La mafia come fenomeno di ibridazione sociale.

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La mafia come fenomeno di ibridazione sociale.
Proposta dì un modello
di Raimondo Catanzaro
“Nel disordine apparente dei nostro mondo misterioso, vi sono indivi­
dui che si adattano ad un sistema con sì squisito rigore, e i sistemi l’uno
all’altro e a un tutto organico...” , N. Hawthorne, Wakefield.
“Si diventa ciò che si è” , F. Nietzsche, Ecce Homo.
I fenomeni recenti di recrudescenza della ma­
fia pongono inquietanti interrogativi sulle ra­
gioni della persistenza e della continuità del
fenomeno mafioso e sulle sue radici sociali.
Finiti (almeno così ci si augura) i tempi in cui
si pensava che la mafia fosse semplicemente
una manifestazione dell’arretratezza della so­
cietà siciliana, oggi ci si interroga sulle possi­
bilità di spiegare la persistenza del comporta­
mento mafioso e la sua capacità di adeguarsi
a nuovi contesti economici e sociali.
La letteratura sulla mafia non ha sin qui
affrontato esplicitamente questo problema.
Mentre esistono interessanti analisi sulla
mafia tradizionale, sui suoi codici di com­
portamento, o sulle recenti evoluzioni in di­
rezione dello svolgimento di attività im
prenditoriali1, solo sporadicamente si pos­
sono trovare accenni al fenomeno della
continuità/trasformazione di codici cultu­
rali e di comportamento che consentono il
riprodursi della mafia. Tale è appunto lo
scopo che ci proponiamo nel presente lavo­
ro: dare un contributo alla comprensione
dei modi di cui, attraverso la loro evoluzio­
ne storica, i codici di comportamento e i
valori tipici della mafia si sono di volta in
volta adattati alle mutate condizioni socioeconomiche e politiche del contesto in cui i
mafiosi si trovano ad agire.
Quest’articolo fa parte di un più ampio lavoro, ancora in corso, sulla mafia in Sicilia, e ne sintetizza alcune mete
provvisorie che vogliono servire come spunti per un dibattito. Non si tratta di una ricerca su fonti inedite ma di un
tentativo di interpretazione basato su fonti note e in cui si utilizzano i contributi forniti dalla letteratura cercando di
combinare approcci storiografici, sociologici e antropologici. Precedenti stesure del saggio sono state lette da Danie­
la Timpanaro e Donatella della Porta che mi hanno suggerito utili integrazioni e da Giuseppe Barone e Salvatore Lu­
po che con le loro critiche mi hanno aiutato a migliorarlo in più punti. Nel corso di discussioni con Nino Recupero
mi sono venuti rilevanti spunti di analisi, e con Francesco Cossentino è emersa l’idea di definire con il termine di ibri­
dazione sociale i processi delineati in queste pagine. Nessuno di questi amici e colleghi, che ringrazio tutti, è tuttavia
responsabile di quanto è sostenuto in questo articolo.
1 Vedi rispettivamente Anton Blok, The Mafia o f a Sicilian Village: 1860-1960, New York, Harper & Row, 1974;
Henner Hess, Mafia, Bari, Laterza, 1973; Pino Arlacchi, La mafia imprenditrice, Bologna, Il Mulino, 1983.
“Italia contemporanea”, settembre 1984, n. 156
8
Raimondo Catanzaro
Le precondizioni
Il codice dell’onore. Il comportamento ma­
fioso è per definizione un comportamento
onorifico. Mafioso è colui che è in grado di
farsi rispettare senza bisogno di ricorrere
alla legge, o addirittura violandola con suc­
cesso. Il codice dell’onore tuttavia non è
proprio soltanto dell’agire mafioso, ma in­
forma di sé gran parte della cultura delle
società mediterranee2. La connotazione so­
ciale dell’onore è duplice e contraddittoria
nella compresenza dei suoi due aspetti. Da
un lato esiste infatti una concezione statica
dell’onore, connessa alle condizioni di disu­
guaglianza. Dall’altro coesiste con la prima
una seconda concezione, stavolta dinamica,
derivante dalle condizioni o dalle pretese
soggettive di uguaglianza, e che si manife­
sta nella competizione tra individui e
gruppi3.
Sotto il primo profilo l’onore è la capaci­
tà, socialmente riconosciuta al capo di una
famiglia, di essere in grado di garantire ai
propri familiari un tenore di vita adeguato
alle risorse possedute. Esso è quindi con­
nesso all’efficace tutela dell’integrità dei
propri beni e dell’unità della famiglia, con
particolare riguardo alla protezione della
castità della moglie e della verginità delle
figlie contro gli attacchi esterni. L’onore è
quindi un modo socialmente riconosciuto di
valutare la distribuzione degli status con ri­
ferimento a tre aspetti del comportamento
individuale: 1. vivere a livello delle risorse
possedute; 2. garantire la tutela di tali risor­
se; 3. vegliare efficacemente sull’integrità
sessuale delle donne della famiglia4. Di que­
sta concezione dell’onore va sottolineata la
prescrizione consistente nel dovere sociale di
vivere senza tentare di uscire dalla propria
condizione sociale. In una società del gene­
re, il patrimonio è dato, trasmesso per via
ereditaria, non acquisito tramite processi di
mobilità sociale. In questa accezione l’onore
può essere definito come codice di compor­
tamento che rispecchia la distribuzione isti­
tuzionalizzata degli status ascritti. Persone
onorate si è perché si nasce in famiglie ono­
rate. In tal modo l’onore ha una connota­
zione puramente statica, di rispecchiamento
degli status ascritti.
Ma nella cultura siciliana e meridionale in
genere, oltre che essere persone onorate si può
essere “uomini d’onore” . A differenza che
per le persone onorate, uomini d’onore non
si nasce: si diventa. In questo secondo signi­
ficato l’onore è una particolare abilità consi­
stente nella forza, nell’astuzia, o in qualche
altra dote individuale che suscita ammirazio-
2 Per una rassegna della tematica dell’onore nelle società mediterranee cfr. John Davis, Antropologia delle società
mediterranee: un’analisi comparata, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980, pp. 101-114.
3 Alla duplicità del concetto di onore accenna J. Davis, Antropologia, cit., da cui riprendo l’interpretazione mate­
rialistica dell’onore come idioma sociale connesso all’allocazione delle risorse. Appare unilaterale invece l’imposta­
zione di Pino Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 5
sgg., che accentua l’aspetto della competizione per l’onore, trascurandone l’altra faccia qui messa in rilievo.
4 Da varie ricerche antropologiche risulta che nella cultura popolare questi tre elementi sono connessi. Per esempio
se una donna è spendacciona o va vestita con abiti o colori non adeguati al suo rango, non ci si stupisce che sia anche
adultera. Se un uomo non è in grado di garantire l’integrità sessuale delle donne della sua famiglia, è anche probabile
che sia un fannullone o un buono a nulla. Vedi J. Davis, Antropologia, cit., p. 104. Nella cultura siciliana alle donne
si applica soltanto questa concezione dell’onore. Come si desume dal linguaggio comune, in cui si parla di donna
“onorata” oppure “onesta”, la donna può essere soggetto meramente passivo di attribuzione dell’onore. Per la don­
na l’onore è una qualità che si consegue con la nascita e che si può soltanto perdere con comportamenti non adeguati
alle prescrizioni sociali. È probabile che ciò discenda dall’equiparazione tra donne e proprietà in termini di onoreperdita dell’onore. Questa integrità dell’onore, come la definisce J. Davis, Antropologia, cit., p. I l i , vale a dire il
suo investire tutti gli aspetti della personalità, sta probabilmente alla base di quella opposizione/complementarità
tra virilità e verginità-pudicizia sulla quale pone l’accento P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., p. 24.
La mafia come fenomeno di ibridazione sociale
ne e rispetto e consente di farsi largo nella vi­
ta. In questo caso l’onore viene concepito co­
me una capacità individuale straordinaria
che viene rafforzata dall’accumulazione, co­
ronata da successo, di un capitale di violen
za5. Quanto più si è in grado di esercitare ef­
ficacemente la violenza, tanto più si sale in
alto nella scala dell’onore. La lotta per l’o­
nore è quindi una competizione per l’ascesa
sociale in una società che non ha ancora co­
nosciuto il mercato capitalistico. Si lotta per
acquisire onore, quindi per alterare la preesi­
stente distribuzione istituzionalizzata dell’o­
nore. A questo secondo aspetto corrisponde
una concezione dinamica dell’onore: l’onore
è uno status che si può acquisire.
L’onore è quindi da un lato status ascritto,
derivante dalla condizione familiare, e in
quanto tale aspetto tipico delle condizioni di
disuguaglianza connesse alla gerarchia della
stratificazione sociale. Ma dall’altro è anche
capacità individuale straordinaria, cioè sta­
tus acquisito tramite un comportamento
onorifico nella lotta per l’onore e la sua di­
stribuzione. In questo secondo aspetto l’ono­
re è connesso a condizioni di uguaglianza.
Va infatti sottolineato che la competizione
per l’onore non è aperta a tutti (come lo è la
competizione economica sul mercato), ma si
svolge tra soggetti che si muovono su piani di
uguaglianza o che avanzano pretese e riven­
dicazioni di uguaglianza6. Nella Sicilia tradi­
zionale se un barone seduceva la moglie o la
figlia di un contadino, o si appropriava dei
suoi beni, di solito non si dava luogo a con­
flitti in termini di onore. Colui che era social­
mente inferiore accettava questi eventi come
facenti parte del suo destino terreno. Quan­
9
do invece le offese provenivano da soggetti
di pari grado, ecco che scoppiavano i conflit­
ti per l’onore. Tali conflitti sono particolar­
mente violenti per due motivi. In primo luo­
go perché la distribuzione sociale dell’onore
è data; i conflitti sono a somma zero, chi ac­
quista onore lo fa a spese di altri che nella
stessa misura lo perdono.
Ma vi è un secondo e più rilevante motivo
per cui la lotta per l’onore ha un’importanza
cruciale. In una società in cui le risorse sono
scarse, la gente compete per l’onore perché,
risultando vittoriosa, conquista una risorsa
simbolica che consente un più elevato grado
d’accesso alle risorse materiali. L’onore in­
fatti è un sistema di stratificazione che “de­
scrive la distribuzione della ricchezza attra­
verso un idioma sociale, e prescrive il com­
portamento appropriato agli individui a se­
conda della loro collocazione nella gerarchia
sociale. Esso comporta l’accettazione di una
posizione dominante e di una posizione su­
bordinata” . [In tal modo] “la stratificazione
per onore spinge gli individui di pari grado a
scontrarsi, e sancisce la dipendenza in solido
di coloro che hanno meno onore da coloro
che ne hanno di più”7.
Il dualismo nella struttura economica e so­
ciale. La duplicità del concetto di onore rin­
via alla compresenza di due differenti princi­
pi che presiedono alle reti di rapporti sociali.
Da un lato abbiamo la distribuzione social­
mente cristallizzata delle posizioni sociali,
l’opposizione tra chi ha e chi non ha, tra ba­
roni latifondisti e contadini, tra chi detiene
l’onore e non può perderlo perché qualsiasi
suo comportamento è lecito, e chi è senza di-
5 Per esempio uomo d’onore è chi, pur essendo di umili origini, è riuscito a diventare, con l’esercizio della sopraffa­
zione, ricco e rispettato. Oppure chi, avendo ucciso un certo numero di persone, riesce ad essere assolto per insuffi­
cienza di prove. Ciò significa che può contare sull’omertà, vale a dire sulla capacità di ottenere, tramite l’ammirazio­
ne che suscitano le sue gesta o la paura di ritorsioni, il silenzio degli altri.
6 Cfr. J. Davis, Antropologia, cit., p. 105; Jane Schneider, Peter Schneider, Culture and Politica! Economy in We­
stern Sicily, New York, Academic Press, 1976, pp. 100-101.
7 J. Davis, Antropologia, cit., p. 110.
10
Raimondo Catanzaro
fesa di fronte agli attacchi al proprio onore
perché, in quanto socialmente inferiore, deve
accettare come parte del proprio destino ter­
reno tutti i soprusi che vengono perpetrati a
suoi danni da chi è collocato nei gradini su­
periori della scala sociale8. In una società del
genere non esiste possibilità di progetti di
ascesa sociale, di cambiamenti di status; la
mobilità sociale non è ammessa. In essa il
possesso della terra è il criterio fondamentale
di stratificazione; chi lo detiene è titolare al
contempo di potere, ricchezza, onore. Se la
terra non è commerciabile, e quando è fonte
di potere politico non lo è, le posizioni sociali
sono sostanzialmente stabili; e così pure
l’imputazione dell’onore ai soggetti.
Accanto e insieme a questo, la concezione
dell’onore come competizione tra uguali po­
ne in luce 1’esistenza di un secondo criterio
regolatore dei rapporti sociali. Questo crite­
rio trova le sue radici nel funzionamento di
una società in cui una serie di posizioni socia­
li possono essere raggiunte con una carriera,
attraverso forme di mobilità sociale. Tra no­
bili latifondisti e contadini esistono una serie
di professioni e mestieri aperte alla competi­
zione, che configurano aree sociali caratte­
rizzate dalla mobilità9.
Questi due criteri regolatori dei rapporti
sociali — l’uno che non consente la competi­
zione, l’altro che la prescrive —, non solo
coesistono, ma si intrecciano e si combinano
nel concreto funzionamento della società, e
addirittura hanno avuto origine da uno stes­
so processo storico che risale alla dominazio­
ne spagnola, e in particolare al periodo che
va dal XV al XVII secolo. In questo periodo
si verificano da un lato il rafforzamento del­
la struttura latifondista della proprietà ter­
riera, dall’altro un assenteismo dei baroni.
Secondo una tesi avanzata di recente10, tali
fenomeni, particolarmente accentuati nella
Sicilia occidentale, diedero luogo al sorgere
di un’imprenditorialità rurale molto attiva.
Gli imprenditori colsero le opportunità di ar­
ricchimento derivanti dal fatto che dapprima
la Spagna, e successivamente anche le econo­
mie centro-nord europee, domandavano in
misura crescente una derrata agricola, il gra­
no duro, nella cui produzione il latifondo
della Sicilia occidentale si andava progressi­
vamente specializzando. In precedenza, tra il
XII e il XV secolo, si era andata configuran­
do una struttura degli insediamenti umani
basata sulle agrotown. In questo periodo
erano scomparsi i villaggi rurali (casali), in
connessione con l’espansione della pastorizia
promossa dai baroni catalani quando la Sici­
lia fu sottomessa al dominio aragonese. La
pastorizia con il suo carattere nomade, alter­
nandosi con la coltivazione dei cereali, diede
luogo alla scomparsa dei piccoli insediamenti
di popolazione agricola nelle campagne. In­
sieme a questa scomparsa si registrò quella
dei mercati intercittadini, e di parte delle
strutture di comunicazione viaria e dei centri
di produzione artigiana. Ne risultò una strut­
tura degli insediamenti, in particolare nel-
8 Come sottolinea Eric J. Hobsbawm, “laddove esiste una struttura di potere consolidata, l’onore tende a divenire
appannaggio dei potenti” . Cfr. Iribelli, Torino Einaudi, 1966, p. 56.
9 Non a caso è stato riscontrato come i mafiosi si trovano tra queste “...occupazioni mutevoli e flessibili che alla
possibilità di una rapida ascesa uniscono un grande margine di rischio [...] Attività di imprenditori e intermediari, at­
tività attestate fra il contadino e il ricco proprietario terriero [...]: curatoli, guardiani dei giardini e dell’acqua nella
zona dei latifondi, commercianti di cereali e di bestiame, mediatori di ogni genere, macellai che fungono da ricettato­
ri negli abigeati. Mafiosi sono spesso anche i carrettieri [...] Tra i professionisti essi sono avvocati, farmacisti, medi­
ci” . Vedi H. Hess, Mafia, cit., p. 82. Sebbene Hess non lo citi, questa indicazione sulla caratterizzazione in termini
professionali dei mafiosi si trova in Gaetano Mosca, Che cosa è la mafia, in Idem, Partiti e sindacati nella crisi del re­
gimeparlamentare, Bari, Laterza, 1949, pp. 229-230.
10 Nell’analisi che segue mi sono servito delle indicazioni contenute nello studio di J. Schneider, P. Schneider, Cul­
ture, cit., pp. 41-109.
La mafia come fenomeno di ibridazione sociale
l’area del latifondo, meno differenziata e
complessa. Il concentrarsi della proprietà
terriera nelle mani dei baroni determinò una
crescita di rilevanza del possesso della terra
come criterio di stratificazione sociale, e ac­
centuò la contrapposizione tra baroni e con­
tadini. D’altra parte l’assenteismo dei baro­
ni, la crescente cessione in affitto delle terre,
la produzione cerealicola determinarono la
scomparsa di una struttura nella quale villag­
gi, centri rurali e città erano integrati attra­
verso gerarchie economiche e commerciali.
Nell’area del latifondo della Sicilia occiden­
tale ciascuna agrotown divenne differenziata
internamente, ma tutte si somigliavano: non
c’era divisione del lavoro, né alcun ordine
gerarchico tra loro. Ciascun insediamento
era collegato al mondo esterno prevalente­
mente a mezzo dell’esportazione di grano,
quindi mancavano i collegamenti tra le agro­
town e ciascuna di esse aveva connessioni
soltanto con la capitale regionale o con le lo­
calità costiere dove si concentravano i ma­
gazzini per la raccolta del grano da avviare
all’esportazione.
Questa tesi sembra trovare conferma in
una serie di studi sulla Sicilia dei feudi nel pe­
riodo che va dal XIV al XVII secolo, una fa­
se storica caratterizzata dall’affermarsi della
Sicilia come granaio del Mediterraneo e dalla
trasformazione del ceto feudale in gruppo di
imprenditori di masseria e di mandria. In
particolare nel periodo che va dal 1460 al
1630 la Sicilia assolse pienamente il suo ruolo
11
di granaio del Mediterraneo, e anche se a
partire dal 1520, a seguito dell’aumento del
consumo interno siciliano, il livello delle
esportazioni rimase costante, si affermò
chiaramente la tendenza ad una evidente
commercializzazione della produzione cerea­
licola e all’unificazione del mercato siciliano.
Insieme a queste tendenze, e inestricabilmen­
te connesso con la commercializzazione della
produzione cerealicola si affermava quel mo­
do di organizzazione della produzione che
frazionando i terreni in piccole quote date in
subaffitto ai contadini, rendeva questi ultimi
perennemente dipendenti dai prestiti e dal­
l’usura dei proprietari e dei gabellotti, con­
sentendo a questi ultimi di controllare una
quota molto elevata del prodotto e determi­
nando una condizione di accentuato sfrutta­
mento del contadino da parte del proprieta­
rio e del grande affittuario11.
La conseguenza di questi processi consi­
stette essenzialmente in un incremento della
commercializzazione dei prodotti della terra
che determinò un processo di complicazione
della struttura sociale. Da un lato l’espansio­
ne del latifondo accentuava la polarizzazione
della struttura di classe tra baroni latifondisti
e contadini, evidenziando in tal modo quella
concezione statica della società e dell’onore
come riflesso della condizione patrimoniale
(e quindi essenzialmente del possesso della
terra), di cui s’è fatto cenno prima. Infatti
non solo in questa condizione di grande disu­
guaglianza sociale l’onore era esclusivo ap-
11 L’idea della Sicilia come granaio del Mediterraneo, enunciata da Fernand Braudel in Civiltà e imperi dei Mediter­
raneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1976, pp. 624, 649-653, è stata ripresa e documentata soprattutto negli
studi di Maurice Aymard, di cui vedi in particolare Amministrazione feudale e trasformazioni strutturali tra ’500 e
’700, “Archivio storico per la Sicilia orientale”, 1975, fase. I, pp. 17-42; Il commercio dei grani nella Sicilia del '500,
“Archivio storico per la Sicilia orientale” , fase. l-III, pp. 7-40. Sulla caratterizzazione del feudo vedi Henri Bresc, Il
feudo nella società siciliana medievale, in Saverio Di Bella (a cura di), Economia e Storia (Sicilia-Calabria X V -X IX
secolo), Cosenza, Pellegrini, 1976. Sugli insediamenti vedi M. Aymard, H. Bresc, Problemi di storia dell’insedia­
mento nella Sicilia medievale e moderna, “Quaderni storici” , settembre-dicembre 1973, n. 24, pp. 945-976; C.
Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati ed emigrazioni interne, in Storia d ’Italia, I documenti, Torino, Einaudi, 1973,
voi. 5, t. II, pp. 309-364. Per una recente analisi del rapporto tra struttura degli insediamenti e modello feudale di
produzione cerealicola nel latifondo vedi Marcello Verga, La “Sicilia dei fe u d i” o “Sicilia dei grani” dalle “Wiistungen” alla colonizzazione interna, “Società e storia”, 1978, n. 3, pp. 563-579.
12
Raimondo Catanzaro
pannaggio dei potenti; ma vanno altresì presi
in considerazione gli effetti che derivano dal­
la collocazione di classe dei contadini. La
collocazione di classe dei contadini infatti
non è mai univoca, e tanto meno lo era in Si­
cilia, dove non si riscontravano forme “pu­
re” di contadini. Spesso i contadini erano al
contempo proprietari di piccoli appezzamen­
ti, affittuari, mezzadri, braccianti o lavora­
tori giornalieri. Ciò implicava una grande
difficoltà per i contadini di schierarsi in mo­
do netto nel conflitto di classe, in quanto a
ciascuno dei molteplici e compresenti aspetti
della loro condizione lavorativa corrisponde­
vano interessi differenti. L’assenza di precisi
schieramenti di classe determinava come
conseguenza un’assenza o una scarsissima ri­
levanza dei conflitti di classe, e quindi la
mancata messa in discussione delle posizioni
di potere istituzionalizzate nella gerarchia so­
ciale. Di conseguenza questa situazione ten­
deva a rafforzare l’immagine statica della so­
cietà e dell’onore.
Ma dall’altra parte l’assenteismo dei baro­
ni, con la conseguente concessione delle terre
in affitto a grandi affittuari (sistema delle ga­
belle), e le esigenze di commercializzazione
della produzione derivanti dal fatto che le
proprietà erano molto estese, e che i prodotti
dovevano fluire verso i mercati delle agro­
town e soprattutto verso i mercati cittadini e
della capitale regionale, che assorbivano
gran parte del consumo — mentre i luoghi di
produzione si trovavano concentrati nell’in­
terno dell’isola — tutti questi fattori deter­
minarono il sorgere di un rilevante gruppo di
imprenditori rurali. Tali imprenditori adem­
pivano ad una svariata gamma di funzioni
produttive, commerciali e di intermediazione
economica, e si posero come classe interme­
dia tra i baroni e i contadini. In tal modo lo
stesso processo di trasformazione sociale che
accentuò il versante statico della società re­
gionale siciliana, fondato sulla contrapposi­
zione tra proprietari terrieri e contadini, e
che generò l’immagine statica dell’onore, al
contempo determinò la formazione di un ce­
to intermedio tra baroni e contadini che,
svolgendo attività economiche e commercia­
li, assunse la competitività come criterio di
orientamento della propria azione. Cosicché
la compresenza di due differenti e contrap­
poste immagini dell’onore è da ricondursi al­
la coesistenza nel latifondo della Sicilia occi­
dentale di due differenti modalità dell’azione
sociale, ed alla loro ibridazione in una for­
mazione sociale12. La prima modalità di
azione tendeva a rafforzare alcuni criteri
propri della concezione feudale della società,
l’altra veniva fortemente influenzata dai va-
12 È a questo tipo di dualismo apparentemente contraddittorio che intende probabilmente riferirsi Arlacchi quando
sostiene che la mafia sorge in quel particolare tipo di formazione sociale che egli definisce come “società di transizio­
ne permanente” (cfr. Mafia, contadini e latifondo, cit., pp. 81-139). La società di transizione permanente è una so­
cietà commerciale che “si avvita su se stessa” , definizione quest’ultima che sembra essere la base logica della prima
senza peraltro spiegarla molto. Tale affermazione serve ad Arlacchi per controbattere la tesi secondo cui la mafia sa­
rebbe nata nel latifondo. Il problema è che in Sicilia la mafia nasce sia in zone di latifondo che in ambiente urbano, e
cioè a Palermo. Sebbene poi egli affermi di aver dimostrato che la mafia può nascere soltanto in società di transizio­
ne permanente (cfr. La mafia imprenditrice, cit., pp. 10-11), non si riscontra in quest’ultimo volume, nonostante le
affermazioni in contrario (loc. cit. , p. 11), un’analisi della Sicilia occidentale come società di transizione permanente
(a parte i dubbi sulla validità analitica di simile definizione). In realtà in quest’impostazione si riflettono le pecche di
una schematica applicazione della teoria weberiana degli idealtipi all’analisi della mafia. Secondo Arlacchi, l’unico
tipo di latifondo esistente nella realtà è quello corrispondente alla descrizione idealtipica del latifondo. Egli lo rin­
traccia nel crotonese, dove non c’è mafia. Da qui la facile equazione secondo cui la mafia non sorge nel latifondo.
Ma l’idea che possano esistere altre configurazioni del latifondo, differenti da quella idealtipica, come ad esempio si
riscontrano nella Sicilia occidentale nel corso del XIX secolo, e dove la mafia ha avuto il suo crogiolo, è assolutamente trascurata in questo tipo di approccio.
La mafia come fenomeno di ibridazione sociale
lori competitivo-commerciali che erano pro­
pri della nascente classe di imprenditori rura­
li. Tale coesistenza fece sì che la competizio­
ne per l’onore si sviluppasse nelle forme della
violenza.
La violenza come strumento di regolazione
dell’economia. L’onore è un codice cul­
turale che è servito per consentire alla fami­
glia di difendere l’integrità del patrimonio
(incluse le donne per le loro funzioni pro­
duttive e riproduttive) contro gli attacchi
esterni. L’onore sorge quindi come un’ideo­
logia di difesa della famiglia e dei gruppi di
parentela.
Si può avanzare l’ipotesi secondo cui le
origini del codice dell’onore possono essere
ricondotte ai differenti modi in cui vengono
controllate le periferie nel sistema dell’eco­
nomia capitalistica e nel sistema degli
imperi13. A differenza delle prime, che con­
trollano la società attraverso meccanismi di
mercato, nel sistema degli imperi il controllo
sulle periferie avviene essenzialmente attra­
verso strumenti amministrativi tendenti a im­
pedire o ritardare l’accumulazione privata
del capitale. In Sicilia l’unità e la forza della
famiglia erano minacciate, sotto il profilo
patrimoniale, da vari elementi. Alle norme
giuridiche che stabilivano la divisione del pa­
trimonio fra gli eredi alla morte del capofa­
miglia, e la dote per le figlie che si sposava­
no, si aggiungevano i principi della Chiesa
cattolica che, con il divieto di matrimonio tra
cugini, impedivano il consolidamento della
proprietà, e che inoltre subordinavano la co­
munità di sangue alla comunità di fede. In
questo senso sia la Chiesa che il potere politi­
co esercitavano delle potenti pressioni ten­
denti a limitare il potere dei gruppi di paren­
13
tela nella società. Il codice dell’onore nasce
quindi come risposta agli attacchi della Chie­
sa cattolica e del potere politico contro l’inte­
grità della famiglia e del suo patrimonio. Ta­
le ideologia di difesa assume forme violente
per l’incapacità dell’amministrazione spa­
gnola di garantire l’ordine pubblico, e per le
caratteristiche dell’economia isolana e della
sua produzione.
L’amministrazione spagnola della Sicilia
in genere fu improntata al principio di effet­
tuare pochi cambiamenti per non intaccare i
privilegi dei baroni. A questi ultimi, poco
soggetti all’imposizione fiscale, era lasciata
mano libera nell’esercizio del potere nei pro­
pri feudi; e si pensi che ancora nel XVII seco­
lo i quattro quinti delle città e dei villaggi si­
ciliani erano sotto il diretto controllo dei
baroni14. D’altra parte la struttura degli inse­
diamenti era tale per cui le agrotown erano
isolate e circondate da una campagna in cui
era pericoloso muoversi per i possibili attac­
chi di banditi e rapinatori. Ma uomini e mer­
ci dovevano viaggiare. In assenza di un’effi­
cace tutela dell’ordine pubblico da parte del­
l’amministrazione spagnola, i baroni assen­
teisti, impegnati a Palermo nell’acquisto di
titoli e privilegi per assurgere a posizioni so­
ciali più elevate nei ranghi della nobiltà15, la­
sciarono mano libera agli imprenditori rura­
li. Costoro misero in atto un sistema di dife­
sa dei beni e del patrimonio fondato sul­
l’esercizio della violenza e della sua minaccia
in nome e per conto dei baroni. Non a caso
l’organizzazione di bande armate di campieri
e di guardiani dei feudi costituirà in seguito
una delle strutture operative di funziona­
mento della violenza mafiosa nel latifondo.
E non a caso i mafiosi provengono in massi­
ma parte da attività intermedie tra quelle dei
13 Quest’analisi è stata condotta da J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., pp. 94 sgg., che traggono spunto dal
modello di I. Wallerstein sul modello centro-periferia e sulle differenze tra l’economia capitalistica e gli imperi.
14 Vedi Ernesto Pontieri, Il tramonto del baronaggio siciliano, Firenze, Sansoni, 1943,pp. lOsgg.
15 Denis Mack Smith, Storia della Sicilia, Bari, Laterza, 1970, pp. 191-201.
14
Raimondo Catanzaro
contadini e dei proprietari terrieri, attività
connesse spesso alle funzioni di guardiani dei
fondi, di controllo del lavoro contadino e in
generale di gestione dell’impresa agricola.
Proprio questi soggetti infatti venivano a
trovarsi in una condizione di discrasia tra
mete culturalmente consentite e mezzi dispo­
nibili. Mentre le norme culturali vigenti non
consentivano loro di realizzare progetti di
ascesa sociale (per quella concezione statica
secondo cui la ricchezza era data) i rapporti
sociali determinavano una concentrazione
nelle loro mani dei mezzi utili per conseguire
quelle mete proibite. Non esistendo quindi
canali istituzionalizzati di mobilità sociale,
l’unico modo possibile per risolvere questa
incongruenza fu quello di fare ricorso alla
violenza.
In tal modo la violenza divenne parte della
cultura regionale. Il suo uso, o la minaccia di
essa, divennero uno degli strumenti fondamentali di regolazione delle attività economi­
che. Il contadino sapeva di dover sottostare
alla legge del campiere se non voleva che per
vendetta gli venisse dato in affitto, l’anno
successivo, un appezzamento di terreno peg­
giore o di redditività inferiore. Il campiere
sapeva che doveva guardarsi da possibili at­
tentati alla sua persona, perché l’eliminazio­
ne fisica del titolare di un posto era l’unico
sistema per renderlo vacante e poterlo rico­
prire da parte di chi si era dimostrato più abi­
le nell’uso della violenza. In una società in
cui la protezione violenta del patrimonio era
imposta dalle circostanze, dimostrare di sa­
per esercitare efficacemente la violenza era
un titolo d’onore. Era il modo migliore per
misurarsi e trionfare nella competizione.
Ciò spiega anche il sorgere del codice del­
l’omertà, vale a dire l’obbligo di tacere, di
non testimoniare, di non denunciare all’au­
torità pubblica i colpevoli di un reato,
foss’anche un omicidio. L’omertà infatti,
prima ancora che nella paura di soggiacere
alla vendetta dell’accusato o dei suoi parenti
e amici, trova le sue radici originarie nel con­
vincimento che le questioni d’onore si risol­
vono ricorrendo alla violenza privata. La vit­
tima di un’offesa deve essere in grado di farsi
giustizia da sé; se non è in grado di farlo, le
regole dell’onore gli impongono di accettare
la legge del più forte. In quanto ai terzi non
debbono intromettersi; non possono togliere
a chi è stato offeso il diritto di dimostrarsi
uomo d’onore, che sa farsi rispettare vendi­
cando l’offesa. Intromettersi in questioni del
genere significherebbe turbare un delicato
equilibrio di potere in base al quale è tra of­
feso e offensore che questioni del genere van­
no risolte16.
Nel corso di questo processo storico i con­
flitti per l’onore assumevano progressiva­
mente la forma di una competizione econo­
mica e sociale il cui principale strumento di
regolazione era costituito dalla violenza.
L ’amicizia strumentale. La società siciliana
tuttavia non poteva, com’è ovvio, reggersi
unicamente sui principi competitivi dell’ono­
re e della violenza. Come in ogni altra società
erano necessarie anche delle strutture solida­
ristiche che aggregassero gli individui in
gruppi. Vero è che l’onore, in quanto ideolo­
gia di difesa della famiglia, rinviava all’esi­
stenza di ambiti parentali di solidarietà. Ma
spesso questi legami solidaristici caratteriz
zavano un nucleo familiare abbastanza ri­
stretto, dandosi violenti conflitti d’onore tra
gruppi di parenti. Inoltre la Sicilia sotto la
dominazione spagnola era una società abba­
stanza complessa per potersi fondare soltan­
to su legami solidaristici di tipo familiare. Si
trattava di una società che intratteneva rap­
porti economici e commerciali con le econo-
16 Sul significato del codice dell’omertà vedi G. Mosca, Che cosa è la mafia, cit., 217-218; H. Hess, Mafia, cit., pp,
146-147; A. Blok, The mafia, cit., pp. 211-21.
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
mie europee, che aveva una propria ammini­
strazione unificata, sia pure nell’ambito
dell’impero spagnolo, e quindi un’autonoma
dinamica politica. In particolare l’economia
centrata sulla produzione del latifondo,
orientata ai commerci di lunga distanza e al­
l’esportazione del grano, richiedeva la neces­
sità di creare relazioni improntate alla fidu­
cia che fornissero la garanzia di un regolare
svolgimento dei traffici. La struttura di rela­
zione che sorse a tal fine fu costituita dall’a­
micizia strumentale.
Dalle due fondamentali componenti del­
l’amicizia, quella affettiva e quella di accesso
alle risorse, l’amicizia strumentale presenta
in misura accentuata quest’ultima (mentre la
prima è presente in misura accentuata
nell’idealtipo dell’amicizia emotiva). Le dif­
ferenze tra amicizia emotiva e amicizia stru­
mentale possono essere sintetizzate sotto tre
profili. Sotto il profilo della natura del prin­
cipio costitutivo l’amicizia strumentale è
fondata sulla reciprocità nello scambio di ri­
sorse proprie o procurate (mentre l’amicizia
emotiva è fondata sulla realizzazione affetti­
va, cioè sul piacere fine a se stesso di stare in­
sieme). Sotto il profilo delle condizioni di
durata l’amicizia strumentale si fonda sulla
continuità nelle prestazioni di scambio di ri­
sorse (mentre l’amicizia emotiva si fonda sul­
la persistenza della qualità affettiva del rap­
porto). Infine sotto il profilo della estensione
intersoggettiva del legame l’amicizia stru­
mentale ha natura prevalentemente aperta,
nel senso che ciascuno degli amici agisce co­
me un legame potenziale con altri (mentre
l’amicizia emotiva ha natura prevalentemen
te diadica)17.
15
L’amicizia strumentale è dunque una sorta
di carta di credito, che si esplicita in espres­
sioni del tipo “di’ che ti mando io” , “vai a
nome mio” . Essa crea dei legami tra gli ami­
ci, legami che si strutturano secondo reticoli
tipici che nel linguaggio popolare vengono
definiti con l’espressione “amici degli
amici”18. Tali reticoli sorgono in una società
in cui non era ancora penetrato il principio
dell’agire capitalistico di mercato, ma che
non era avulsa da rapporti con le sedi dove si
stava formando il sistema mondiale dell’eco­
nomia capitalistica europea. In altri termini
sono propri della periferia del sistema capita­
listico europeo in formazione.
In Sicilia la carenza di collegamenti tra le
agrotown, la mancanza tra loro di gerarchie
commerciali e di mercato, l’esigenza di far
arrivare a destinazione le merci determinaro­
no la necessità di creare reti di relazioni che
trascendessero quelle di ambito meramente
locale definite dai rapporti di parentela e
quasi-parentela. In assenza di una rete di re­
lazioni impersonali tipiche del mercato capi­
talistico, la prima base per la fiducia fu costi­
tuita dall’amicizia strumentale e dal suo
principale strumento operativo: la coalizione
temporanea di amici. Entrambe servivano a
definire le reti di scambio delle risorse
economiche19.
L’amicizia strumentale serve essenzial­
mente a creare dei non-corporate groups,
cioè reti di relazioni non formalizzate che
competono l’un l’altra sul mercato delle ri­
sorse e che sono fondate sulla fiducia
nell’adempimento degli obblighi di presta­
zione in base al principio della reciprocità
bilanciata20. Questi gruppi informali non so-
17 La distinzione tra amicizia strumentale ed emotiva è stata elaborata da Eric Wolf, Kinship, Friendship, and
Patron-Clients Relations in Complex Societies, in Michael Banton (Ed.), The Social Anthropology o f Complex So­
cieties, London, Tavistock, 1966, pp. 10-13.
18 Vedi Jeremy Boissevain, Friends o f Friends. Networks, Manipulators and Coalitions, Oxford, Basil Blackwell,
1973; A. Blok, The Mafia, cit., p. 146.
19 Sulle funzioni dell’amicizia strumentale in Sicilia vedi J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., pp. 102-109.
20 Sul concetto di reciprocità bilanciata vedi Marshall D. Sahlins, La sociologia dello scambio primitivo, in Edoardo
Grendi (a cura ài), L ’antropologia economica, Torino, Einaudi, 1972, pp. 99-146.
16
R aim on d o C atanzaro
no caratterizzati da una rete stabile di rela­
zioni e obblighi impersonali tipici dei moder­
ni gruppi associativi.
Le reti di amicizia strumentale basate sui
rapporti informali di fiducia hanno giocato
un ruolo essenziale nella storia della Sicilia
prima dell’unità d’Italia. Tramite loro si rea­
lizzavano infatti le principali transazioni eco­
nomiche e commerciali. Lo strumento per il
realizzarsi di tali commerci e transazioni eco­
nomiche era costituito dalle coalizioni ad
hoc, vale a dire da alleanze temporanee e
orientate a scopi specifici. Tali alleanze era­
no destinate a sciogliersi non appena gli sco­
pi fossero stati raggiunti. Ciò dava luogo ad
una sostanziale instabilità delle coalizioni e
ad un loro continuo ridefinirsi e rimescolar­
si21. Infatti la fiducia informale sulla quale si
basavano aveva bisogno di essere continuamente riconfermata dai fatti. Se non lo era,
la coalizione si scioglieva prima ancora di
aver raggiunto il suo scopo.
Il sorgere del codice dell’amicizia strumen­
tale va dunque interpretato come una rispo­
sta organizzativa data dagli imprenditori
agricoli alle possibilità di mobilità sociale che
si aprirono loro sotto la dominazione spa­
gnola22. La necessità di rispondere in questi
termini venne senz’altro accentuata dalle ca
ratteristiche dell’amministrazione siciliana
sotto la dominazione spagnola. Il sistema di
distribuzione degli uffici era di tipo preben­
dale, l’amministrazione della giustizia era
improntata a principi di venalità23 e il com­
portamento della burocrazia non corrispon­
deva certo a quello previsto dall’idealtipo
weberiano. Per ottenere autorizzazioni, li­
cenze, concessioni, lasciapassare ammini
strati vi, era indispensabile avere giuste “en­
trature” presso gli uffici, poter contare sui
favori di persone cui reciprocare le prestazio­
ni in futuro, essere in grado di “lubrificare” ,
attraverso la propria rete di conoscenze, i
lenti meccanismi burocratici. L’amicizia
strumentale serviva anche a questo. In una
situazione di assenza del mercato capitalistico e dello Stato moderno essa si sostituì a
quest’ultimo come struttura parallela e inter
penetrantesi con l’amministrazione24.
In Sicilia si sviluppano dunque, prima del­
la sua unificacazione nello Stato nazionale
italiano, forme di relazioni sociali che, se da
un lato non possono essere ricondotte alla
presenza di quelle che nei paesi europei die­
dero luogo alla formazione del sistema capi­
talistico, dall’altro non possono neanche es­
sere interpretate in termini di persistenza di
una tradizione feudale, o della creazione di
situazioni di isolamento dalle sedi centrali
dello sviluppo capitalistico. Il dualismo della
struttura economica e sociale, di cui abbia­
mo parlato in precedenza, determina condi­
zioni tali da addestrare individui e gruppi sia
alla competitività, che ad un particolare rap­
porto con il potere politico. La competitività
si realizza su quel mercato particolare che è
l’arena dell’onore. Occorre sottolineare che
si tratta di un’arena in cui, a differenza del
mercato, dove le probabilità di guadagno so­
no formalmente pacifiche e i soggetti si for­
niscono l’un l’altro la garanzia reciproca di
astenersi dal ricorso all’impiego di mezzi pre-
21 Sull’instabilità delle coalizioni ad hoc vedi Peter Schneider, Coalition Formation and Colonialism in Western Si­
cily, “European Journal of Sociology”, 1972, n. 13, pp. 256-267.
22 Cfr. J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., p. 109.
23 Per un quadro di sintesi dell’amministrazione in Sicilia sotto il dominio spagnolo vedi D. Mack Smith, Storia del­
la Sicilia, cit., pp. 145-152.
24 È stato sottolineato come in un certo senso l’amicizia strumentale stava alle coalizioni temporanee come lo Stato
stava alle associazioni imprenditoriali nel nascente capitalismo: “dava credibilità ai contratti e forniva un minimo di
prevedibilità agli affari”. J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., p. 109.
L a m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
datori e violenti, il mezzo fondamentale di
acquisizione delle risorse è rappresentato dal­
l’uso della violenza25. Ciò determina una tem­
poraneità degli impegni, in quanto la manca­
ta eliminazione della violenza dal mercato
non consente una fiducia di ampia portata e
quindi investimenti a lunga scadenza. Per
questo motivo le coalizioni temporanee ad
hoc basate sulle reti di amicizia strumentale
costituiscono lo strumento ideale di natura
associativa. Esse non soltanto consentono di
instaurare un minimo di prevedibilità, nella
misura in cui permettono di orientare le strut­
ture pubbliche ai fini privati, ma presentano
un’altra importante caratteristica. Infatti la
loro flessibilità consente di orientare rapida­
mente le alleanze in relazione ai mutamenti
improvvisi e imprevedibili che si determinano
in un mercato in cui la principale forza di re­
golazione è data dall’esercizio della violenza.
Questo sistema economico-politico è stato
definito come broker capitalism26; una for­
mazione sociale differente sia dal feudalesi­
mo che dal capitalismo, e nella quale un ruolo
cruciale assumono le funzioni di mediazione.
La genesi
Crisi del latifondo e tensioni sociali. La mafia
non è un residuo del passato, ma un mo­
17
derno prodotto del rapporto tra il processo
di formazione dello Stato nazionale italiano
e le caratteristiche della Sicilia come perife­
ria. Abbiamo in questo caso un sottile para­
dosso. Sebbene la mafia possa essere consi­
derata come “l’antitesi di un governo
forte... tuttavia non potrebbe esistere senza
la concentrazione del potere nello Stato na­
zionale”27. In quanto uso privato della vio­
lenza esercitata come strumento di controllo
sociale, la mafia è infatti un mezzo di acco
modamento delle tensioni, una forma di me­
diazione tra le esigenze formali della società
politica nazionale e le domande della perife­
ria. Chi esercita tale funzione può essere de­
finito come un power broker, e tali sono in­
fatti, al momento della loro formazione e
per un lungo periodo di tempo, i mafiosi. La
loro funzione consiste nel controllare i cana­
li che collegano i contadini ai proprietari ter
rieri, e la popolazione locale alla società
nazionale28. Dunque la mafia non sarebbe
venuta in essere se non ci fossero state da un
lato la delega di poteri da parte dello Stato ai
signori della terra, e dall’altro la protezione
di questi ultimi nei confronti dei mafiosi29.
L’impatto dello Stato nazionale altera
profondamente le condizioni della Sicilia che
dal 1860 diventa una periferia dello Stato
italiano, un cambiamento non di scarsa
25 La caratterizzazione del mercato come luogo alieno per definizione dalla violenza si deve, com’è noto, a Max We­
ber, Osservazione preliminare a L ’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sansoni, 1965, p. 67.
26 La definizione di broker capitalism si deve a J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., pp. 10-14. È ovvio che buo­
na parte delle caratteristiche descritte si riscontrano in molte società che non si sono ancora avviate all’industrializza­
zione e allo Stato moderno. La loro rilevanza di precondizioni nel caso della mafia consiste nella circostanza che, co­
me si vedrà tra breve, in Sicilia non si verificarono fratture storiche in grado di far emergere forze sociali portatrici di
valori alternativi.
27 Charles Tilly, Foreword a A. Blok, The Mafia, cit., pp. XVIII-XIX.
28 Sul concetto di power broker vedi Richard N. Adams, Brokers and Career Mobility Systems in The Structure o f
Complex Societies, “South Western Journal of Anthropology”, 1970, n. 315-327; Eric R. Wolf, Aspects o f Group
Relations in a Complex Society: Mexico, “American Anthropologist” , 1956, pp. 1065-1078. L’interpretazione dei
mafiosi in termini di power brokers si deve ad A. Blok, The Mafia, cit., pp. 7-8, passim.
29 Su questi due aspetti del rapporto tra mafiosi, proprietari terrieri e Stato vedi Leopoldo Franchetti, Le condizioni
politiche e amministrative della Sicilia, Firenze, Vallecchi, 1974, ( l a ed. 1876), pp. 109-110; Ch. Tilly, Foreword,
cit., p. XIX.
18
R aim ond o C atanzaro
portata. Il problema dei rapporti con il cen­
tro assume una rilevanza cruciale, e in parti
colare assumono grande importanza tre pro­
cessi di edificazione del sistema: penetrazio
ne (cioè formazione dello Stato), standardiz
zazione (cioè formazione della nazione), ed
estensione dei diritti di partecipazione (istitu
zionalizzazione della cittadinanza politi­
ca)30. Ed è proprio nell’ambito di questi
processi che si creano le condizioni di genesi
della mafia. Il comportamento mafioso
emerge come istituzionalizzazione della vio­
lenza privata usata come mezzo di accumula­
zione economica e di controllo sociale da
parte dei soggetti detentori del monopolio
dell’onore e al contempo come istituzionaliz­
zazione della pratica dell’amicizia strumen­
tale come mezzo di penetrazione nell’amministrazione pubblica per la sua utilizzazione
a fini privati (clientelismo).
Nel corso della prima metà dell’Ottocento
si verificano in Sicilia alcuni importanti pro­
cessi di cambiamento che accentuano le ten­
sioni sociali. Mentre si faceva più grave la
crisi della produzione agricola, già iniziata
nella seconda metà del Settecento, e non si
intravedevano rilevanti processi di trasfor
mazione colturale, una serie di fattori dava
luogo ad un eccezionale incremento demo
grafico, che determinava un’accentuazione
della pressione sulla terra. Fu in questo qua­
dro che ebbe luogo il processo di abolizione
della feudalità e l’introduzione del processo
di commercializzazione della terra. Questa
riforma sortì però effetti differenti da quelli
che ci si sarebbe aspettati, contribuendo po
tentemente a rafforzare le condizioni che
avrebbero dato luogo al sorgere della mafia
nella Sicilia centro-occidentale. Qui infatti
erano tradizionalmente più rilevanti, rispetto
al resto dell’isola, due condizioni cruciali nei
rapporti di produzione, e cioè le caratteristi
che feudali del modo di produzione e l’assen
teismo dei baroni. Quest’ultima caratteristi
ca era dovuta al fatto che Palermo era la ca­
pitale del vicereame, e una città che non ave­
va nulla da invidiare nel XVIII secolo, alle
principali capitali europee. Per quanto ri­
guarda il predominio della proprietà feudale
si consideri che intorno alla metà del XVIII
secolo un quarto delle terre siciliane erano
proprietà demaniale, mentre i restanti tre
quarti erano di proprietà feudale. Ma se si
guarda alla situazione distintamente per la
Sicilia centro-occidentale e per il resto della
Sicilia, si può notare come i quattro quinti
delle terre demaniali si concentravano nella
Sicilia orientale, mentre nella Sicilia cen­
tro-occidentale quasi il 90 per cento delle ter­
re erano di proprietà feudale31.
La commercializzazione della terra non
mutò la atipica struttura del latifondo nella
Sicilia centro-occidentale. Il latifondo era in­
fatti articolato intorno alla presenza di tre
classi sociali, e cioè la nobiltà terriera assen
teista, la borghesia agraria costituita dai gabellotti, e i contadini. Mancava una classe
“pura” di braccianti senza terra, cioè di meri
lavoratori agricoli salariati, mentre abbonda
vano i contadini poveri e le figure miste. La
liberalizzazione del commercio della terra
non diede luogo al sorgere di una classe di
contadini proprietari, ma rafforzò il potere
della classe di proprietari borghesi e impren
ditori rurali, i gabellotti, che non si differen
ziava molto dall’alta aristocrazia terriera sia
sotto il profilo dello scarso interesse allo svi­
luppo economico dell’agricoltura che sotto
30 Questo modello interpretativo della formazione dello stato nazionale è stato proposto da Stein Rokkan, Dimen­
sions o f State-Formation and Nation-Building: A Possible Paradigm fo r Research o f Variations within Europe, in
Charles Tilly(ed), The Formation o f National States in Western Europe, Princeton, Princeton University Press,
1975, pp. 562-600.
31 Nostra elaborazione su dati riportati in E. Pontieri, Il tramonto, cit., p. 8. Sull’incremento demografico vedi
Idem, Il riformismo borbonico della Sicilia del sette e dell’ottocento, Napoli, ESI, 1961, p. 46.
L a m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
quello dei comportamenti sociali in genera­
le. Nonostante la commerciabilità il merca­
to rimase estremamente ristretto, in quanto
la terra venne venduta raramente, e in estensioni tali che di fatto la gran massa dei
contadini veniva esclusa da ogni possi bilità di acquisto. Inoltre l’affitto veniva ef­
fettuato con contratti che non consenti va­
no un uso razionale né uno sfruttamento
intensivo dei terreni, e che scaricavano sui
contadini tutti i rischi. In questo modo di
produzione, che è stato definito come rent
capitalism32, i contadini venivano progres
sivamente perdendo i diritti comuni e gli
usi civici, mentre le terre demaniali erano
usurpate dalla voracità dei gabellotti. Le
forme in cui si realizzò l’impatto del mer
cato non servirono quindi ad eliminare o
alleviare, ma accentuarono ulteriormente la
fame di terra e la competizione per il suo
possesso.
I modi in cui si manifesta questa compe
tizione assumono due caratteristiche fonda
mentali. In primo luogo essa si esprime in
forme prevalentemente orizzontali, data la
presenza di molti contadini poveri e di figu­
re miste e la scarsa presenza di salariati pu­
ri, cioè di quella classe che avrebbe potuto
instaurare un tipo di conflittualità verticale
con i proprietari terrieri e con i gabellotti. Il
conflitto sociale si manifesta quindi non co­
me lotta tra classi sovra e sotto ordinate,
ma prevalentemente come competizione tra
gruppi concorrenti per il possesso della ter­
ra. La terra rimane dunque essenzialmente
una fonte di potere, e in quanto tale il suo
possesso o il controllo sul suo uso rimango
no condizioni essenziali per la definizione
sociale dell’onore e della sua imputazione
19
agli individui e ai gruppi. Ciò implica una
seconda conseguenza, vale a dire il perma
nere della violenza come principio regolato
re della competizione economica e per l’o­
nore. Anzi, la violenza si accentua e acqui­
sta una sua caratteristica autonomia a se­
guito dell’abolizione della feudalità.
La maggiore accessibilità alla ricchezza
fece sì che anche la prepotenza e la violen
za divenissero accessibili ad un numero
maggiore di persone. Infatti non solo si
moltiplicò il numero dei signori della terra
interessati a difendere con la violenza i pro­
pri possedimenti o a usurpare quelli altrui.
Cambiò anche il significato sociale della
violenza. Fin quando il possesso della terra
comportava anche l’esercizio di un potere
politico, dell’amministrazione dell’ordine
pubblico e della giustizia, la violenza esercì
tata dai baroni aveva una sua legittimazio
ne giuridica. Abolita tale legittimazione,
venne meno anche l’aspetto “pubblico” ,
per così dire, della violenza. I corpi di
guardie armate dei baroni cessarono di es­
sere istituzioni di diritto e divennero stru­
mento di una crescente violenza sempre più
caratterizzata in senso privato. La violenza
inoltre tese a configurarsi come una vera e
propria industria. I titolari della violenza,
che in precedenza esercitavano il loro me­
stiere prevalentemente per conto dei baro­
si, acquistarono una propria autonomia
crescente, tendendo ad offrire i propri ser­
vizi ai migliori acquirenti, e trattando con
loro da pari a pari33. La violenza divenne
una risorsa il cui possesso monopolistico
consentì l’affermazione di un potere, la
conquista di ricchezze, la realizzazione di
un progetto di ascesa sociale.
32 Sulle conseguenze dell’eversione della feudalità vedi Emilio Sereni, Il capitalismo nelle campagne, Torino, Einau­
di, 1948, pp. 175 sgg.; Sidney Sonnino, I contadini in Sicilia, Firenze, Vallecchi, 1974 ( l a ed. 1876), pp. 17-29. Il
concetto di rent capitalism è stato applicato al latifondo siciliano da A. Blok, The Mafia, cit., pp. 56-57, 64, passim.
Sulle sue radici storiche vedi la bibliografia citata alla nota 11.
33 Per una acuta analisi del processo qui tratteggiato L. Franchetti, Le condizioni, cit., pp. 71-93.
20
R aim ond o C atanzaro
L ’impatto dello Stato e il sorgere della ma­
fia. Nelle condizioni sopra descritte si deter­
mina un’accentuazione delle tensioni sociali
dovuta da un lato alla crescente differenzia
zione sociale verificatasi nella prima metà
del secolo, e che diede luogo al sorgere di
una classe borghese di proprietari terrieri e
all’aumento dei contadini senza terra, dal­
l’altro, a una tendenza alla crescita dell’in­
terdipendenza tra città e campagna e tra
classi sociali dovuta all’impatto del mercato
(la commerciabilità della terra). Questa cre­
scente interdipendenza si scontrò con le esi­
genze di controllo centralizzato tipiche di
uno Stato nazionale appena formatosi. Ciò
avvenne per due motivi: in primo luogo a
causa del permanere degli interessi degli
agrari assenteisti come forza principale della
società siciliana. E in secondo luogo a causa
del carattere fortemente segmentano della
società rurale siciliana, legato all’auto suffi­
cienza delle agrotown e alla mancanza di ef­
ficienti reti di comunicazione tra questi in­
sediamenti e la società nel suo complesso.
Uno degli aspetti più rilevanti di questa seg
mentazione era dato dall’esclusione dei con
tadini dal mercato di lavoro, in quanto non
costituivano ancora una forza-lavoro libera,
e dal mercato politico, in quanto esclusi da­
gli aventi diritto al suffragio. Di conseguen
za, uno Stato sovraimposto dall’esterno co­
me quello italiano non fu in grado di garan
tire l’efficace controllo e la manipolazione
delle crescenti tensioni sociali. Questo com­
pito venne assunto in proprio dai signori
della terra, che accentuarono il ricorso al­
l’uso della violenza nell’esercizio del con­
trollo sociale.
Il ricorso alla violenza non era certo una
novità. Ma adesso non solo aveva cambiato
significato, come s’è visto prima, ma a diffe­
renza che in passato si verificava nel quadro
della debole autorità di uno Stato che sulla
carta pretendeva di detenere formai mente il
monopolio legittimo della violenza fisica. In­
dusse quindi lo Stato a venire a patti con colo­
ro che esercitavamo il potere di fatto a livello
locale, e a delegare loro le funzioni di eserci­
zio del monopolio della violenza fisica. Anzi
in pratica lo Stato si sottopose alla loro auto­
rità, perché mentre da un lato proibiva le vio­
lenze private, dall’altro concedeva a quella
stessa classe dominante locale responsabile
della violenza privata il potere di governare in
nome e per conto del governo centrale. Cosic­
ché quando divenne chiaro che la sovranità
dello Stato non esisteva che sulla carta, il ri
corso alla violenza privata divenne generaliz­
zato.
La mafia rappresenta dunque una rispo­
sta alle tensioni che si creano tra contadini,
aristocrazia terriera e borghesia agraria e
tra queste classi e il governo centrale, ed è
un modo per gestire le tensioni tramite la
proposizione di uno specifico codice di
comportamento nel quale i mafiosi si spe
cializzano in quanto power brokers34.
La legittimazione nell’uso della violenza
fisica deriva ai mafiosi da un’attribuzione
sociale di onore. Una volta caratterizzati
come detentori del monopolio dell’onore i
mafiosi sono in grado di esercitare legitti
mamente il controllo sociale giocando il lo­
ro ruolo di intermediari politici ed economi
ci. Le funzioni di mediazione e di collega
mento giocate dai mafiosi non si limitavano
infatti al controllo dell’elettorato e alla pre­
venzione delle rivolte contadine (o alla loro
repressione violenta), ma erano basate es­
senzialmente sulla posizione di supervisione
34 Sull’aumento della violenza privata in connessione con l’incapacità dello Stato di gestire efficacemente il mono­
polio della violenza legittima, e sulla creazione di un gap di comunicazione che consente la formazione dei mafiosi
in quanto ceto specializzato di power brokers, vedi A. Blok, The Mafia, cit., pp. 177-178, da cui ho ripreso l’ana­
lisi precedente. Sulla delega alla classe dominante locale dei poteri da parte dello Stato vedi L. Franchetti, Le con­
dizioni, cit., pp. 83-93.
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
21
di management che detenevano nelle tenute dello Stato di diritto, di cui alcune élites re­
degli agrari. In questo senso si può dire che gionali si facevano portatrici, e gli interessi
la base economica dei mafiosi come power delle élites regionali che questi principi con­
brokers trova un corrispettivo nell’esistenza trastavano. Il primo tipo di conflitti venne
del broker capitalism. Così come quest’ulti­ risolto sulla base di una deli mitazione del­
mo sorge per colmare il gap tra funzioni di la giurisdizione territoriale degli interessi
produzione e di commercializza zione, allo economici da parte di ciascuna élites o
stesso modo sul piano del controllo sociale gruppo di élites. L’intesa tra agrari del
sorge la figura del mafioso come power bro­ Mezzogiorno e borghesia industriale del
ker che colma la distanza tra i contadini e Nord, su cui si sono a lungo soffermati i
Stato, assumendo da quest’ultimo la gestio­ classici del meridionalismo, è un esempio di
ne della violenza fisica. “In termini di con­ questo tipo di accordi di delimitazione terri
trollo e di autorità la mafia” diventa in tal toriale del potere. Questo tipo di accordo,
modo “una dimensione pragmatica dello se risolveva i problemi di convivenza tra
Stato”35.
differenti interessi delle élites regionali, ac­
Questa caratterizzazione della mafia come centuava invece i conflitti del secondo tipo,
dimensione pragmatica dello Stato ebbe non vale a dire quelli tra i principi dello Stato
poca parte della sua origine nel caratte re as­ di diritto e gli interessi di alcune élites
sunto dallo Stato italiano, dalla sua ammini­ regiona li. Conflitti che erano particolar­
strazione periferica e dal governo locale.
mente evi denti e acuti nel Mezzogiorno.
Lo Stato italiano sorge come federazione La ragione per l’evidenziarsi di questi con­
di élites regionali dai differenti interessi e flitti e per il loro acutizzarsi risiedeva nel
dalla variegata configurazione politica, so­ fatto che in realtà non si trattava di conflit­
ciale e ideologica. Anche se l’ingresso del ti tra astratti principi da una parte e con­
Mezzogiorno nello Stato avvenne con qual­ creti interessi dall’altra, ma anche in questo
che ritardo (più “mentale” che temporale) ri­ caso di conflitti tra interessi economici. Lo
spetto a quello delle altre regioni, e costituì sviluppo di un mercato nazionale e di un
per un certo periodo di tempo un pro blema sistema industriale richiedevano infatti, copiù grande per ciò che concerneva l’integra­ m’è ovvio, l’affermazione di un moderno
zione della popolazione nell’ambito della na­ Stato di diritto che ponesse in essere tutte
zione e dello Stato, tuttavia fin dall’inizio le quelle condizioni di natura politica che so­
élites meridionali furono in grado di inserirsi no essenziali allo sviluppo di una società
a pieno titolo nella gestione politica dello industriale, tanto più quando tale società
Stato. Sotto questo profilo è solo in parte ve­ arriva con un certo ritardo sulla scena dello
ro che lo Stato fu estraneo al Mezzogiorno, sviluppo capitalistico. Di conseguenza l’a­
in quanto si deve invece dire che lo Stato nel ver lasciato carta bianca alle élites meridio­
Mezzogiorno assunse le sembianze che erano nali nella gestione dei propri interessi eco­
proprie delle élites meridionali. Ma proprio nomici poneva alle élites borghesi del Nord
la formazione dello Stato come confedera­ gravi problemi consistenti nel fatto che la
zione di élites determinò il sorgere di due tipi mancata affermazione di uno Stato moder­
di conflitti: il primo fra gli interessi diversi, e no avrebbe ostacolato proprio la crescita di
spesso contrastanti, delle differenti élites re­ quegli interessi economici di cui esse erano
gionali; il secondo tra gli astratti principi portatrici. D’altra parte per le élites meri35
A. Blok, The Mafia, cit., p. 96.
22
R aim ond o C atanzaro
dionali consentire l’affermazione dello Stato
di diritto e dei suoi principi nel Mezzogiorno
avrebbe significato perdere quella base di po­
tere territoriale in conseguenza della quale
potevano pretendere di essere uno degli inte
ressi sulla cui federazione lo Stato italiano
era sorto e che si era impegnato a tutelare. È
alla luce di questa dialettica che vanno consi
derati i problemi di affermazione e penetra
zione delle strutture e dei principi dello Stato
moderno nel Mezzogiorno e in Sicilia, tanto
più se si considera che la situazione fu ulte­
riormente resa complessa dal fatto che a par­
tire da una certa data la classe di governo fu
costituita dai rappresentanti di quelle élites
meridionali che da un lato dovevano tutelare
gli interessi prevalenti della nascente indu­
stria del Nord, e dall’altro dovevano garanti­
re i loro stessi interessi di élites politiche che
avevano raggiunto il governo del paese.
A ciò si aggiunga poi che il nuovo Stato
unitario italiano fu improntato, fin dal suo
sorgere, all’esigenza di esercitare il controllo
sulla periferia con strumenti molto forti per
evitare l’insorgere di problemi sociali. Ciò
indusse il governo centrale a preferire il siste
ma amministrativo francese, basato sulla fi­
gura del prefetto, a quello inglese36. Tuttavia
il prefetto non fu uno strumento per realizza
re l’unità interministeriale dell’amministra
zione al modo francese in quanto, a differen­
za che in Francia, dove la prefettura esercita
va il controllo sulle attività territoriali di' tutti
i ministeri, in Italia la prefettura come pro
lungamento del ministero degli Interni ebbe
funzioni di controllo estese soltanto alla giu
stizia e all’amministrazione locale, lasciando
gli altri ministeri liberi di agire senza control
lo alcuno a livello territoriale. Ciò diede luo­
go ad una carenza di integrazione ammini
strativa tra centro e periferia, e caratterizzò
in senso disperso il sistema amministrativo
italiano. A sua volta ciò ebbe come conse­
guenza un’insufficiente penetrazione ammi
nistrativa alla periferia e una debolezza di
controllo amministrativo che indusse l’élite
liberale a ritardare l’introduzione del suffra­
gio universale, privando in tal modo il
dissenso locale dello strumento della rappre­
sentanza elettorale37.
D’altra parte neanche l’amministrazione
del governo locale riuscì a fungere da inter­
mediario fra la società locale e lo Stato. L’in­
troduzione degli istituti di autonomia locale
in una situazione di assenza della parcipazione politica e di suffragio molto limitato con­
centrò le risorse politiche nelle mani di pochi
potenti locali o di uomini di loro fiducia, de­
terminando un’intensificazione della compe­
tizione per la conquista del potere a livello
locale. Tale competizione tuttavia non pote­
va svolgersi se non in forma clientelare e par­
ticolaristica, dato che i gruppi che si impa­
dronirono del governo locale erano quelli
stessi che detenevano le basi materiali del po­
tere a livello sociale. La vita politica assunse
quindi l’aspetto di una competizione cliente­
lare per il potere. Infatti aggregarsi ad una
clientela era l’unico modo disponibile per
proteggersi dalle conseguenze di un esercizio
abusivo e discriminatoio del potere38.
Il clientelismo, sorto come strumento di
controllo sociale in assenza di partecipazione
politica, non era certo lo strumento più adat-
36 Riprendo quest’analisi sul sistema amministrativo italiano da Sidney Tarrow, Tra centro e periferia, Bologna, Il
Mulino, 1979, pp. 47-61.
37 Ivi, pp. 51-52. Se vi fu una carenza di penetrazione amministrativa, essa fu però accompagnata da un forte con­
trollo politico da parte del governo centrale sulla vita politica locale. Il prefetto infatti era un organo di controllo po­
litico. Politica era la sua nomina, politiche le forme di controllo che esercitava in quanto emissario del governo in ca­
rica. Sulle funzioni del prefetto vedi Robert C. Fried, The Italian Prefects, New Haven, Yale University Press, 1963.
38 Sul sistema clientelare nel Mezzogiorno vedi Luigi Graziano, Clientelismo e sistema politico. Il caso dell’Italia,
Milano, Angeli, 1980, pp. 113-128.
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
to per promuovere tale partecipazione. Le
masse della popolazione restarono quindi
escluse dal rapporto con lo Stato, e la loro
integrazione venne affidata non già agli stru­
menti politico-amministrativi, ma alla ge­
stione clientelare del potere locale. Nelle zo­
ne della Sicilia centro-occidentale ciò signifi­
cò un intreccio potente tra mafia e potere po­
litico, sia a livello del governo locale che del­
le propaggini periferiche dell’amministrazio­
ne centrale. E del resto i gruppi mafiosi, ad­
destrati dalle reti di amicizia strumentale a
muoversi con abilità nei meandri dell’ammi­
nistrazione, non si trovarono certamente a
disagio nel penetrare nei gangli vitali dell’amministrazione dello Stato. Nel breve vol­
gere dei primi quindici anni di storia della Si­
cilia unitaria l’intreccio tra mafia e poteri
dello Stato era diventato talmente ampio da
poter essere documentato nel corso di indagi­
ni promosse dal governo e di dibattiti
parlamentari39. Lo stesso termine, che era in
origine sinonimo di “eccellenza” , “baldan­
za”, assunse per la prima volta il suo signifi­
cato di organizzazione criminale in un docu­
mento ufficiale del prefetto di Palermo nel
186540, a testimoniare che la mafia derivava
dall’incontro fra condizioni della società lo­
cale e formazione dello Stato nazionale. Con
l’avvento al potere della Sinistra, il primo
ampliamento del suffragio che potenziò le
strutture clientelari del potere locale, e l’in­
staurarsi del trasformismo come pratica di
governo, l’istituzionalizzazione della mafia
come espressione dell’intreccio fra Stato e
potentati locali poteva dirsi compiuta.
23
L ’apogeo della mafia tradizionale. La mafia
sorge dunque come una forma di relazione
biunivoca tra Stato e potentati locali. Il go­
verno centrale delega alla classe dominante
l’esercizio del potere statale, e al contempo
utilizza la classe dominante per gestire il con­
trollo sulla periferia. D’altra parte, in modo
complementare, la classe dominante locale
utilizza gli strumenti di potere messi a dispo­
sizione dallo Stato per rafforzare e legittima
re il proprio dominio. L’incontro fra questi
soggetti e i loro interessi fece sì che, assente
una classe media autonoma dai proprietari
terrieri e tagliati fuori i contadini e il proleta
riato urbano (cioè la grande massa della po
polazione) dal gioco politico, le regole del
comportamento mafioso si radicassero rapi
damente e in maniera estesa e profonda nella
società.
In quanto all’estensione e profondità del
fenomeno mafioso occorre ricordare come la
mafia tradizionale non fosse un’organizza
zione formale, tanto meno segreta. Non lo
era sia per le difficoltà prima accennate a
creare e mantenere impegni organizzativi di
lunga durata sia perché la sua forza risiedeva
nell’essere una forma di comportamento dif­
fuso e corrispondente a valori socialmente
accettati. Tra mafiosi ci si riconosceva dal
modo di fare, dallo sguardo, da segni imper
cettibili agli altri41.
La mancanza di carattere formale dell’or
ganizzazione mafiosa si manifesta nel nucleo
fondamentale di tale organizzazione, cioè la
cosca. Il termine denota la fitta aderenza del­
le foglie di un carciofo, così simboleggiando
39 Vedi gli atti del dibattito parlamentare del 1875-76, l’intervento del deputato Tajani e la relazione della Commis­
sione d’inchiesta sulle condizioni dell’ordine pubblico in Sicilia (Relazione Bontadini). Parti del dibattito e della rela­
zione sono pubblicati in Nando Russo (a cura di), Antologia della mafia, Palermo, Il punto edizioni, 1964, pp.
3-287. Per un quadro generale delle condizioni della Sicilia e delle lotte politiche che si verificarono nel primo quindi­
cennio dell’unità vedi Paolo Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra, Torino, Einaudi, 1954.
40 Sull’originario significato del termine mafia vedi Giuseppe Pitré, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo
siciliano, Palermo, 1889, vol. II, pp. 287 sgg. Sul rapporto del prefetto Gualterio che nel 1865 definisce la mafia
come organizzazione criminosa vedi P. Alatri, Lotte politiche, cit., p. 92.
41 Vedi Giuseppe Alongi, La maffia, Palermo, Sellerio, 1977 ( l a ed. 1886), pp. 52-53.
24
R aim ond o C atanzaro
la strettezza delle relazioni fra gli affiliati. La
cosca è costituita da un gruppo di amici e dà
luogo a coalizioni strumentali ad hoc. In
quanto organizzazione instabile tende ad
avere un solo leader, ma spesso a causa dei
conflitti interni ne ha più d’uno. Strumento
operativo dell’azione mafiosa, la cosca, che
come organizzazione non ha nulla di fisso e
di burocratico o di formale, è anche il princi
pale canale di regolazione dei processi di mo­
bilità sociale e di carriera mafiosa. Tra le sue
funzioni inoltre va sottolineata quella di met­
tere in un certo senso ordine nella lotta per il
potere, regolando al suo interno la competi
zione per la violenza e basandosi sulla norma
fondamentale per cui il dominio di ciascuna
cosca è territorialmente delimitato. All’inter­
no di un determinato territorio soltanto una
cosca poteva esercitare il monopolio della
violenza42.
In quanto gruppo informale non associati
vo la cosca presenta infine un’altra caratteri
stica cruciale: “essa si configura come una
serie di relazioni a coppie che il mafioso...
intrattiene con persone tra loro indipenden­
ti” . Questa struttura diadica dei legami tra i
membri della cosca mafiosa è uguale alla for­
ma organizzativa del clientelismo tradiziona
le43, il che ci porta a sottolineare un altro
punto caratteristico. La omogeneità delle
forme organizzative rinvia all’estensione so­
ciale degli atteggiamenti corrispondenti, e in
particolare di quello che è stato definito co­
me lo “spirito di mafia” .
L’atteggiamento mafioso consiste nella co
difica degli orientamenti in termini di onore
di cui si è parlato nella prima parte di questo
saggio. Il reato perpetrato nei confronti
di una persona viene concepito da quest’ulti­
ma come un torto col quale si vuol fare senti
re dall’offensore la propria superiorità socia­
le, come espressione di una volontà di pre­
potere. Nell’ambito di questa accentuata
concezione della personalità individuale, di
questo esasperato concetto dell’onore, “reati
che altrove non avrebbero alcun movente
personale... in Sicilia assumono la parvenza
di una vendetta per un torto vero o supposto
che il reo... avrebbe subito da parte della
vittima”44. La conseguenza della diffusione
di questo atteggiamento è che, in quanto
norma socialmente accettata di comporta­
mento, anche coloro che vorrebbero esserne
esenti sono indotti ad adeguarsi ad essa.
Quali sono le ragioni dell’ampia diffusio
ne di atteggiamenti e comportamenti mafio­
si? Della prima si è già detto, a proposito
dell’intreccio fra esigenze del governo cen­
trale e interessi della classe dominante locale.
Una seconda ragione discende dalla prima, e
riguarda la natura della mafia come fenome­
no al contempo urbano e rurale. Si è visto
come la mafia sorga a seguito del combinarsi
di un processo di crisi e trasformazione del
latifondo e della formazione dello Stato na­
zionale. Ciò comportò la diffusione del feno­
meno mafioso sia in ambiente rurale che ur­
bano. Se infatti il controllo delle tensioni so­
ciali doveva essere esercitato con riferimento
ai contadini, nelle campagne, gli strumenti
politici cruciali per lo svolgimento di tale
funzione erano concentrati nella città di
Palermo45. Lì si trovavano non soltanto que­
gli organismi dello Stato responsabili dell’or­
dine pubblico, della giustizia e in generale
delPamministrazione della cosa pubblica,
42 Cfr. J. Schneider, P. Schneider, Culture, cit., pp. 187, 190-191; H. Hess, Mafia, cit., pp. 108-115; A. Blok, The
Mafia, cit., p. 145; G. Mosca, Che cosa è la mafia, cit., pp. 227 sgg.
43 H. Hess, Mafia, cit., p. 109; A. Blok, The Mafia, cit., p. 137.
44 G. Mosca, Che cosa è la mafia, cit., p. 224.
45 Questo carattere al contempo rurale e urbano del fenomeno mafioso non sfuggì agli studiosi dell’Ottocento. Vedi
per esempio G. Alongi, La maffia, cit., pp. 106-107; L. Franchetti, Le condizioni, cit., pp. 112 sgg.; e S. Sonnino, I
contadini, cit., p. 68, sostengono che la mafia propriamente detta era fenomeno esclusivamente palermitano, mentre
l’interno della Sicilia era caratterizzato dal brigantaggio e dal malandrinaggio. Non si dimentichi d ’altronde che nel
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
ma gli stessi proprietari terrieri assenteisti.
Palermo era il centro in cui si raccoglieva
gran parte della produzione delle zone dell’ihterno, sia per il consumo locale che per
l’esportazione. A Palermo e nei suoi dintor­
ni, nella zona non latifondistica a coltura in­
tensiva di agrumi e vigneto della cosiddetta
Conca d’Oro, veniva inoltre reclutata buona
parte del personale mafioso. Proprio perché
la mafia non è soltanto un prodotto rurale,
dell’economia del latifondo, ma una creatu­
ra nata dalla combinazione di quei processi
storici e sociali fin qui evidenziati, essa potè
espandersi rapidamente e informare di sé tut­
ta la Sicilia centro-occidentale. Ma la sua
espansione non fu soltanto territoriale; per le
funzioni che esplicava essa pervadeva di sé
molteplici sfere dei comportamenti sociali.
I mafiosi si situano sulle giunture cruciali
nei rapporti tra centro e periferia, tra con­
tadini, proprietari terrieri e Stato. La loro
funzione principale è quella di mediatori,
di power brokers che detengono il monopo
lio dell’esercizio della violenza sulla base di
una legittimazione in termini d’onore. Gli
stessi mafiosi del resto tendono a vedere le
loro funzioni in termini di mediazione46.
Tuttavia l’accento posto su queste funzioni
della mafia tradizionale ha finito spesso col
far dimenticare che mediazione e violenza
25
erano strumenti per il conseguimento di de
terminati fini economici e politici. Ed è ap­
punto nell’ambito di questi fini che vanno
analizzate le funzioni del comportamento
mafioso. In base ad un’analisi succinta li si
può raggruppare in tre tipi fondamentali:
funzioni di accumulazione economica, di
controllo sociale, di esercizio del potere
politico47.
In genere è raro che il mafioso vivesse sol­
tanto dei proventi che gli derivavano dalla
propria attività criminale. Non essendo un
bandito o un gangster, egli tendeva ad utiliz
zare l’attività criminale per raggiungere una
posizione sociale accettata nella comunità in
cui viveva. Anzi proprio questo era lo scopo
della carriera mafiosa, perché senza essere
considerati uomini di rispetto non sarebbe
stato possibile esplicare le funzioni tipica
mente mafiose. L’attività illegale serviva
quindi per accumulare ricchezza esercitando
un mestiere o un’attività agricola, industria­
le, commerciale o professionale esercitata
anche da altri. Uno dei modi tipici in cui ciò
avveniva era l’acquisizione in modo violento
di una posizione di monopolio, per esempio
di intermediazione commerciale. Oppure
nell’imposizione di tangenti, esercitando il
controllo monopolistico su forme associative
tra produttori o sulla forza lavoro48. Per non
1862-63 per la prima volta in assoluto viene usato il termine mafia ad indicare una forma di criminalità, con la descri­
zione dell’ambiente delle carceri palermitane effettuata nel dramma I mafiusi della Vicaria di Palermo, quindi in am­
biente urbano. Infine lo stesso Rasponi, prefetto di Palermo, riferiva nel 1874 in un rapporto al ministro dell’Interno,
su “la mafia, comunemente intesa malandrinaggio di città...” . Vedi N. Russo (a cura di), Antologia, cit., p. 12.
46 II carattere dei mafiosi come gruppo che sta tra i signori e i contadini era già stato posto in rilievo da Pasquale Viilari nella lettera meridionale sulla mafia. Vedi N. Russo (a cura di), Antologia, cit., p. 381. Sull’autorappresentazio­
ne mafiosa in termini di funzioni di mediazione vedi gli esempi riportati da H. Hess, Mafia, cit., pp. 100-101.
47 A nostro avviso in questi tre tipi possono essere raggruppate tutte le funzioni del comportamento mafioso. H.
Hess, Mafia, cit., pp. 173-209, elenca un numero maggiore di funzioni, ma combinando insieme, senza distinguerli,
funzioni e modi di manifestazione del comportamento mafioso. P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 41-57,
cade nello stesso equivoco di Hess, da cui riprende l’analisi delle funzioni mafiose.
48 Per esempi di queste professioni vedi H. Hess, Mafia, cit., pp. 82-83; G. Alongi, La maffia, cit., 106-107; L.
Franchetti, Le condizioni, cit., pp. 6-7. Non possiamo qui soffermarci sul processo di legittimazione del potere ma­
fioso e sulla dialettica tra attività straordinaria (esercizio manifesto della violenza) e gestione ordinaria del potere da
parte dei mafiosi. Per alcuni spunti in materia vedi Nino Novacco, Inchiesta sulla mafia, Milano, Feltrinelli, 1963,
pp. 27-28; H. Hess, Mafia, cit., pp. 96 sgg.; P. Arlacchi, Mafia, contadini, cit., pp. 5-7.
26
R aim on d o C atanzaro
parlare degli abigeati, delle lettere di scrocco,
dei rapimenti a scopo di riscatto.
In altri casi la professione, o meglio il po­
sto che si aspirava a ricoprire, veniva creato
dal nulla, come nel caso dell’assunzione di
funzioni di campiere o di guardiano tramite
quella particolare minaccia che viene detta
“fucilata di chiacchiarìa”49. Il proprietario di
un fondo si sentiva sparare una fucilata con i
proiettili che gli passavano a due palmi dalla
testa. Dopo qualche giorno gli si presentava
qualcuno a spiegargli che il fondo aveva bi
sogno di protezione, e si offriva come guar­
diano. Il proprietario, capita l’antifona, ac­
cettava per evitare guai peggiori.
Un altro tipico metodo di arricchimento
mafioso era costituito dall’esercizio dell’usu­
ra a danno dei contadini, costretti a vivere in
condizioni di perenne indebitamento, mentre
bastava un piccolo gruzzolo agli usurai per
vivere di rendita riuscendo anche ad acqui­
stare proprietà terriere50. Con l’usura si crea­
rono capitali con i quali, a partire dal 1860,
attraverso i sistemi delle aste truccate, gran
parte delle terre pubbliche provenienti
dall’incameramento dei beni ecclesiastici an­
darono ad accrescere la grande proprietà ter­
riera borghese invece di contribuire a creare
un ceto di contadini proprietari. È stato sti­
mato che la proprietà borghese della terra sia
passata, tra il 1860 e la fine del secolo, da
250.000 a 650.000 ettari. Di questo incre­
mento di 400.000 ettari, circa 250.000 ettari
sono derivati dall’acquisto o dall’usurpazio
ne di terreni ecclesiastici e demaniali. Nella
formazione così caratterizzata della proprie­
tà borghese della terra la mafia ebbe spesso
un ruolo rilevante51.
In un quadro del genere, di sfruttamento
accentuato dei contadini, era chiaro che il
controllo sociale dovesse costituire una delle
funzioni essenziali svolte dalla mafia. La
prevenzione e la repressione delle periodiche
rivolte contadine ha percorso l’intera evolu­
zione del fenomeno mafioso fino ai primi an­
ni cinquanta di questo secolo. Nella loro
azione di agenti del controllo sociale, i ma­
fiosi erano facilitati dall’ambivalenza delle
loro relazioni con le autorità dello Stato. In­
fatti i mafiosi mostravano disprezzo per le
leggi ed erano in grado di sfidarle, spesso im
punemente. Al contempo erano conniventi
con le autorità, per conto delle quali esercita
vano il controllo52. Il loro disprezzo per la
legge di uno Stato considerato come stranie
ro e oppressore li caratterizzava simbolica
mente come espressione della resistenza e
delle esigenze della società locale, e forniva
una legittimazione sociale alle loro fuzioni di
tutori dell’ordine.
Lo svolgimento delle prime due funzioni
non sarebbe stato efficace senza l’esercizio
del potere politico. Prescindendo dai casi più
clamorosi di infiltrazione di soggetti mafiosi
tra le forze di polizia, nella prefettura e nella
stessa magistratura53, basterà richiamare il
49 Letteralmente “una fucilata per chiacchierare, per discutere”, quindi un avvertimento o un ammonimento. Cfr.
S. Sonnino, Icontadini, cit., p. 68.
50 Sul ruolo dell’usura in Sicilia e nei confronti dei contadini vedi S. Sonnino, Icontadini, cit., p. 107; H. Hess, Ma­
fia, cit., p. 182.
51 Sulla mancata creazione di un ceto di contadini proprietari a seguito della vendita dei beni ecclesiastici vedi per tutti
S. Sonnino, Icontadini, cit., pp. 163-164. Sul ruolo della mafia nella formazione della proprietà borghese della terra
E. Sereni, Il capitalismo, cit., pp. 291-292. Nel secondo dopoguerra la mafia svolgerà un ruolo di rilievo anche nella
formazione della proprietà contadina della terra a seguito della riforma agraria. Cfr. Francesco Renda, Funzioni e ba­
si sociali della mafia, in Idem, Il movimento contadino nella società siciliana, Palermo, Edizioni “Sicilia al lavoro” ,
1956. Si tratta di esempi di quella che più avanti sarà definita come le capacità di ibridazione sociale della mafia.
52 Vedi A. Blok, The Mafia, cit., p. 6.
53 Su cui vedi gli esempi riferiti da Diego Tajani, Discorso alla Camera dei Deputati, Tornata dell’l l e 12 giugno
1875, in N. Russo (a cura di), Antologia, cit., pp. 135-177; G. Alongi, La maffia, cit., pp. 98-99; Antonino Cutrera,
La mafia e i mafiosi, Palermo, Sandron, 1900, cap. XII.
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
modo di gestione del potere a livello locale e
negli organi periferici dell’amministrazione
centrale.
Un esempio concerne la gestione della po­
litica fiscale da parte delle amministrazioni
comunali. Le imposte comunali, dalla tassa
sulle bestie da soma e da tiro al dazio di con­
sumo, dall’imposta sul macinato a quella di
famiglia gravavano tutte in misura spropor
zionatamente iniqua sui contadini54. Ed è su­
perfluo ricordare come nei comuni dell’area
mafiosa il potere locale fosse nelle mani delle
principali cosche, le quali “ ... compresero
subito il gran partito che potevano trarre dal­
la loro partecipazione alle elezioni politiche e
amministrative. Questa partecipazione di­
ventò più efficace ed attiva dopo le leggi che
allargarono il suffragio e che diedero il dirit­
to di voto ai membri stessi delle cosche...”55.
Dal resto è noto come nel Mezzogiorno il
sistema di utilizzare la malavita da parte dei
prefetti al fine di sostenere nelle campagne
elettorali i candidati governativi divenne am­
piamente praticato in connessione con l’av­
vento al potere della Sinistra e con la diffu­
sione del trasformismo come pratica di go­
verno. Liberare i mafiosi che avessero garan­
tito di lavorare a favore dei candidati alla vi­
gilia delle elezioni per nominare commissari
favorevoli al governo era pratica comune56.
La mafia come effetto e agente di processi di
ibridazione sociale. La mafia nasce come ri­
sposta della periferia all’impatto del centro;
ma non potrebbe affermarsi senza il soste­
27
gno di quest’ultimo. L’utilizzazione del pote­
re mafioso da parte delle autorità statali indi­
ca che il fenomeno mafioso va inquadrato
nell’ambito di sistemi di alleanze tra classi
sociali e fra interessi politici che si realizzano
a livello locale, ma che per mantenersi in vita
e affermarsi devono travalicare il sistema po­
litico locale e immergersi in un brodo di col­
tura costituito da equilibri politici nazionali.
L’alleanza regionale fra la borghesia agraria,
la piccola borghesia intellettuale e i nobili la­
tifondisti in Sicilia può reggersi soltanto sulla
repressione mafiosa dei contadini. Perché
questa possa essere esercitata impune mente
è necessario che si realizzi un’alleanza nazio­
nale tra latifondisti meridionali e borghesia
industriale settentrionale che ne delega ai pri­
mi l’esercizio57. Cosicché la mafia si radica
socialmente per ragioni più ampie di quelle
che ne hanno definito le origini. Le cause
della persistenza del fenomeno mafioso non
sono identiche a quelle della sua genesi. Il fe­
nomeno acquista una sua autonomia che ne
garantisce, in modo per così dire auto matico, la riproduzione, e ne rende difficile lo
sradicamento.
Un esempio di quanto s’è detto può essere
tratto dalla vicenda della repressione polizie­
sca della mafia sotto il fascismo58. L’assun­
zione da parte dello Stato del monopolio del­
la violenza, e la soppressione delle elezioni
tolsero le basi sociali dell’attività dei mafiosi
come mediatori. La mafia apparentemente si
disgregò; i mafiosi di piccolo calibro che non
si inserirono nel movimento delle camicie ne-
54 Sull’utilizzazione in funzione anticontadina delle amministrazioni locali in Sicilia vedi S. Sonnino, I contadini,
cit., pp. 107 sgg.
55 G. Mosca, Che cosa è la mafia, cit., p. 243.
56 Vedi Napoleone Colajanni, La Sicilia dai Borboni ai Sabaudi, Milano, Ed. Coop, libro popolare, 1951, pp. 7393; Gaetano Salvemini, Il ministro della malavita e altri scritti sull’Italia giolittiana, Milano, Feltrinelli, 1962, pp.
135-144.
57 Com’è noto questa è l’analisi condotta da Salvemini. Per una sintesi di essa si veda Massimo L. Salvadori, Il mito
del buongoverno, Torino, Einaudi, 1960, pp. 295-296.
58 Sulle vicende della mafia sotto il regime fascista vedi, per i profili qui accennati, H. Hess, Mafia, cit., pp. 60-61,
232-237; A. Blok, The Mafia, cit., pp. 182-189.
28
R aim on d o C atanzaro
re furono eliminati. I grandi proprietari ter­
rieri, una volta che la repressione dei contadi­
ni veniva garantita dall’apparato del regime e
dello Stato, furono ben lieti di potersi liberare
del peso economico della mediazione
mafiosa59, e aderirono al regime. Cosicché
quando il prefetto Mori, principale protago­
nista dell’azione di polizia, cominciò a pren­
dere di mira gli stessi agrari, venne brusca­
mente destituito. “Il Fascismo... aveva mo­
nopolizzato l’uso della violenza senza... cam­
biare l’ambiente sociale nel quale la mafia
aveva prosperato”60. La mafia riemerse nel
1943, apparentemente con le stesse caratteri
stiche che le erano proprie all’inizio del seco­
lo. Ma di lì a qualche anno un profondo pro­
cesso di crisi, trasformazione e ristrutturazio­
ne l’avrebbe investita, per farla riemergere in
nuove forme negli anni settanta.
È stato sottolineato come uno dei fondamentali modelli di comportamento della ma­
fia consista nel resistere all’introduzione di
mutamenti sociali e poi, quando questi ulti­
mi appaiono inevitabili, nello sfruttarli ai
propri fini61. Uno fra i tanti esempi è costi­
tuito dalla resistenza all’introduzione del
movimento cooperativistico tra i contadini e,
successivamente, dall’organizzazione di coo­
perative da parte degli stessi mafiosi. Don
Calò Vizzini, uno dei principali capimafia
della prima metà del secolo, cominciò ad or­
ganizzare cooperative agricole fra combat­
tenti e reduci all’indomani della prima guer­
ra mondiale. Lo troviamo a svolgere questa
attività fin dopo la seconda guerra mondiale,
riuscendo con l’uso di un tipico strumento
dell’associazionismo contadino a scompagi­
nare lo stesso movimento62.
Una delle conseguenze di questo model­
lo di comportamento è che istituzioni nuo­
ve vengono ad essere utilizzate per la rea­
lizzazione di valori tradizionali. In tal mo­
do si ha un duplice processo: da un lato
istituzioni moderne vengono modificate e
strumentalizzate per fini altri da quelli per
cui originariamente erano sorte. Dall’altro
i valori tradizionali non scompaiono, non
vengono sostituiti da nuovi valori, ma si
adeguano all’uso tradizionale delle nuove
istituzioni. Questo processo di ibridazione
sociale di cui la mafia è, forse in modo
emblematico, al contempo agente e risulta­
to, costituisce la base del potere mafioso e
della sua straordinaria capacità di persi­
stenza e riproduzione. Per meglio com
prendere questo processo ci si può soffer
mare sull’esempio dell’organizzazione eoo
perativistica promossa dal capomafia. Egli
riesce a far bloccare dalle autorità regio­
nali una cooperativa fondata sul movi­
mento contadino; a quel punto costituisce
la propria. I contadini che hanno visto
fallire la propria proposta dipendono da
lui per la propria sopravvivenza. Coloro
che saranno ammessi a far parte della
cooperativa si sentiranno beneficati, e
percepiranno l’ammissione non nei termini
di una normale transazione economica, ma
come una forma di concessione incon­
dizionata di benefici. Chi si sente così be­
neficato “diventa l’uomo del suo protetto­
re nel senso feudale della parola; ha in un
certo modo ricevuto da lui in fuedo la vi­
ta, e d’allora in poi, è pronto ai suoi
servizi”63.
Quali sono le conseguenze del persistere
59 Cfr. Cesare Mori, Con la mafia ai ferri corti, Verona, Mondadori, 1932, pp. 251, 354, passim.
60 A. Blok, The Mafia, cit., p. 186.
61 J. Schneider, P. Scheider Culture, cit., p. 183; E. J. Hobsbawm, Iribelli, cit., p. 131.
62 Vedi Michele Pantaleone, Mafia e politica, Torino, Einaudi, 1962, pp. 100-118.
63 L. Franchetti, Le condizioni, cit., pp. 109-110. Sul concetto di concessione incondizionata di benefici vedi Charles
Lindblom, Politica e mercato, Milano, Etas, 1979, p. 41.
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
di questa concezione precontrattuale64 della
transazione economica e del suo combinarsi
con rapporti propri di un’economia di mer­
cato? La caratteristica della concessione in­
condizionata di benefici è che non viene ri­
chiesta una controprestazione specifica da
parte del soggetto beneficato. Ma in un am­
biente sociale come quello descritto in queste
pagine, l’indeterminatezza della contropre­
stazione si traduce nella perenne esigibilità di
prove di obbligazione etica, cioè di simboli e
garanzie di fedeltà e lealtà. Dal soggetto be­
neficato si può così ottenere la tangente sulle
attività economiche, o il voto per un candi­
dato alle elezioni. Gli si può chiedere di tra­
sformarsi in killer. In tal modo funzioni eco­
nomiche, di controllo sociale e di potere poli­
tico si combinano strettamente nell’obbligazione mafiosa. In termini generali si può dire
che si ha una conversione di risorse economi­
che in risorse politiche, cioè nell’acquisizione
di controllo su altri soggetti, e una moltipli­
cazione di risorse disponibili. Infatti le con­
troprestazioni fondate sulla fedeltà costitui­
scono un credito, un potenziale esigibile sem­
pre e ripetutamente nel tempo.
Ciò spiega perché i mafiosi sono stati in
grado, sin dal loro nascere nell’ambiente del­
la Sicilia centro-occidentale, di adeguarsi ai
processi di trasformazione economica di una
società che se non fu in grado di svilupparsi
in senso industriale era ben lungi dall’essere
statica, registrando invece una notevole di­
namicità di intraprese economiche65. L’adat­
tamento costante di questo modello di com­
29
portamento al mutare delle condizioni stori­
che ha costituito la forza della mafia. Di tale
capacità si avrà una riprova esemplare nel se­
condo dopoguerra.
Le trasformazioni recenti
Intervento pubblico e trasformazioni sociali
nel secondo dopoguerra. Il declino che la
mafia sembrò registrare durante il fascismo
fu apparente. Mentre per la prima volta dai
tempi della formazione dello Stato unitario
si colpivano alcune manifestazioni del feno­
meno mafioso a livello locale, oltre cinquant ’anni prima66 era iniziato un processo che
avrebbe posto le basi per l’espansione della
mafia a livello sovranazionale. Attraverso
l’emigrazione transoceanica si andavano in­
fatti costituendo quei legami tra mafia sici­
liana e delinquenza organizzata americana
che da tempo caratterizzano la mafia come
multinazionale del crimine e che oggi giorno
costituiscono uno dei principali strumenti or­
ganizzativi per il traffico internazio naie del­
la droga.
Il riemergere della mafia alla fine della se­
conda guerra mondiale e il suo accompa
gnarsi alla storia italiana degli ultimi quarant’anni non possono tuttavia essere compresi
appieno se non si fa riferimento alle tra sfor­
mazioni sociali registrate dalla società sicilia­
na e alla nuove funzioni che assume lo Stato
nell’ambito di una più generale politica di in­
terventi per la promozione dello svilup-
64 L. Graziano ha richiamato l’attenzione sulle caratteristiche del Mezzogiorno come società precontrattuale. Vedi
Luigi Graziano, Clientelismo e sviluppo politico: il caso del Mezzogiorno, in Luigi Graziano (a cura di), Clientelismo
e mutamento politico, Milano, Angeli, 1974, p. 339.
65 Per un’analisi delle tendenze dinamiche e dei tentativi di sviluppo di iniziative economiche moderne in Sicilia vedi
Giuseppe Barone, Stato, capitale finanziario e Mezzogiorno, Salvatore Lupo, Rosario Mangiameli, La modernizza­
zione difficile: blocchi corporativi e conflitto di classe in una società arretrata, entrambi in Aa.Vv., La modernizza­
zione difficile, Bari, De Donato, 1983.
66 Sui primi casi di espansione della mafia siciliana in America vedi Ed Reid, La mafia, Firenze, Parenti, 1956, pp.
152-179. In generale sull’argomento cfr. Salvatore F. Romano, Storia della mafia, Milano, Sugar, 1963, pp.
209-227.
30
R aim on d o C atanzaro
po nel Mezzogiorno. L’aspetto generale di
questa politica risulta dalla combinazione di
due orientamenti diversi; da un lato la pro­
mozione dello sviluppo economico in
un’area sottosviluppata; dall’altro la redi­
stribuzione delle risorse, cioè l’istituzionaliz­
zazione dei diritti di cittadinanza sociale67.
Alle radici di tale politica vi furono le pro­
fonde trasformazioni registrate nei rapporti
sociali in Sicilia negli anni immediatamente
successivi alla fine della seconda guerra mon­
diale.
Ancora nel 1946 circa il 50 per cento della
superficie agricola siciliana era nelle mani
dell’1 per cento della popolazione68, mentre
a partire dall’occupazione alleata nel 1943 si
era andata progressivamente sviluppando
una vasta serie di lotte per la riforma agraria
e la distribuzione delle terre ai contadini. Nel
breve volgere di pochi anni il latifondo come
fattore portante della struttura economica e
sociale siciliana venne spazzato via. La fine
del latifondo non comportò però il trionfo
dei contadini ma, per uno di quei paradossi
storici di cui la Sicilia sembra così ricca, die­
de l’avvio al loro declino come classe sociale.
La distribuzione delle terre ai contadini non
venne effettuata in modo da garantire la for­
mazione di una piccola proprietà efficiente.
Sia per l’estensione ridotta dei terreni asse­
gnati che per la loro qualità scadente, la for
mazione della proprietà contadina servì in
massima parte soltanto a tamponare il pro­
cesso di espulsione di forza lavoro dalla terra
e a rendere meno drammaticamente esplosi­
vo il problema dell’emigrazione. La distribu
zione del latifondo aveva dato luogo infatti
alla formazione di proprietà capitalistiche
della terra, nelle quali la razionalizzazione
colturale e l’incremento della produttività
ebbero come ovvia conseguenza un impiego
più intensivo del fattore lavoro e una sua ri­
duzione quantitativa.
La mafia, che si introdusse da protagoni
sta nell’intricata rete di rapporti tra movi­
mento contadino, banditismo e separatismo
che caratterizzò l’immediato dopoguerra in
Sicilia, e che ebbe parte non irrilevante nella
formazione della piccola proprietà con­
tadina69, alla fine di questo processo vide ve­
nire meno, con la scomparsa dei latifondisti,
uno dei tradizionali poli della sua duplice
funzione di mediazione. La funzione dei
mafiosi come brokers fra contandini e latifondisti perse la sua ragion d’essere; restava
possibile fra contadini e Stato. Ma anche
quest’ultima subì ben presto un grosso colpo
man mano che il partito di mag gioranza as­
sunse in proprio quest’ultima funzione di
mediazione.
Nel Mezzogiorno e in Sicilia il secondo do
poguerra è stato caratterizzato dall’integra
zione della società meridionale all’interno
della società nazionale italiana70. Protagoni­
sti di questa integrazione sono stati il merca­
to e lo Stato. La caratteristica centrale di
questo processo è consistita nel fatto che il
mercato non è penetrato con le sue sole forze
nel Mezzogiorno, ma la sua penetrazione è
stata gestita dallo Stato. Quest’ultimo, per
adempiere a tale funzione, ha registrato una
sostanziale trasformazione, è passato cioè da
nemico della popolazione, quale si presenta­
va all’indomani dell’unificazione nazionale,
a protettore della società tradizionale. Lo
Stato ha assunto queste funzioni di protezio
67 Sulla istituzionalizzazione dei diritti di cittadinanza sociale come aspetto del processo di formazione dello Stato e
della nazione si vedano Thomas H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Torino, Utet, 1976; Reihnardt Bendix,
Stato nazionale e integrazione di classe, Bari, Laterza, 1969; S. Rokkan, Dimensions, cit.
68 D. Mack Smith, Storia, cit., pp. 725-726.
69 Cfr. F. Renda, Funzioni, cit.
70 Gabriella Gribaudi, Mediatori, Torino, Rosenberg & Sellier, 1980, pp. 23-28, passim.
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
ne esplicando una duplice mediazione: tra
Mezzogiorno e zone industrializzate del nord
del paese, e fra centro e società periferica lo­
cale. In tal modo ha assunto in proprio le
funzioni che erano proprie dei mafiosi come
brokers. I nuovi mediatori si sono fatti parte
attiva nel promuovere un certo tipo di svilup­
po della società meridionale e siciliana, fa­
cendo sì che nei suoi confronti fluissero le ri­
sorse pubbliche.
La realizzazione di questa politica di in­
tervento richiese e al contempo comportò
un cambiamento nelle funzioni di mediazio­
ne. Da una parte cambiano i soggetti sociali
che esercitano la mediazione; dai notabili e
dai patroni tradizionali si passa ai brokers
di partito che riescono ad avere accesso ai
luoghi in cui si decide l’erogazione delle ri­
sorse verso la periferia. Cambia anche il ti­
po di risorse: dalle risorse di proprietà del
notabile tradizionale si passa alle risorse
pubbliche, alle quali il mediatore accede.
Infine cambia il contenuto della mediazio­
ne: dalla mediazione rispetto alle funzioni
repressive dello Stato si passa a stimolare
l’intervento pubblico. Di conguenza il nuo­
vo broker è costretto ad assumere un ruolo
attivo di promozione del cambiamento. Egli
infatti continua a manipolare norme sociali,
come in passato, ma la sua relazione con i
clienti è di natura instabile, essendo fondata
sulla capacità del broker di far affluire ri­
sorse che non sono sue. Ciò fa venir meno
il carattere tradizionale di monopolio delle
funzioni di mediazione, e le trasforma in at­
tività formalmente più aperte e accessibili a
un numero maggiore di soggetti, ma soprat­
tutto a soggetti con caratteristiche differenti
dai mafiosi tradizionali.
L’introduzione di risorse pubbliche nel si­
stema economico costituisce un impulso
enorme alla formazione di una categoria di
mediatori. Ma perché la mediazione possa
essere efficace nel nuovo quadro della pro
mozione pubblica delle attività economiche è
necessario che si basi su istituzioni che serva­
31
no come una sorta di azienda di credito poli­
tico a garantire continuità e stabilità nello
svolgimento di tali funzioni, e che garanti
scano, tramite i contatti privilegiati con gli
enti governativi, il costante successo dell’at­
tività di mediazione. E sono proprio queste
esigenze che danno luogo al formarsi di isti­
tuzioni specializzate nelle funzioni di media
zione (partiti politici, sindacati, patronati
specializzati in pratiche pensionistiche e di
welfare ecc.), all’interno delle quali i singoli
mediatori agiscono nelle vesti di agenti o
“concessionari” dell’intermediazione. A
questo processo va ricondotta la crisi e la de­
finitiva scomparsa dei mafiosi tradizionali
come brokers. Cessata l’esigenza di controllo
sociale su una massa di contadini in costante
diminuzione e ormai inquadrati nelle orga
nizzazioni collaterali dei partiti di massa, as­
sunte dai partiti le nuove funzioni di media­
zione, non c’era più spazio per l’azione dei
mafiosi tradizionali.
Crisi e mutazione della mafia. Se si guarda
alla configurazione della mafia nel corso de­
gli anni cinquanta, si può notare l’esistenza
di un coacervo di figure e personaggi che raf
figurano un universo in transizione. Sono
ancora in azione i mafiosi tradizionali, gli
uomini di rispetto legati all’ambiente del lati­
fondo: don Calò'Vizzini a Villalba, Giuseppe
Genco Russo a Mussomeli, il dottor Michele
Navarra a Corleone, Vincenzo Di Carlo a
Raffadali. Al contempo cominciano ad
emergere i cosiddetti mafiosi-gangster, di­
sposti ad usare le armi senza scrupoli, e che
hanno sostituito il mitra alla tradizionale lu­
para. Ed emergono sia dall’ambiente rurale
del latifondo, con la trasformazione di figure
come quelle dei campieri e dei gabellotti, sia
dall’ambiente urbano della malavita delle
estorsioni e dei ricatti. Ma già si cominciano
a combinare attività mafiose nei mercati del
commercio all’ingrosso di Palermo con atti­
vità legate allo sviluppo urbano e all’edilizia
e con il traffico degli stupefacenti. Nuove
32
R aim ond o C atanzaro
carriere mafiose si sviluppano sfruttando
gli appalti per lavori pubblici e i legami con
il sistema creditizio e bancario a Palermo,
Trapani e Agrigento, o le nuove opportuni
tà aperte dal commercio su larga scala degli
stupefacenti. Buona parte di coloro che in
traprendono nuovi tipi di commerci illeciti
mafiosi erano già attivi prima della seconda
guerra mondiale, o addirittura prima della
Grande Guerra. E forse il più straordinario
esempio di questa capacità di sopravvivere
al cambiamento dei tempi, innovando i
moduli del comportamento mafioso e
creando nuovi settori di azione e di traffi­
co, è costituito da quei clan esponenti nel­
l’anteguerra della mafia degli agrumeti e
del controllo sulle acque e divenuti uno dei
principali gruppi nel commercio mondiale
dell’eroina71.
Questo variegato universo in trasforma
zione è determinato dalle risposte dei gruppi
mafiosi ai processi di erosione del loro potere
tradizionale messi in moto dalle trasforma
zioni sociopolitiche ed economiche tratteg
giate nel paragrafo precedente. Quelle stesse
trasformazioni che ancora una volta, mentre
erodevano le basi tradizionali del potere ma­
fioso, creavano le condizioni per dare spazio
a nuove forme di azione e di organizzazione
della mafia. Spazi e occasioni che i gruppi
mafiosi, utilizzando nuovamente la loro ca­
pacità di piegare il mutamento ai propri fini,
non si sarebbero lasciati sfuggire. Di questi
processi di rifondazione dall’agire mafioso,
tre sono forse quelli più emblematici: le nuo­
ve forme di penetrazione mafiosa nei partiti
e nell’apparato dello Stato, la formazione di
un’imprenditorialità assistita, l’apertura di
enormi opportunità di arricchimento attra­
verso lo sfruttamento delle chances offerte
dell’espansione del settore illecito dall’eco­
nomia.
L’assunzione di compiti assistenziali da
parte dello Stato nel Mezzogiorno e in Sicilia
dà luogo a un passaggio dalle forme tradizio­
nali di clientelismo al moderno mass patro­
nage gestito dal partito democristiano e dalle
sue organizzazioni collaterali72. Una delle
conseguenze più rilevanti di questa trasfor
mazione è la compenetrazione tra apparati
pubblici e partito al potere. In particolare le
assunzioni negli organismi deH’amministra
zione pubblica regionale e locale e negli enti
di sviluppo e di promozione economica av­
vennero nella maggior parte dei casi (e certa­
mente per tutti gli anni cinquanta questa fu
la norma di fatto attuata) senza le garanzie
del concorso pubblico73, favorendo ogni tipo
di pressioni clientelari e lasciando nelle mani
di funzionari spesso senza competenze e in­
clini all’uso particolaristico e discriminatorio
dei poteri loro affidati la gestione delle poli­
tiche redistributive e di promozione dello svi­
luppo economico.
La stabilizzazione di questo sistema di po­
tere indusse delle svolte nell’atteggiamento
della mafia a proposito dei rapporti con i
partiti e i pubblici poteri. Tradizionalmente
infatti la mafia non si era mai apertamente
schierata, se non per il breve periodo degli
anni immediatamente successivi al 1943, con
un solo partito politico, preferendo sempre
attendere chi fosse il più forte a cose fatte.
Così come i deputati siciliani e meridionali in
genere, la mafia per sua stessa natura tende­
va ad essere “governativa”, cioè a schierarsi
71 Si tratta del clan dei Greco di Ciaculli, recentemente venuti alla ribalta per gli omicidi di Dalla Chiesa e Chinnici,
ma dei quali si parla già nelle biografie di singoli e di famiglie mafiose ricostruite dalla Commissione Antimafia e
pubblicate in 7 boss della mafia, Roma, Editori Riuniti, 1971.
12 Cfr. Sidney Tarrow, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino, Einaudi, 1972, pp. 296 sgg.
73 Per alcuni esempi di questa prassi vedi Mario Caciagli e altri, Democrazia cristiana e potere nel Mezzogiorno, Fi­
renze, Guaraldi, 1977, capp. V, VI e VII; P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 91-92.
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
pragmaticamente con chi deteneva le funzio­
ni pubbliche e doveva quindi venire a patti
con i potentati locali, garantendo loro al
contempo ampie sfere di autonomia e dele­
gando, come si è visto in precedenza, la ge­
stione della violenza. Nel secondo dopoguer
ra, cessata la variabilità degli schieramenti
governativi, caratterizzatasi la De come par­
tito stabilmente governativo, di fronte all’a­
pertura di opportunità di intervenire in for­
me nuove nei gangli vitali dello Stato e dei
pubblici poteri, i gruppi mafiosi non esitaro­
no a cambiare strategia. A partire dagli anni
cinquanta si determinò un intreccio molto
stretto tra mafia e De a Palermo, intreccio
che, per l’importanza strategica della città
come capoluogo della regione e sede del go­
verno regionale, e per il suo peso politico ne­
gli equilibri nazionali, sarebbe stato destina­
to ad avere effetti e rilevanza non limitati esclusivamente a livello locale.
In questo quadro l’intreccio tra attività
economiche e attività politiche diventa più
stretto, favorendo ancora una volta come in
passato l’emergere e raffermarsi di quei
gruppi e di quegli individui che erano già sta­
ti addestrati in precedenza a muoversi nei
meandri della politica e a penetrare nella
pubblica amministrazione.
Spersonalizzazione e occultamento del pote­
re mafioso. Insieme alla trasformazione di
vecchi soggetti sociali, la politica di interven­
to dà luogo al sorgere di altri gruppi. In par
ticolare si determina la formazione di nuovi
gruppi di operatori economici che assumono
la veste tipica dell’imprenditore assistito74,
cioè di soggetti le cui attività economiche e la
cui affermazione sul mercato sono garantite
da un rapporto privilegiato con le fonti di fi
nanziamento pubblico delle attività econo­
miche private. In misura più massiccia che in
periodi precedenti a partire dagli anni cin­
33
quanta il sorgere di gruppi e di iniziative im
prenditoriali private in Sicilia non avviene
sulla base del funzionamento selettivo del li­
bero mercato, ma in seguito ad una cospicua
politica di finanziamenti pubblici. Lo Stato e
la regione promuovono una politica econo­
mica rivolta alla creazione di infrastrutture e
allo sviluppo delle opere pubbliche e dell’edi­
lizia. Le nascenti iniziative imprenditoriali
vengono stimolate attraverso la concessione
di rilevanti agevolazioni creditizie e di contri­
buti a fondo perduto alle aziende che si inse­
diano nel territorio siciliano. Gli effetti di
questa politica sono tali da creare un ceto im
prenditoriale fortemente legato da rapporti
di scambio politico-clientelare con il sistema
dei partiti (e in particolare con la Democra­
zia cristiana) e con il sistema politico-ammi
nistrativo.
I mafiosi comprendono che la virtù fonda
mentale dell’uomo moderno è quella di pro
curarsi capitali attraverso le attività econo
miche, e afferrano la possibilità di moltipli­
care il loro giro d’affari e la loro potenza
economica sfruttando i rapporti privilegiati
con il partito al potere e quindi con le attività
di promozione dello sviluppo economico da
parte dello Stato. È questo il periodo che du­
ra per tutti gli anni cinquanta e parte dei ses­
santa, in cui la cosiddetta nuova mafia è
strettamente connessa con lo sviluppo urba­
no delle città. Anni caratterizzati ancora dal­
l’uccisione di sindacalisti ed esponenti del
movimento operaio, ma in cui al contempo si
afferma emblematicamente il seppellimento
per colata nel cemento dei moderni edifici
che sorgono come funghi nei centri urbani o
alle loro periferie.
La formazione di un’imprenditorialità as­
sistita è fenomeno comune sia alle zone tradi
zionalmente mafiose della Sicilia che a quelle
non toccate dalla mafia. L’espansione in ter­
mini di mercato della imprenditorialità
74 Vedi Raimondo Catanzaro e altri, L ’imprenditore assistito, Bologna, 11 Mulino, 1979.
34
R aim ond o C atanzaro
assistita comporta come conseguenza una
tendenziale omogeneizzazione delle pratiche
di comportamento mafioso. Nel corso degli
anni settanta gli imprenditori assistiti ope­
ranti nelle zone della Sicilia orientale, tradi
zionalmente considerate immuni dal fenome­
no mafioso, cominciano ad operare su mer­
cati della Sicilia occidentale. Di conseguenza
debbono cominciare a fare i conti con le pra­
tiche di rapporti tra economia e politica colà
esistenti. Le differenze non sono molte: si
tratta di adeguare le pratiche clientelari in di
rezione clientelar-mafiosa. In tal modo
un’imprenditorialità che sembrava esser sor­
ta in modi “puliti”, in quanto immune da
pratiche mafiose, viene ad essere “inquina­
ta” da tali pratiche a seguito della conquista
di nuovi mercati. Ciò è reso necessario dal
fatto che per poter competere con le imprese
mafiose operanti in loco è necessario usare le
stesse armi della concorrenza mafiosa; altri­
menti non si possono ottenere, ad esempio,
appalti di opere pubbliche. Il fenomeno
complementare si verifica per quegli impren­
ditori sorti sin dalla loro nascita come im
prenditori mafiosi. La loro espansione su
mercati originariamente non infestati dalla
mafia determina un tendenziale processo di
trasformazione in senso clientelar-mafioso
dei sistemi politici locali.
Si determina in tal modo un processo di
diffusione delle pratiche mafiose a livello ter
ritoriale dell’intera Sicilia e un’omogeneizza
zione in senso clientelar-mafioso dei rapporti
tra sistema economico e sistema politico.
Questo fenomeno è importante perché non si
tratta soltanto di mutamenti di quantità o di
grado delle attività mafiose. Siamo in pre­
senza di un fenomeno di tendenziale sperso
nalizzazione del potere mafioso.
Tradizionalmente il potere mafioso si con­
figurava come un potere di natura personale.
Ciò era dovuto in primo luogo alle funzioni
dei mafiosi come brokers. Ogni attività di
mediazione richiede qualità e collegamenti,
capacità di persuasione e di influenza, poteri
di fatto legati a specifiche persone. Ciò era
tanto più vero in quanto il potere mafioso si
manifestava nell’ambito di una comunità
nella quale il mafioso assumeva, una volta
che il suo potere si era istituzionalizzato co­
me legittimo, compiti di risoluzione delle
controversie, di amministrazione di fatto
della giustizia, di rappresentanza della comu­
nità all’esterno. Questo aspetto comunitario
era infine connesso ad una terza caratteristi
ca del potere mafioso. Si trattava infatti di
un potere delimitato territorialmente.
La crisi delle funzioni di mediazione e l’or
ganizzazione mafiosa di attività economiche
e imprenditoriali moderne pongono fine alla
caratterizzazione personale del potere mafio­
so. La formazione di imprese mafiose non
soltanto fa scomparire l’aspetto comunitario
del potere ma, a seguito della logica di espan­
sione e di conquista dei mercati, fa saltare
anche la delimitazione territoriale del potere
mafioso. Emerge così una forte tendenza alla
trasformazione del potere mafioso in un im­
personale potere di mercato.
Tale tendenza trova una limitazione nel
permanere e talvolta anzi nell’accentuarsi
dell’uso della violenza come strumento di re­
golazione della competizione economica tra
gruppi mafiosi. La fine della delimitazione
territoriale del potere mafioso comporta in­
fatti un’esasperazione della lotta violenta tra
gruppi mafiosi concorrenti per la conquista
di mercati o comunque di opportunità eco­
nomiche75. Non vanno tuttavia dimenticati
alcuni fatti che rafforzano il processo di
spersonalizzazione del potere mafioso. Tali
fatti consistono nei collegamenti puramente
economici, e quindi di interesse, che si in-
75 Pino Arlacchi, Mafia e tipi di società, “Rassegna italiana di sociologia”, 1980, n. 1, pp. 3-49; Idem, La mafia im­
prenditrice, cit., pp. 180-85.
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
staurano tra imprese mafiose e altri soggetti
economici. Le altre imprese cui vengono su­
bappaltati lavori, o con le quali si stipulano
accordi o si formano cartelli; il sistema ban­
cario e finanziario nelle cui casse affluiscono
sotto forma di depositi e conti correnti i capi­
tali di origine mafiosa; i numerosi soggetti
individuali che ricavano redditi di lavoro da
questi giri d’affari. Tutti costoro vengono a
configurare una costellazione d’interessi su
cui si forma l’impersonale potere di mercato
dei gruppi mafiosi76.
Ma non è soltanto nel senso dell’anonima­
to del potere di mercato che si caratterizza il
processo di spersonalizzazione del potere
mafioso. Esso assume anche le sembianze di
un potere occulto, come effetto dei processi
delineati nelle pagine precedenti e in conse­
guenza del proliferare delle attività economi­
che illecite.
Il potere mafioso tradizionale non era oc­
culto, ma si manifestava apertamente agli
occhi di tutti. E ciò era vero per entrambi i
momenti della carriera mafiosa tradizionale,
e cioè quello violento, eversivo, e quello isti­
tuzionalizzato, reso legittimo dall’accetta­
zione da parte della popolazione a seguito
del successo nell’uso della violenza. In en­
trambi i casi l’aperta manifestazione di pote­
re da parte dei mafiosi discendeva dalla com­
binazione fra la loro funzione di mediatori e
la delega nell’esercizio della violenza loro
concessa dallo Stato. Per assolvere la funzio­
ne di mediazione il mafioso deve godere di re
putazione sociale, deve essere considerato
uomo di rispetto; e questa considerazione di­
scende dal fatto di aver dimostrato in prece­
denza di essere il più abile nell’uso della vio­
lenza. Una volta acquisito questo riconosci­
35
mento, egli può governare senza far ricorso
personalmente alla violenza aperta, così co­
me può procurarsi un reddito tramite lo svol­
gimento di normali attività economiche fon­
date sull’esistenza di un patrimonio illecitomente accumulato.
Entrambi questi processi di traslazione,
dall’uso della violenza alla legittimazione
del potere, e dall’illecito alle attività econo
miche lecite, sono venuti meno nel nuovo
quadro che si delinea a partire dagli anni
cinquanta. Fortemente attenuatesi le esigen­
ze di controllo sociale con i metodi tradizio­
nali, sono cessate sia la delega del monopo­
lio della violenza da parte dello Stato, sia le
funzioni di mediazione degli uomini di ri­
spetto. La mafia ha perduto il suo aspetto
di dimensione pragmatica dello Stato e di
conseguenza la visibilità del potere è venuta
meno. Accanto a questi processi, la rilevan­
te crescita di importanza del settore illecito
delle attività economiche mafiose ha com­
portato una crescente tendenza al suo confi­
gurarsi come potere occulto. Dagli anni cin­
quanta in poi i mafiosi sono costantemente
immersi nell’illecito, e non soltanto nella
prima fase della propria carriera come in
passato.
L’organizzazione di attività illecite da par­
te della mafia registra un salto di qualità con
l’inizio del contrabbando di stupefacenti ne­
gli anni cinquanta. Sono infatti dell’inizio di
quel decennio le prime segnalazioni della po­
lizia tributaria sul traffico degli stupefacenti
nella Sicilia occidentale77.
L’espansione del mercato della droga e la
conquista di posizioni di preminenza da par­
te delle organizzazioni mafiose siciliane78
comportano una serie di conseguenze, la pri-
76 Max Weber, Economia e società, Milano, Comunità, 1961, vol. II, p. 245.
77 Cfr. I boss della mafia, cit., pp. 227, 320.
78 Allo stato attuale della documentazione non siamo in grado di affermare se la posizione di preminenza della ma­
fia siciliana nel traffico mondiale della droga si verifichi a partire dagli anni settanta, come sostiene P. Arlacchi, La
mafia imprenditrice, cit., oppure fosse in atto già negli anni cinquanta, come è sostenuto nel rapporto McClellan, ri­
preso dalla Commissione parlamentare d ’inchiesta sul fenom eno della mafia in Sicilia, vol. IV, tomo XIII, parte pri­
ma, p. 202, citato in Umberto Santino, Economia della droga. Traffico di stupefacenti, mafia e organized crime,
36
R aim ond o C atanzaro
ma delle quali si verifica sul sistema crediti­
zio. Il condizionamento diretto e indiretto
dei gruppi mafiosi sul sistema bancario è evi­
dente. Da un lato crescono, come conseguen­
za dei profitti derivanti dalle attività dell’im
prenditorialità assistita e dell’imprenditoria
lità mafiosa, le banche private, le banche po­
polari e le casse rurali, da sempre e tradizio
nalmente luogo privilegiato di accumulazio
ne del capitale di origine mafiosa special
mente nella Sicilia occidentale. Dall’altro
cresce il potere condizionante derivante dal­
l’enorme quantità di denaro liquido disponi­
bile nelle mani dei mafiosi79. Si può avere
un’idea delle dimensioni di questo potere se
si considera che già negli anni sessanta la
Commissione antimafia riscontrava casi ab­
normi di fidi e scoperture di credito concessi
a noti mafiosi non soltanto da piccole ban­
che private, ma anche da banche di diritto
pubblico80.
L’espansione e la scala delle attività mafiose al giorno d’oggi hanno determinato
uno stravolgimento dei tradizionali rapporti
tra mafia e potere politico. In che modo si è
verificato questo stravolgimento? Quali con­
seguenze ha avuto? Che ruolo gioca sul­
l’odierna configurazione dei rapporti tra uni­
verso mafioso e politica lo strumento tradi­
zionale dell’amicizia strumentale e del clien
telismo?
L ’adattamento dei codici culturali tradizio­
nali. Il passaggio dei mafiosi da power bro­
kers a imprenditori costituisce una mutazio­
ne antropologica di straordinaria rilevanza.
Ma tale mutazione non consiste, come erro­
neamente si è creduto81, nello sviluppo di
attività imprenditoriali in precedenza inesi­
stenti nell’universo di comportamento ma­
fioso. Si è dimostrato prima infatti come le
funzioni di power brokers dei mafiosi fosse­
ro rese possibili dal loro collocarsi sulle
giunture cruciali di certi rapporti, e in parti
colare dal loro ruolo di imprenditori sia con
riferimento alle varie funzioni connesse alla
produzione agricola nel latifondo che ai
compiti di intermediazione commerciale.
Piuttosto l’elemento di novità consiste nel
fatto che le attività imprenditoriali, a segui­
to del mutato contesto di rapporti economi­
ci e politici, vengono a perdere quella corni­
ce culturale che le inquadrava nell’ambito
delle funzioni politiche e di controllo socia­
le. In tal modo l’utilizzazione dei meccani
smi di mercato e di un rapporto privilegiato
con gli apparati dello Stato per costruire de­
gli imperi economici basati sulla combina-
“Segno”, 1982, n. 31-32, p. 47. Certo è comunque che la diponibilità in mani mafiose di ingenti somme di origine il­
lecita doveva essere notevole già alla fine degli anni cinquanta, se la stessa Commissione documenta pagamenti per
un miliardo e trecento milioni di lire (a prezzi correnti) effettuati dagli americani ad un gruppo mafioso siciliano per
la fornitura di 361 chili di eroina nel periodo 1958-1961.
79 Sulla moltiplicazione delle iniziative bancarie in Sicilia cfr. Stefano Ruvolo, Mafia e speculazione edilizia, in A c­
cumulazione e cultura mafiosa, Bollettino a cura del Comitato di controinformazione “Peppino Impastato”, Paler­
mo, Editrice Centofiori, 1979, p. 5; P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 234-235. Sull’argomento tuttavia
non è stata ancora condotta alcuna ricerca approfondita.
80 Cfr. Iboss della mafia, cit., pp. 346-360.
81 Cfr. P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit. Anche nel caso di questo brillante saggio, l’errore fondamentale
consiste in un’applicazione meccanica del modello weberiano dell’idealtipo. Costruito a priori un modello del mafio­
so tradizionale che per definizione non dovrebbe svolgere attività imprenditoriali (perché nella società tradizionale
tali attività non esistono, sempre per definizione), Arlacchi vi contrappone un mafioso imprenditore, anzi addirittu­
ra imprenditore schumpeteriano, perché innovatore. Solo che questo presunto imprenditore schumpeteriano secon­
do lo stesso Arlacchi non promuove sviluppo, quindi — aggiungiamo noi — non è affatto schumpeteriano, perché il
collegamento con lo sviluppo è carattere imprescindibile nella definizione dell’innovazione imprenditoriale che dà
Schumpeter.
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
zione fra attività legali e illegali si sviluppa
ulteriormente rispetto a quanto avveniva in
precedenza, e consente alle imprese mafiose
di raggiungere dimensioni tali da costituire
un’ennesima riprova della capacità dei grup­
pi mafiosi di combinare vecchio e nuovo,
moderno e tradizionale82. In questa nuova
combinazione si ripete un vecchio modello: i
valori tradizionali non scompaiono, ma cam­
biano funzione; di conseguenza anche il loro
significato cambia. Ciò si verifica sia per l’o­
nore che per la violenza e l’amicizia strumen­
tale.
Entrati i mafiosi nel gioco della competi­
zione economica di mercato, debbono adat­
tarsi alle sue regole. Le funzioni dell’amicizia
strumentale per consentire fiducia e prevedi­
bilità nelle transazioni economiche vengono
in gran parte meno, sostituite dalle garanzie
giuridiche e commerciali. In gran parte, ma
non tutte. Il problema degli andamenti di
mercato resta, soprattutto in un’economia
marginale caratterizzata da incapacità di in­
vestire nei settori avanzati della produzione,
e i cui mercati sono soggetti a forti fluttua
zioni dovute alla concorrenza esterna. Il pro­
blema della prevedibilità viene risolto attra­
verso l’intervento pubblico che, favorendo
sistematicamente certi settori di attività eco­
nomica con i propri finanziamenti, consente
agli imprenditori di individuare le opportuni
tà di investimento a basso rischio83. Sul pia­
no della funzione di prevedibilità l’amicizia
strumentale si trasforma in misura crescente
da un lato in un rapporto di scambio cliente
lare tra imprenditori e politici, dall’altro nel­
la formazione di gruppi e alleanze tra sogget­
ti economici, soggetti politici e parti dell’ap­
parato dello Stato. Perde quindi i residui di
37
natura simbolico-emotiva, e diventa rappor­
to puramente strumentale di legame tra inte­
ressi.
In quanto al problema della fiducia, se vie­
ne meno la necessità di far ricorso all’amici­
zia strumentale nel settore lecito dell’econo­
mia, tale necessità si manifesta in maniera
pressante per il settore dei traffici illeciti. Qui
però, data l’entità degli interessi in gioco,
l’amicizia strumentale non si rivela più in
grado di fornire garanzie sufficienti. Il fun
zionamento del settore dei traffici illeciti per
sua stessa natura non può riposare su transa
zioni che avvengano alla luce del sole e basa­
te sui normali rapporti di fiducia propri del
mercato. Poiché i traffici si svolgono in mo­
do occulto, l’unico sistema per far funziona­
re la macchina dell’illecito consiste nel creare
una rete di relazioni fiduciarie molto intense.
Per questi motivi i gruppi mafiosi si organiz­
zano recuperando una serie di valori tradi
zionali. L’organizzazione dell’impresa crimi­
nale mafiosa è fondata sulla famiglia, su rap­
porti di parentela e quasi parentela84. Ma per
quanto si possano estendere questi legami at­
traverso strategie matrimoniali, relazioni di
comparaggio e così via, resta pur sempre ne
cessario ricorrere a soggetti estranei alle reti
di relazioni parentali e quasi parentali. In
questi casi, che sono molto numerosi, so­
prattutto nelle ipotesi non infrequenti di al­
leanze tra cosche differenti, il ricorso al tra­
dizionale codice dell’onore si rivela di fonda
mentale importanza. Il rispetto degli impegni
presi, l’adeguarsi a ciò che è stato deciso nel­
l’ambito della cosca, sono comportamenti
conformi al codice dell’onore. Tale codice
diventa dunque il principale strumento su cui
si basano i rapporti di fiducia organizzativa
82 Per una rassegna della recente letteratura sul Mezzogiorno a proposito delle tematiche sopra esposte vedi Raimon­
do Catanzaro, Struttura sociale, sistema politico e azione collettiva nel Mezzogiorno, “Stato e mercato” , 1983, n. 8,
pp. 105-149.
83 R. Catanzaro e altri, L ’imprenditore assistito, cit., pp. 41-51.
84 P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 222-228.
38
R aim on d o C atanzaro
nelle attività economiche illegali. L’onore
perde le funzioni che aveva avuto, di nor­
ma culturale regolatrice della competizione
per l’ascesa sociale. Adesso che anche i ma­
fiosi sono rivolti più ad accumulare capitali
che ad acquisire rispetto, l’onore serve co­
me mezzo di coesione interna ai gruppi ma­
fiosi.
Tuttavia tale coesione non è facile da
mantenere perché sono molte le tentazioni
offerte dal mercato dell’illecito. Basta una
sola operazione a buon fine, basta tenere
per sé invece che consegnare ai titolari del­
l’operazione il ricavo della vendita di una
partita di droga, oppure trattenere una tan­
gente non ammessa dall’organizzazione, per
arricchirsi. Fu proprio un episodio del gene­
re ad innescare i violenti conflitti tra cosche
che avrebbero caratterizzato una delle tante
fasi calde attraversate dalla città di Palermo
agli inizi degli anni sessanta85. Il sospetto
che due corrieri avessero distratto una parte
del quantitativo di droga da consegnare ne­
gli Stati Uniti indusse una cosca a rompere
l’alleanza con le altre, a uccidere uno dei
presunti traditori (l’altro si era reso irreperi­
bile) e parecchi fra i parenti e amici, deter­
minando una reazione a catena di vaste
proporzioni.
Forzando un po’ i termini si potrebbe di­
re, a proposito dell’episodio precedente, che
una sorta di “conflitto aziendale” viene ri­
solto facendo ricorso all’esercizio della vio­
lenza. La violenza diventa strumento fonda
mentale della competizione economica tra
mafiosi. Non è che non lo fosse anche pri­
ma; ma adesso assume un significato nuo­
vo, più scoperto, privo di incrostazioni e
giustificazioni ideologiche. Fino agli anni
cinquanta la violenza mafiosa trovava una
sua legittimazione in tre fattori: la delega al
suo esercizio da parte dello Stato; il caratte
re comunitario del potere mafioso come ge­
85
Cfr. I boss della mafia, cit., pp. 241, 272-294.
stione pubblica dell’ordine; la titolarità del
suo monopolio, giustificata in termini di at­
tribuzione sociale dell’onore. Adesso che si
sono esaurite le condizioni di esistenza di
questi tre fattori, l’esercizio della violenza si
manifesta per quello che è, anche nella so
stituzione dei mitra e del tritolo alla tradi
zionale lupara: pura, brutale, spesso indi
scriminata dimostrazione del dominio della
forza fisica.
Nella grande trasformazione mafiosa de­
gli ultimi trent’anni si determina dunque
uno sconvolgimento e un riadattamento dei
codici culturali tradizionali. L’amicizia stru
mentale perde il delicato equilibrio tra
aspetti strumentali e aspetti simbolico-soli
daristici. I primi si trasferiscono ai rapporti
di interesse e di scambio fra soggetti indivi
duali e collettivi e agenzie specializzate. I se­
condi tendono, per quel che riguarda i
gruppi mafiosi, ad essere sostituiti dall’ono­
re. Quest’ultimo perde la connotazione da
un lato di idioma in cui si parla di linguag­
gio della ricchezza materiale, e dall’altro di
strumento regolatore della competizione per
l’ascesa sociale. Viene meno quindi l’ambi
valente duplicità del concetto di onore. So­
stituito dalla ricchezza come criterio di stra
tificazione sociale e simbolo di potenza,
l’onore tende ad assumere le funzioni
di istituzionalizzazione della fiducia nei de­
licati rapporti di interesse che si instaurano
nell’organizzazione dell’economia illecita.
La sua precedente funzione di natura com­
petitiva viene assunta dalla violenza.
Quest’ultima, nel suo esercizio effettivo e
nella minaccia di farvi ricorso, non solo re­
gola la competizione tra gruppi mafiosi, ma
tende a porsi come sistema normativo nelle
relazioni tra il complesso del settore econo­
mico mafioso e il settore non mafioso del­
l’economia. Lo scoraggiamento in varie for­
me della concorrenza di imprese non mafio-
La m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
se da parte di quelle mafiose è un esempio
non irrilevante di questo tentativo di imporre
la violenza come norma generale di regola­
zione della competizione di mercato.
Mafia e potere politico: dalla periferia al
centro. La violenza mafiosa, priva ormai
della copertura simbolica dell’onore, non si
pone soltanto come strumento di regolazio
ne della competizione economica. In misura
crescente tende a diventare forza politica e a
porsi in conflitto aperto con i poteri dello
Stato. Si può dire che sistematicamente da
più di dieci anni esponenti dei poteri dello
Stato, magistrati, funzionari di polizia e uffi­
ciali dei carabinieri, persino un presidente
del governo regionale siciliano e un prefetto
della Repubblica sono entrati nel mirino dal­
la mafia. Si tratta di un fenomeno asso­
lutamente nuovo perché in precedenza, salvo
rare eccezioni della mafia rurale o scontri a
fuoco fra mafiosi-gangster e forze dell’ordi­
ne, la mafia non si era mai scagliata contro
i poteri dello Stato.
Quali le cause di questo mutamento? Si
può affermare che esse trovano le loro radici
nello sconvolgimento delle condizioni di esi­
stenza dell’universo mafioso che sono state
tratteggiate in precedenza. In breve l’espan­
sione dell’economia illegale, il giro d’affari
messo in moto dai traffici mafiosi, le dimen­
sioni nazionali e internazionali degli interessi
coinvolti hanno determinato un duplice fe­
nomeno: da una parte la necessità dei gruppi
mafiosi di impadronirsi diretta mente di set­
tori e parti cruciali degli apparati dello Stato;
dall’altra quella di combattere apertamente
quegli apparati che resistono a tale conquista
e che si oppongono al dilagare del fenomeno
mafioso.
Di recente è stata avanzata una tesi se­
39
condo la quale la crescita della potenza
mafiosa sarebbe caratterizzata, rispetto al
modello tradizionale dei rapporti tra mafia
e politica, da un elemento di novità, consi­
stente nell’autonomia politica del potere
mafioso. Tale autonomia si esprimerebbe
nelle due forme della “della rappresentanza
politica dei gruppi mafiosi” e della costitu­
zione di lobbies politico- mafiose basate su
“rapporti di comune interesse economico
tra leader mafiosi, leader politici e settori
del mondo economico e finanziario locale
e nazionale”86. Tale tesi, se appare convin­
cente sotto il profilo dell’esistenza di
un’accresciuta potenza mafiosa, non altret­
tanto lo è nel definire l’autonomia del po­
tere mafioso e le forme in cui si manifesta
come delle novità rispetto ai tradizio nali
rapporti tra mafia e potere politico.
La prima difficoltà consiste nella possibili­
tà stessa di definire l’autonomia del potere
mafioso come novità rispetto al modello tra
dizionale. Se infatti si assume come modello
tradizionale dei rapporti tra mafia e potere
politico quello che si è configurato negli anni
cinquanta, consistente in una quasi completa
identificazione della mafia con la Democra­
zia cristiana, allora i processi cui assistiamo
oggi sono, almeno in parte, differenti. Ma
se, come abbiamo sostenuto in precedenza, il
modello della mafia degli anni cinquanta co­
stituisce un’eccezione, nell’ambito di un pro­
cesso di profonda trasformazione, dei rap­
porti tra mafia e potere politico, e del modo
stesso di configurarsi della mafia, allora ne
consegue che non è legittimo, come sembra
fare Arlacchi, equiparare il modello dei rap­
porti tra mafia e potere politico degli anni
cinquanta con quello della mafia della secon­
da metà dell’Ottocento e dei primi venti anni
del Novecento87. Tradizionalmente infatti la
86 P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., pp. 193-194 sgg.
87 In una conversazione privata Salvatore Lupo ha avanzato l’ipotesi che l’immagine della mafia come fenomeno ru­
rale e legato al latifondo, diffusa sia popolarmente che nelle analisi degli studiosi, si sarebbe consolidata nell’im-
40
R aim on d o C atanzaro
mafia sorge proprio a seguito di un processo
di autonomizzazione dell’industria della vio­
lenza. Come si è visto in precedenza, que­
st’autonomia si realizzava nell’ambito di un
rapporto di scambio in cui il non intervento
statale sul potere degli agrari meridionali era
barattato con un appoggio alla politica go­
vernativa di protezione e di sviluppo degli in­
teressi industriali al Nord. In questo senso
l’autonomia del potere mafioso era limitata
alla periferia. Ciò non significa che non si
fossero creati dei gruppi di interesse politicomafiosi che aggregavano in misura ampia in­
teressi economico-finanziari e politici a livel­
lo locale e nazionale. Anzi proprio resisten­
za di questi gruppi sembra dimostrare come
già allora anche il fenomeno dell’internalizzazione della rappresentanza politica fosse
presente88.
L’autonomia del potere mafioso, intesa in
questo significato di delega del dominio sulla
periferia, percorre tutta l’evoluzione della
mafia fino agli anni cinquanta, quando viene
a cessare la delega ai mafiosi nell’uso della
violenza. Ed è proprio in questo periodo che
si registra una crisi dell’autonomia del potere
mafioso. La fine del monopolio della media­
zione mafiosa, e l’assunzione delle funzioni
di mediazione, controllo sociale e protezione
della società tradizionale da parte del partito
democristiano e degli uomini politici, costi­
tuiscono una sfida formidabile al potere ma­
fioso tradizionale. La sua riorganizzazione,
nelle forme tratteggiate nelle pagine prece
denti, ha comportato il venire in essere di
due caratterizzazioni rilevanti ai fini dell’a­
nalisi delle nuove forme del potere mafioso:
l’organizzazione dei traffici illeciti e di
conseguenza la fine della delimitazione alla
periferia del fenomeno mafioso.
Da ciò deriva che l’aspetto forse più nuovo
del potere mafioso consiste nel fatto che non
si tratta più di un potere delegato dallo Sta­
to. Questo si verificava a partire dagli anni
cinquanta, ed è a partire da quella stessa data
che si mette in moto un processo di conquista
dei nuovi apparati dello Stato. Anche questo
non è un fenomeno nuovo. Ma prima si veri­
ficava con il consenso dello Stato per gestire
il potere alla periferia nell’interesse della
classe dominante locale. Adesso invece lo
Stato detiene il monopolio della violenza, e
l’attività economica illecita ha una scala tale
da superare interessi propri soltanto o
prevalentemente della periferia, e che si
caratterizzano invece lungo dimensioni na­
zionali e sovranazionali. Di conseguenza la
profonda differenza del potere mafioso ri­
spetto al modello tradizionale consiste nel
fatto che da fenomeno proprio della perife­
ria esso tende a coinvolgere l’intero sistema
politico italiano. Dalla periferia dove era
sorto il potere mafioso si è mosso verso il
centro, cercando di conquistarne il dominio.
Le uccisioni di giudici, uomini politici, alti
funzionari dello Stato e di polizia dimostra­
no che la lotta tra mafiosi e quei settori
dell’apparato dello Stato che si oppongono a
questa marcia è ben lungi dall’essere vinta.
Tali delitti non possono essere letti se non al­
la luce di una violenta lotta tra gruppi di po­
tere che si annidano dentro l’apparato stesso
delle istituzioni dello Stato e che combattono
per detenerne il controllo.
La mafia è diventata dunque pervasiva
mente parte del sistema economico, del siste-
mediato secondo dopoguerra a seguito del riemergere della mafia da una fase di latenza durante la quale, nel periodo
fascista, si ritrasse nel latifondo, perdendo in tal modo parte dei suoi caratteri originari. Un’indagine rivolta alla
verifica di quest’ipotesi esula dalle forze di chi scrive, ma potrebbe costituire un tema affascinante di studio.
88 Basti citare il famoso scandalo dell’assassinio Notarbartolo, ex direttore generale del Banco di Sicilia, avvenuto nel
1893. Quale mandante dell’omicidio venne incriminato un deputato al Parlamento, che, condannato in primo grado,
venne prosciolto in appello. Il processo mise in luce una serie di collusioni tra interessi economici, finanziari e politici
che travalicavano i limiti della Sicilia. Per un’analisi del rapporto tra mafia, sistema rappresentativo e interessi econo­
mici e politici che prende lo spunto dal caso in questione vedi G. Mosca, Che cosa è la mafia, cit., pp. 249-256.
L a m afia com e fen om en o di ibridazione sociale
ma finanziario e del sistema politico. La sua
presenza non si limita più soltanto ad un ter­
ritorio delimitato all’interno dello Stato. La
mafia non può essere più vista come un grup­
po particolare, ma richiede di essere interpre
tata come un subsistema sociale che articola
41
la propria presenza in tutti i principali gangli
vitali per il funzionamento degli apparati
della società. Ed è proprio questo che costi­
tuisce oggi la sua forza e la sua pericolosità.
Raimondo Catanzaro
M OVIM ENTO O P E R A IO E SO CIALISTA
Rivista trimestrale
N. 2/1984
Italia anni cinquanta
Trasformazioni, protagonisti sociali, culture
a cura di Luigi Ganapini e Paride Rugafiori
L.G.-P.R., Per una rilettura degli anni cinquanta-, Furio Bednarz, La scelta migratoria.
Decollo industriale e ambiente rurale a Pordenone-, Guido Crainz, La “scomparsa" del
bracciante padano; Gloria Chianese, Cultura comunitaria e coscienza sindacale all'llvaItalsider di Bagnoli', Adele Maiello, Politica e professione nella cultura dei quadri sinda­
cali.
Alcune rilessioni
Luca Borzani, L ’“aitra fotografia". Note sulle immagini operaie degli anni cinquanta-,
Tra propaganda e informazione: la stampa di sinistra negli “anni difficili". Intervista a
Paolo Murialdi, a cura di Paride Rugafiori; Venti schede sulla storia sindacale: CISL e
cultura operaia (a cura di Elisabetta Benenati); La CGIL tra istituzioni e conflitto sociale
(a cura di Gianfranco Petrillo).
Note e discussioni
Mario Insenghi, Per una mappa linguistica di un "regime di parole". A proposito del
convegno “Parlare fascista’’] Antonio Gibelli, Parole e altoparlanti tra guerra e fasci­
smo: appunti per un dibattito.
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