Il dibattito storiografico pp. 536

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anche dei canali di comunicazione con i centri di potere che
restavano esterni all'isola. La lunga consuetudine di subordinazione a tali centri, derivante da una precoce integrazione
all'interno di un sistema mondiale dell'economia nel quale l'isola occupava una posizione periferica, ha impedito alle élites
siciliane di svolgere un ruolo di classe dirigente nazionale, pur
lasciando loro la gestione locale del potere politico e delle
risorse economiche ... Il centro politico nazionale ha praticamente rinunziato a colmare i vuoti di comunicazione con l'area
periferica, sia per gli elevati «costi di comunicazione e controllo»
necessari ad estendere fino ai margini del sistema la sua azione,
sia per la mancanza di un processo di lunga durata che avesse
portato, attraverso rapporti prolungati di scambio reciproco,
alla diffusione nell'area periferica delle forme sociali dominanti
nell'area centrale. Il centro cioè si è limitato al diretto controllo
solo delle funzioni fondamentali del sistema, cedendo a gruppi
e strutture informali, interstiziali o parallele al contesto formale
del potere, una quota significativa delle risorse politiche ed
economiche ... In cambio della rinuncia a dissolvere le strutture
sociali preesistenti e non adeguate al nuovo livello di
organtzazione che si vuole imporre, le élites nazionali
ottengono un'adesione di fondo al sistema nel suo complesso,
anche quando questo poggi su «valori» difformi da quelli cui fa
riferimento la società periferica. In altre parole il centro
incapsula la periferia, ma non la assorbe: il risultato è un
complesso processo di mediazione, nel quale la periferia non si
limita a resistere al centro, ma lo condiziona, ne manipola le
norme, istituisce rapporti privilegiati con i suoi agenti,
trasforma cioè in fdrza contrattuale la sua maggiore risorsa che,
paradossalmente, è anche la causa della sua marginalità:
l'isolamento e l'eccentricità rispetto al cuore del sistema.10
Molto bene. Non mi pare però che con il nuovo Stato le élite
siciliane non riuscissero a svolgere un ruolo di classe dirigente nazionale. Oggi forse, mentre scrivo, i siciliani a livello
nazionale non svolgono più un efficace ruolo politico e da
quasi mezzo secolo non riescono più a fornire alla nazione un
presidente del consiglio. Ma nella seconda metà dell'Ottocento, soprattutto dopo l'avvento della Sinistra al potere, il ruolo
10
Ivi., pp. 42-44.
dei siciliani fu certamente assai più incisivo e la Sicilia fu spesso centro e promotrice di importanti iniziative nella vita del
paese. Siciliani, eletti a Palermo e nella provincia, furono le due maggiori personalità politiche di fine secolo, che ricoprirono alternativamente la carica di presidente del consiglio e
di capo dell'opposizione: Francesco Crispi e Antonio di
Rudinì. Due personaggi che non comparvero improvvisamente nell'ultimo decennio del secolo, ma che anche nei decenni
precedenti avevano svolto in parlamento e nel paese un ruolo
politico di primissimo piano. Siciliana era la più grande flotta
mercantile italiana e siciliani erano alcuni dei più noti intellettuali del tempo. Mai la Sicilia ha avuto un peso così rilevante
nella vita politica, sociale, economica e culturale del paese
come nella seconda metà dell'Ottocento.11
A me pare perciò che l'acuta analisi di Pezzino si adatti
più ai periodi precedenti che non alla seconda metà dell'Ottocento. Forse se ne è reso conto lo stesso autore, che nei
lavori successivi tende a retrodatare di alcuni decenni l'origine del fenomeno mafioso, anticipandolo all'ultimo periodo
borbonico. Il contesto resta sempre quello della modernizzazione, il cui processo però per Pezzino – è importante la sottolineatura – in Sicilia non si attua in modo normale, bensì in
modo particolarmente contraddittorio. E infatti
agli sforzi per una più incisiva presenza dello Stato secondo i
canoni della monarchia amministrativa, si oppongono strutture
sociali antiquate, e una significativa debolezza degli apparati istituzionali in compatti essenziali come quello del controllo e
monopolio della violenza. Lo Stato non riesce ... ad avocare a sé
l'uso della violenza fisica per imporre la legge, garantire l'ordine,
11 Galasso ha giustamente osservato che «la Sicilia irrompe nella vita italiana, dopo il 1860, su un fronte vastissimo che si estende a pressoché tutti i
settori della vita civile, dalla letteratura allo spettacolo, dalle arti alla musica,
dalla cultura filosofica e storica a quella antropologica e sociologica, dalla politica
all'amministrazione, dai problemi demografici ed economici a quelli di
pubblica sicurezza e di giustizia. Di poche altre regioni italiane si può dire
altrettanto» (G. Galasso, Sicilia in Italia. Per la storia culturale e sociale della
Sicilia nell'Italia unita, Catania, Edizioni del Prisma, 1994, p. 6).
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regolamentare le relazioni sociali, ed è perciò costretto a tollerare, in questo campo, la persistenza di comportamenti anomali
(«feudali» li definirà Franchetti) da parte della società siciliana.12
Ciò premesso, egli colloca l'origine del fenomeno mafioso
nel periodo successivo all'eversione della feudalità del 1812,
ossia negli anni della restaurazione borbonica. È allora
che si può individuare quello scontro, – a mio avviso rappresenta il nucleo della questione mafiosa – tra un uso extraistituzionale della violenza per intimidire, rubare, creare e difendere fortune, risolvere conflitti, rappresentare interessi, e una
violenza superiore, legalizzata e dichiarata al di sopra delle
parti.13
Sono gli anni ai quali si era riferito anche Francesco Brancato, il quale però individua le origini della mafia nella situazione di emarginazione dei ceti popolari determinatasi nella
Sicilia occidentale dopo la Costituzione del 1812.14 È difficile
tuttavia pensare alla mafia, piuttosto che come effetto della
carenza del potere statale, come conseguenza, anche se in
posizione dialettica, di una situazione sociale di emarginazione o di una situazione economica di depressione, fenomeni
che possono semmai provocare l'insorgere del banditismo,
che – come è noto – è cosa ben diversa dalla mafia.
Come può rilevarsi, gli storici dell'età contemporanea
sono nel complesso propensi a collocare l'origine del fenomeno o a ridosso dell'unificazione italiana o nei decenni immediatamente precedenti. Fa eccezione Nicola Tranfaglia, il
quale ripropone la posizione iniziale di Renda:
12 P. Pezzino, Onorata società o industria della violenza? Mafia e mafiosi
tra realtà storica e paradigmi sicilianisti, in «Studi storici», 2, 1988, p. 441.
13 P. Pezzino, Stato violenza società. Nascita e sviluppo del paradigma
mafioso, in M. Aymard e G. Giarrizzo (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni dall'unità ad oggi. La Sicilia, Torino, Einaudi, 1987, p. 905. Dello stesso, cfr.
anche La tradizione rivoluzionaria siciliana e l'invenzione della mafia, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», 7-8, 1990, pp. 45 sgg.
14 E Brancato, Mafia e formazione dello stato unitario, in «Nuovi Quaderni del Meridione», n. 81, 1983, pp. 9-10.
certamente la mafia come «cosa», cioè come mentalità, come
comportamento individuale e anche come associazione criminale diretta a praticare .1a violenza organizzata, non nacque nel
contesto della costruzione dello Stati.) nazionale in Sicilia. Essa
esisteva prima del 1860, e ne erano ben note precise manifestazioni.15
A supporto, ricorda rapidamente l'esistenza delle compagnie d'armi e le testimonianze dei viaggiatori stranieri nell'isola nel XVIII secolo, e invita a rivolgere l'attenzione al periodo
spagnolo, stimolando gli «studiosi dei secoli precedenti (XVI,
XVII e XVIII)» a fornire «una risposta che tarda a venire».16
E intanto chiama in causa il «modello spagnolo»,
che è nella sostanza un modello di Stato assoluto, nel quale le
leggi valgono contro i nemici e non sono osservate per gli
amici, nel quale la pubblica amministrazione non è solo infeudata ai partiti ma è anche incapace di seguire regole uniformi e
generali e far valere il suo potere discrezionale in modo tale da
porre i cittadini (quelli che possono farlo) nella condizione di
dover cercare di stabilire un rapporto privilegiato con essa.17
La proposta di Tranfaglia ha provocato una durissima e
molto articolata replica da parte di Piero Bevilacqua, il quale
può avere ragione quando gli contesta i riferimenti storici
sulla `ndrangheta e sulla camorra, che il brillante storico della
Calabria conosce molto bene.18 Lo stesso non può dirsi però
per la storia della Sicilia, che con tutto il rispetto per Croce,
chiamato a supporto, ha avuto uno svolgimento ben diverso
da quella napoletana. Croce nella sua Storia del Regno di Napoli parla peraltro della situazione napoletana, non di quella
siciliana. In Sicilia, il governo spagnolo non sempre – a causa
15 N. Tranfaglia, La mafia come metodo nell'Italia contemporanea, RomaBari, Laterza, 1991, p. 7.
16 Ivi, p.11.
17 Ivi, p. 23.
18 P. Bevilacqua, La mafia e la Spagna cit., pp. 105-127. Per la replica di
Tranfaglia, cfr. Il Mezzogiorno e le sue «mafia»: una risposta, in «Meridiana», n.
15, 1992, pp. 269-277.
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