera che sembra aver sollecitato il pontificato di papa Francesco11 -, con grande lucidità e arguzia sottolinea l’urgenza della promozione del concetto di humanitas attraverso “relazioni empatiche”. In uno dei passaggi introduttivi, il teologo afferma che: Entrare nel mondo dei sentimenti, dei pensieri e della vita di un’altra cultura e di un altro popolo è inoltre un presupposto fondamentale per un incontro interculturale, per stabilire un clima di pace e di 10 A. Bellingreri, Il superficiale, il profondo. Saggi di antropologia pedagogica, Vita e Pensiero, Milano 2006, p. 31. Mi si permetta questa allusione, dal momento che lo stesso Pontefice, durante il suo primo Angelus a Piazza San Pietro (17 marzo 2013) esordì di essersi preparato al conclave leggendo questo libro del cardinale Kasper. 11 161 collaborazione tra religioni e culture e per praticare una politica e una diplomazia che mirano alla pace [_] Non dobbiamo intendere il termine compassione solo nel senso di un comportamento compassionevole, ma in esso devono echeggiare anche il termine passione e un comportamento appassionato di fronte alle ingiustizie colossali che esistono nel nostro mondo, così come deve echeggiare 12 l’invocazione della giustizia . Il secolo in cui viviamo ci obbliga a una serie di considerazioni sulla Misericordia. Il monito è immediato: “In effetti, - continua il cardinal Kasper - dovremmo tacere su Dio, se non sapessimo annunciare di nuovo agli uomini immersi in tanta miseria fisica e spirituale, il messaggio della sua misericordia. Dopo tutte le esperienze del XX secolo e dopo quelle dell’appena iniziato XXI secolo la questione della misericordia di Dio e degli uomini misericordiosi è oggi più urgente che mai”13. Imparare a guardarsi dal di fuori Antonio Bellingreri14, da molto tempo versato nello studio dell’empatia quale virtù pedagogica, sostiene che “è possibile leggere la storia dell’educazione e della pedagogia sub specie emphatheias”15. In verità, percorrendo le analisi di Edith Stein, filosofa formatasi alla 12 W. Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo – chiave di vita cristiana, Queriniana, Brescia 2013, p. 33. Ivi, p. 14. 14 Il professore Antonio Bellingreri, ordinario di Pedagogia Generale presso l’Università degli Studi di Palermo, ha tentato di rintracciare nel cammino biografico e teoretico di Edith Stein “una via pedagogica per la conoscenza della persona”. Oltre al già citato Il superficiale, il profondo. Saggi di antropologia pedagogica, si rimanda anche al suo Per una pedagogia dell’empatia, Vita e Pensiero, Milano 2005. 15 A. Bellingreri, Il superficiale, il profondo, p. 48. 13 162 scuola del padre della Fenomenologia Edmund Husserl, è possibile “interpretare la relazione educativa come relazione empatica e di riconoscimento reciproco, nella quale ciascuno, in virtù dello sguardo dell’altro è aiutato nella costituzione del proprio sé autentico”16. Con il termine empatia intendiamo dunque un ‘modo di sentire’ che facilmente è riconoscibile in ogni azione educativa, con un rimando immediato alle relazioni di prossimità. L’empatia, ovvero l’atto di entrare in rapporto con l’altro, delinea un modello di reciprocità nella relazione, giacché: “il passaggio dall’ottica dell’identità a quello della differenza [_] implica una fase iniziale di decostruzione per accedere a nuovi modelli e a nuovi percorsi che per comodità possiamo racchiudere nella formula: educare/educarsi a partire dall’altro. “A partire dall’altro” è un’espressione e una disposizione che nell’apparente e tranquilla ovvietà è invece indice di un “decentramento”, di uno spostamento della soggettività. Occorre spostare il punto d’osservazione, imparare a guardarsi dal di fuori”17. Il processo pedagogico che si vuol mettere in evidenza muove da un concetto di identità pensata come dimensione “corale”, aperta e sempre rivolta all’ascolto, al rispetto dell’alterità, del riconoscimento, al valore della differenza, alla disponibilità al dialogo e al confronto. Tutte queste categorie, come le tessere di un mosaico, recano un prezioso contributo all’opera di umanizzazione della 16 Cfr. Ivi, pp. 19-20. E. Baccarini, La persona e i suoi volti. Etica e antropologia, Anicia, Roma 1996, p. 151. 17 163 vita ed escludono ipso facto ogni schema chiuso e antidialogico. Attraverso l’idea di Persona come centro di relazioni, si è portati a un orientamento in interiore, all’incontro-scontro con un cum che rafforza l’ego in nome di una coralità che conduce all’abbattimento dei confini tra l’io e l’altro, per una vera e propria costituzione dell’essere umano come “con-essere-nel-mondo” o – detto in termini capitiniani “compresenza”18. Detto altrimenti: “prendendo le distanze da se stesso, aprendosi al tu dell’altro, ognuno trova un sé più vero ed è questa accoglienza dell’altro, questo abbandonarsi e aprirsi al dono rappresentato dalla presenza dell’altro che fa sorgere in lui una nuova speranza, una nuova possibilità di creare un maggiore accordo, una vera unità con tutti gli esseri”19. La scoperta dell’io come coralità ha delle ricadute sul piano pratico. Infatti, le principali potenzialità dell’essere umano si manifestano nell’attitudine a comunicare, a entrare in rapporti simbolici con l’altro20; questo porta l’educatore a raccogliere le molteplici domande provenienti dal vissuto dell’educando, come l’unica “Domanda” e prostrarsi in ascolto della sua esperienza vissuta. È questo l’approccio da usare per l’intero percorso paideutico, coscienti del fatto che “La domanda - scrive la psicoanalista François Dolto - non è, infatti, che la punta 18 Cfr. A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano 1966. L. Romano, La pedagogia di Aldo Capitini e la democrazia. Orizzonti di formazione per l’uomo nuovo, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 41-42. 20 Cfr. G. Chiosso, Il Novecento pedagogico, La Scuola, Milano 2012, p. 273. 19 164 di un iceberg fatto di emozioni, affetti, attese che all’educatore spetta non spegnere, prendendo soltanto in considerazione la parola, ma da ravvivare e arricchire in modo da rendere ciascuno padrone della propria esperienza”21. Il valore dell’empatia nella rel-azione educativa Un’educazione empatica istituisce tutta una serie di processi e di funzioni diverse. In primo luogo, la condizione per ascoltare l’altro - il punto di partenza di ogni processo educativo nella forma empatica - è iniziare la prassi educativa con un’epochè, un’operazione fenomenologica del “mettere tra parentesi” quei pregiudizi immediati che l’educatore ha acquisito a riguardo dell’educando. In secondo luogo occorre mettere in chiaro due aspetti caratterizzanti la relazione empatica: 1) l’immedesimazione con l’esperienza dell’altro (sentire se stesso dentro le esperienze dell’altro); 2) la comprensione emozionale (una conoscenza emotiva dell’altro). Per rendere in modo icastico la categoria di empatia qui rielaborata e offerta, la si potrebbe compendiare con l’espressione sentire l’altro: “L’empatia – scrive Laura Boella - insegna che tra gli esseri umani c’è una circolazione di senso per cui ciò che viviamo di persona si completa e si integra con ciò che si apprende riconoscendo ciò che vivono gli altri. Ciò che non ci 21 Ivi, op. cit., p. 272. 165 appartiene, che è fuori di noi e forse anche estraneo, nell’empatia diventa relazione, parola, ascolto”22. Tuttavia, nella relazione empatica si evince in modo eminente la costituzione polare dell’antropologia, per cui si oscilla tra ciò che è in noi (interno) e ciò che è aldilà di noi (esterno). Ciascun educatore si trova dinanzi questo tipo di comprensione “affettiva” dell’interno, accogliendo l’idea che l’“interno” si mostra a noi solo tramite delle tracce23. La psicologia dello sviluppo ha rilevato che già dal primo anno di vita il bambino sperimenta “forme di empatia”. Quella immediata è indubbiamente l’idea di “fusione” che il bambino ha con la madre nella forma della “sintonia”. La placenta è il primo luogo “che non appartiene né all’uno né all’altro, ma permette la loro co-esistenza, garantisce cioè l’esistenza di entrambi, ovvero la loro relazione”24. Il punto d’inizio, di là da una simbologia evocativa dell’universo femminile, inquadra la relazione educativa in chiave generativo-ermeneutica, ossia a partire da un rapporto uterino, poiché si è “chiamati a dare alla luce”. Ebbene, “la nascita non è fine a se stessa, ma è l’accesso a una realtà comunionale già implicata nel dato per cui ciascuno di noi è in qualche misura responsabile di favorire o di ostacolare la nascita dell’altro [_] L’esistenza umana è un cammino di possibile nascita radicale”25. 22 L. Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina editore, Milano 2006, p. 83. 23 L’osservazione esterna è sempre un lavoro “delicato” di discernimento atto a garantire l’alterità dell’altro. 24 L. Irigaray, L’ospitalità del femminile, il melangolo, Genova 2014, p. 14. 25 R. Mancini – F. Falappa – C. Canullo – S. Labate, Per un’antropologia della creaturalità, il pozzo di Giacobbe, Trapani 2009, p. 41. 166 D’altronde, “focalizzare l’attenzione sulla nascita come paradigma della nostra condizione riporta un’attenzione più lucida sul nostro essere-con-l’altro, per cui nessuno nasce da solo e fin da principio siamo connotati da una relazionalità ontologica”26. L’atto del “dare alla luce”, infatti, non è una azione che accade e si compie una volte per tutte: “la generazione è, piuttosto, un’azione iterativa. Ogni azione - scriveva Hannah Arendt - ha almeno due movimenti: il primo è quello dell’archein, ossia del dare inizio e del generare; l’altro è quello del prattein, ossia del far durare e del portare a compimento. In breve: ciò che è stato fatto, dev’essere continuamente “fatto essere” mediante la cura, mediante l’educazione [_]”27. L’attenzione per l’altro necessita una traduzione in accoglienza, cura, accompagnamento, dal momento che la persona non è un dato da registrare e da analizzare, ma un essere vivente da scorgere e cogliere nel suo essere reale, per accompagnarlo in un vero e proprio cammino di personalizzazione28. Ed è proprio a partire dal “grembo” che percepiamo l’essere custoditi e l’essere amati29. Detto sinteticamente: 26 Ivi, p. 42. M. Semeraro, La chiesa come «pedagogia di Cristo in atto»: una consegna ininterrotta, in: UFFICIO C ATECHISTICO NAZIONALE, Incontriamo Gesù. Annuncio e catechesi in Italia alla luce degli orientamenti nazionali, EDB, Bologna 2014, p. 22. 28 Nell’assumere il processo educativo come “cammino di personalizzazione”, vanno segnalati, inoltre – ispirati dal personalismo di Emmanuel Mounier - alcuni atti originali fondamentali per la costruzione di una relazione profondamente “empatica”, sono: uscire da sé, comprendere, prendere su di sé, dare, essere fedele. 29 Cfr. M. Semeraro, Il ministero generativo. Per una pastorale delle relazioni, EDB, Bologna 2016, p. 25. 27 167 L’educando è accolto in primo luogo per quello che egli è effettivamente, il suo io reale; è necessaria qui quella competenza che in psicoterapia viene definita “accuratezza empatica” [_] L’educatore però accoglie e comprende l’educando oltre ciò che egli è, lo vede in ciò che può essere e in ciò che deve essere: nel suo sé autentico [_] L’educatore che, incontrando l’educando [_] lo accoglie come un bene in sé, incomparabilmente prezioso, per la sua esistenza attuale, ma anche per il suo compimento secondo la forma propria. L’educatore grazie all’empatia vede l’altro come soggetto proteso verso una sempre più compiuta 30 unità di senso. L’idea di fondo che soggiace al processo educativo pensato cammino di personalizzazione è quella di ritrovare la forma, l’unità nel tutto, non ridurre l’altroeducando a sé, né tanto meno di eliminarlo come altro. 168 Il dialogo come scelta etica Per meglio interpretare “l’empatia come categoria pedagogica”, mi piace ricorrere, a guisa di esempio, allo stile “empatico” di Papa Francesco. In una catechesi rivolta ai parroci della diocesi di Roma ebbe a dire: La vera Misericordia si fa carico della persona, la ascolta attentamente, si accosta con rispetto e con verità alla sua situazione, e la accompagna nel cammino della riconciliazione. E questo è 31 faticoso, sì, certamente . 30 A. Bellingreri, op. cit., pp. 64-65. Francesco, Discorso del Santo Padre Francesco rivolto ai parroci di Roma giovedì 6 marzo 2014. 31 Il gesto del “farsi carico” caratterizza, identifica e qualifica la relazione educativa ricca di umanità proposta e seguita dalla Chiesa, dal momento che qualsiasi sua attività ha come obiettivo la Persona. Il cammino dell’accompagnamento si risolve nella pazienza, nella hypomoné, che segue pedissequamente i processi senza bistrattare i limiti32. Questo iter relazionale deve essere continuamente capace di ri-conciliazione. Così come Gesù racconta nella parabola del servitore spietato, il primo modo di vivere il perdono è la pazienza, e insieme a questo la pietà, l’immedesimazione (Mt 18, 23-34)33, tutti atteggiamenti che ciascuno è chiamato a rivivere quotidianamente nella propria parabola esistenziale. Il concetto di “prossimità” non è da considerare solo come un appello agli uomini a vivere umanamente, ma è centrale perché rimanda al senso dell’esistere. Senza l’altro, il mio io non può esistere. È l’altro che in forma dialogica fonda e distingue la mia identità. È lo stesso papa Francesco ad affermare che “la vicinanza crea comunione e appartenenza, rende possibile l’incontro. La vicinanza acquisisce forma di dialogo e crea una cultura dell’incontro”34. L’educazione empatica, pertanto, che coincide con una “educazione al dialogo”, esige un’educazione all’ascolto35 32 Cfr. Francesco, Dio nella città, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo (Mi) 2013, p. 48. M. Naro, art. cit., p. 85. 34 Francesco, Decifrare la fuga di tanti fratelli, in Il Regno LVIII (2013) 15, p. 467. Nel citare questo passaggio il teologo pastoralista Carmelo Torcivia afferma che «si tratta di un discorso importante perché il Papa svolge la sua personale ermeneutica del documento di Aparecida». In: G. Alcamo (cur.), Con il cuore di Padre. Rivelazione di Dio e stile pastorale per la Chiesa, Paoline, Milano 2016, p. 248. 35 Cfr. A. Bellingreri, op. cit., p. 77. 33 169 in tutto il processo pedagogico: “l’esistenza autentica si costruisce attraverso il dialogo che, per Buber, è il fulcro su cui si fonda l’incontro e la base di tutte le dinamiche della relazione educativa. È una critica al soggettivismo, in quanto non si può riconoscere l’invito che si presenta all’uomo nel volto di un’altra creatura”36. Il verbo ascoltare ridisegna spazialmente la relazione dell’uomo-con-l’uomo come capace di co-esistere nella stessa “comunità”, ridisegna una nuova geografia la cui coordinata non è quella del “contro” (homo homini lupus) ma quella dell’ “accanto” (homo homini frater). Aprirsi alla voce del “diverso” significa pertanto mettersi in ascolto di ciò che può sconvolgere i nostri schemi, far crollare le nostre certezze, provocare in noi disorientamento. Significa dar spazio alla poiesi di una nuova forma comunicativa per accogliere e comprendere quanto è impossibile esaurire in una prospettiva prettamente individualistica ed egocentrica. Un vero e proprio decentramento del Soggetto che sovente compare nelle proposte filosofiche dell’età contemporanea. Scrive diligentemente Laura Boella: Esplorare l’esperienza dell’altro come possibilità interna alla nostra esperienza, e che ne coinvolge l’intero orizzonte cognitivo, emotivo e volitivo, apre una serie di nuovi profili del mondo. Riconoscere la presenza dell’altro non è infatti solo un atto che riguarda il soggetto. L’altro viene riconosciuto anche come esistente di per se stesso. Viceversa, alle prese con l’altro, l’io si scopre ricettivo, non più 36 V. A. Donatello, Guardando all’altro mi scopro onni-debole anch’io...piuttosto che onnipotente. Per un umanesimo davvero “inclusivo”, in: “Itinerarium” 23 (2015/3) 61, pp. 73-84. 170 esclusivo padrone di se stesso. Come se nel reciproco 37 riconoscimento avvenisse una nuova nascita per entrambi . L’atto di “entrare in rapporto con l’altro” e di scorgerlo nella sua situazione, nei suoi sentimenti, per meglio cogliere il suo modo di pensare, di guardare la realtà, di comportarsi è la via maestra per costruire le relazioni intersoggettive. Mettersi in ascolto è già com-patire, ospitare, “aprire all’altro il proprio spazio interiore”38. Con lo sguardo rivolto alla fragilità Questa indagine sull’empatia sollecita una rinnovata comprensione della comunicazione e della prassi pastorale della Chiesa. Sebbene il Giubileo straordinario della Misericordia termini de iure il 20 Novembre 2016, de facto i suoi effetti e i suoi frutti sono destinati ad informare vita natural durante le “azioni”39. Ci è lecito chiederci, alla luce di tali considerazioni, cosa c’entra in tutto questo la Misericordia e come, eretta a virtù pedagogica, può contribuire a trasfigurare, per meglio abitare, le nostre relazioni educative? La Misericordia interpella le nostre relazioni e ciò trova giustificazione nel fatto che “il mistero della fede cristiana sembra trovare in questa parola la sua sintesi”40. La 37 L. Boella, op. cit., XXIX. E. Hillesum, Diario 1941-1943, a cura di J. G. Gaarlandt, Adelphi, Milano 1996, p. 49. 39 Quando ci si riferisce all’Azione non si vuole intendere la semplice gestualità, espressività semplicisticamente detto, ma l’azione intesa come la “forma dell’umano”. 40 Francesco, Misericordiae Vultus, n° 1. 38 171 Misericordia è “istanza motivante”41, “categoria generatrice”42, “forma della fede” e deve incarnarsi come “stile” e “prassi”. L’atteggiamento etico-pedagogico è da individuare in questa dinamica tipica della Misericordia cristiana di entrare in rapporto con l’altro, accompagnarlo e prendersene cura. Prima di ogni contenuto da veicolare, bisogna pensare al modo in cui farlo. E pensare il modo significa, in altre parole, avere a cuore la relazione educativa come canale con cui possiamo giocarci ciò che la Dolto definiva “umanizzazione della vita”. Un vero e proprio richiamo etico-esistenziale alla cura dell’uomo “che ho in carico”43. È la condizione stessa di fragilità in cui si trova l’uomo che impone la necessità della cura e dell’attenzione reciproca. La fragilità in sé, dunque, c’impegna alla cura, poiché riecheggia la nostra condizione di finitudine umana. Ciò che è fragile, tuttavia, assurge anche a qualcosa di prezioso. Difatti, fragile e prezioso assumono il carattere di un’endiadi in cui può riassumersi l’“identità paradossale dell’umano”44. La “fallibilità e vulnerabilità, [_] sono la testimonianza tangibile di un’antropologia del fragile, che fa scendere il soggetto dal piedistallo dell’autosufficienza, esponendolo al duplice vincolo – attivo e passivo – 41 M. Naro, art. cit., p. 57. Espressione coniata dalla teologa Stella Morra. Per un approfondimento, si rimanda alla lettura dell’articolo citato di Naro. 43 Si consideri l’ampia riflessione attorno al concetto di responsabilità nel ‘900 filosofico. 44 L. Alici, Il fragile, il prezioso. Bioetica in punta di piedi, Morcelliana, Brescia 2016, p. 37. 42 172 dell’aiutare ed essere aiutato”45. Ciò che è “fragile” è degno di cura ed esige la nostra responsabilità.46 In prossimità del Convegno delle Chiese d’Italia di Firenze (9 - 13 novembre 2015), Ernesto Diaco scriveva che: Dopo la fine delle grandi costruzioni ideologiche e pienamente immersi nel vortice narcisistico dell’auto-comunicazione odierna, c’è grande bisogno di un aiuto a saper guardare le dimensioni deboli della vita, a prendersi cura delle sue immancabili ferite, ad accompagnare la vulnerabilità dell’essere umano con una cultura del contatto, della sensibilità, della compagnia. Si tratta, spiega il teologo austriaco K. Appel, di mostrare che il contributo del cristianesimo a un nuovo umanesimo è nella fragile, spesso fungente, narrazione della genesi di uno sguardo rivolto alla fragilità, alla vulnerabilità, anche alla sensibilità e al sottrarsi dell’esistenza umana. La parola cristiana centrale, “misericordia”, 47 ne dà testimonianza . 173 Ad ogni uomo è chiesto di “trasformare” i luoghi che abitiamo in “luoghi elettivi della cura, dove la reciprocità sperimenti ogni giorno il miracolo della restituzione: unica replica morale di cui le persone umane sono capaci, per vivere all’altezza del loro essere: fragile e prezioso”48. Il paradigma relazionale espresso nel “sentire l’altro” ci chiede di passare per la strada dell’amore compassionevole, sì da “non vivere come l’altro né vivere 45 Ivi, p. 37. Papa Francesco si è più volte soffermato sull’immagine di chiesa come “ospedale da campo”, la cui missione specifica è quella di prendersi cura soprattutto dei feriti (poveri, migrati, disabili, malati, divorziati, omossessuali). 47 E. Diaco, La chiesa italiana a Firenze: l’umanesimo della prossimità, in: “Itinerarium” 23 (2015/3) 61, pp. 61-72. 48 Cfr. L. Alici, op. cit., p. 210. 46 con l’altro, ma vivere per l’altro: perché possa fiorire ed essere in pienezza”49. Tutto questo, trasposto in ambito ecclesiale-pastorale, può contribuire all’abnegazione di un volto di Chiesa rigido, perché essa, tramite il nostro essere-agire “ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera”, dunque è “una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza”50. Si può pertanto dire che “la Misericordia è tutto ciò che è essenziale alla vita. La Misericordia è un fatto di grembo e di mani. Dio perdona così: non con un decreto ma con una carezza”51. L’ascolto e il contatto, o diversamente l’incontro, traducono l’atto che sovente è stato definito “empatia”, un atto che interessa tutti i processi cognitivi, affettivi che afferiscono a tutte le condizioni sociali. Credo siano i due principi significativi” per additare una vera “conversione pastorale” delle e dalle relazioni52. L’accompagnamento pastorale deve trovare le proprie fondamenta nell’humus antropico, perché nell’uomo stesso esso può trovare le proprie risorse: “Quello da cercare è il domandare vitale, cioè quello che si mette in ascolto delle questioni essenziali, essenziali sono quelle 49 A. Bellingreri, op. cit., pp. 235-236. Discorso di Papa Francesco a Firenze, apertura dei lavori. 51 E. Ronchi, Le nude domande del Vangelo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016, p. 154. 52 La relazione empatica addita una conversione dell’intelligenza e del cuore ed ha come scopo la “comunicazione interpersonale”. H. Franta, parlando del dialogo e dell’ascolto nel rapporto educativo-empatico, propone quale compito prioritario quello di educare la comunicazione. Questa, attraverso dei training di addestramento, può diventare descrittiva e non giudiziaria, orientativa e non direttiva, flessibile e non dogmatica, paritetica e non gerarchica, coinvolta e coinvolgente, non neutrale e, da ultimo, spontanea in quanto non «costruita». A. Bellingreri, op. cit., p. 78. 50 174 che hanno a che fare con il nostro esserci, quelle questioni che sentiamo necessario frequentare poiché ci aiutano a trovare la giusta misura per abitare la condizione umana”53. Conclusione La modalità del mettersi “in ascolto dell’altro” si propone come chiave ermeneutica di una Chiesa che vive non narcisisticamente paga della propria immagine, bensì innestata e incarnata in uno spazio, consapevole del fatto di essere-segno, misericordiosa e foriera di una prassi ecclesiale che nasce e si nutre dalla missione54. La Chiesa è chiamata, per prima, a prendersi cura degli uomini e delle donne a costo di accidentarsi in un movimento di “conversione” per una nuova e continua epifania55. Mi pare che l’esortazione apostolica Evangelii gaudium delinea una traiettoria chiara da seguire. Così ci ammonisce il papa: 53 L. Mortari, Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in Maria Zambrano, Liguori editori, Napoli 2006, p. 133. 54 La chiesa è colta a partire dalla missionarietà. Cfr. Francesco, Evangelii Gaudium. Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, 24 novembre 2013, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, pp. 54-56. 55 Si tratta di cominciare a pensare “un umanesimo nuovo che diviene autoespressione dell’ascolto delle dimensioni che intersecano l’uomo, per potersi tradurre in tutti gli ambiti della fede comune (teologia, diaconia, magistero, azione pastorale, diritto). Occorre riscoprire tutta l’umanità di Gesù nel dialogo col mondo, assumendo una disposizione kenotica per meglio “entrare in rapporto con l’altro”, incidere sulla realtà, per manifestare che è ancora possibile riconciliare l’uomo con l’altro uomo, l’uomo a Dio, l’uomo a se stesso”. G. Pitarresi, Dire l’uomo nell’epoca della ‘crisi’. Per un umanesimo in ascolto “dell’urlo dell’uomo solo”, in “ITINERARIUM” 23 (2015/3) 61, p.44. 175 In una civiltà paradossalmente ferita dall’anonimato e, al tempo stesso, ossessionata per i dettagli della vita degli altri, spudoratamente malata di curiosità morbosa, la chiesa ha bisogno di uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoversi e fermarsi davanti all’altro tutte le volte che sia necessario. In questo modo i ministri ordinati e gli altri operatori pastorali possono rendere presente la fragranza della presenza vicina di Gesù ed il suo sguardo personale. La chiesa dovrà iniziare i suoi membri [_] a questa arte dell’accompagnamento, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti la terra sacra dell’altro (cfr. Es 3,5). Dobbiamo dare al cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita 56 cristiana . Con sguardo di vicinanza, rispettoso e pieno di compassione: con questa misura è pensabile e possibile una vera rivoluzione pastorale. La Chiesa, spinta da questo Giubileo come ad una conversione uterina, percorrendo la via della tenerezza e orientata all’essenziale, deve essere capace di spogliarsi per accogliere, di uscire da sé per essere restituita a se stessa, di spendersi per assumere su di sé le debolezze e le difficoltà di tutti e di ognuno in particolare. 56 Francesco, Evangelii Gaudium, pp. 183-184. 176 Parola, responsabilità, perdono: una premessa filosofica Romano Romani La parola è sentiero e luce, viandante e cielo La storia degli esseri umani è storia della ricerca della consapevolezza del bene e del male che essi hanno compiuto e compiono. Nella totalità dei suoi aspetti, la ricerca della consapevolezza è l’uomo nella sua umanità. Poiché in ciascun uomo e negli uomini alla consapevolezza corrisponde una inconsapevolezza e anche il disumano, così, è dell’uomo. Gli esseri umani possono compiere il bene e il male, innanzitutto perché esistono, ma possono esserne consapevoli o inconsapevoli perché parlano: la parola implica in ciascun uomo e negli uomini la responsabilità delle proprie azioni individuali e collettive. La responsabilità di individui di altre specie animali, del loro comportamento, sta sempre e unicamente dentro la parola e la coscienza degli uomini. Il bene e il male, dunque, esistono nella coscienza che se ne ha. Al di fuori di tale consapevolezza essi non sono che degli accadimenti privi, di per sé, di un significato positivo o negativo. In natura, ovviamente, la positività o 177 negatività di un accadimento si dà sempre nel rapporto a un vivente o al vivere. Nel caso del bene e del male nella loro radicalità, il vivere è rappresentato per gli uomini dal rispetto – bene - o dalla trasgressione – male – della legge. Nel suo essere legislatrice, dunque, la parola è costitutiva del mondo. Ma anche: nel suo essere costitutiva del mondo, la parola è legislatrice. Il mondo è conoscibile dall’uomo perché è stato – è – costituito dalla parola. Conseguenza necessaria di quanto ho scritto sopra, è che gli esseri umani concepiscono sia la natura che la loro società – le loro società – come regolate da leggi: la prima – la natura – da leggi la cui forma resta sempre un passo al di là della nostra possibilità di conoscerle, la seconda – la nostra società – da leggi stabilite o da stabilire, nella consapevolezza che la loro forma tende a una perfezione che non potrà mai essere raggiunta. Una consapevolezza non innata e naturale, ma acquisita con sofferenza e innumerevoli ricerche, rivolte, cadute. Il vuoto di conoscenza delle leggi della natura e quello delle leggi che delimitano le società umane viene riempito nell’animo umano e nella storia degli uomini, dal sentimento e dall’idea del divino. Questo sentimento e questa idea appartengono ad ogni cultura e a ogni essere umano. Così come a ogni cultura e a ogni essere umano appartengono la tensione al conoscere e quella alla libertà e alla giustizia: per giustizia deve intendersi qui la pace tra gli uomini e l’armonia degli uomini con gli altri viventi. Quanta è la distanza delle società umane, nella loro storia e nel presente, da questa pace e questa armonia? Da 178 cosa deriva questa distanza? Quanto sono consapevoli coloro che questa distanza mantengono e accrescono, del male che fanno? Come reagire all’inconsapevolezza con la quale gli esseri umani operano il male se non a partire dal loro desiderio di divenire sempre più consapevoli, che è desiderio e bisogno del bene? E andare verso questo desiderio, riconoscerlo come l’autentica natura di ogni uomo e dell’uomo, non è forse perdonare? Questo mi sembra debba essere il modo di intendere non soltanto il senso del reciproco perdono degli uomini, ma anche quello della misericordia di Dio, nella presenza della quale consiste la speranza in un mondo migliore. 179 Con il volume Ultimes réflexions Marcel Conche presenta le sue riflessioni “ultime”(?), dato l’approssimarsi del suo novantaquattresimo compleannoanno e preoccupato – lo dichiara nella breve prefazione ( pp. 5- 8 ) – che un possibile deteriorarsi delle sue facoltà di giudizio possa nuocere alla sua prospettiva filosofica. Percio’ confessa: “ Non posso più fidarmi del mio giudizio e rimango sconvolto quando dubito di potere fidarmi ancora del mio sapere” ( p.5). Sarebbe necessario il giudizio imparziale di un giudice per incoraggiarlo a ricercare una più articolata prospettiva filosofica o per dissuaderlo a continuare nella sua attività, più che sessantennale, magari dopo una pausa. Ma un giudice siffatto non esiste neppure per un filosofo che, prigioniero dei propri pregiudizi, tendesse a considerare “saggia” la soluzione proposta da un filosofo che crede in Dio, la cui esistenza Conche nega 180 RESOCONTI RÉFLEXIONS SU MARCEL CONCHE Santo Arcoleo 180 risolutamente1. Un giudice imparziale potrebbe essere chi mostrasse “di avere delle affinità “ con il suo pensiero,” 1 In molte pagine delle sue opere e nei colloqui privati , Conche ha sempre sostenuto di considerarsi “agnostico” piuttosto che “ateo.”.Nel saggio Philosopher à l’infini ( PUF, Paris 2005), ripercorrendo le tappe della sua formazione, scrive: ”Sono stato educato spiritualmente nella religione cristiana cattolica. Mi hanno insegnato che “Dio” ha creato dal nulla il Cielo e la Terra, e successivamente , dopo la luce, il firmamento, i pianeti, gli esseri viventi dell’acqua e dell’aria, l”uomo a sua immagine e somiglianza; e che l’uomo ha disobbedito a Dio; e che la colpa di Adamo ha introdotto nel mondo il male, il dolore e la morte” ‘( p.12). Un Redentore, venuto a salvare l’uomo, é all’origine di questa riflessione: Dio, il mondo, l’uomo sono l’esistenza, dalla quale nasce l’idea del Tutto, “ossia’l’infinito.” Conche enuncia una verità diversa : Dio diventa una terribile minaccia per i peccatori e nello stesso tempo una promessa di vita eterna ”felice” per le anime dei defunti- almeno per le anime dei giusti” (p. 12 ). Nella sua infanzia e nella prima giovinezza Conche vive ,con paura “superstiziosa ,“la fede in Dio, realtà senza amore e sente estranea la figura di Cristo, Dio fatto uomo, redentore, salvatore dell’umanità.” Il dogma cristiano é ritenuto “un cumulo di credenze imposte”, la stessa bontà di Dio gli sembra incompatibile con la sofferenza che c’é nel mondo, un aspetto approfondito in Orientation philosophique ( PUF, Paris 1990), principalmente nel capitolo :La Sofferenza dei bambini come male assoluto(pp. 41- 59). “ Perché privileggiare la sofferenza dei bambini?Forse che gli adulti non ne conoscono altrettanto atroci? Di queste sofferenze “esiste...una differenza radicale...L’adulto si mantiene lontano dalla sua sofferenza. È “spavaldo” davanti al dolore, o lo “sopporta” pazientemente , disperandosi. Ma il bambino che soffre “ nudo, disarmato, dipendente, fiducioso, stupito, suscita una pietà infinita . Abituato ad essere liberato dal male dalla forza dell’amore da cui si sente protetto ed a vedere le difficoltà risolversi grazie alla virtù dell’amore, il dolore lo sorprende. Non ha vacillato fuori dalla sfera materna,non é caduto e, nella solitudine e nell’abbandono, di essersi abbandonato, di essere rinato, egoista e segreto, volitivo e libero,creatore di se stesso.Avendo il suo centro ancora fuori di sé, travolto dal dolore, non sa a chi rivolgersi. Accettare il faccia a faccia con il dolore, sarebbe circoscriverlo, limitarlo . Al contrario egli si lascia assorbire da esso , come dall’illimitato”(pp.41-42). Conche, richiamando le tesi di Agostino, di Pascal e di Kant, vuole indagare sulla sofferenza: la morte degli adulti per lui é uno scandalo meno grave di quella di un solo bambino torturato. Egli distingue fra “ bambino” e “innocente”: non ci é consentito subordinare la nostra disapprovazione ed il nostro orrore alla soluzione di qualche altro problema, quale : il bambino é colpevole? Allora puo’ avere un senso la sofferenza dell’innocente (Giobbe, Cristo) Per quanto concerne il bambino, escludo questa possibilità. Si sente dire: il male non é che privazione, illusione dovuta al carattere parziale - parziale dal nostro punto di vista sul Tutto-, dissonanza necessaria dall’armonia universale, ombra in un quadro, momento dialettico. Ci vuole tutta l’incoscienza di uomini sistematici per eludere in questo modo la sofferenza dei bambini. Sono dissonanze assolute che rompono l’armonia (pp. 4142). 181 181 quasi un alter ego, che Egli ritiene di aver trovato in una giovane donna,” mandata dal destino”: Chaïmaa, studentessa marocchina, affascinata dalle sue opere, a cominciare da Orientation philosophique2, preludio di un incontro filosofico profondo con il pensiero e la persona del Maestro“( p.7) il quale confessa. Sentivo,leggendo la sua lettera (del 10 ottobre 2013) una forte emozione creativa. Mi sembrava che Chaïmaa ed io dovessimo necessariamente fare qualcosa insieme. Ho deciso, d’accordo con lei, che la sua lettera sarebbe diventata il II capitolo delle mie Ultimes réflexions e che lei mi avrebbe accompagnato nel progredire del mio pensiero”(pp. 7-8). In questo incontro verrebbero poste le basi per una collaborazione avente per oggetto la verità “comune” ad entrambi, la nostra verità, scrive con entusiasmo Conche.( p.8). Gli approfondimenti di queste premesse vengono sviluppati nelle due parti che compongono il volume, entrambe di XXV capitoli (rispettivamente di pp. 11- 145 e pp.149230), sulle quali verterà la nostra analisi. Il capitolo iniziale: Flash- Back, una riflessione filosofica sulle orme di Heidegger, analizza la” questione originaria 2 Su questo interessante scritto,, ripreso, aggiornato ed aumentato nella edizione Les Belles Lettres, coll. Encre marine 2011 , cf. la recensione di Roger –Pol Droit in Le Monde del 15/ II/ 1991 182 182 nel senso dell’essere”(p 11), fondamentale per legittimarne il significato del senso dell’essere”3. La divergenza con il filosofo tedesco nasce dall’eredità della comune originaria “obbedienza “ cattolica, con questa differenza fondamentale: Conche non accetta né il “creazionismo “ né la tesi dell’”uomo peccatore”. Fino al 1956, la nozione di Dio sopravviveva in me come una debole fiammella, ma proprio allora é nata in me l’idea che nella sofferenza dei bambini ( martirizzati ) c’é la rappresentazione del male assoluto, incompatibile con l’esistenza di un Dio onnisciente, onnipotente ed assolutamente buono. A partire da questo momento l’idea di Dio é scomparsa totalmente dal mio orizzonte intellettuale, e- ne sono certo-, da quel momento non é più cambiata, perché, come afferma Nietzsche: “ Dio, non esiste nulla che si possa considerare tale ”.Per Heidegger invece le cose sono andate diversamente ”[...] Solo chi é stato radicato nel mondo cattolico, vivendolo realmente, potrà avere qualche idea delle obligazioni che hanno influenzato il percorso del mio interrogarmi, che ho vissuto fin qui, come scosse telluriche sotterranee”. Orientation philosophique riprende le stesse considerazioni che sono alla base della sua interpretazione della teologia.“Abbandonata l’idea di Dio, abbiamo dovuto abbandonare l’idea di Verità (assoluta) , l’idea dell’uomo ( di uomo-essenza),l’idea di Mondo ( come totalità significante) nello stesso tempo, dell’idea di Tutto e del livello di Totalità, dell’idea di ordine, ed in fine, dell’idea di essere (1974, p. 17). 3 Heidegger é stato, nel pensiero di Conche, una “presenza” rilevante , proprio come un altro grande interprete francese del XX secolo, Jean Wahl. Significativi e numerosi sono i saggi di quest’ultimo dedicati ad Heidegger, fra i quali segnaliamo: Introduction à la pensée de Heidegger-, “Biblio- Essais” Le livre de poche, Paris 1998, Vers la fin de l’ontologie.- Étude sur l’Introduction à la “Métaphysique “ de Heidegger, SEDES, Paris 1956) .. 183 183 Abolito Dio, scompare l’ essere e rimane unicamente “cio’ che é” al di fuori di Dio , privo di essenza e che é qualcosa in sé, senza consistenza ed essenza, mera apparanza, della quale Hegel aveva già trattato nelle pagine della Enciclopedia (1830, Add. Par. 112). Alla fenomenologia dell’apparenza,6 Conche ha dedicato un suo articolato saggio, nel quale, muovendo dal pensiero di Pirrone, ha illustrato i fondamenti della filosofia scettica, origine di “ una nuova nozione di apparenza: non apparenza-di ( di un essere ) e neppure apparenza – per (un essere,il soggetto),ma apparenza assoluta. Diversamente da Heidegger, Conche non indaga sulla legittimità della nozione “Dio”, ma ritiene più opportuno interrogarsi sulla legittimità del concetto di “essere” , convinto che la sua origine, in Sein und Zeit, sia da ricercare nel concetto comune di ”essere”. La rapida analisi del Dasein - di cui trattano le prime due sezioni di Sein und Zeit - avrebbe dovuto essere una indagine il cui fine non era soltanto quello di manifestare il significato temporale dell’essere del Dasein, ma quello del significato temporale dell’essere in quanto essere. Il “passaggio dall’esserci all’essere” avrebbe dovuto essere l’oggetto della terza sezione di Sein und Zeit, che non é stata 7 pubblicata . Ad esso Conche contrappone il concetto di “totalità”, assente in Sein und Zeit, e cosi’ che il concetto di Totalità diventa la prova del suo debito verso Heidegger. Dasein, - in riferimento al paragrafo 44 di Sein und Zeit,viene tradotto da Conche con il termine“ l’aperto”, che egli 184 184 condivide con la traduzione di Martinaud, che cosi’ commenta l’intero brano: Alla costituzione di essere del Dasein appartiene essenzialmente riapertura (Erschlossenheit ) in generale [...] Cooriginario all’essere del Dasein ed alla sua apertura é l’essere scoperto dell’essente intramondano. Con i termini “soggetto”, “soggettività”, “coscienza”, “ per sé” , si rischia di chiudersi in se stessi, nel proprio intimo. Certamente la coscienza “intenzionale” é coscienza di qualche cosa, ed in questo caso bisogna andare fino alla nozione di “apertura”, dove si dispiega la verità, con giudizi che sono “ la prova della verità 4 che essi suppongono . Sensibile allo” charme” femminile5, Conche riprende il concetto di “philia”6, fondamentale nel suo pensiero 7 e lo collega alla Lettera di Chaïmaa” (17- 24) giovane studentessa marocchina che scopre, leggendone le opere, il maestro “ideale”, la “guida” che dà sicurezza, che 4 M. Conche, Ultimes réflexions, cit., pp. 15- 16. Le figure femminili ed i valori della “ femminilità ” illuminano momenti fondamentali della filosofia e della vita e si collegano a suggestioni, che si collegano a significative reminiscenze letterarie. Sono molte le presenze femminili, ricordate nei suoi scritti , ma tre rivestono particolare importanza: Marcelle,la madre morta neldarlo alla luce; la “nonna Maria”,presso la quale é vissuto nei primi anni di vita e “ Mimi’, la sua sposa, donna di grande cultura, docente di latino e greco nel liceo di Tulle. Mimi lo ha educato all’amore per la cultura classica, al gusto per il bello, facendogli scoprire ed apprezzare i valori formativi delle varie attività spirituali. Molte pagine del volume Una rievocazione di ricordi dedicati alla nonna “Marie”, alle zie, sorelle della mamma, Alice e Pauline,e a Marie Thérèse(Mimi) é presente in molte pagine del volume: Épicure en Corrèze, ( Stock, Paris 2014) nel quale rivivono le drammatiche realà degli anni 1942-44, anni difficili a causa della guerra, durante i quali non solo la formazione culturale ma la stessa quotidianità erano particolarmente difficili.. 6 M. Conche, De L’Amour. Pensées trouvées dans un vieux cahier de dessin,, Les cahiers de l’égaré, 2003 ; rééd. Cécile Defaut, 2008 ; traduzione italiana: Sull’Amore, Introduzione e traduzione italiana di S. Arcoleo, Quintessenza, Gallarate( Va ) 2010. Cf anche: M. Conche, Analyse de l’amour et autres sujets, PUF, Paris 1997, Un vol. di pp. 112. 7 M. Conche, Devenir grec, in Analyse de l’amour et autres sujets, op. cit., pp.67110, 5 185 185 la esorta ad aderire al “nichilismo ontologico”. Le radici di questa lettera nascono dall’ascolto di una lezione dedicata alla mitologia greca che, muovendo dai poemi omerici, faceva riferimento al tema della saggezza tragica”, da Conche analizzata nel saggio: Devenir grec8. ChaÏmaa é affascinata dal mistero tragico, dal quale é colpita “ la condizione umana”, che suscita in lei un desiderio immediato: “Mi venne allora una gran sete di leggervi, in seguito di alcune di queste citazioni”. Ma le opere di Conche, difficilmente reperibili in Marocco, richiedevano tempi lunghi per la loro ricezione ”Dopo tre mesi di attesa- scrive Chaïmaa-alla fine arriva il primo:Tempo e destino, nel quale ho potuto scoprire il suo pensiero sul tempo e la correlazione con l’uomo, il modo con cui lei ha eliminato Dio per lasciare spazio alla Natura, unica creatrice e “poetica”. Debbo a Lei lo slancio che mi ha permesso di liberarmi dalla religione che rende ciechi, da questo sentimento di colpa che non ho saputo superare; negare dio mi aveva tormentato per lunghi anni ed é grazie a Lei che sono riuscita a condannare dio per la sua esistenza, ammesso che fosse esistente; poco dopo ho ricevuto l’Orientation philosophique ed ho potuto analizzare il suo pensiero attraverso i diversi problemi che Lei ha messo insieme in questa sua opera” La giovane studentessa manifesta i suoi progetti ambiziosi: partecipare al concorso di ammissione alle “grandes écoles”, trasferirsi in Francia per avviare la 8 M. Conche, Essais sur Homère, PUF , Paris 1999 ; rééd. Coll. Quadrige, Paris 2003. Cf. la recensione: S. Arcoleo, Poésie et Philosophie. Marcel Conche interprète de l’Iliade d’ Homère,, Revue philosophique, 1, 2001, pp. 27- 38. 186 186 rivalutazione dell’umano, mortificato dall’economia. che ritiene attualmente Per quanto mi riguarda, quello che vedo mi impressiona, mi accorgo di portare un enorme masso, come Sisifo,- é questa Ia mia situazione -, salgo sulle montagne,lasciando le pianure, porto il mio masso fino alla massima pendenza e ridiscendo con una espressione fiera e degna della mia “condizione umana”. So che mi é negata la felicità, so che la mia ricerca della verità puo’ rivelarsi un totale fallimento, ma so che non tornero’ indietro, che scendero’ dalla montagna e riprendero’ il mio masso, non me ne posso separare, ma so molto più di tutto questo-e sono d’accordo con l’ affermazione di Camus: “salire 9 verso la vetta più alta basta a riempire il mio cuore di uomo” . Le riflessioni di Conche sono dei “ segnavie” ed aprono significative prospettive teoretiche a questa giovane donna, che, muovendo da esse, desidera valorizzare la sua scelta di filosofare, nella prospettiva di un “avvenire aperto”, nel quale scorge la vera “ragione” della filosofia: saggezza “aperta” che intende sviluppare all’infinito. “ La ragione apre a Chaïmaa un lungo avvenire, che coinvolge i suoi “perché infiniti”, di modo che, nel suo cammino, coinvolge l’infinito.”, commenta Conche, che ritiene la filosofia una opera non esclusiva della ragione; perché, se cosi’ fosse, non ci sarebbe alcuna differenza fra filosofia e matematica, discipline simili ma reciprocamente autonome: .”.I filosofi che credono in Dio, da Descartes ad Hegel, ne erano convinti”10. E se , nella loro originalità, i sistemi di Descartes,Malebranche, Leibniz sono diversi, essi tendono pero’ad una soluzione “metafisica” quando 9 M. Conche, Ultimes réflexions, op. cit., pp. 22- 23 M. Conche, Ultimes réflexions, op. cit., pp. 25-26 10 187 187 trattano di Dio, che assume, di volta in volta, caratteristiche che non sono in grado di risolvere, ad eszempio, il problema del male, quel male assoluto, sul quale già Agostino aveva espresso la sua perplessità, che si ripresenta quando si tenta di giustificare le sofferenze di cui sono vittime i bambini11. Difensore dello spirito ” libero” da ogni forma di pregiudizio , Conche sostiene che la filosofia puo’ conciliare il carattere scientifico e la libertà del filosofo; si tratta di un compito difficile con il quale si sono misurati, senza riuscirvi, grandi filosofi decisi a trasformare la filosofia in scienza. Il tentativo di confrontare, fra le grandi opere filosofiche, i Principia Philosophiae di Descartes, l’Ethica di Spinoza, la Monodologia di Leibniz, con gli Elementi di geometria di Euclide attesta che i testi filosofici non danno prove, ma sono ricchi di “argomenti”. Apparentemente il cogito, ergo sum cartesiano puo’ sembrare della stessa natura del “punto fisso ed assoluto” ipotizzato da Archimede, mentre per quanto concerne la filosofia l’appello cartesiano alla 11 Ho analizzato la riflessione di M. Conche sulla Shoha nel paragrafo: Le sofferenze e la vita”spezzata” dei Campi. Riflessioni di Marcel Conche”, alle pagine 287- 295 del capitolo I filosofi del Novecento e la Schoah (pp. 257- 317) del volume miscellaneo: Tenebre e nebbia contro l’abisso. Aspetti della riflessione storicofilosofica sulla ShoahTesti coordinati e raccolti a cura di Santo Arcoleo, Quintessenza, Gallarate 2014. 188 188 “libertà che é in noi” ( Principia Philosophiae, I, 6) ci evita di essere ingannati12. Nel capitolo III (Prova o argomento? pp. 25- 30) vengono esaminati i concetti di prova e di argomentazione, fondamentali per la distinzione fra filosofia e scienza. L’itinerario filosofico, da Descartes ad Hegel, é caratterizzato dalla ricerca di una verità unica, indipendentemente dalle differenze fra i sistemi filosofici, ma considerare la filosofia una “scienza” potrebbe snaturarne il significato fondamentale. Chi dice filosofia dice soprattutto“ metafisica”, che non sarebbe solo un discorso concernente la Totalità, ma una scienza della Totalità Ora, in questo caso, la religione, con Dio onnisciente, sarebbe dimostrabile o confutabile, almeno per quel tanto che ce la presenta la metafisica- la metafisica creazionista. Pero’ alla religione manca la 13 parte dedicata alla dimostrazione . La filosofia, che non é opera esclusiva della ragione, riguarda “l’anima nella sua interezza.”; e, quando volessimo riferirci alla “bontà” di Dio, dovremmo essere capaci di “ spiegare la sofferenza, in primo luogo quella 12 Nelle riflessioni e nelle soluzioni che ne danno i filosofi, il problema della libertà si presenta fondamentale non solo per l’universo politico-filosofico, ma anche per quello letterario ed estetico, come é accaduto negli anni successivi alla prima guerra mondiale. I filosofi, da Kant in poi, hanno dedicato, al problema della libertà dell’uomo, argomentazioni sempre più puntuali, di origine giuridico- normativo e da quello “passionale”, che , suggerisce Stanley Cavel (Cfr. La Passion, pp.333-386, in AA.VV., Quelle philosophie pour le XXIe siècle?- L’organon du nouveau siècle, GallimardCentre Pompidou, Paris 2001.); il “passionale” ha richiesto una maggiore attenzione a partire dalla filosofia moderna, dalmomento che “ il regno del kantismo e dell’utilitarismo nella filosofia morale universitaria, ha avuto la tendenza a scoraggiarne l’interesse: il kantismo, a causa della morale austera che richiede; l’utilitarismo, soprattutto nell’opera classica di Mill, perché la società austera impedisce ad un gran numero di soggetti di avere passioni ”(p. 341). 13 M. Conche,Ultimes réflexions, cit., p. 26. 189 189 dei bambini” . È con questo argomento che Conche é convinto di aver cancellato Dio dal suo “paesaggio intellettuale”, nel quale non esistono elementi che possano giustificarne l’esistenza, neppure facendo ricorso alla libertà umana, grazie alla quale possiamo accettare o rifiutare l’esistenza di Dio. La filosofia, considerata opera della pura ragione, potrebbe avere un carattere scientifico, ma se é vero che alcuni grandi filosofi hanno voluto fare della filosofia una scienza, nessuno vi riuscito: diversamente si insegnerebbero i Principia philosophiae di Descartes e l’Ethica di Spinoza allo stesso modo con cui si insegnano gli Elementi di geometria di Euclide. Purtroppo non é cosi. I Principia di Descartes, l’Ethica di Spinoza, la Monadologia di Leibniz, ecc., sono accettati in tale o tal’altro modo, dalla piena libertà di ciascuno. Sarebbe diverso se queste opere implicassero delle prove, che obbligano la libertà. Nessuna di esse 14 comporta una vera prova, ma soltanto degli argomenti . La libertà, tema fondamentale della filosofia, é “individuale”, legata alla personalità ed alla attività di ogni singolo filosofo; percio’“ la storia della filosofia” coincide con la storia di questa “libertà”, che riesce a valutare con equilibrio il valore delle “emozioni”, che nascono dalla contemplazione della natura, da eventi che lasciano un’orma indelebile e da tutte le emozioni “impersonali”, che danno origine alle idee” (p. 30). 14 M. Conche, Ultimes réflexions, cit., p. 28. Il rapporto filosofia- scienza é stato chiaramente indicato nel titolo del “ Discours de la Méthode”, che cosi’ enuncia : “Discours de la Méthode pour bien conduire sa raison et chercher la vérité dans les sciences. 190 190 La libertà é strettamente legata alla morte e all’innocenza15, due poli che caratterizzano la “struttura” dell’essere umano, cosapevole del suo “destino di morte”.La tesi heideggeriana , che considera l’uomo é “essere per la morte”. ( zum Tode sein) ha un significato distruttivo, radicale che é la fine di tutti i trattati di teologia e, rigettando la follia monoteista, restituisce all’uomo la libertà e, con essa, la morte. Il binomio: libertà – innocenza, già presente nell’opera di Epicuro16, manifesta il malessere e le difficoltà affrontate negli anni, attraverso le sue meditazioni sul destino ultimo che attende l’uomo e rigettando il monoteismo che gli ha consentito di impadronirsi della propria morte...La morte in se stessa non é triste; porta una immensa pace. É l’inizio di un nuovo mondo, un mondo nel quale non esistiamo più ( almeno in carne ed ossa), ma vi esistiamo ancora nel cuore dei viventi, ed io attraverso i miei libri. Credere in Dio significa essere alienati da se stessi. La nostra morte non é più nostra e la nostra libertà é una illusione. Grazie all’incredulità, la morte “ritorna nostra”e noi riscopriamo la nostra 17 libertà. La libertà é incompatibile con l’esistenza di Dio . Nel pensiero di Descartes Conche individua aspetti che vanno“ all’unisono con le sue tesi.” L’argomento, con il quale Descartes dimostra che Dio esiste, non ha valore. Egli mostra che se esiste un essere sovranamente 15 M. Conche, Mort, liberté, innocence ”, ivi, pp. 31- 38 M.Conche, Épicure : lettres et maximes, texte, traduction, introduction et notes,, rééd. PUF, Paris 2009 ( 8 .éd.). 17 Queste sue parole sembrano riecheggiare il sonetto di U.Foscolo: Alla sera”, del quale ricordo di aver parlato con Lui durante gli incontri al ristorante “ Le Restant”. “Forse perché della fatal quiete/ tu seil’immago, a me si cara vieni, o sera!...Vagar mi fai co’ miei pensieri su l’orme/che vanno al nulla eterno; e intanto fugge/questo reo tempo...” 16 191 191 perfetto, questo essere sovranamente perfetto esiste, ma non dimostra che esiste un essere sovranamente perfetto. La libertà, liberata da Dio, non é ancora liberata da se stessa in quanto libertà dell’uomo peccatore[...] La nozione di un peccato che si trasmette da generazione in generazione é una nozione religiosa che non ha altro fondamento che un mito ed é dunque da rigettare”; lo stesso Pascal, (nel fr. 434 Brunschwicg, ) ne rivela il carattere assurdo ed immorale. Da qui ha origine la severa contestazione del peccato originale:” la dottrina del peccato originale e l’evangelizzazione cristiana delle popolazioni non portarono benefici all’essere umano. Quest’ultimo, convinto di essere cattivo per nascita ed incline al male, ha cominciato a ritenersi peccatore ed all’origine di ogni sorta di peccato, reale o immaginario. La sessualità ha perduto il suo carattere primario e naturale. L’uomo non é diventato migliore, al contrario,e 18 non é stato più felice . Abolito Dio, Conche celebra al suo posto la Natura19, convinto che “ l’uomo é naturalmente buono quando si trova nel suo stato normale”; ma quando lo abbandona ed é “ dominato dall’odio, dalle pulsioni omicide “ compie azioni criminali, dalle quali puo’derivare solo una “falsa filosofia”. All’esistenza di Dio, “vissuta” come un“tormento teoretico” viene negato l’ attributo fondamentale: “pantocrator”, 18 M. Conche, Ultimes réflexions, cit., pp. 34- 35. M. Conche, Présence de la Nature, PUF, Paris “Quadrige” 2011. 19 2001 ; éd. augmentée, PUF, 192 192 creatore del Tutto ; sarebbe meglio separare Dio dalla creazione ed occuparsi della conoscenza dei suoi “disegni” che hanno preceduto la creazione20. Contestando le “verità” della tradizione filosofico-religiosa su Dio, Conche rigetta il Dio onnisciente, completamente buono ed onnipotente della tradizione monoteista, perché questo Dio, che é la causa totale di tutto cio’ che accade, sarebbe la causa di tutti i mali, delle sofferenze e delle catastrofi scatanate dalla natura e dagli uomini, cio’ che é assurdo, soprattutto quando si considera la sofferenza dei fanciulli martirizzati, nella quale vediamo un male “ assoluto”( p. 39). Ma se togliamo a Dio i suoi attributi fondamentalionnipotenza, bontà completa, onniscienza- che ne é di Dio? E Dio puo’essere definito senza i suoi attributi? Non ci sarebbe assurdità se si separasse Dio dalla Creazione e se lo si considerasse, ad esempio,prima della Creazione Si deve ricercarne l’origine nel fatto che la religione e la teologia trattano dell’essere, mentre gli uomini hanno a che fare con gli esseri . “Gli esseri formano una moltitudine che non ha né inizio né fine, dunque eterna, e questo presuppone che il tempo stesso sia eterno. Ora se si deve dare una spiegazione del fatto che ci siano degli esseri, 20 Il tema é genuinamente agostiniano. Nelle Confessioni Agostino si pone un problema filosofico- teologico, muovendo dalla domanda: Che faceva Dio prima della creazione? e mette a nudo la incapacità ermeneutico-riflessiva dell’uomo di fronte ai problemi dell’ineffabilità dell’Assoluto . Conche ripropone gli stessi problemi, in una prospettiva che evidenzia notevoli cambiamenti nel corso della sua elaborazione. Alla origine c’é ancora una volta Descartes, citato e riproposto nei nuclei fondamentali del suo pensiero, criticati da Conche alla luce delle diverse interpretazioni filosofiche del concetto di Dio – fondamentale quella di Spinoza di “ens absolute infinitum”.- chiedendosi se quest’essere infinito possa essere la causa dell’esistenza per tutti gli esseri. “ Ci sono sempre stati degli esseri e ce ne saranno sempre: perché é inconcepibile che gli esseri si annullino, lasciando il posto al nulla”. 193 193 muovendo da un principio, e se si tratta non di tali o tal’altri esseri, ma di tutti gli esseri contemporaneamente, il principio non puo’ essere passeggero o locale e particolare: é necessariamente 21 eterno” . E se questo principio é “energia”, possiamo forse sostenere che l’Essere sia “energia”? “L’Energia c’é sempre, ma l’Energia é Vita, cio’ che non si comprende nell’immutabilità. Dire “c’é l’Energia” é meglio che dire” L’essere é Energia”. Il termine “essere”, in effetti, é una parola, diciamo, del linguggio comune, ed é ingannevole, perché, dicendo l’essere,come se cio’ che é, durante il periodo in cui esso é, non cambia affatto, si disconoscerebbe il cambiamento.. Le metafisiche che fanno dell’Essere il principio di tutte le cose, rimangono dipendenti dal linguaggio comune” In contrapposizione a Cartesio ed a Heidegger, Conche ritiene che l’energia é vita e che quando si afferma “c é Energia”22 si cerca di andare oltre l’affermazione che “l’Essere é energia”, perché “ il termine “essere” é un vocabolo che appartiene al linguaggio comune e ci inganna perché, dicendo l’essere, come se cio’ che é, nel tempo in cui esso é, non cambiasse affatto, non si comprenderebbe il cambiamento. Le metafisiche che fanno dell’”Essere” il 21 M. Conche, Ultimes réflexions, cit., p. 41. Il concetto di energia richiama non solo Bergson ma la divinità dell’antico Egitto Heka, che si manifesta come energia impiegata dal dio che, creando il mondo, mantiene in equilibrio il caos e l’ordine. Questa divinità é presente nell’ ampia rassegna archeologica( iconografica ed ampiamente documentata) nella nuova,eccellente sistemazione, delle antichità egiziane del rinnovato e riordinato Museo egizio di Torino. 22 194 194 principio di tutte le cose, sono indipendenti dal linguaggio comune. Noi non diciamo “ l’Essere é Energia”: basta dire” c’é Energia”. Questo implica la distinzione fra “c’é” e “l’essere”. Prima della Creazione, secondo la Bibbia, c’era il nulla= nulla= non si puo’ sostenere “ il nulla era”, perché in questo caso sarebbe stato qualche cosa: il nulla, appunto. In breve, c’é Energia”23, una tesi già presente in Aristotele, che identifica Dio con una energia perpetua, l’ eterno Vivente, e che acquista un significato particolare in Descartes, che vede in Dio una Persona, mentre il principio Energia é impersonale, non dista molto dalla concezione eraclitea del Fuoco, energia che genera ogni cosa!24 Particolarmente attento al significato della natura e delle leggi che la governano25, Conche avverte che é improprio ridurre la natura “all’universo del big- bang. Sarebbe intollerabile considerarla limitata nello spazio e cominciata nel tempo. Questo si puo’ dire del mondo, ma non della natura. Quest’ultima si conosce solo andando oltre tutti i 23 M. Conche, Ultimes réflexions, op. cit., p. 43. Conche , che ha reso “attuali” diversi filosofi e correnti filosofiche del pensiero antico, greco e romano, di cui ha messo in luce, grazie ad accurate ricostruzioni filologico -filosofico , aspetti che ne rinnovano e ne approfondiscono le interpretazioni. Rimando , nell’ordine cronologico in cui sono state pubblicate, alle edizioni critiche ed alle traduzioni, citandone le edizioni più recenti a : Épicure: lettres et maximes, texte, traduction, introduction et notes ; rééd. PUF, Paris 2009 ; Anaximandre, Fragments et Témoignages, texte traduit et commenté , PUF, Paris 2009 ; Parménide, Le Poème, texte établi, traduit et commenté, PUF, Paris 2OO9 ; Héraclite, Fragments, texte établi, traduit et commenté, PUF, Paris 2011 , alle quali si aggiungano : il saggio : Sur Épicure, Encre marine- Les belles Lettres, Paris 2014, che riprende ed aggiorna alcuni temi della filosofia di Epicuro , e la rinnovata edizione di : Lucrèce et l’expérience,, rééd. PUF, Paris 2011. Di alcuni di questi saggi ho trattato nel mio : In Itinere, op. cit., Novara 1999. 25 Cf. M. Conche, Présence de la nature, PUF, Paris 2001. Un volume di pp. 220 24 195 195 limiti. Che sia cosi’ é implicito nell’esperienza originaria, l’esperienza greca della natura”26, che ingloba pienamente tutto, in modo tanto evidente, che non é possibile ipotizzare l’esistenza di un sovranaturale; ed é proprio per questo che la natura rappresenta la “totalità”: essa é una presenza che non é modificata dalla differenza che si stabilisce tra passato, presente e futuro. C’é un presente che é nel tempo, fra il passato ed il futuro, ed esiste un altro presente che non é nel tempo. Se cio’ che non é nel tempo é eterno, si puo’ dire che il presente del “c’é” é un presente eterno. Il che significa che di tutto il 27 tempo c’é sempre stata qualche cosa . Riprendendo dalle testimonianze, a partire dagli “Antesocratici” fino ai nostri giorni, vengono presentati i contributi di discipline “complemantari” alla filosofia, 26 27 M. Conche, Présence de la Nature, op. cit., p.21 M. Conche, Présence de la Nature, op. cit., p. 89. 196 196 come la poesia, la politica, le scienze28 , le cui esigenze sono sempre chiaramente definite. Biologi, entomologi, chimici, fisici, astrofisici, psicologi ecc. osservano o fanno esperimenti: l’oggetto del loro interesse scientifico é sempre 29 ben definito, ben messo a fuoco, niente affatto infinito . Nella scienza non c’é alcun arbitrio : le scienze fisicomatematiche sono confluite nel sistema di Newton; Fourier mediante il logos ha sviluppato la teoria del calore, della quale si é servito Maxuell per la scoperta della teoria elettromagnetica; infine il logos di Einstein; sono gli strumenti di cui gli scienziati si servono per raccogliere ed organizzare la totalità dei dati, che permettono il progresso delle scienze. Secondo Conche esiste un abisso fra i cosmoi degli scienziati e la natura, che richiede di essere pensata continuamente. 28 Si vedano, ad es. le pagine dedicate a Rosa Luxembourg, significativamente intitolate : “ Rosa Luxembourg: la Nature comme réconfort( pp. 147- 158) e quelle dedicate a Rimbaud, L’appel de la Nature, Rimbaud, Le Bateau ivre( pp. 179- 206) e La lumière Nature ( pp. 207- 215, senza trascurare il capitolo V : La Nature et l’homme ou: le scepticisme philosophique et sa limite (pp. 87- 116), nel quale le riflessioni sulla natura, sull’uomo, sulla società sono messi a confronto con i problemi essenziali dei valori della politica- dell’individuo , del cittadino, dell’uomo, nella consapevolezza che “tutti gli uomini sono cittadini della Città del mondo”( p.100 )” Oggi l’umanità si trova in un momento critico della sua storia, quando per lei é necessario, piùche mai, cercare di realizzare, se non il sogno zenoniano di fraternità universale, almeno lo Stato, o il quasi Stato universale o, se si preferisce, “ mondiale” , come sostiene Eric Weil ed inoltre- ma si tratta di un problema ancora più difficile- uno stato universale nel quale regnerebbe la giustizia’(pp. 100- 101). Un approfondimento di questi temi é stato messo in luce nella conferenza “ Naturalismo e Materialismo metafisici” presentat il 19 marzo 2005,alla Sorbonne , e successivamente pubblicata nel “ Bulletin de la Société française de Philosophie, 3, Juillet- Septembre 2005, pp.4- 30 29 M. Conche, Présence de la Nature, cit., p. 93. 197 197 L’universo teoretico di Conche si estende ad una quantità di problemi che nascono dal” cuore” stesso della filosofia, con la ripresa di alcune problematiche, già oggetto di riflessione negli scritti precedentemente pubblicati. Nel capitolo VII, Essere liberi nella verità ( pp. 51- 58 ) contro la pretesa libertà dagli ingranaggi che tentano di stritolarci (cfr. il caso Eichmann) viene posto il problema della libertà autentica, fondata sull’autonomia del pensiero e, soprattutto, sulla autonomia morale:” Non ci si puo’ limitare ad una definizione della libertà che annulla la differenza fra i giusti e gli ingiusti, tra i buoni ed i cattivi, tra Socrate ed un tiranno crudele. È insufficiente ogni definizione che non integra le nozioni di verità, coscienza (morale) e ragione (pp.56-57 ). La vera libertà libera non si definisce unicamente attraverso il rapporto dell’io concreto con l’azione che egli compie, ma attraverso il rapporto della totalità dell’essere umano con cio’che egli fa, ove “essere umano” significa una ragione, una coscienza morale e, prima di tutto, idee ritenute vere; puo’ anche accadere che le idee vere siano considerate sia false che vere, e l’ingiustizia puo’ essere presa per giustizia e il non diritto per il diritto. Gli umani che prendono il falso per il vero (...) vivono nell’illusione.Ma la loro libertà non é altrettanto illusoria, perché il loro essere essenziale é coerente con quello che fanno. Essi pertanto non sono tanto liberi quanto se vivessero non nell’illusione, ma nella verità”.come se fa é quella dell’uomo contemplativo ed é completamente libero l’uomo la cui azione é fondata sulla ragione, e 30 per questo ha un significato dell’universale . 30 M. Conche, Ultimes réflexions, cit., pp. 56- 57. 198 198 L’uomo é collocato nella realtà nella quale vive ed, in questa prospettiva, Conche richiama la teoria antropologica di Montaigne, origine di una serie di riflessioni interessanti. Fra gli uomini e gli animali esiste una disparità evidente. : “ Non siamo né al di sopra né al di sotto del resto . C’é qualche differenza , ci sono ordini e gradi, ma é tutto all’interno sotto della stessa natura”. (p. 60 ). L’uomo si trova a metà strada, senza alcuna eccellenza vera ed essenziale”, il che non significa che l’uomo non abbia dei caratteri che lo contraddistinguono: l’uomo , come gli animali, ha un proprio linguaggio , e la differenza fra l’uomo e gli animali consiste nel fatto che il carattere fondamentale dell’uomo é la “ libertà dello spirito: che [l’uomo] sia il solo, fra tutti gli animali che abbia la libertà dell’immaginazione( pensiero, spirito)[...] é un vantaggio che gli é costato molto caro e del quale ha veramente poco da essere contento, perché da esso nascono principalmente i mali che lo opprimono: peccato, malattia, irresolutezza, turbamento, 31 disperazione . Caratterizza l’uomo “l’aperto”, come scrive anche Rilke nell’VIII elegia di Duino: Con tutti gli occhi vede la creatura/ l’aperto( das Offene) [...] Cio’ che é fuori, puro, solo dal volto/ animale lo sappiamo; perché già tenero /il bimbo lo volgiamo indietro, che veda/ cio’ che ha forma e non l’aperto, che/ nel volto animale è si profondo. Libero da morte/ Questa noi soli la vediamo;il libero animale/ha sempre dietro di sé il 31 M. Conche, Ultimes réflexions, cit., pp. 60-62. 199 199 tramonto/ e a sé dinnanzi Dio, e quando va, va/ nell’eterno come le 32 fonti vanno . La giustificazione del proprio personale rigetto della religione e di Dio é suggerita e riconfermata dalla ragione e dalla verità alla quale essa approda“33. Ribadendo, ancora una volta, il suo scetticismo, anche influenzato da alcuni interlocutori cristiani che,“alienati felici” dai dogmi del Cristianesimo, si rivelano deboli, incapaci di quella forza interiore richiesta dalla verità34, Conche mette in evidenza il “vulnus” che gli impedisce di credere in un Dio unico e buono perché non potrebbero spiegarsi i gemiti dei bambini di Varsavia, i bambini “atomizzati” di Hiroshima, quelli ridotti a scheletri dalla fame, e gli orfani, terribile risultato delle uccisioni di massa , ai quali si aggiungano i fanciulli vittime degli psicopatici. Sono questi gli elementi che caratterizzano il “ male assoluto”, ai quali si debbono aggiungere le vittime dei bombardamenti di Dresda e di Hiroshima (e perché no quelli di Cowentry?) Esempi che ci presentano una cultura cieca, ai quali soltanto la conquista autonoma della libertà puo’ mettere fine. 32 Ho riportato , tralasciandone qualcuno, i primi tredici versi dell’OTTAVA delle Elegie Duinesi di Rainer Maria Rilke, nella traduzione italiana di Giuliano Baioni della edizione Einaudi- Gallimard, Biblioteca della Pléiade, Lonrai 1995, vv. 1- 13. 33 “Abbiamo rigettato la religione preoccupati dalla ragione e dalla verità. La nostra scelta, non imposta né suggerita, ma libera sarà quella di ricercare la verità per mezzo della ragione, la scelta filosofica. L’umano che saro’, che la mia amica sarà, riconoscerà l’eguaglianza valoriale di tutti gli uomini, dotati tutti di ragione [...] Sarà l’uomo filosofo, non frutto di mescolanze diverse, ma semplice, con la sua personalità, i suoi modi di essere, il suo stile” (p. 79 ). 34 M. Conche, Ultimes réflexions, op. cit., pp. 81-82 –Capitolo XII, La preuve morale 200 200 Non c’é da meravigliarsi se spesso, in queste pagine, Conche fa riferimento ad eventi del suo passato: cosi, in Un artéfact (pp. 83- 87), ricordando la sua formazione e il fascino del pensiero cartesiano, ci lascia un interessante commento alle Méditations cartésiennes di Husserl, testo fondamentale per la filosofia, non solo francese e non solo del suo tempo35. L’analisi di quanto allora si conosceva del pensiero husserliano, le riflessioni sulla filosofia cartesiana, in molte pagine oggetto di riferimenti precisi ed efficaci, rivelano una severa riserva, fortemente critica, sulla epoché husserliana, considerata “un atteggiamento contingente. Il risultato ne mette in’” evidenza”la soggettività trascendentale, ma non l’esistenza di una tale soggettività [...] Si tratta di una evidenza che inganna, perché non esiste soggettività trascendentale al di fuori dello sguardo che la fa nascere (prima o dopo) ( p. 87). In molte sue opere Conche si pone il problema della “significato ”di una possibile metafisica, muovendo dalla riflessione critica sulla dottrina kantiana, che “argomenta” ma non “prova”36 l’esigenza e la costituzione di una metafisica come scienza. Egli si riferisce, oltre che a Kant, a Descartes e all’intera storia del pensiero, dai Presocratici al Medioevo, dalla filosofia moderna alla contemporanea. Sorge spontanea la domanda: È necessario, prima di dedicarsi alla metafisica, interrogarsi sul potere della ragione, cercare di sapere fino a che punto puo’ 35 Voglio qui ricordare, en passant, le lezioni dedicate a Husserl della giovanissima Sofia Vanni Rovighi e quelle dell’altrettanto giovane Enzo Paci che in Italia hanno aperto la via alla conoscenza ed all’approfondimento della filoofia husserliana. 36 Cfr. in capitolo XIV , Argumenyt ou preuve (II) pp. 89- 92 201 201 condurre nel cammino verso la verità? Nientaffatto: come lo si potrebbe sapere in anticipo? Kant si é limitato ad una concezione fissista della ragione, ferma al sapere raggiunto al suo tempo:la scienza newtoniana. Egli analizza gli a priori sui quali é fondata una tale scienza (della quale, considerandola reale , mostra la possibilità) 37 e li iscrive strutturalmente nel soggetto umano . I brevi capitoli XV -XXI ( pp. 93- 122 ), sono dedicati alla scoperta dei momenti di un vissuto che hanno accompagnato Conche a concepire la filosofia spesso attraverso esperienze semplici ma significative. Cosi , nel capitolo XV, (La faute envers l’animal, pp.93-95)ricorda un episodio della quotidianità- la visita e l’eliminazione di due cimici, in un momento di rabbia, e la “pacificazione” con i loro successori che,alla fine, “ hanno tutte le fortune di poter volare tranquillamente”; oppure, muovendo dal clima politico, prende in considerazione il passato ed il presente della storia della Crimea, le relazioni con la Russia e con l’Ukraina, oggi in crisi politico- istituzionale e la cui soluzione si presenta complessa e difficile. Nelle pagine successive, non mancano riflessioni sulla vita comune e sull’opera d’arte (XVI, La beauté de la vie, pp. 100 ), é pubblicata :Una lettera a Chaïmaa (XVII, pp. 101102), viene ripreso il concetto di “essere”, con riferimenti a Montaigne, Heidegger, Eraclito (XVIII, Che significa “essere”?, pp.103- 108). Si aggiungono alcune riflessioni dedicate all’astuzia politica (XIX, La ruse en politique, pp.109- 111), bene esemplificata nel capitolo XX (L’amitié unilatérale, pp.213- 219), alla quale segue l’analisi della 37 M.Conche, Ultimes réflexions, op. cit., p. 92 202 202 politica internazionale e della storia, che illuminano l’interesse per gli eventi che hanno cambiato la Russia,Egli si dichiara “pro-russo”- giustificando la sua adesione con tre motivi: a) la lotta contro il capitalismo, polo negativo della società , che fallisce per colpa della società capitalista, la quale fa leva sui poteri reazionari; b) la guerra degli anni 42-44 contro l’avanzata nazista; c) la vittoria degli “umili” e degli “offesi” contro i conquistatori e gli usurpatori, che dà vita non solo all’alleanza operai e contadini ed a quella di tutti i lavoratori della Repubblica dei Soviet, alla nascita dell’Armata rossa e della Marina rossa. Emblematico rimane, nel 1927, il discorso di Stalin ad una delegazione di operai americani: la società, nata dalla rivoluzione, abolisce la proprietà privata e le classi sociali e mette fine alla opposizione città - campagne, industria –agricoltura; in essa scienza ed arti potranno svilupparsi armonicamente e “l’individuo, libero dalla preoccupazione del pane quotidiano e dalla necessità di piacere ai ” potenti” o di obbedire ai “superiori” , sarà realmente libero”. Questa analisi realistica sottolinea che siamo ancora lontani dalla realizzazione di questo progetto ideale ma il comunismo non deve considerarsi una utopia, perché é stato realizzato e, sia pure in piccole dosi, in Cina dove questa “spinta creativa” potrà continuare. Non ci sono segni positivi su una prospettiva, sulla quale, fra gli altri, Ernst Bloch non sarebbe stato certamente d’accordo! Soffermandosi su “l’etica del sofferenza” Conche ne auspica l’estensione all’intera natura, e ritiene opportuno insistere maggiormente sulla sofferenza dei bambini,la “più forte”(XXI, La souffrance animale, pp.1,1- 122). 203 203 I capitoli XXII- XXV (pp. 123- 145), che concludono la prima parte del volume, riprendono, corredati da significative riflessioni interessanti, alcuni “grandi temi” del pensiero di Conche, a cominciare da “l’ateismo”. Muovendo da una certezza inoppugnabile: “è sicuro: per essere filosofi bisogna essere atei” viene riproposta la professione di fede di Prometeo:” In una parola, odio tutti gli dei”( v.975),dalla quale derivano due considerazioni:/ ”Odio tutti gli dei”, tesi che non si puo’ considerare come una la premessa di una dissertazione sulla filosofia di Epicuro, perché non solo gli Epicurei non odiavano gli dei, ma li consideravano esempi di armonia e felicità, perché fossero imitati dal “saggio”; 2/ “ Bruno Bauer fa notare a Marx che una tale premessa é inopportuna quando non si é ancora installati “in una cattedra””. Riprendendo le denominazioni dei mesi del calendario esposte da Marx nel Sistema di politica positiva, Conche si sofferma sul mese ‘ Mosé’ e su quello della prima settimana, dedicato a Numa, di essa il primo giorno, un lunedi, é dedicato a Prometeo. Da qui ha avuto origine il percorso della filosofia, separata dalla teologia, un percorso grazie al quale la filosofia si rivolge al “mondo reale, che si offre all’osservazione ed al ragionamento”(p. 125). Percio’ Heidegger considera Prometeo primo filosofo”( p. 125). Alla tesi del ” cominciamento greco del filosofare” aderisce Conche, che nella “Natura creatrice”, individua il completamento dell’uomo. Collegato a questo il capitolo XXIII,Trasmettre ( pp.129- 132), é una rivisitazione del cristianesimo del IV e V secolo( XXIV,Christianisme, pp. 133- 138) nel suo aspetto “distruttivo”: il saccheggio e la distruzione dei santuari pagani, descritti in una pagina del 204 204 De Templis di Libanio, che informa Teodosio I sulla drammatica situazione nella quale vive la comunità pagana, (pp. 133- 136), colpita al cuore: si smantellano le biblioteche, i santuari vengono distrutti dai monaci cristiani (i guardiani dell’ordine) che abbattono i templi ancora intatti e distruggono la vita religiosa pagana. Il tempio aveva un’anima poiché era abitato dal dio. Non era il luogo nel quale si riunivano i fedeli ma quello intorno al quale si svolgevano processioni, feste,manifastazioni di gioia come se fosse la sede del bene e del bello. Gli dei amavano essere venerati da gruppi di dansatori, perché il culto era collettivo (pp. 136- 137). Con l’avvento del Cristianesimo comincia la crisi della tradizione religiosa pagana, sia pure parzialmente assimilata, proprio come in parte viene distrutto l’ideale greco, il bello, al quale viene opposto “il sublime”, con questa differenza: “cio’ che é bello si vede, mentre cio’ che é sublime non si vede affatto (p. 138) . Pascal, pensatore e scienziato non é l’Autore” di Conche – come lo é invece Montaigne o Spinoza, o Platone - il più grande fra i filosofi . Fra i pensatori Pascal si rivela eccellente nelle matematiche, mentre in “geometria”sono famosi la “retta di Pascal”, il “triangolo di Pascal “ed in fisica, il “principio di Pascal”. Nel Mémorial si legge : “Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace”;ed ancora: “Eternamente in gioia per un giorno di esercizio sulla terra”. Sono le premesse alla famosa “scommessa” a favore o contro il cristianesimo (p. 141), che ha colpito particolarmente Conche, che esprime la sua ammirazione e l’ emozione per il frammento 553, nel quale Pascal 205 205 rivive la passione di Cristo: “Gesù é il solo sulla terra, che non solo sente e condivide la sua pena, ma che la conosce: il cielo e lui sono soli in questa conoscenza. Soffre questa pena e questo abbandono nell’orrore della notte”. Questa riflessione riesce a si cogliere uno stretto legame con la sofferenza, il legame che collega il fanciullo ebreo, perseguitato e gasato, a Gesu’, che s’immola sulla croce. Ma é una frase del frammento 793 che “inebria” Conche:” La distanza infinita fra i corpi e gli spiriti manifesta la distanza infinitamente più infinita degli spiriti dalla carità, perché essa é soprannaturale”. Pascal ci lascia una “nuova visione” dell’universo ,che trova il suo limite nella “natura” illimitata, infinita, nella quale l’uomo “é” la sua realizzazione più profonda, solitario fra i solitari. La seconda parte del volume si apre con il richiamo alla solitudine (La solitude, pp.149-153) che mette a fuoco “l’intimità del vivere” con la quale ogni uomo é “assolutamentte solo con se stesso” (p. 149). Se c’é Dio, al quale non sfugge “ nessuna emozione intima, nessun pensiero segreto” l’uomo non é più solo, ma, se scarta Dio , l’uomo si condanna alla più dura solitudine. Su queste premesse, oggetto di un dialogo con Chaïmaa, vengono introdotte una serie di riflessioni dedicate a “la solitudine dell’uomo” (pp. 150- 151 ) che confluisce ne “la solitudine del filosofo”(pp. 151- 153 ) per concludersi ne “la solitudine dell’io”(p. 153). L’uomo “solo” deve trovare in se stesso le risorse, i valori, la forza del vivere, facendo a meno di dio ,-scritto in lettere minuscole,- presentato senza i valori tradizionali : bontà, giustizia, amore. Un dialogo a distanza con Claude- della quale vengono riportati brani di una lettera che tratta della “teologia 206 206 dell’impotenza di Dio-” (pp. 155- 156), sollecita Conche a dichiarare il suo scetticismo verso un’ ipotetica sofferenza di Dio, perché di essa non c’é “alcun effetto visibile”(p.156). È difficile, forse anche impossibile conoscere l’altro (III, La connaissance d’autrui, pp.157159) dal momento che anche nelle relazioni di amicizia spesso non ci si intende completamente: noi non conosciamo i nostri amici, né i nostri amici conoscono noi. Conche presenta due “prove” circa l’incapacità” di intendere i propri amici: a) se all’interno dell’orizzonte intellettuale, nel quale Egli ha operato, fosse obbligato a scegliere , in un dizionario di nomi propri non redatto in ordine alfabetico, contrariamente a quanto i suoi amici credono, gli piacerebbe essere posto accanto a Pascal. b) una seconda tesi troviamo in una lettera inviatagli da Françoise Dastur, nella quale si contesta l’interesse dei media e del mondo editoriale a favore delle vicende della Schoà, tralasciando sofferenze egualmente drammatiche, alle quali vengono sottoposti i malati mentali, gli handicappati, gli omosessuali, gli zingari; ad esse si sono aggiunte, in tempi recenti, le sofferenze dei malati terminali, di quanti sono stati colpiti dal Sida, dei feriti e dei morti nelle guerre nelle aree più sensibili del mondo, dall’Africa all’Asia, ed aggiungerei, quelle dei migranti, ingannati dai viaggi della speranza , che spesso si concludono nel grande cimitero del Mediterraneo. Esistono sofferenze ancora più grandi, che sfuggono alla nostra conoscenza, nascoste nell’ intimo di ciascuno di noi. Ed é proprio la sofferenza che alimenta il pessimismo di Conche, veicolato dalla solitudine (IV, Mon pessimisme, pp. 161- 162), che puo’ essere attenuata 207 207 dall’amicizia (V, Structure de l’amitié, pp. 163- 166), nelle sue diverse manifestazioni, dal semplice accordo fra due persone alla gioia condivisa o alla realizzazione dei medesimi valori, l’amicizia si manifesta come amicizia comune, amicizia eccezionale, -poco importa che sia perfetta o imperfetta,” é solo un fenomeno di superficie in rapporto alla vita [...] L’amicizia abita in un luogo fuori dalla storia, dove il tempo é assente. Non ci siamo che tu ed io, e viviamo una pace condivisa[...]Si puo’ provare grande gioia nella solitudine, ma nessuna é paragonabile alla gioia dell’amicizia: gioia di non essere più solo”(pp. 165- 166). L’uomo si realizza pienamente nella “sagezza tragica”(VI, Sagesse tragique, volonté tragique, pp.167- 168); la sagezza dell’ateo consiste nello scegliere di vivere la propria vita non nell’abbandono, ma razionalmente e nel volere autonomo; l’etica, a sua volta, si fonda su di“ una scelta di vita in funzione di alcuni valori. Dal momento che quest’etica riposa su una metafisica, essa é una sagezza. E poiché questa metafisica insegna che la vita finisce nel nulla, é un’etica tragica”(p. 167). L’attività creativa dell’uomo, nella varietà delle sue componenti, produce l’arte, la filosofia, ciascuna con la propria “etica”, ma é falso sostenere che ognuno abbia la sua “morale”. L’ateismo nega la speranza dopo la morte. “La volontà morale é volontà tragica,similmente al carattere incondizionato dell’imperativo morale. Io debbo rispettare l’altro, venire in suo aiuto. Compio il mio dovere con la consapevolezza che questo non mi dà diritto a nulla, che non c’é da aspettersi qualche cosa: cosa si puo’ attendere 208 208 dal nulla? (p. 168 ). Contro Kant, convinto che l’etica del dovere assicuri all’uomo la sopravvivenza dell’anima e la felicità “legandole all’esistenza di Dio”, Conche ipotizza che “se l’agire morale é stato caratterizzato dalla mancanza della preoccupazione di sé, non c’é più alcun sé da ricompensare”( p. 168). Diversi momenti di “causticità” rendono “vivaci” i capitoli: VII- Beauté dérisoire( pp 169- 70), VIII, Vanité ou fierté (pp.171- 172) IX, La personnalité structurée par l’histoire (pp. 173- 176), X, Epicure et Socrate (pp. 177- 180), tutti dedicati a riflettere su temi differenti , da quello esteticola bellezza della Venere di Arles o della Gioconda di Leonardo- in rapporto ai valori dell’umanità:” chi dice” umanità” dice vita e ragione (p.171), alla contrapposizione “vanità- ragione” (p.172), nonché a considerazioni politiche attuali , con riferimenti alla storia dell’Europa, dalla difesa di Stalingrado alla insurrezione di Budapest, agli accordi di Ginevra sul riconoscimento dell’indipendenza del Vietnam, e alla politica interventista americana, da Roosevelt a Nixon e a G. Bush. Sono soluzioni negative, che mettono in evidenza “l’incapacità politica dei dirigenti americani, confermata dall’inesperienza di Barack Obama che lascia il campo libero all’arroganza israeliana ed al disprezzo di Israele per il diritto delle genti” (p. 175). Un ulteriore tema di riflessione é dedicato agli eventi che hanno caratterizzato le trasformazioni politiche nella URSS - dal 1917 al 1991-, che sono state oggetto di interpreazioni storiografiche diverse, e non di rado contrapposte.. Sulla situazione politica della Grecia classica, Conche si interroga sul ruolo esercitato da Epicuro e da Socrate , entrambi 209 209 credenti nell’intervento degli dei in favore degli umani, e “per uno, Epicuro, oggetti di conteplazione, per l’altro dispensatori di consigli”(p. 177); considera “falso” il giudizio di Heidegger sulla religiosità del Greci, dal momento che gli Ateniesi, ed i Greci in generale, credevano nei loro dei; ma resta il dubbio se, nei confronti degli dei, si tratti di fede o di credenza . La scelta heideggeriana fra fede e credenza inclina verso la fede e, nella Lettera sull’Umanesimo Heidegger sostiene che “Dio é diventato “Deità”, e puo’ essere pensato a partire dal “sacro” (pp. 177-178 ), lungo un percorso che va dal “Sacro” alla “Deità” a “Dio”. Nella teologia si tratta di un Dio diventato concetto ed oggetto di credenza,non del Dio della fede. È il motivo che spinge Heidegger a suggerire ai giovani teologi di mettere da parte la teologia, di pensare Dio a partire dalla fede e dalla vita in Cristo, “creando un loro proprio linguaggio, come fanno i poeti (p.178 ). I poeti ed i pensatori dell’antica Grecia cantavano il Dio della fede, quel Dio al quale crede Socrate, quel Dio la cui “voce” si manifesta in tanti modi. Come Socrate concepisce Dio Epicuro che dichiara di fare dei sacrifici seguendo la fede e la discrezione, nei giorni stabiliti, “accompagnando tutti gli altri atti di culto in modo conforme alla tradizione “ ( fr. 387 Us., citato a p. 179). Le differenze tra Epicuro e Socrate, per quanto concerne la religione, sono importanti : Socrate accetta la tradizione popolare- si ricordi l’invito a sacrificare un gallo ad Esculapio, dopo la sua morte; Epicuro non accetta questo tipo di religione, e sostiene al contrario che, nella loro felicità perenne, gli dei non solo non si curano degli 210 210 uomini, ma rimangono lontani ed indifferenti ai loro atti di culto. “La vera pietà é quella del filosofo, perché li conosce come sono in verità”( p. 180) Dal capitolo XI (Cause et raison,pp.181-183 ) al capitolo XXV (L’évolution de Descartes, pp. 227- 230) Conche presenta un suo progetto dedicato alla indagine storiografica, muovendo dal concetto di causa.: occorre staccarsi dalla abitudine e dallo schema , con il quale sono presentati gli interventi, ed analizzare i testi, i problemi, le interpretazioni di prospettive filosofiche, anche di quelle che, a parere di Conche, rimangono estranei alla riflessione filosofica. Ne risulta un modo “nuovo” di intendere gli eventi nella loro temporalità perché si tratta delle “credenze” del filosofo, presentate nella loro “verità”. In questa prospettiva i capitoli : XI, Causa e ragione (pp.181- 183); XII, Natura e Linguaggio (pp. 185- 186); XIII, Intuizioni e saperi (pp.187- 189); XIV, Il libero arbitrio (pp. 191- 192) si possono considerare “medaglioni” che approfondiscono forme di saperi, nei quali é frequente il tema della “libertà”, che ritengo fondamentale nell’intera opera di questo pensatore. “Ci sono tre valori supremi: il bene, il vero, il bello. Nelle nostre scelte non si deve mai perdere di vista il raggiungimento del vero, o la realizzazione di qualcosa di buono e di bello, con l’aiuto dei mezzi che non siano in contraddizione con il fine. Perché,in questo caso, parlare di “vera libertà?” Perché “é allora che l’uomo si esprime completamente. Perché non é solo desiderio; é ragione e coscienza morale. L’atto libero é l’espressione dell’uomo totale”(p.192), dell’ uomo capace di “crearsi da sé”(XV, La 211 211 creazione di sé, pp. 193- 194), e sono “ saggezza e felicità (XVI, Saggezza e felicità, pp. 195-196) i valori che aiutano l’uomo- e specialmente il filosofo- a farsi carico de “ i mali del mondo”, lottando contro ogni forma di irrazionalità, denunciando le falsità e conducendolo , per dirla con Nietzsche, ad una “ tragica felicità”(cf. p. 196) . Una felicità alla quale né il materialismo, nelle sue varie forme, né l’ateismo, né il panteismo, possono giungere: Il materialismo che “spiega” cio’ che é superiore con cio’ che é inferiore, degrada il superiore: l’uomo spiegato ricorrendo all’animale, non é più l’uomo, l’anima, spiegata ricorrendo al corpo, non é più anima, il pensiero,spiegato ricorrendo al cervello, non é più il pensiero, la vita spiegata ricorrendo alla materia ed alle equazioni chimiche, non é più la vita, ecc.”(p. 199). 212 Sulle orme di Montaigne -il filosofo preferito- Conche elabora il suo programma filosofico, che gli permette di scorgere i limiti della ragione umana (XVIII, C’est moy qui je peins, pp. 201- 203) sia nell’agire che nei giudizi formulati sui fondamenti del suo pensiero, confortato da una lunga citazione del saggio:De Democritus et Heraclitus (I, L), nel quale si mette in luce il valore della libertà di giudizio. Rompe con la tradizione, a rischio di ritrovare questo o quello che gli viene dalla tradizione. Apre lo spazio ed il campo alla libera filosofia, campo più tardi ostruito dai filosofi, come Descartes e Kant, che si vanteranno di sostenere la religione con la ragione, tanto da fornirle, andando contro Montaigne, una giustificazione universale. Con questo perderanno la vera Natura della religione (p. 202). 212 Circa i modi con i quali distiguere le accezioni della verità (XIX, La vérité dans la vie morale, pp. 205- 207) Conche fa appello al linguaggio comune e, soprattutto, al linguaggio filosofico, che ama distinguere fra “essere vero”, filosofia vera”, “ una persona vera”, e ritiene che a determinare la “verità” concorrono molti elementi, fra i quali il principio della “eguaglianza naturale”, che appartiene all’uomo e lo distingue dall’animale. La “morale del giudizio”, del “giudizio naturale”, rivela l’intero suo valore nel giudizio del saggio, che va rigettata se il giudizio é stato formulato da un uomo qualunque; in questo caso, o il giudizio sarà dipendente da influenze particolari o siamo condotti ad una specie di anarchia morale (p. 207) . 213 Gli ultimi capitoli, XX, Divertissement (pp. 209- 212); XXI, La détermination sociale, (pp. 213- 215); XXII, L’infini et l’indéfini (217- 220); XXIII, Les niveaux de la liberté (pp. 221- 224); XXIV, Libre arbitre et grandeur (pp. 225- 226) ; XXV, L’évolution de Descartes (pp. 227- 230) riprendono, rispettivamente, alcune suggestioni di Pascal- che vengono estese nell’approfondimento di “infinitoindefinito’- e di Descartes,- le cui problematiche filosofiche, dalla metafisica all’etica, dalla scienza alla morale sono spesso oggetto di analisi e meditazioni critiche. A questo si aggiunga l’analisi del “ determinismo sociale”, esposta, tenendo presente la sua propria realtà socio- culturale, con le difficoltà non lievi con le quali si é dovuto misurare e con la volontà mediante la quale é riuscito ad affrontare e superare questi enormi problemi 213 riuscendo a diventare “uno dei migliori filosofi del suo e del nostro tempo.” Concludo questo profilo,certamente provvisorio e non esaustivo, riportando una delle sue pagine più significative , che risale al 2009 , tratta dalla rivista L’enseignement philosophique, [6, juillet- août 2009, pp. 9- 20 ]: I grandi filosofi ci offrono diverse possibilità per comprendere il mondo, escludendo che la ragione, da sola, possa scegliere fra esse. Pertanto essi ci offrono non solo diverse possibilità teoriche, ma anche alcune possibilità di vita. I filosofi, in funzione delle loro filosofie molto differenti, vivono in modi molto diversi il tempo della loro vita. Almeno é cosi fra i Greci. Perché le filosofie teologizzate dell’epoca moderna, in quanto opera di cristiani, non possono proporre altri modi di vivere che quelli di vivere da cristiani, secondo le virtù cristiane, talvolta con una punta di stoicismo. Descartes, Malebranche, Leibniz, Berkeley, Thomas Reid, Kant, Hegel, non hanno modi di vivere molto differenti, e Malebranche, Oratoriano, e il vescovo Berkeley,sono i soli che dedicano molto tempo alla preghiera”(p. 18). 214 214 UNA LINEA INTENSIVA. RIFLESSIONI SU DELEUZE E FOUCAULT A PARTIRE DA L’ORDINE DISCONTINUO DI DEBORAH DE ROSA CLAUDIO D’AURIZIO “Non è certo che una vita o un’opera d’arte siano individuati come soggetto, anzi, al contrario. Foucault stesso, non lo si percepiva esattamente come una persona. Anche in circostanze insignificanti, quando entrava in una stanza, avveniva piuttosto qualcosa come un cambiamento d’atmosfera [_] 1 un insieme di intensità” Gilles Deleuze L’esergo è tratto da una conversazione con Claire Parnet tenuta nel 1986, due anni dopo la morte di Michel Foucault durante la quale Deleuze si sofferma sull’eccezionalità della figura dell’amico nel milieu culturale francese del secondo Novecento. Il nome di Foucault indicherebbe un evento, una zona di speciale intensità che non è possibile delimitare strettamente alla sua persona2. Il recente libro di Deborah De Rosa, L’ordine discontinuo3 dedicato alla disamina teoretica de 1 Deleuze, 1986a, p. 154. Considerazione valida per la filosofia di Deleuze in generale che, secondo Jean-Luc Nancy, “imprime un ‘divenire-concetto’ a dei nomi propri [_e] un ‘divenire-nomeproprio’ a dei concetti” (Nancy, 1998, p. 17). 3 De Rosa, 2016. 2 215 215 Le parole e le cose4, sembra assumere come punto di partenza proprio questa constatazione. L’autrice s’occupa d’indagare la figura e l’opera di Foucault, segnalandone sia i legami concettuali con il proprio tempo, sia le aperture e le connessioni con aspetti e problemi della nostra contemporaneità. Il pensiero di Foucault diviene tana labirintica da esplorare, diagramma di cui tracciare le coordinate, campo di forze da misurare. Le parole dell’intervista con la quale De Rosa apre il suo testo sono, a riguardo, una chiara indicazione metodologica valida sia per l’opera foucaultiana che per la propria ricerca: ‘scavare’, ‘indagare’ e ‘svuotare’ piuttosto che ‘costruire’ e ‘riempire’5. Tentiamo, dunque, d’assumere una simile prospettiva per seguire e sviluppare alcune delle indicazioni contenute ne L’ordine discontinuo e, più precisamente, alcuni aspetti del rapporto tra la filosofia di Foucault e quella di Deleuze. Sebbene il nome di quest’ultimo non sia citato spesso nel testo, non sarà difficile stabilire alcuni punti di contatto, alcune affinità tematiche e concettuali che oltrepassano le reciproche testimonianze di stima tra i due autori6. Crediamo esista qualcosa come una linea intensiva di pensiero che li colleghi, e che sia possibile seguirla alla luce dei preziosi strumenti forniti da questa ricerca. 4 Foucault, 1966a. Cfr. De Rosa, 2016, pp. 17-18. 6 Ricordiamo, ad esempio, la nota ‘profezia’ di Foucault secondo cui “un giorno, forse, il secolo sarà deleuziano” (Foucault, 1970a, p. 54). 5 216 216 Una cornice: il Seicento Una delle sezioni più intense del testo di De Rosa consiste in una paziente e attenta rilettura del primo capitolo di Le parole e le cose, in cui Foucault interpreta Las Meninas, capolavoro pittorico di Diego Velázquez (1599-1660)7. Realizzato nel 1656, questo dipinto ha affascinato e intrigato generazioni di studiosi in virtù dell’enigma che racchiude; sarebbe stato creato, infatti, “con l’intento esplicito di sollecitare un numero infinito di interpretazioni poiché [in esso] è la stessa rappresentazione artistica a essere offerta allo spettatore come problema”8. Foucault s’interessa al quadro, sottolinea De Rosa, in quanto “rappresentazione della rappresentazione classica”9, un caso di metacomunicazione anomalo per la cultura seicentesca10. All’interno del quadro è raffigurato il pittore intento a dipingere una tela, mentre sono assenti dal primo piano i personaggi più importanti, il re e la regina (presumibilmente ritratti in uno specchio che occupa una porzione dello sfondo). In virtù del carattere autoriflessivo di questo dipinto, tale scambio di posti è leggibile come “conseguenza del principio che regge l’episteme classica”11. La mancanza della coppia reale è segno di una ‘sparizione del soggetto’, elemento centrale per un’episteme rappresentativa come quella seicentesca – quest’ultima infatti, ricorda De Rosa, non poteva prevedere “la messa in questione del soggetto nel suo 7 Foucault, 1966a, pp.17-30; De Rosa, 2016, pp. 45-59. Nova, 1997, p. 12. Foucault, 1966a, p. 30. 10 Cfr. De Rosa, 2016, p. 49 11 Ibidem. 8 9 217 217 carattere fondatore”12. La lettura del quadro da parte del filosofo è quindi posta in relazione con quella fornita da un altro protagonista del secolo scorso, lo psicoanalista Jacques Lacan. Tale confronto intellettuale, che era stato già oggetto d’interesse da parte dell’autrice13, è giocato sulla nozione di centro. Esso, suggerisce Fabrizio Palombi nella prefazione al testo, può essere letto “come una disputa sull’individuazione del baricentro geometrico, del fuoco ottico, teorico e, si potrebbe quasi dire, narrativo, del capolavoro di Velázquez”14. Crediamo che questo accostamento sia un contributo utile a chiarire un’altra delle innumerevoli intersezioni tra l’indagine psicoanalitica e ciò che è solitamente ascritto al dominio della storia dell’arte, alle quali si va prestando sempre maggiore attenzione. Ad esempio, in un saggio pubblicato recentemente, Pio Colonnello ha indagato la lettura freudiana delle Memorie di un malato di nervi di Schreber15, intersecandone alcuni tratti con lo scritto di Freud su Leonardo da Vinci16. C’è da aggiungere come questo sia probabilmente uno dei casi più delicati poiché, come sottolinea Colonnello, la lettura delle Memorie è “un esercizio indiretto di psicoanalisi”17. In quest’occasione Freud si confronta con uno scritto che, pur presentando dei tratti artistici, non è un’opera letteraria o un affermato capolavoro mentre, nel caso di Lacan qui esaminato, siamo di fronte a un utilizzo ‘esemplare’ del quadro di 12 Ivi, p. 50. Vedi De Rosa, 2014. 14 Palombi, 2016, p. 13. 15 Schreber, 1903 e Freud, 1911. 16 Colonnello, 2016 e Freud, 1910 17 Colonnello, 2016, p. 58. 13 218 218 Velázquez. La tela, infatti, è adoperata come modello per illustrare alcuni aspetti relativi alla teoria dell’oggetto a piccolo18. De Rosa ricostruisce minuziosamente l’ambientazione e lo sfondo teorico delle sedute seminariali tenute tra il Maggio e il Giugno del 1966, appartenenti al XIII seminario lacaniano, ritenendo “possibile affermare che queste lezioni siano nate grazie alle pagine foucaultiane”19. Ci siamo dilungati su questa sezione del libro perché ci permette di creare una prima connessione, accennare a un primo punto di contatto con l’opera di Deleuze. Riteniamo infatti, che l’interesse di Foucault per l’episteme classica, interrogata in più luoghi e con diverse finalità, possa essere proficuamente messo a confronto con la lettura dell’epoca barocca compiuta da Deleuze tramite il concetto di ‘piega’20. Non pensiamo che gli obiettivi e gli strumenti concettuali di queste interpretazioni siano riducibili gli uni agli altri o facilmente equiparabili. Crediamo, piuttosto, che fra queste due letture passi una linea comune, un filo rosso che permette di tenerne insieme alcuni aspetti. Questo, a nostro parere, dev’essere interpretato come un’influenza, un ascendente della filosofia di Foucault sull’ultima stagione teorica di Deleuze. Anticipiamo la nostra tesi: ci appare utile rileggere, in stretta connessione, il testo che nel 1986 Deleuze scrive sul pensiero di Foucault e quello del 1988 sul Barocco, poiché alcune fra le questioni toriche e le formulazioni filosofiche più interessanti del secondo trovano il loro nucleo genealogico nel primo. La piegatura 18 Cfr. De Rosa, 2016, p. 51. Ivi, pp. 50-51. 20 Ci riferiamo a Deleuze, 1988a. 19 219 219 è un’operazione che si compie su una linea; la linea è l’elemento attraverso cui Deleuze legge aspetti e implicazioni della soggettività in Foucault. Situarsi nel mezzo Nel capitolo iniziale del testo di De Rosa, dove vengono affrontati aspetti di carattere metodologico, si cita il seguente passo foucaultiano: “nessuno è [_] responsabile di un’emergenza, nessuno può farsene gloria; essa si produce sempre nell’interstizio”21. Questa frase è utilizzata dall’autrice per introdurre un discorso sulle diverse reazioni al libro di Foucault che si produssero successivamente alla sua uscita. Quello di De Rosa è un tentativo di “‘fotografare’, anche se parzialmente, il momento di ‘emergenza’”22 mentre, a noi, interessa segnalare la vicinanza tra questa formulazione foucaultiana e un’altra, simile, appartenente a Deleuze23. Quest’ultimo, in un’intervista di presentazione del suo libro sul Barocco, afferma: io ho la tendenza a pensare le cose come insiemi di linee [_] non è la linea a trovarsi fra due punti, è invece il punto a essere all’incrocio di più linee [_] Le cose e i pensieri germinano o crescono nel mezzo, 24 ed è lì che bisogna installarsi, è sempre lì che si produce la piega . Ciò che ci sembra interessante è l’idea, comune ai due autori, dell’emergenza (germinazione) come qualcosa da 21 Foucault, 1971, p. 39; cfr. De Rosa, 2016, p. 34. De Rosa, 2016, p. 34. Questa frase, peraltro, è contenuta in un saggio di Foucault su Nietzsche, autore fondamentale per la formazione di entrambi i pensatori. 24 Deleuze, 1988b, p. 213. 22 23 220 220 rintracciare in un interstizio (nel mezzo). Per esempio, questo è il caso del pensiero che, secondo Deleuze, “si produce nell’interstizio, nella disgiunzione tra vedere e parlare”25. Inoltre, rileggendo il diniego contenuto nella citazione di Foucault, secondo cui un soggetto non è responsabile di un’emergenza, possiamo scorgere un altro tratto che accomuna i due autori. Ci riferiamo a quei tratti che Roberto Esposito ha riassunto con la formula “filosofia dell’impersonale”26. De Rosa dedica le ultime pagine del suo libro a questo aspetto del pensiero foucaultiano, e all’interpretazione di Esposito. Istituendo un interessante parallelo tra alcuni problemi di carattere matematico e quella che sembra emergere come la struttura predominante del soggetto contemporaneo, l’autrice ricava una formula significativa per valutare l’opera di Foucault. Secondo De Rosa, “il teorema di incompletezza ha ormai perso il suo potere disorientante: il concetto di limite costitutivo del sapere, di ‘finitudine’ dell’umano, si è radicato nella nostra cultura, in quanto tratto caratteristico dell’episteme che abitiamo”27. La consapevolezza della finitudine umana come peculiarità del discorso culturale contemporaneo è uno degli ‘effetti’ dell’opera di Foucault che però, secondo un’esigenza del metodo foucaultiano, non si può ricondurre alla semplice volontà dell’autore. In altri termini, non si deve commettere l’errore di ridurre il fascino e la pregnanza di un’opera al nome di colui che l’ha generata poiché essa affonda inevitabilmente le 25 Deleuze, 1986b, p. 117. Esposito, 2007, pp. 163-184. 27 De Rosa, 2016, p. 127. 26 221 221 proprie radici nella sua epoca. Bisogna, dunque, articolare diversamente il rapporto che Foucault intrattiene con la propria epoca e con quelle successive: il groviglio di forze cui ci troviamo di fronte, dev’essere letto secondo un’ottica differente. Il dentro e il fuori Durante la conversazione che abbiamo citato all’inizio, Deleuze, riferendosi a uno scritto intitolato La vita degli uomini infami28, individua nella linea uno dei concetti più adatti per interpretare l’opera di Foucault. La linea in questione è quella del ‘fuori’: questo termine non indica un semplice spazio contrapposto all’interiorità del soggetto, bensì “qualcosa di più lontano di qualunque mondo esteriore [_] qualcosa di più vicino di qualunque mondo interiore”29. Tale concetto appare in un saggio foucaultiano del 1966 (stesso anno di pubblicazione di Le parole e le cose), dal titolo appunto Il pensiero del di fuori30. In questa circostanza, un pensiero del ‘di fuori’ (o più comunemente del fuori) viene elaborato ed esplicato a partire dall’opera di Maurice Blanchot. Gli scritti di quest’ultimo, infatti, sarebbero in grado di farci avvertire “la presenza reale, assolutamente lontana, scintillante, invisibile [_] di questo stesso pensiero”31. Così, si può elaborare un concetto adeguato di questo fuori, secondo Foucault, solamente a patto di non concepire più il linguaggio “come luogo della verità e legame del 28 Foucault, 1977b. Deleuze, 1986a, p. 148. 30 Vedi Foucault, 1966b. 31 Ivi, pp. 115-116. 29 222 222 tempo”32, ma di concentrarsi sulla capacità di proliferazione e sulla forza impersonale delle parole. Nell’interpretazione di Deleuze, dunque, questo concetto viene recuperato, ampliato e associato a quello di linea, che funge da rappresentante di questo spazio ‘altro’, paradossale poiché lo abitiamo e, insieme, ci abita. Quel che spicca nella concettualizzazione e nel commento deleuziano di questo ‘fuori’ è l’esigenza di non individuarlo in opposizione al ‘dentro’ con cui siamo soliti identificare la soggettività, bensì di concepirlo come elemento assolutamente impersonale: è un fuori del pensiero, un rovescio di esso, non un fuori dall’individuo concepito come interiorità. Per questo motivo ci è sembrato opportuno riferirci a una linea intensiva, che ci attraversa e ci costituisce nel rapporto con questo ‘fuori’ del pensiero, rintracciabile più facilmente, secondo Deleuze, “ovunque il pensiero affronti qualcosa come la follia, la vita o la morte”33. È, d’altronde, a partire dalla riflessione su esperienze eccezionali (come testimoniato sin dalle sue prime ricerche34) che Foucault ha potuto intraprendere una straordinaria ricognizione dell’episteme classica. L’insieme di ciò che rientra sotto questa espressione è indicato da Foucault anche come il ‘Medesimo’ di un dato periodo storico, ossia una “sorta di conoscenza implicita delle logiche secondo cui, di epoca in epoca, le cose possono essere ordinate, diversificate o assimilate”35; mentre la follia rappresenta “la grande 32 Ivi, p. 133. Deleuze, 1986a,p. 147. Basti citare la sua tesi di dottorato, Storia della follia nell’età classica (vedi Foucault, 1961). 35 De Rosa, 2016, p. 85. 33 34 223 223 Alterità che da sempre abita la società”36. Su quest’aspetto il testo di De Rosa è estremamente diretto: “senza una Storia della follia non ci sarebbe stata neanche una ‘storia della somiglianza’ [_] L’idea di follia come ‘Alterità’ della ragione costituirebbe, dunque, a pieno titolo una condizione di possibilità per la nascita de Le parole e le cose”37. Così Deleuze individua nella linea di questo fuori “il nostro doppio”38, da non confondere, sottolinea, con l’esteriorità, che sarebbe ancora una forma39. Per comprendere in che modo questo ‘pensiero del fuori’ interagisca con l’interpretazione deleuziana del Barocco prendiamo le mosse dalla seguente citazione da Foucault, scelta da De Rosa come esergo per l’ultimo capitolo del suo testo: “Il mondo quale noi lo conosciamo [_] è [_] una miriade d’avvenimenti aggrovigliati”40. Traslando quest’affermazione l’autrice riconosce l’opera di Foucault come un “groviglio di eventi, forze ed effetti parziali”41 di cui seguire il percorso, descritto dalle linee che lo attraversano. Ma un’idea simile, secondo cui il mondo è leggibile come intreccio, tessitura, viluppo, la ritroviamo al centro dell’universo barocco indagato da Deleuze. In esso “ci sono pieghe ovunque: nelle rocce, nei fiumi e nei boschi, negli organismi, nella testa o nel cervello, nelle anime o nel pensiero”42. 36 Ivi, p. 86. Ibidem. 38 Deleuze, 1986a, p. 148. 39 Cfr. Deleuze, 1986b, p. 116. 40 Foucault, 1971, p. 44; cfr. De Rosa, 2016, p. 105. 41 De Rosa, 2016, p. 105. 42 Deleuze, 1988b, p. 207. 37 224 224 L’immagine del groviglio, insomma, ci pare restituire una rappresentazione fedele di entrambi i piani dell’edificio che, secondo Deleuze, costituiscono l’universo barocco. Quello basso, caratteristico della materia, è un brulichio di forme, pieghe, vita, caratterizzato da una “ubiquità del vivente”43 che rappresenta il momento di verità del preformismo leibniziano. Mentre il piano superiore, quello dell’anima, è abitato dalla monade “che esprime il mondo intero”44 ed è perciò “infinitamente piena di pieghe”45. Quest’ultima caratteristica della monade leibniziana (che contiene il mondo nella sua interezza, nel suo “stato di clausura”46) è particolarmente significativa per la filosofia di Deleuze. Da una parte, infatti, essa consente di tenere insieme il ‘fuori’ aggrovigliato delle serie infinite che compongono il mondo e il ‘dentro’ oscuro, ermeticamente sigillato, della monade. Dall’altra, il fatto che la monade esprima “più chiaramente una piccola regione del mondo”47, rende possibile individuare la piega caratteristica che contraddistingue ogni singola monade. Ciascuna di esse, in altre parole, è piegata diversamente da ogni altra, poiché ognuna costituisce un punto di vista assolutamente singolare sul mondo, che pure contiene interamente. Ciò che abbiamo tentato di mostrare è che un’interpretazione così originale della filosofia di Leibniz e del Barocco riprende e sviluppa motivi, concetti e spunti già emersi nella lettura che Deleuze propone dei testi 43 Deleuze, 1988a, p. 16. Ivi, p. 41. Ibidem. 46 Ivi, p. 37. 47 Ivi, p. 41. 44 45 225 225 foucaultiani. Concetti come quelli di linea e di fuori, sebbene siano ‘piegati’ diversamente (ci sia concessa questa licenza terminologica) mantengono una centralità teorica anche in questo libro, dalla testualità fitta e a tratti vertiginosa. Certo, si tratta di due pieghe diverse. La prima sembra riguardare maggiormente le questioni legate al soggetto e alle pratiche di soggettivazione; mentre la seconda è descritta da Deleuze come un tratto operativo, un concetto differenziale in grado di descrivere il mondo barocco e la filosofia leibniziana nella loro interezza. Nonostante ciò, riteniamo importante sottolineare e indagare la contiguità concettuale di queste opere. A riprova di quanto sostenuto vi è una banale evidenza che ci è servita come punto di partenza: il concetto di piega appare tematizzato per la prima volta, nell’opera di Deleuze, proprio nella sezione finale del libro su Foucault48. Esso poi appare proficuo anche per altre operazioni concettuali, sulle quali non abbiamo lo spazio per dilungarci, come, ad esempio, l’accostamento tra alcuni aspetti della riflessione foucaultiana e quella di Martin Heidegger49. Genealogie foucaultiane La nostra ricognizione ha tentato di utilizzare il bel libro di De Rosa per approfondire alcune questioni che riguardano da vicino i nostri interessi di ricerca. 48 Cfr. Deleuze, 1986a, pp. 125-162. Vedi, ad es., Deleuze, 1986a, pp. 148-151; Deleuze, 1986b, pp. 143-151; e anche Deleuze, 1988a, p. 18 e 50. 49 226 226 Vorremmo concludere riassumendo sommariamente altri importanti contenuti nel testo che abbiamo sinora tenuto in secondo piano. Oltre a una proficua interrogazione degli esiti del pensiero foucaultiano, una parte importante de L’ordine discontinuo è dedicata, per esempio, alla ricostruzione dei debiti intellettuali che il pensatore francese ha contratto con alcuni dei suoi maestri, nonché alle ‘provenienze’ di alcune impostazioni metodologiche o figure concettuali presenti in Le parole e le cose e, più in generale, nella sua filosofia. Così fra gli autori che più avrebbero contribuito direttamente alla formazione di Foucault, l’autrice si concentra sulle figure di Jean Hyppolite, Georges Dumézil e Georges Canguilhem. Invece, tra le correnti e i movimenti cui l’opera del filosofo sarebbe particolarmente vicina, secondo De Rosa bisogna considerare attentamente gli storici dell’École des Annales e lo strutturalismo, con il quale Foucault avrebbe intrattenuto un rapporto definito come una questione di ‘etichetta’50. Le testimonianze dello stesso Foucault sul tema, più che a sancire nettamente una sua adesione a questo movimento (come d’altronde faceva Deleuze in un noto saggio51), suggeriscono di leggere il suo interesse per lo strutturalismo al fine di tentarne una ricostruzione genealogica52. Quest’ultimo termine, che spicca nel sottotitolo del testo – Una genealogia foucaultiana–, costituisce il perno teorico a partire da cui suggeriamo di leggere l’intero libro nonché, à rebours, il titolo stesso. Come l’autrice 50 De Rosa, 2016, p. 90. Ci riferiamo a Deleuze, 1968. 52 Cfr. De Rosa, 2016, p. 93 sgg. 51 227 227 sottolinea in un paragrafo teoreticamente intenso53, la genealogia è “una via filosofica per indagare la storia”54 che si occupa di studiare la “formazione dispersa, discontinua, e regolare insieme”55 dei discorsi. Un ordine discontinuo è l’opera foucaultiana: il progetto genealogico di De Rosa affronta con fermezza e tenacia gli obblighi cui la lezione di un autore come Foucault ci impone. Queste stesse pagine, in fin dei conti, non sono altro che un tentativo di rispondere affermativamente all’appello silenzioso sotteso a ogni pagina del libro di De Rosa: concentrarsi sulle forze che compongono una determinata formazione culturale, lasciandosi guidare dalle intensità che in essa balenano. Riferimenti bibliografici 228 ALLIEZ, E. (a cura di) (1998), Gilles Deleuze. Une vie philosophique, Institut Synthélabo pour le progrés de la connaissance, Le PlessisRobinson; CHATELET, F. (a cura di) (1973), Histoire de la philosophie. Idées, Doctrines. Le XX siècle, vol. VIII, Hachette, Paris; tr. it. di L. Sosio, Storia della filosofia. La filosofia del XX secolo, vol. VIII, Rizzoli, Milano 1976; COLONNELLO, P. (2016), L’ombra della madre tra Schreber e Leonardo. 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TRACCE DI LETTURA SU LA LOTTA PER LA SCIENZA DI GIUSEPPE SEMERARI Rossana de Gennaro Filosofar “dal basso” La lotta per la scienza1, scritto da Giuseppe Semerari negli anni Sessanta2, fu uno dei testi di riferimento del corso di filosofia teoretica che tenne nell’anno 1978793, dedicato al tema della scienza. 1 La nuova edizione del testo di GIUSEPPE SEMERARI, La lotta per la scienza, Guerini e Associati, Milano 2013, è stata curata da Francesco Valerio e porta una premessa di Fulvio Papi. 2 Il curatore Francesco Valerio nella Nota premessa al testo ricorda che le ricerche che confluiscono in questa opera nella forma di sette saggi sono state realizzate tra il 1961 ed il 1964. Come risulta dalla bibliografia degli scritti di Semerari curata da Ferruccio De Natale, riprodotta nel volume a cura di F. Fistetti e F. Semerari, La malinconia di Hume. Sul pensiero di Giuseppe Semerari (Guerini e Associati, Milano 2007, alle pp. 131-155), il primo ed il terzo saggio erano inediti, mentre gli altri saggi che costituiscono i capitoli del testo erano stati pubblicati su “aut-aut” e sul “Giornale critico della filosofia italiana”. Il capitolo II, Le scienze nella crisi della ragione, su “aut-aut”, 1962, 69; il capitolo IV, La scienza della soggettività( con il titolo: La soggettività: fenomenologia come marxismo), nel “Giornale critico della filosofia italiana”, 1964, vol. XVIII; il capitolo V, La intenzionalità tecnica, su “aut-aut”,1962,72; il capitolo VI, La comunicazione (con il titolo: Aporetica della comunicazione), nel “Giornale critico della filosofia italiana”,1961, vol. XX; il capitolo VII, Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini, su “autaut”, 1963, 77. 3 Dopo l’edizione del 1965 l’opera fu ripubblicata nel 1979, come seconda parte del testo Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini. Per un razionalismo filosofico-politico, Bertani, Verona 1979. La prima parte era invece costituita dal testo della seconda edizione di Scienza nuova e ragione, del 1966 (la prima edizione è del 1961), testo che è stato recentemente ripubblicato, sempre da Guerini e Associati, quale primo volume delle Opere di Giuseppe Semerari, a cura di Furio Semerari, con una premessa di Carlo Sini. 231 231 Nel rileggerlo, nella nuova edizione per i tipi di Guerini, ho avvertito un sentimento di nostalgia – la lettura mi riportava agli anni della mia esperienza di studentessa – avendo nello stesso tempo la possibilità di verificare, a quasi cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione, la straordinaria attualità del testo, che conferma l’opportunità della riedizione delle principali opere del filosofo barese. Si tratta di un’opera ricca di interessanti indicazioni di ricerca storiografica e di una grande varietà di temi, sempre trattati con grande spessore teoretico, nella quale confluiscono molti dei nuclei problematici affrontati dall’autore nel corso della sua storia intellettuale, a definire una prospettiva critica per la quale “la ragione non è una facoltà psicologica, né essenza metafisica, né trascendentale, né riducibile ad un modello logico-sintattico: è, piuttosto, lotta per la ragione4.” E si coglie quella tensione verso una riflessione eticamente orientata che avevo apprezzato nel professore che, con l’ardore del neofita, avevo scelto come maestro, quando, appena iscritta, mi accingevo ad affrontare gli studi di filosofia. Per noi studenti le lezioni di Semerari erano il luogo dove si costruiva una comunità di relazione e di dialogo, al di là di quella sensazione di solitudine e di atomismo che avvertivamo nell’ambiente universitario; nelle due ore che dedicava, per tre volte alla settimana, all’attività didattica, si sviluppava un clima di scambio e di relazione che ci faceva, forse illusoriamente, sentire 4 F. Papi, Premessa alla nuova edizione, ne La lotta per la scienza, cit., p.XIII. 232 232 protagonisti della costruzione del filosofare. Riconoscevamo, nella capacità del professore di rivolgersi distintamente a ciascuno dei suoi studenti e di coinvolgere nella relazione didattica tutti i suoi ascoltatori, la manifestazione della pratica democratica del “filosofare dal basso”, testimoniata dalle riflessioni contenute in Filosofia e Potere. Essa significa: Compiere un’assunzione empiristica per la quale l’uomo materialisticamente determinato è il principio della filosofia [_] Il “filosofare dal basso”[_] si mantiene in un permanente stato di domanda, nel quale si rispecchia la struttura problematica sia dell’uomo empiricamente osservabile sia delle sue relazioni transazionali col mondo.5 233 Sulla prima pagina il testo portava la seguente dedica: Questo libro è dedicato ai giovani contestatori americani di Berkeley, ai cinesi della rivoluzione culturale, ai francesi del maggio del ’68, ai cecoslovacchi della primavera di Praga, e a tutti gli altri – che, traducendola in azione, hanno provato come la cultura possa diventare critica vissuta e vivente di ogni potere reificato, strumento di dominio dell’uomo sull’uomo. La filosofia vi viene intesa come “pratica militante”, capacità dei soggetti di rimettere al centro della propria visione del mondo se stessi, il loro vissuto, i loro bisogni, contro le certezze apparentemente consolidate; come una scelta per la scienza – la espressione del livello più alto 5 G. Semerari, Filosofia e potere, Dedalo, Bari 1973, pp. 11-12. 233 del domandare – e rigetto di atteggiamenti fideistici che mostrino i vigenti rapporti di potere sotto l’aspetto della necessità. Ripercorrere la molteplicità dei temi teoretici e la varietà dei problemi affrontati nei sette saggi che compongono La lotta per la scienza e coprono un arco di tempo compreso tra il 1961 ed il 1965, è impresa ardua, che deve assumere come riferimento il fervore intellettuale che accompagnò fondamentali trasformazioni del tessuto economico e sociale italiano in quegli anni, e la proiezione e trascrizione che ebbero sul piano della riflessione filosofica e nel dibattito politico in corso allora. Sono gli anni in cui Semerari insegna, oltre che filosofia teoretica, filosofia morale all’Università di Bari, e ha già collaborato con numerose riviste di fama internazionale, distinguendosi, nel panorama filosofico italiano, per un’originale lettura della filosofia di Pantaleo Carabellese, suo maestro6, e per il confronto con i temi del neoilluminismo italiano, del quale sono interessante 6 La comprensione delle iniziali posizioni teoriche semerariane e della loro successiva evoluzione non può non tenere conto del rapporto con la filosofia di P. Carabellese . Secondo F. De Natale: “Sul piano teorico la riflessione carabellesiana ha costituito il punto di avvio per la ricerca filosofica semerariana, permanendo sempre un costante termine di riferimento, pur quando la distanza tra le rispettive prospettive filosofiche si è fatta incolmabile e tangibile: dai primi scritti del 1948 e 1949, sino al volume del 1953 (Storia e storicismo), poi riedito il 1960 (Storicismo e ontologismo critico), ai lunghi saggi degli anni Settanta poi raccolti nel volume del 1982 (La sabbia e la roccia. L’ontologia critica di P. Carabellese), dalla edizione della carabellesiana La filosofia dell’esistenza in Kant, del 1969, sino ai confronti tra Carabellese e Varisco del 1985 e tra Carabellese ed Heidegger, del 1989, sono venti i contributi esplicitamente dedicati a ripensare l’ontologismo critico.” Cfr. F. De Natale, Filosofia come Lebensberuf. Brevi considerazioni sull’opera ed il pensiero di Giuseppe Semerari, in Furio Semerari (a cura di) La certezza incerta. Scritti di Giuseppe Semerari con due inediti dell’autore, Guerini e Associati, Milano 2008, p. 80. 234 234 testimonianza vari articoli e recensioni comparse tra il 1952 ed il 1954 nel “Giornale critico di filosofia”. Dal 1954 è redattore della prestigiosa rivista “aut aut”, diretta da Enzo Paci. Fulvio Papi, nella Premessa, sostiene che l’interesse manifestato da Semerari per il problema della costituzione della soggettività – centrale nel suo pensiero – deve spiegarsi con la temperie storica: gli anni ‘50 erano quelli della ricostruzione, del rifiuto di una definizione classista e borghese della figura umana, dell’avvicinamento del ceto intellettuale italiano alla classe operaia e contadina, e della scoperta delle scienze sociali e della psicoanalisi freudiana, quali potenti strumenti in grado di decostruire la definizione idealistica ed astratta del soggetto per raggiungere una più grande libertà teorica. In questo clima intellettuale nasceva una prospettiva teoretica radicalmente umanistica, volta ad una ridefinizione della soggettività alla luce delle categorie teoriche offerte dal marxismo, dalla fenomenologia, dalla psicoanalisi, dalle scienze sociali, in grado di contribuire al progetto di una rifondazione della ragione che fosse “la ricerca delle condizioni oggettive e soggettive per il passaggio dalla presente civiltà dei mezzi [_] ad una civiltà dei fini7.” Semerari si proponeva di portare la conoscenza della fenomenologia nel dibattito filosofico italiano, misurandosi anche con l’esistenzialismo positivo di N. Abbagnano, con 7 Semerari, ripubblicando, nel testo Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini, le due opere, Scienza nuova e ragione e La lotta per la scienza, scriveva nella Prefazione di non aver affatto voluto creare una impossibile fusione tra fenomenologia e marxismo, ma di avere lavorato alla “determinazione della critica della ragione come, insieme, critica della economia politica e critica della funzione di potere della scienza nell’attuale divisione classista della società.” Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini, cit., p. 10. 235 235 il relazionismo di Enzo Paci, e con la critica alla volgarizzazione del marxismo, tramite un’originale interpretazione del pensiero di Marx, letto secondo una prospettiva che vi rintraccia un percorso unitario, dai Manoscritti al Capitale. Come afferma Rovatti8, la battaglia per fare accettare la fenomenologia nella filosofia italiana è una battaglia per una fenomenologia concreta; Semerari considera la fenomenologia una filosofia della “porta aperta”9, una prassi, anzi un agire; è una filosofia dell’ospitalità, che, poiché è possibilità di ospitare i pensieri, è anche un agire ed un’etica. Aprire il dibattito filosofico alla fenomenologia era un’operazione nuova e coraggiosa, significava prendere posizione contro i limiti concettuali dello storicismo, ritrovare nella riflessione sulla costituzione trascendentale della coscienza la possibilità di ricercare, di possedere, il senso e il valore del divenire, contro tutte le rinnovate edizioni dello storicismo e la limitazione della filosofia a metodologia dell’interpretazione storiografica. Riferirsi alle categorie del marxismo e della fenomenologia non significava, d’altra parte, voler realizzare un tentativo di sintesi fra due filosofie per molti aspetti diverse ed intraducibili l’una nell’altra, ma farne delle alleate nella comune lotta contro le varie forme di 8 Così si esprime P. A. Rovatti ne La fenomenologia di Giuseppe Semerari, un breve saggio comparso nel volume collettaneo La certezza incerta. Scritti di Giuseppe Semerari con due inediti dell’autore, cit., pp. 181-203. 9 L’atteggiamento fenomenologico consiste nell’accettazione di un concetto vastissimo di esperienza, al limite della indeterminatezza. “L’atteggiamento fenomenologico della filosofia odierna risiede in una sorta di prassi della porta aperta motivata dalla coscienza che quello che viviamo è sempre qualcosa di meno di quello che viviamo pre-categorialmente.” G. Semerari, Il carattere del filosofare contemporaneo, in Da Schelling a Merleau-Ponty, Cappelli, Bologna 1963, pp. 394-395. 236 236 feticismo (economico/sociale, politico/scientifico) “[_] in base alla comune esigenza di radicalizzare la fondazione della oggettività – si presenti questa come mondo civile o naturalizzazione scientifica10.” Mi pare opportuno partire, per una ricognizione del testo, da quanto asserisce De Natale a proposito dei temi principali che emergono nella riflessione di Semerari, sostenendo che possono venire raccolti intorno ad alcuni nuclei tematici forti, o dei Leitfaden che percorrono il suo pensiero11. Tra questi il tema della critica alle scienze nella loro definizione formalistica e l’appello alla riflessione sulle loro finalità; Semerari intendeva la scienza come presa di posizione, scelta, collocazione nel dibattito – che è sempre intellettuale e politico – per portare le ragioni della vita nella costruzione del sapere, per farne una progettazione razionale integralmente umana, per fare degli uomini concreti legati nella comunità umana il principio di imputazione e di auto-responsabilità delle formazioni significanti. La scienza è anche una delle principali strategie di rassicurazione esistenziale ed è vista in rapporto al tema della soggettività come corpo, fatticità, vissuto; si tratta di un nucleo teorico al quale vengono funzionalizzate le categorie teoriche della responsabilità, della possibilità, della relazione, della comunicazione, specie laddove al filosofo appare urgente un ripensamento delle finalità della civiltà, alla luce della critica al tecnicismo, ed alla 10 11 G. Semerari, Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini, cit., p. 12. F. De Natale, Filosofia come Lebensberuf, cit., p. 78. 237 237 inversione del rapporto mezzi/fini, per costruire una comunità della relazione e della comunicazione. Lotta per la scienza e principio di responsabilità Il confronto con la fenomenologia di Husserl, tramite l’interpretazione della Crisi delle scienze europee, è una delle linee conduttrici della riflessione contenuta ne La lotta per la scienza. Sin dalle prime pagine della Prefazione, Semerari chiarisce l’idea generale che guida la riflessione: Il titolo del libro è giustificato dall’idea generale, che sostiene le ricerche, essere la scienza oggi chiamata a lottare su due fronti: da una parte, contro le restrizioni e i blocchi a cui la costringono le sue versioni e interpretazioni meramente formalistiche, e, dall’altra, contro le resistenze antiscientifiche, forti soprattutto e nel tuttora imperante modo prescientifico di concepire l’uomo e nel campo delle relazioni ed istituzioni etico-sociali, ove la scienza viene boicottata e stimata alla stregua di un’insolente intrusa o, come diceva Dewey, di un vero e proprio invasore.12 12 G. Semerari, La lotta per la scienza, op. cit., p. 1. 238 238 È lo stesso autore a sottolineare il legame teorico con le riflessioni di Scienza nuova e ragione13 dove aveva indicato nel narcisismo e nel masochismo della ragione le due opposte, e false, in quanto complementari, alternative del pensiero, per cui lo scientismo, da un lato, il nichilismo irrazionalista, dall’altro, negano e conculcano lo spazio della filosofia come pensiero critico. Al centro dell’antropologia filosofica contemporanea, Semerari vede il problema messo in evidenza da Husserl nella Krisis, dell’imperialismo del modello fisicalistico delle scienze; la chiusura dei linguaggi scientifici nel loro assetto logico/formale è il presupposto perché le scienze siano chiuse in quel tecnicismo assiologicamente indifferente, dovuto alla frattura, ancora interna alla mentalità scientifica, tra mondo della natura e mondo umano, tale che l’applicazione degli strumenti scientifici e dei risultati ha influenzato i mezzi piuttosto che i fini della vita. La crisi delle scienze attraversa anche l’uomo, teoricamente capace di scatenare – come Semerari dirà nell’ultimo di questi scritti, Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini – una potentissima progettualità razionale relativa ai mezzi tecnici, capace di controllare il movimento delle forze naturali, ma anche del tutto incapace di orientare queste strategie e procedure tecniche verso delle finalità 13 Il rapporto teorico tra La lotta per la scienza e le altre due opere di G. Semerari, La filosofia come relazione (prima edizione, “Centro librario”, Sapri 1961, ora edito da Guerini e Associati, Milano 2009, a cura di F. De Natale) e Scienza nuova e Ragione (prima edizione in Pubblicazioni dell’Istituto di Filosofia della Università degli studi di Bari, Lacaita, Manduria 1961, vol. n. 3, pubblicato in seconda edizione nel 1966 da Silva, Milano, e, più recentemente, nella nuova edizione di Guerini e Associati già citata), viene sottolineato dall’autore nella stessa Prefazione, dove afferma che La lotta per la scienza rappresenta lo sviluppo e la prosecuzione delle riflessioni contenute nelle due precedenti opere. 239 239 razionali; se vi riuscisse, sarebbe capace di controllare se stesso e il mondo umano in cui è implicato, con le sue relazioni sociali e morali. Nell’incipit del primo saggio, L’atteggiamento scientifico, Semerari chiarisce che il rapporto tra la lotta per la scienza e la ridefinizione della ragione è un nodo teoretico fondamentale perché, argomenta l’autore, dopo la profonda riforma della nozione di verità nella scienza e nella filosofia, originata dal nuovo rapporto tra soggetto esistente e verità, Il problema della scienza appare assai più vasto di una particolare impostazione culturale e del sapere qualche cosa secondo una certa organizzazione logico-formale. Esso concerne, prima di tutto, lo sforzo di autoconservazione della specie, la lotta contro l’insicurezza esistenziale e il pericolo della distruzione e l’affrancamento dall’estraneo e dalla paura.14 Porsi il problema della scienza implica un allargamento di prospettiva rispetto all’ impostazione che racchiude la scienza nella sua organizzazione logica, formale, sintattica. Coinvolge la riflessione circa il senso e la direzione dello sviluppo delle conoscenze scientifiche per la civiltà umana. Di fronte alle trasformazioni culturali introdotte dall’ampliamento delle conoscenze tecnico-scientifiche, così pervasive da incidere sulla stessa specie biologica, la scienza deve assumere un atteggiamento di 14 La lotta per la scienza, cit., p. 11. 240 240 responsabilità se è suo compito approntare gli strumenti per la riorganizzazione sociale ed elaborare risposte alle domande che emergono dalla trasformazione del tessuto storico; la riflessione filosofica non può evitare di misurarsi con questa realtà, identificandosi, al limite, con l’estrema problematicità del sapere scientifico. Il filosofare contemporaneo deve tentare una radicalizzazione ontologica della scienza. La riflessione su di essa, ove si assuma il concetto fenomenologico di intenzionalità, consente la tematizzazione della relazione primaria con il mondo, che è il limite estremo del sapere di una soggettività evidenziata come corpo e materialità, criterio di definizione del significato della scienza, principio di imputazione per cui se ne possa ravvisare il senso, e rimanda alla funzione della filosofia come critica immanente delle scienze15, decostruzione, ricerca dell’origine. La definizione dell’atteggiamento filosofico come improntato da un’alta consapevolezza della propria responsabilità di fronte al mondo umano, è un motivo teorico che percorre come un filo conduttore gran parte delle opere di Semerari, se non tutte. Il tema è stato introdotto già nel saggio Il carattere del filosofare contemporaneo, del 1962, che precede di qualche anno la Lotta per la scienza. Nel saggio, posto in Appendice ad una serie di studi storiografici nei quali i modelli teorici prodotti dai filosofi nel corso della storia del pensiero si offrono all’interpretazione, “più che come terreno di riflessione 15 Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini, cit., p. 15. 241 241 storica, come contesto di discussioni tuttora aperte e argomento di decisioni personali”, Semerari espone l’idea che la filosofia sia sempre “presa di posizione”: (Il filosofare contemporaneo) è il momento del pensiero umano che noi fronteggiamo e che è come l’orizzonte nel quale vanno a inscriversi i nostri sforzi personali di indagine e di comprensione – quali che, poi, siano per essere la efficacia ed il risultato di questi 16 sforzi. Fare filosofia è determinare il proprio posto nell’ambito della filosofia militante. E’ individuare, attraverso il dialogo con i pensatori del passato, il punto dove può introdursi la propria personale opera; questo è scelta, coraggio della verità. Grazie a questo coraggio la filosofia penetra sotto la apparente chiarezza del discorso comune. Riprendendo da Whitehead l’idea che vi sia continuità tra filosofia e senso comune, Semerari sostiene che non è importante dare una definizione di che cosa sia il filosofare, quanto determinare le implicazioni etiche e politiche della scelta del filosofare. E’ questa idea che la filosofia abbia una connotazione etica, che contribuisca a configurare l’orizzonte umano come progetto possibile, che guida i saggi del testo La lotta per la scienza, dove il concetto di responsabilità viene connesso all’atteggiamento scientifico. Altrove, tematizzando il nesso scienza-responsabilità17, Semerari riprende le riflessioni presenti nel testo del 16 Il carattere del filosofare contemporaneo, cit., p. 386. È uno dei Leitfaden, o fili conduttori della filosofia di Giuseppe Semerari secondo F. De Natale, in Filosofia come Lebensberuf, cit, pp. 77-106. 17 242 242 1960, Responsabilità e comunità umana, dove, nella Premessa, sosteneva: Al livello scientifico la responsabilità è il recupero della intenzionalità smarrita dalle scienze positive nel loro travolgente sviluppo moderno. Proporre la questione della responsabilità dello scienziato come persona e della indagine scientifica stessa è chiedersi se esista, e quale sia, una teleologia immanente della umanità e se abbia pretesa 18 originale, nel momento presente, l’esercizio della filosofia. È agevole riconoscere la continuità di queste affermazioni con quelle contenute nel testo del ‘65 dove l’autore ribadiva che l’enorme crescita delle scienze e delle relative tecniche non deve esaurirsi in se stessa ma deve essere interpretata dalla filosofia che ha il suo obiettivo nella determinazione di ciò che è la ragione per l’uomo e di ciò che rende la storia veramente umana. L’alta responsabilità che la scienza ha presentemente tanto rispetto alla cultura quanto rispetto al destino biologico della specie umana, la realizzazione ed il successo della possibilità che l’uomo sappia intervenire attivamente sulla sua evoluzione sì da guidarla e determinarla, sono largamente legate alla consapevolezza, che la scienza avrà di se stessa e dei propri compiti, alla capacità che essa riuscirà a 19 dispiegare come forza di riorganizzazione cosmica e sociale. Nel testo in analisi, il senso del filosofare è affidato alla capacità di intessere un dialogo con i linguaggi delle 18 19 G. Semerari, Responsabilità e comunità umana, Lacaita, Manduria, 1960, p. 5. La lotta per la scienza, cit., p. 4. 243 243 scienze, e di definire i contorni di un nuovo umanesimo che accolga la lezione di queste ultime. La soggettività come Leiblickheit L’interesse nei confronti della definizione di un campo fondazionale della soggettività umana vivente e di un nuovo umanesimo, è un tratto comune a molte esperienze della filosofia italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Una riflessione di Antonio Negri, sulla costituzione di una Italian Theory20, sostiene la tesi che negli stessi anni era in corso di formazione, nella filosofia italiana, un’originale filosofia politica che si riannoderebbe a più recenti riflessioni sul carattere carattere decostruttivo della filosofia e sul biopotere. Che una nuova filosofia politica si sia affermata in Italia, lo si deve allo sforzo compiuto dal neoilluminismo italiano (Bobbio, Geymonat), per costruire una cultura laica, aperta agli orientamenti internazionali, al rapporto con la fenomenologia, introdotta da Enzo Paci e Giuseppe Semerari, e alla filosofia pragmatica e neopositivista di G. Preti ed E. Rossi-Landi; tali esperienze, nel quadro tormentato delle discussioni sul marxismo sovietico e sulla concezione del Dia-mat, 20 Cfr. T. Negri, Una rottura italiana, http//www.uninomade.org/negri-una-rottura-italiana e, dello stesso autore, A proposito di Italian Theory, http://www.sinistrainrete.info/filosofia/3416-toni-negri-a-proposito-di-italian-theory. 244 244 avrebbero alimentato un’antropologia filosofica nuova21. Seguendo le indicazioni interpretative di Negri, le riflessioni sviluppate da Semerari costituirebbero dunque un importante contributo, grazie alla convinzione con cui difese “l’eresia fenomenologica”, alla “definizione di un quadro filosofico che investiva la vita”. Nella prospettiva di Semerari sono la fenomenologia ed il marxismo a portarci nel cuore del problema della soggettività che, nel quarto dei saggi, intitolato La scienza della soggettività, viene considerato “il maggiore problema del pensiero contemporaneo”22. Come dimostrano le riflessioni che accompagnano la pubblicazione de La lotta per la scienza come seconda parte di Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini, nel 1979, Semerari non intendeva certo riferirsi all’esigenza di rinnovare la fondazione di un “soggetto” sostanzialisticamente inteso: La ricerca dello spazio per la soggettività, nella fenomenologia (oltre che nel marxismo) non è nostalgia per un mitico soggetto pre-istorico [...], bensì determinazione delle condizioni per le quali la incarnazione 21 Negri sottolinea che negli anni Sessanta, nella filosofia italiana, stava emergendo una forte reazione alla duplice influenza del gramscismo togliattiano e del pessimismo francofortese. L’elaborazione dei presupposti filosofici di un pensiero politico dell’alternativa, da parte di Panzieri, era affiancata dall’elaborazione di numerosi filosofi: “Sia sul terreno della fenomenologia, (Paci e Semerari), sia sul terreno di una filosofia pragmatica e neo-positivista, Preti e il proto linguista Rossi-Landi, insistevano sull’importanza della “relazione fenomenologica” e riattaccandosi all’ultimo Husserl o al secondo Wittgenstein esigevano una radicale rottura con ogni hegelismo residuo. Personalmente penso che questo sfondo teoretico sia stato molto più importante, nell’elaborazione di un pensiero dell’alternativa, di quello che la storiografia accademica insiste essere stata la critica dellavolpiana.” T. Negri, A proposito di Italian Theory, cit., p. 3. 22 La lotta per la scienza, cit., p. 58. 245 245 istituzionale e oggettiva dei soggetti reali non possa diventare 23 alienazione e reificazione. Di fatto – dice Semerari – la fenomenologia instaura una forma di solidarietà con ogni altra filosofia in cui il problema dell’alienazione del soggetto sia centrale. Dal punto di vista della fenomenologia, la questione della soggettività viene considerata tuttora aperta e non solo in virtù di un canone metodologico “secondo cui ogni problema va sempre ripreso daccapo e dalle radici”, ma anche perché (corsivo mio) “non si può parlare autenticamente di scienza, se l’oggetto della scienza non sia, avanti ad ogni altro, la soggettività stessa di colui che fa scienza e della scienza, in qualche modo, usufruisce 24 .” Sul terreno della critica radicale alle forme dell’alienazione umana che si costituisce su più fronti, la fenomenologia incontra il marxismo come filosofia critica dell’alienazione del soggetto. L’atteggiamento fenomenologico coglie, oltre la dimensione teoreticistica e gnoseologistica, il radicamento del pensiero nella soggettività materiale, finita, corporea (leibhaft)25, che è sede di bisogni ed è foriera di insecuritas ed angoscia esistenziale, e che si struttura come relazione con l’altro da sé, la natura, gli altri esseri finiti. La fenomenologia viene collocata nel solco di 23 Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini, cit., p. 15. La lotta per la scienza, cit., p. 58. 25 A riprova dell’importanza che il tema della soggettività come corporeità ha nelle riflessioni di quegli anni, Semerari scriveva nel suo diario del 1963: “ È nel corpo che si fa la schiavitù dell’uomo, la sua servitù al bisogno, ma è pure nel corpo che giacciono le condizioni della libertà umana. Non, io ho un corpo: bensì io sono il mio corpo.” G. Semerari, L’anno del Messico, Schena, Fasano 1996, p. 110. 24 246 246 un’evoluzione del pensiero moderno che passa per Schopenhauer, Kierkegaard, Marx, Nietzsche e Freud; assieme alla definizione antropologica marxiana ha dato un contributo essenziale ad una nuova definizione della scienza della soggettività, intendendola come struttura problematica di corpo-tempo-relazione, ossia come materiata degli strati precategoriali e pre-logici della Lebenswelt. Nel corso di un’intervista che rilasciò, molto tempo dopo, alla rivista “Politica e Mezzogiorno”, Semerari ribadì di avere svolto, tra gli anni ’50 e ’70, sia pure attraverso ricerche di argomento diverso, una coerente indagine: Il filo conduttore fu, per me, allora (ma tale è restato anche successivamente) lo sforzo di determinazione ed elaborazione di una filosofia come antropologia storica e critica che fosse sostenuta dal discorso scientifico-positivo senza, per questo, diventare una filosofia 26 positivistica dichiarata o mascherata. Con queste parole, Semerari riconosceva, come elemento di continuità, nelle riflessioni da lui sviluppate all’inizio degli anni ’50, l’aspirazione ad un razionalismo filosofico politico che fosse capace di attingere ai risultati delle scienze, senza ricadere nella posizione dogmatica che consiste nel sostanzialismo della verità e in un rinnovato feticismo dei fatti. Nel testo in esame la definizione del termine “scienza”è particolarmente interessante perché getta una luce chiarificatrice sul senso del lavoro filosofico, che deve 26 Filosofia, scienza, politica – Intervista con Giuseppe Semerari di F. De Natale, in “Politica e Mezzogiorno”, 1979, 3-4, p. 6. 247 247 procedere nel confronto e nella relazione dialogica costante con essa, diventandone la problematizzazione radicale. “Intendiamo per scienza – dice Semerari – il comportamento intenzionale o l’atteggiamento realizzato come ricerca razionale della certezza e sicurezza esistenziale27.” Come “comportamento intenzionale” essa rimanda sempre ad un atteggiamento pre-logico o pre-categoriale; sicchè, ogni qualvolta sul piano filosofico si perda la cognizione dell’attività intenzionale che la scienza rappresenta, per cui “ne và” dell’individuo, si affaccia la tentazione di scivolare nella soluzione rassicurante dell’atteggiamento a-problematico, che si può assimilare – dice Semerari – all’atteggiamento di accettazione del totalitarismo in politica. Quest’ultimo infatti consegna l’uomo alla tutela rassicurante e paternalistica delle istituzioni e converte paradossalmente il bisogno di sicurezza in nuova angoscia ed incertezza: L’organismo totalitario, reso entità autonoma per se stesso, finisce per l’assomigliare sempre più a qualcosa di arbitrario e misterioso, 28 sorgente di instabilità e di inquietudine anzi che di sicurezza . La possibilità che l’uomo smarrisca se stesso, come principio di autodeterminazione e di responsabilità, è legata, dunque, alla rinuncia ad un controllo critico sui paradigmi interpretativi e sulle istituzioni che governano 27 28 La lotta per la scienza, cit., p. 19. Ivi, p. 18. 248 248 rispettivamente la conoscenza e la prassi umana, e lo sfilacciamento del tessuto della democrazia, alla possibilità che l’uomo persegua la soluzione irrazionale a quel bisogno ontologico di sicurezza che – sin dai saggi dedicati alla filosofia di Spinoza29– è caratteristica dell’uomo in quanto essere naturale esposto al rischio del proprio esserci. Nella definizione dell’atteggiamento scientifico si interseca un altro tema importante nella riflessione di Semerari, nelle cui opere è possibile rinvenire le tracce di un costante interesse per l’esperienza culturale della psicoanalisi 30. La scienza è una delle possibili strategie del rassicuramento umano: è il titolo sotto cui si raccolgono le tecniche di rassicuramento relative al Corpo e alla Natura, una della più potenti terapie, insieme alla Politica, alla Religione, alla stessa Filosofia, contro l’insecuritas esistenziale da cui l’uomo è affetto in maniera 29 Il confronto con la filosofia di Spinoza appare a Negri molto importante. L’interesse per la filosofia spinoziana risale alla traduzione italiana (la prima) del Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, che G. Semerari curò nel 1952-53 (Sansoni, Firenze); lo si ritrova, successivamente, in G. SEMERARI, I problemi dello spinozismo, e a proposito della voce: B. Spinoza in Grande Antologia Filosofica, diretta da M. F. Sciacca, coordinata da M. Schiavone, vol. XIII: Il pensiero moderno, Marzorati, Milano 1968, pp. 1-136. 30 Sul tema del rapporto del pensiero di Semerari con la psicoanalisi si sofferma Rovatti: “C’era una sorta di interdetto nei confronti della psicoanalisi e una sorta di ulteriore interdetto verso la coppia psicoanalisi-marxismo. Negli anni Sessanta le tracce le possiamo trovare in Scienza nuova e ragione. Negli anni Sessanta Semerari appartiene a quel gruppo di intellettuali di punta che cancellano questo interdetto e fanno funzionare, in senso progressivo, sia il marxismo sia la psicoanalisi e la loro congiunzione.” Cfr. P.A.Rovatti, Presenza della psicoanalisi in Giuseppe Semerari, in Furio Semerari - Francesco Fistetti (a cura di), La malinconia di Hume, cit., p.96. 249 249 essenziale31; è il tentativo di rendere meno precaria ed insicura l’esistenza e di guidare intelligentemente il comportamento. Per Semerari l’esercizio della filosofia, è un “[_] andare alle spalle della Scienza, della politica, della religione, alla ricerca di quell’origine che rende ragione del perché tali tecniche di rassicuramento siano nate, scavalcando quel come vengano di continuo elaborate al loro interno32.” Al limite, l’atteggiamento scientifico deve investire la Filosofia che deve problematizzare se stessa e sapersi come un’altra delle tecniche di rassicuramento umano, genealogia in cui si mostra la radice dell’insecuritas come origine del sapere. Questa idea dell’atteggiamento scientifico consente di ripensare lo spontaneo legame tra l’esistenza e le operazioni teoriche che è andato smarrito. 31 Semerari dedica penetranti riflessioni al tema della insicurezza essenziale dell’uomo, in quanto non-può-essere-senza-cura, nella premessa al testo: Insecuritas. Tecniche e paradigmi della salvezza, Spirali, Milano 1982 (seconda edizione 2000). Semerari considera l’uomo insicuro in un modo essenziale perche egli non sussiste per se stesso (selbstständig), in maniera autonoma, ma dipende sempre, in qualche misura, dal rapporto con la Natura e con gli altri. Così si esprime in proposito: “La sua possibilità di essere attivamente se stesso passa attraverso la necessità del suo essere passivo nella dipendenza dalla Natura e Dagli Altri. Il dover dipendere da ciò che, in linea di principio, non può tenere continuamente sotto presa e solo parzialmente può far rientrare nel proprio potere decisionale, mette l’uomo nella condizione della insecuritas, che, ripeto, è essenziale, perché gli si accompagna indivisibilmente nel ciclo intero della sua esistenza, che non può fare a meno, se non al prezzo della soppressione, dei rapporti con la natura e con gli Altri.” (p. 8). La Scienza è il titolo sotto cui si raccolgono le tecniche di rassicuramento relative al Corpo e alla Natura (tecniche della previsione); nell’ambito della scienza rientra anche la Storiografia quale tecnica di rassicuramento verso il Passato (tecnica della memoria). Anche il Passato, fino a quando è ignorato, può generare angoscia. 32 V. Meattini, La sabbia e la roccia. Il radicalismo critico-problematico di Giuseppe Semerari, ne La malinconia di Hume, cit., p. 93. 250 250 Scienza ed esistenza La radicalizzazione ontologica del problema della scienza sollecita Semerari a ritornare33 sul significato del concetto di scienza nuova o filosofia come scienza rigorosa. All’argomento dedica anche le riflessioni de La lotta per la scienza, nel saggio Sintassi e scienza nuova. A proposito della crisi delle scienze e della razionalità, che è l’effetto dell’imperio di una ragione formale, così si esprime: Per essa la scienza si scinde da ogni relazione che non sia relazione con se stessa, auto-relazione, e si trasforma in un fatto assoluto non giustificabile che con la sua presenza di fatto. La domanda circa la intenzionalità cade al di là dei limiti della sintassi, perché la intenzionalità è etero-relazione, movimento dal non-scientifico allo scientifico, laddove la sintassi rimane chiusa nella scienza stessa, branca della scienza nel suo insieme.34 La lotta per una scienza nuova, che richiama Vico e coincide con la scienza rigorosa di cui parlava Husserl, è un movimento del pensiero che riannoda il legame interrotto fra le costruzioni teoriche e gli interessi e gli scopi del mondo umano. La scienza rigorosa, nel significato attribuitole da Semerari, è scienza di quell’apriori pre-logico e pre-scientifico che è la relazione originaria tra l’uomo, la natura e gli altri uomini. E’ a partire da questa materialità in cui si incarnano i bisogni, gli scopi e le aspettative umane, che la scienza diventa 33 34 Si era già occupato del tema nel testo Scienza nuova e ragione, cit. La lotta per la scienza, cit., p.51. 251 251 progettazione razionale. Sono i rapporti di potere tra gli uomini a determinare il concetto e l’uso che si fa della scienza. Se la fenomenologia è critica della pretesa delle scienze di costituirsi come sistemi autoreferenziali, chiusi nel loro formalismo logico-sintattico, il marxismo è critica radicale della pretesa delle formazioni economico-politiche di valere come inespugnabili fortezze, o dati naturalisticamente ovvi. Non si dà possibilità di lottare contro l’alienazione umana senza rifarsi all’uno o all’altro metodo critico. La critica della scienza non può fare a meno della critica alle strutture economico-politiche a cui quella scienza serve35. La “crisi delle scienze europee” si andrà precisando come la crisi di una maniera storicamente determinata di concepire e di praticare le scienze – di una maniera funzionale ad un certo modello di strutturazione produttiva e di gestione scientificotecnologica – che genera l’effetto alienante per cui alle scienze di fatto corrispondono uomini di fatto. Nella Prefazione a Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini l’autore richiama l’attenzione sul fatto che la scienza, nella 35 Sul costante confronto di Semerari con i temi del marxismo, si veda il saggio di A. Altamura, Il “marxismo aperto” di Giuseppe Semerari, ne La certezza incerta, cit. Nella produzione semerariana degli anni Settanta si collocano numerosi testi che insistono sul ruolo che si deve riconoscere al marxismo, come Filosofia e potere, Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini, la cura dei fascicoli monografici di “aut aut”, dedicati a La scienza e i problemi dell’uomo (119-120, 1970) e a Dialettica della natura e materialismo (129130, 1972), ed il volume collettivo: G. Semerari, (a cura di), La scienza come problema. Dai modelli teorici alla produzione di tecnologie: una ricerca interdisciplinare, De Donato, Bari 1980. Non si tratta però di una “fase”della elaborazione teoretica di Semerari. Dice Altamura: “La riflessione sul marxismo, infatti, presente già prima degli anni Settanta, continuerà a rivestire una posizione centralissima fino agli ultimi scritti e in modo particolare nel lungo e articolato saggio del 1995: Il modello materialistico. Marx e la storia della filosofia[“. Id., Il “marxismo aperto” di Giuseppe Semerari, ne La certezza incerta, cit., pp. 207-208. 252 252 sua riduzione formalistica e tecnicistica, appare la giustificazione della forma alienante imposta alle relazioni umane dall’organizzazione produttiva capitalistica. Della scienza non esiste solamente una storia interna ma pure una storia esterna , ossia il problema della scienza non si esaurisce nella sintassi ma coinvolge gli interessi di classe a cui sono funzionali le 36 formali costruzioni scientifiche. Qui Semerari chiarisce che l’attualità dei temi che aveva proposto negli anni Sessanta, rispetto al dibattito aperto, anni dopo, dalla filosofia strutturalista di Louis Althusser, con la sua idea della Storia senza soggetto, consiste nella proposta di un razionalismo filosofico-politico, che includa la tematizzazione dei soggetti viventi tramite il concetto di praxis. Il misticismo della tecnica È l’interesse per il tema dell’esistenza nella sua dimensione storica, temporale e finita, a spingere il filosofo a confrontarsi con le filosofie dell’esistenza, in particolare la concezione heideggeriana della tecnica. Heidegger è fra gli autori dei quali Semerari fornisce un’originale interpretazione, attribuendo al filosofo moravo 36 Civiltà dei mezzi, civiltà dei fini, cit., p. 11. 253 253 l’atteggiamento che chiama malafede esistenzialistica37. L’analisi heideggeriana circa il dominio della tecnica sul mondo dell’uomo approda ad un nuovo misticismo dell’Essere. Il tema è nel saggio La intenzionalità tecnica, dove l’autore esprime una critica radicale a quelle filosofie che, facendo credere di parlare in nome dell’esistenza, non fanno che riattualizzare il “misticismo”, l’atteggiamento di passività e silenzio dell’uomo al cospetto delle formazioni teoriche e pratiche delle quali perde la consapevolezza di essere il principio di imputazione ed il fondamento. Semerari si riferisce alla filosofia di Heidegger e alla sua concezione della tecnica come “disvelamento” che conduce alla negazione dell’uomo come progetto possibile consegnandolo alla passività rilassata della Gelassenheit: Ho parlato altrove di una malafede teoretica di Heidegger. Mi sembra che la posizione sulla questione della tecnica confermi questa malafede. Nella lotta dell’uomo moderno contro i pericoli della sua deiezione tecnicistica, la opposizione di Heidegger alla tecnica e alla 37 Nella seconda parte del testo Scienza nuova e ragione, intitolata L’analitica esistenziale, Semerari intende l’analitica dell’esistenza come lo strumento essenziale di cui deve fare uso la scienza rigorosa. Essa è la capacità di portare alla luce lo “strato” dell’esperienza precategoriale, il suo senso primitivo e profondo e i bisogni che vi si manifestano. Tutt’altro è il significato dell’analitica esistenziale condotta da Heidegger in Essere e tempo. La malafede teorica consiste nell’occultare ciò che, in apparenza, si vorrebbe tematizzare: l’esistenza dell’uomo. Heidegger si opporrebbe solo in apparenza alla deiezione e all’alienazione tecnicistica, e consegnerebbe l’uomo alla logica dell’appartenenza all’Essere. L’uomo non può fare altro che accettare di appartenere all’orizzonte storico del disvelamento dell’Essere come al proprio destino; ciò determina lo smarrimento del principio di responsabilità rispetto alla decisione sui fini relativi a quel progetto razionale che è l’esistenza. La lettura attenta e filologicamente curata della filosofia heideggeriana, da Essere e tempo ai testi successivi alla Khere, sfocia in un giudizio critico negativo che assimila il filosofo moravo alla tradizione mistico-tedesca germanica. 254 254 sua intenzionalità razionale, fatta sulla base della richiesta di un disvelamento che non deve disvelare l’uomo ma un mitico ‘Quello’, ha per risultato non la dissoluzione dei pericoli del tecnicismo, ma la confusione delle carte sul tavolo della discussione ideologica, e, sul terreno culturale, l’anacronistica e reazionaria ripresa della tradizione 38 mistica germanica e scolastica. Semerari, invece, attribuisce alla tecnica un significato radicalmente umano: è la possibilità di portare a termine un progetto, è risolvere una situazione problematica. La definizione della tecnica poggia sul concetto fenomenologico di intenzionalità; è una dinamica intenzionale che conduce il soggetto a dare forma al mondo e significato agli oggetti in rapporto all’uso che ne fa. La tecnica esprime l’essenza creativa dell’uomo, è il luogo di definizione della forma, è l’attività che attualizza i possibili significati dell’essere, portandone a definizione alcuni. Il tema dell’alienazione umana, delle sue forme economiche, politiche, scientifiche, si intreccia con quello della tecnica. La tecnica può essere contraddetta da se stessa quando, per la perdita della propria intenzionalità, si riduce in tecnicismo, che è un vero e proprio misticismo della tecnica. Il tecnicismo (criptoidealisticamente) chiude la tecnica in schematizzazioni meramente operative [_] La conseguenza di tutto ciò è che il tecnicismo viene a trovarsi oggettivamente affiancato al misticismo (e allo spiritualismo in genere) nel disconoscere la tecnica (e la 38 La lotta per la scienza, cit., p. 92. 255 255 sua storia) come determinante ai fini della esplicazione ontologica dell’uomo e della realizzazione della sua responsabilità razionale.39 Essa, in quanto è progetto, volontà di appropriazione intelligente e controllata della natura, è anche la costituzione di una condizione di responsabilità dell’uomo in rapporto al mondo. D’altra parte è l’uomo stesso ad essere ontologicamente strutturato dal suo rapporto con la natura, che avviene specialmente tramite la tecnica; gli stessi fini umani sono storicamente costituiti entro l’orizzonte storico in cui l’uomo è collocato. Sottratta ad ogni problematizzazione, la tecnica determina il tecnicismo – il misticismo della tecnica – e la tecnocrazia, per la quale si strutturano rapporti di potere tra gli uomini in virtù della loro capacità di gestire le operazioni tecniche ma va smarrita la consapevolezza circa i fini verso i quali le operazioni tecniche sono orientate. Tanto il tecnicismo quanto la tecnocrazia producono l’estraneazione dell’uomo rispetto a se stesso e agli altri, e lo consegnano alla logica della accettazione rassegnata e passiva delle strutture dell’essere come se costituissero un orizzonte invalicabile. L’autore respinge ogni soluzione teorica che, o con il riferirsi al formalismo della ragione, o con l’atteggiamento della “malafede esistenzialistica”, produca nuove forme di accettazione mistica delle strutture dell’essere, ricalcando quel paradigma parmenideo la cui ricorrenza coincide con le differenti forme assunte, nella storia del pensiero, dalla 39 Ivi, p. 87. 256 256 visione sostanzialistica della verità, in una costante e sempre rinnovata dialettica con il paradigma protagoreo40. Considera il marxismo la posizione teorica in grado di “liquidare” le due soluzioni del misticismo e del tecnicismo; la visione marxiana dell’uomo gli appare la definizione antropologica in grado di evitare ogni ipostatizzazione, spiritualistica o materialistica, di una natura umana, e di pensare la soggettività come tessuto costituito dalla interazione tra natura e cultura, strutturata all’interno di una realtà ontologica che è relazione tra uomo-natura-altri uomini. Le riflessioni che Semerari maturava negli anni Sessanta rappresentano un fecondo solco teorico rispetto alla definizione di temi che sarebbero diventati centrali nel dibattito postindustriale, postmoderno e globalista. Lo sostiene Negri, nel quadro di alcune riflessioni svolte in margine alla questione del lavoro41, affrontando il problema delle forme con le quali l’ontologia dell’operare umano (la potenza produttiva) viene strutturata e dominata, oppure si mette nelle condizioni di rivoltarsi, di liberarsi e di perseguire la felicità. Hardt e Negri, nelle analisi sviluppate in Impero42, sostengono che, con la definizione toyotista e postfordista della organizzazione capitalistica del lavoro, lo stesso processo di valorizzazione ha assunto una connotazione immateriale, in quanto si realizza nei servizi 40 Per un’analisi degli atteggiamenti protagoreo e parmenideo, si veda Modello parmenideo, modello protagoreo, in Giuseppe Semerari, Filosofia. Lezioni preliminari, Guerini e Associati, Milano 1982, pp. 61-68. 41 T. Negri, Una rottura italiana: produzione vs. sviluppo, cit. 42 W. Hardt – T. Negri, Empire, The President and Fellows of Havard College, 2000; Impero, trad. it. e cura di A. Pandolfi e D. Didiero, Rizzoli, Milano 2002. 257 257 cognitivi e quindi nel lavoro immateriale, trasformando la stessa definizione del lavoro vivo. L’analisi delle forme dell’alienazione deve tenere conto dell’approfondimento e dell’estensione del comando capitalistico sul lavoro, e alla categoria di pluslavoro e di tempo alienato come sottrazione del tempo della vita all’operaio dobbiamo sostituire quella del comando sulla vita come valore d’uso, interamente funzionalizzata alla formazione del profitto. Nel passaggio storico da una società disciplinare ad una società di “controllo” emerge la tematizzazione filosofica che non c’è più un “fuori”, perché la vita è interamente coinvolta nella produzione e nella riproduzione. La composizione sociale del lavoro salariato soggetto al profitto è mutata, e la forza lavoro, nel postfordismo, viene ridefinita come lavoro diffuso, flessibile e precario, espressione della vita messa al lavoro da un biopotere che fa passare il suo comando anche attraverso la dipendenza dell’uomo dalla tecnica. L’attualità delle riflessioni di Semerari sulla scienza consiste nel proporre il lavoro filosofico come critica radicale al dogmatismo in tutte le sue forme (politico, scientifico, istituzionale), e capacità di individuare, attraverso il radicalismo dell’interrogazione, le nuove forme del dominio, anche laddove siano invisibili. Il necessario incontro tra fenomenologia e marxismo consente di ricostruire il legame delle formazioni teoriche, religiose, economiche, culturali, scientifiche, politiche, ed istituzionali, con il corpo e con il vissuto concreto dei soggetti, nella comune lotta per la ricostruzione di un significato di verità a partire dalla presa di coscienza della struttura temporale e quindi storica, del soggetto. Tale 258 258 operazione genealogica e decostruttiva affonda nei livelli ante-predicativi e a-formali, e consente di ripensare il valore della vita, oggi intesa solo come valore d’uso o lavoro vivo da cui ricavare profitto. Comunicazione e rifondazione della comunità umana L’assunzione della prospettiva scientifica presuppone un nuovo concetto di verità come allargamento dialogico, risultato della comunicazione interumana, principio etico di riorganizzazione e rettificazione delle relazioni sociali43. Il tema del carattere etico della verità, che era al centro delle riflessioni di Il carattere del filosofare contemporaneo, ritorna nel quinto capitolo della Lotta per la scienza, dove viene affrontato il problema della comunicazione. 43 “Per il filosofare contemporaneo, la verità non nasconde l’uomo ma lo disocculta a se stesso, non sopprime le dòxai ma le organizza progressivamente nell’orizzonte problematico della coesistenza o socialità umana, secondo la prospettiva della maggiore coordinazione e armonizzazione possibile. [_] Ciascuna dòxa è quantità di verità, che per le dòxai è possibilità di qualificazione interrelazionale, sì che la verità non sussiste altrove che nell’infinito connettersi, in agganci sempre più solidali e comprensivi, delle dòxai-quantità.” G. Semerari, Il carattere del filosofare contemporaneo, cit., p. 390. 259 259 Il presupposto dell’argomentazione è il principio di relazione che attraversa per intero l’arco del pensiero di Semerari costituendone una possibile chiave di lettura44. Sono le riflessioni di La filosofia come relazione, dove Semerari si confronta con la filosofia di Enzo Paci, a chiarire la concezione ontologica dell’essere come relazione fra uomo-Natura-altri e dell’uomo come possibilità della relazione e della comunicazione, legata alla consapevolezza del limite e della temporalità dell’esistenza. All’ontologia relazionale, in cui l’esistenza è vista come relazione strutturale con l’essere, è legata l’idea che essa, nella sua costitutiva finitudine, sia rapporto con il possibile, tensione – spinozianamente: conatus – struttura ontologicamente protesa verso l’essere senza mai identificarsi con esso, progettualità. Senza alcuna concessione all’ovvietà, e mettendo in evidenza come la comunicazione non possa mai considerarsi “pre-garantita”, ma sia sempre problematica ed aperta, Semerari chiarisce i fattori culturali alla luce dei quali il problema in esame assume tutto il suo spessore problematico. 44 Ferruccio De Natale sostiene che il tema attraversa tutta la riflessione semerariana sino all’ultimo corso di filosofia teoretica, tenuto nel 1995-96, dedicato al tema Analisi della relazione e fenomenologia delle relazioni. Cfr. La filosofia come Lebensberuf, cit., p. Nella Premessa alla nuova edizione de La filosofia come relazione, (cit.), De Natale chiarisce che il contesto storico in cui maturano le riflessioni contenute in questo libro è la stagione filosofica del neoilluminismo italiano, la pubblicazione delle opere di Enzo Paci, Dall’esistenzialismo al relazionismo, del 1957, di Giulio Preti, Praxis ed empirismo, del 1957, di Ludovico Geymonat, Saggi di filosofia neorazionalistica, Einaudi, Torino 1953. 260 260 Alla crisi della definizione sostanzialistica della verità hanno contribuito tanto il neopositivismo che la fenomenologia, per cui il sapere scientifico ha dovuto rinunciare ad ogni pretesa di universalità ed oggettività; abbiamo ormai rinunciato a trasferire sui linguaggi delle scienze ogni attesa di definitività e di assolutezza; lo sviluppo delle scienze ci ha reso consapevoli che il mondo è il limite della possibile comunicazione e dell’interscambio tra tutti i possibili convenzionali sistemi di segni che le scienze rappresentano, il limite degli infiniti giochi linguistici. L’applicazione allo studio dei meccanismi di formazione del sapere di scienze come la sociologia, la psicopatologia del linguaggio, la psicoanalisi, ha dato un contributo fondamentale alla destituzione della nozione di “coscienza pura”. Per Semerari il lungo processo di decostruzione dei linguaggi e dei significati con i quali interpretiamo il mondo – di cui attribuisce il merito alla fenomenologia e alla filosofia analitica – ha portato la filosofia a confrontarsi con la dimensione intersoggettiva in cui sono implicati il corpo, con gli strati di significatività materiale, biologica, e psicologica, di cui è portatore, e la rappresentazione dell’altro, intesa – come sostiene Ricoeur – come un limite etico che impegna il pensiero a porre, circa la comunicazione, il problema della costruzione di una totalità etica e di un regno dei fini. Se la concezione “sostanzialistica” della realtà rimanda ad una visione antropologica che include l’uomo entro un orizzonte statico di strutture necessarie, fisse, ed ineludibili, la concezione dell’essere come relazione storica consente di ripensare il problema della verità non 261 261 più in termini epistemologici ma in termini etici, come un orizzonte possibile che può essere costituito all’interno di una comunicazione sempre più ampia ed inclusiva. L’originario fondamento non è la sostanza ma il fondamento senza fondamento pre-garantito, la relazione, in cui l’esistenza dell’uomo è incastonata come possibilità. La comunicazione ha in sé la possibilità dell’aporia e dell’errore proprio perché avviene all’interno di una dimensione intersoggettiva determinata dalle variabili legate alla dimensione fisica e materiale della corporeità dei soggetti. Le aporie della comunicazione costituiscono il principio metodologico che spinge il pensiero a ritornare sull’interpretazione, a risolvere le fallacie della comprensione. Nelle considerazioni riassunte si fonda il principio della radicalità dell’interrogazione critica che avrebbe informato gli scritti dedicati al marxismo di Filosofia e potere45, dove Semerari sosterrà con forza la necessità di mettere in discussione le nuove forme assunte dal sostanzialismo della verità nel Dia-mat, la rapresentazione del materialismo volgare che, ricadendo in formulazioni assolutistiche e dogmatiche della verità, mascherava le cristallizzazioni di potere sedimentate nella burocrazia di regime, nel Partito, nello Stato, nuove manifestazioni della sclerotizzazione e della interruzione della comunicazione. 45 Cfr. G. Semerari, Filosofia e potere, capitoli IV (Il marxismo aperto delle democrazie popolari) e V (Burocrazia, tecnocrazia e libertà), cit. 262 262 Una nuova teoria della civiltà Affrontando il tema dell’insecuritas essenziale46 che affligge l’uomo, Semerari avrebbe ribadito che ogni Teoria della Civiltà è una sorta di Soteriologia generale, ossia una tecnica di rassicuramento esistenziale accanto alle altre, la Scienza, la Politica, la Religione, con le quali l’uomo cerca di sottrarsi ai rischi ai quali la stessa esistenza, come relazione con la Natura e con gli altri, lo espone. Vanno interpretate attraverso questa prospettiva le riflessioni contenute nell’ultimo dei saggi della Lotta per la scienza dove Semerari avverte la necessità, sia scientifica che politica, di rettificare il concetto di civiltà e di porre a fondamento di essa una capacità valutativa, atta ad evitare tanto il dogmatismo quanto il relativismo. E’ il concetto di cultura, in quanto non coincide col significato di civiltà e si riferisce ai valori che potenziano l’umanità, a rappresentare il criterio di valutazione della civiltà, se la si intende, con Kant, come la capacità di porre le condizioni perché l’uomo attui il suo essere razionale e diventi in grado di scegliere i suoi fini autonomamente e secondo ragione. Ciò equivale a rappresentare la possibilità di definire una progettazione razionale, da parte dell’uomo, dei suoi fini, ai quali pervenire per mezzo della civiltà stessa. La prospettiva adottata da Semerari appare distante dalle forme pessimistiche della critica di Adorno, come pure dalle utopie di altri pensatori della scuola di Francoforte, come Marcuse, con cui pure condivide la 46 Il testo è Insecuritas, cit. 263 263 diagnosi secondo la quale la definizione formalistica della scienza e della ragione ha fatto sì che la scelta dei fini rimanesse del tutto priva di intelligenza; alle utopie e alle nuove prospettive escatologiche bisogna sostituire la considerazione della situazionalità storica dei mezzi come pure dei fini, dice Semerari, la quale preserva dagli opposti rischi del fanatismo e dell’utopismo. Tra lo slancio verso un futuro messianicamente inteso come “di là da venire” ed il restare intrappolati nelle strutture dell’essere dato, senza riuscire a progettare altri orizzonti di significato, c’è la possibilità di ricostruire un legame razionale tra i mezzi e i fini tramite la auto-progettazione razionale consapevole di se stessa che è la scienza rigorosa. Nella prospettiva husserliana della strenge Wissenschaft, deve essere possibile investire la scienza delle ragioni della vita, utilizzare l’immenso potenziale creativo ed organizzativo della tecnica per un nuovo progetto di civiltà. La lotta per la scienza propone di esercitare la riflessione filosofica per cercare una forma di salvezza razionale restando “figli della terra”47, per abitare consapevolmente “quell’origine che non può essere altro che il mondo esistenziale dell’uomo (Corpo, Natura, Altri) divenuto, per 47 L’espressione è di Platone e viene adoperata da Semerari nel saggio Comunità e responsabilità umana, nel capitolo Esistenza, valore e comunità umana in Platone; Semerari si riferisce alla capacità dell’uomo di creare la storia: “ Per creare la storia, per essere cioè figli della terra, occorre essere capaci di libertà di fronte ad essa, in grado di umanamente dominarla per i fini dell’uomo nella sua verità umana, occorre in ogni caso essere amici delle idee.” (Giuseppe Semerari, Comunità e responsabilità umana, Lacaita, Manduria 1960, p.166.) In questo contesto l’espressione è adoperata per significare la capacita dell’uomo di guardare all’orizzonte ideale mantenendo un atteggiamento libero e critico che si radica nella consapevolezza della propria finitudine. 264 264 lui, dimora sicura, non più luogo di esilio, non più abisso di angoscia e di terrore48.” Quella di Semerari è un’opzione teoretica per una filosofia del finito, e per un umanesimo problematico “[_] che non oblia la finitudine dell’uomo, ma vede nell’uomo stesso, nelle sue capacità di intessere “rapporti” – cioè nel suo essere un centro di relazioni temporalmente determinate – il punto di imputazione del “senso” della storia49.” Spesso Semerari fa riferimento alla metafora della scala di wittgenstein per descrivere cosa sia stata la filosofia in rapporto alla scienza concepita come autonoma coscienza metodologica e sintattica. Nelle pieghe del discorso de La lotta per la scienza c’è un’appassionata difesa del ruolo della filosofia, a cui viene restituita l’alta dignità di un’interrogazione socratica sul senso della scienza per l’uomo, e sul rapporto teleologico della conoscenza con i valori, contro ogni sua “dichiarazione di morte” che derivi dalla sua riduzione ad “ancella” di una Ragione formale, così come anche dalla sua limitazione in una definizione di tipo storicistico-idealistico. La definizione della filosofia come scienza rigorosa costituisce anche un prezioso punto di riferimento nella didattica della filosofia, circa il senso del filosofare, che non è il restare intrappolati nella “filastrocca delle opinioni”: è cercare il senso delle cose, è restituire il mondo della vita, della morale, dei valori, della conoscenza, alla “presa” della riflessione razionale, evitando di abbandonarlo al dominio dell’ignoranza o ai surrogati della scienza. 48 49 G. Semerari, Insecuritas, cit., p. 17 F. De Natale, Filosofia come Lebensberuf, cit., p.94. 265 265 Come asserisce Francesco Valerio nella Nota del curatore, premessa al testo, ripubblicare oggi La lotta per la scienza appare non soltanto un atto di doveroso omaggio alla memoria di un “maestro” del pensiero, riconoscendone il contributo all’emancipazione della riflessione filosofica dalla servitù nei confronti del dominante modello storiografico idealistico degli anni Cinquanta; è anche rispondere al bisogno teorico di “ricollocare al centro della riflessione contemporanea il problema della costituzione di una razionalità oltre il moderno, di una nuova razionalità critica, non prigioniera di una logica lineare della razionalità che sia in grado di recuperare sul piano ontologico la potenza creativa delle soggettività nella loro dinamica relazionale”50. La riflessione circa un progetto possibile di razionalità che sfugga alla logica della strumentalità tecnico-scientifica e al dominio del “pensiero unico” è affidata alla capacità dei soggetti di ritrovare il potere di autodeterminazione che è implicito in un’ontologia del finito. Fare filosofia per ritrovare il senso della lotta e della resistenza al processo pervasivo di espropriazione dell’umano appare così il messaggio più attuale che Semerari ci abbia lasciato. 50 F. Valerio, Nota del curatore, in G. Semerari, La lotta per la scienza, cit., p. XXV. 266 266