537 536 anche dei canali di comunicazione con i centri di potere che restavano esterni all'isola. La lunga consuetudine di subordinazione a tali centri, derivante da una precoce integrazione all'interno di un sistema mondiale dell'economia nel quale l'isola occupava una posizione periferica, ha impedito alle élites siciliane di svolgere un ruolo di classe dirigente nazionale, pur lasciando loro la gestione locale del potere politico e delle risorse economiche ... Il centro politico nazionale ha praticamente rinunziato a colmare i vuoti di comunicazione con l'area periferica, sia per gli elevati «costi di comunicazione e controllo» necessari ad estendere fino ai margini del sistema la sua azione, sia per la mancanza di un processo di lunga durata che avesse portato, attraverso rapporti prolungati di scambio reciproco, alla diffusione nell'area periferica delle forme sociali dominanti nell'area centrale. Il centro cioè si è limitato al diretto controllo solo delle funzioni fondamentali del sistema, cedendo a gruppi e strutture informali, interstiziali o parallele al contesto formale del potere, una quota significativa delle risorse politiche ed economiche ... In cambio della rinuncia a dissolvere le strutture sociali preesistenti e non adeguate al nuovo livello di organtzazione che si vuole imporre, le élites nazionali ottengono un'adesione di fondo al sistema nel suo complesso, anche quando questo poggi su «valori» difformi da quelli cui fa riferimento la società periferica. In altre parole il centro incapsula la periferia, ma non la assorbe: il risultato è un complesso processo di mediazione, nel quale la periferia non si limita a resistere al centro, ma lo condiziona, ne manipola le norme, istituisce rapporti privilegiati con i suoi agenti, trasforma cioè in fdrza contrattuale la sua maggiore risorsa che, paradossalmente, è anche la causa della sua marginalità: l'isolamento e l'eccentricità rispetto al cuore del sistema.10 Molto bene. Non mi pare però che con il nuovo Stato le élite siciliane non riuscissero a svolgere un ruolo di classe dirigente nazionale. Oggi forse, mentre scrivo, i siciliani a livello nazionale non svolgono più un efficace ruolo politico e da quasi mezzo secolo non riescono più a fornire alla nazione un presidente del consiglio. Ma nella seconda metà dell'Ottocento, soprattutto dopo l'avvento della Sinistra al potere, il ruolo 10 Ivi., pp. 42-44. dei siciliani fu certamente assai più incisivo e la Sicilia fu spesso centro e promotrice di importanti iniziative nella vita del paese. Siciliani, eletti a Palermo e nella provincia, furono le due maggiori personalità politiche di fine secolo, che ricoprirono alternativamente la carica di presidente del consiglio e di capo dell'opposizione: Francesco Crispi e Antonio di Rudinì. Due personaggi che non comparvero improvvisamente nell'ultimo decennio del secolo, ma che anche nei decenni precedenti avevano svolto in parlamento e nel paese un ruolo politico di primissimo piano. Siciliana era la più grande flotta mercantile italiana e siciliani erano alcuni dei più noti intellettuali del tempo. Mai la Sicilia ha avuto un peso così rilevante nella vita politica, sociale, economica e culturale del paese come nella seconda metà dell'Ottocento.11 A me pare perciò che l'acuta analisi di Pezzino si adatti più ai periodi precedenti che non alla seconda metà dell'Ottocento. Forse se ne è reso conto lo stesso autore, che nei lavori successivi tende a retrodatare di alcuni decenni l'origine del fenomeno mafioso, anticipandolo all'ultimo periodo borbonico. Il contesto resta sempre quello della modernizzazione, il cui processo però per Pezzino – è importante la sottolineatura – in Sicilia non si attua in modo normale, bensì in modo particolarmente contraddittorio. E infatti agli sforzi per una più incisiva presenza dello Stato secondo i canoni della monarchia amministrativa, si oppongono strutture sociali antiquate, e una significativa debolezza degli apparati istituzionali in compatti essenziali come quello del controllo e monopolio della violenza. Lo Stato non riesce ... ad avocare a sé l'uso della violenza fisica per imporre la legge, garantire l'ordine, 11 Galasso ha giustamente osservato che «la Sicilia irrompe nella vita italiana, dopo il 1860, su un fronte vastissimo che si estende a pressoché tutti i settori della vita civile, dalla letteratura allo spettacolo, dalle arti alla musica, dalla cultura filosofica e storica a quella antropologica e sociologica, dalla politica all'amministrazione, dai problemi demografici ed economici a quelli di pubblica sicurezza e di giustizia. Di poche altre regioni italiane si può dire altrettanto» (G. Galasso, Sicilia in Italia. Per la storia culturale e sociale della Sicilia nell'Italia unita, Catania, Edizioni del Prisma, 1994, p. 6). 538 539 regolamentare le relazioni sociali, ed è perciò costretto a tollerare, in questo campo, la persistenza di comportamenti anomali («feudali» li definirà Franchetti) da parte della società siciliana.12 Ciò premesso, egli colloca l'origine del fenomeno mafioso nel periodo successivo all'eversione della feudalità del 1812, ossia negli anni della restaurazione borbonica. È allora che si può individuare quello scontro, – a mio avviso rappresenta il nucleo della questione mafiosa – tra un uso extraistituzionale della violenza per intimidire, rubare, creare e difendere fortune, risolvere conflitti, rappresentare interessi, e una violenza superiore, legalizzata e dichiarata al di sopra delle parti.13 Sono gli anni ai quali si era riferito anche Francesco Brancato, il quale però individua le origini della mafia nella situazione di emarginazione dei ceti popolari determinatasi nella Sicilia occidentale dopo la Costituzione del 1812.14 È difficile tuttavia pensare alla mafia, piuttosto che come effetto della carenza del potere statale, come conseguenza, anche se in posizione dialettica, di una situazione sociale di emarginazione o di una situazione economica di depressione, fenomeni che possono semmai provocare l'insorgere del banditismo, che – come è noto – è cosa ben diversa dalla mafia. Come può rilevarsi, gli storici dell'età contemporanea sono nel complesso propensi a collocare l'origine del fenomeno o a ridosso dell'unificazione italiana o nei decenni immediatamente precedenti. Fa eccezione Nicola Tranfaglia, il quale ripropone la posizione iniziale di Renda: 12 P. Pezzino, Onorata società o industria della violenza? Mafia e mafiosi tra realtà storica e paradigmi sicilianisti, in «Studi storici», 2, 1988, p. 441. 13 P. Pezzino, Stato violenza società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, in M. Aymard e G. Giarrizzo (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni dall'unità ad oggi. La Sicilia, Torino, Einaudi, 1987, p. 905. Dello stesso, cfr. anche La tradizione rivoluzionaria siciliana e l'invenzione della mafia, in «Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali», 7-8, 1990, pp. 45 sgg. 14 E Brancato, Mafia e formazione dello stato unitario, in «Nuovi Quaderni del Meridione», n. 81, 1983, pp. 9-10. certamente la mafia come «cosa», cioè come mentalità, come comportamento individuale e anche come associazione criminale diretta a praticare .1a violenza organizzata, non nacque nel contesto della costruzione dello Stati.) nazionale in Sicilia. Essa esisteva prima del 1860, e ne erano ben note precise manifestazioni.15 A supporto, ricorda rapidamente l'esistenza delle compagnie d'armi e le testimonianze dei viaggiatori stranieri nell'isola nel XVIII secolo, e invita a rivolgere l'attenzione al periodo spagnolo, stimolando gli «studiosi dei secoli precedenti (XVI, XVII e XVIII)» a fornire «una risposta che tarda a venire».16 E intanto chiama in causa il «modello spagnolo», che è nella sostanza un modello di Stato assoluto, nel quale le leggi valgono contro i nemici e non sono osservate per gli amici, nel quale la pubblica amministrazione non è solo infeudata ai partiti ma è anche incapace di seguire regole uniformi e generali e far valere il suo potere discrezionale in modo tale da porre i cittadini (quelli che possono farlo) nella condizione di dover cercare di stabilire un rapporto privilegiato con essa.17 La proposta di Tranfaglia ha provocato una durissima e molto articolata replica da parte di Piero Bevilacqua, il quale può avere ragione quando gli contesta i riferimenti storici sulla `ndrangheta e sulla camorra, che il brillante storico della Calabria conosce molto bene.18 Lo stesso non può dirsi però per la storia della Sicilia, che con tutto il rispetto per Croce, chiamato a supporto, ha avuto uno svolgimento ben diverso da quella napoletana. Croce nella sua Storia del Regno di Napoli parla peraltro della situazione napoletana, non di quella siciliana. In Sicilia, il governo spagnolo non sempre – a causa 15 N. Tranfaglia, La mafia come metodo nell'Italia contemporanea, RomaBari, Laterza, 1991, p. 7. 16 Ivi, p.11. 17 Ivi, p. 23. 18 P. Bevilacqua, La mafia e la Spagna cit., pp. 105-127. Per la replica di Tranfaglia, cfr. Il Mezzogiorno e le sue «mafia»: una risposta, in «Meridiana», n. 15, 1992, pp. 269-277.