1848-1900 L’età della nazioni/Scheda 4 Dal brigantaggio alla mafia
Il banditismo
Negli anni successivi al 1860, l'opposizione nei confronti dello stato unitario si presentò con forme molto articolate: dalle proteste
della magistratura, che vide cancellate le proprie secolari tradizioni, alla resistenza passiva dei dipendenti pubblici, i quali rifiutarono
di ricoprire cariche amministrative, al malcontento della popolazione cittadina, contraria alla coscrizione obbligatoria. La resistenza
armata fu però la manifestazione più estrema di tale opposizione, coinvolgendo tutta la società del tempo, come risulta dagli atti
dei tribunali militari e dai processi celebrati a Napoli dalle corti civili. L'eversione della feudalità e la privatizzazione dei beni della
chiesa durante l'età napoleonica, che avevano trasformato l'assetto della società e dato origine alla questione demaniale, ebbero
una parte rilevante nello stimolare la partecipazione dei contadini alla lotta armata.
Secondo un'interpretazione di matrice marxista, Franco Molfese rileva nel brigantaggio italiano un movimento di classe, che unisce
protesta armata contro gli eccessi repressivi delle forze statali e contro la coscrizione, volontà di vendicare le sopraffazioni dei
"galantuomini" e, soprattutto, desiderio di impossessarsi di una quota della rendita agricola. Il brigantaggio fu una violenta
reazione allo stato di miseria in cui versavano le popolazioni contadine, una «vendetta sociale» nei confronti dei proprietari agrari
1. doc. 117, p. 703 Nei primi anni settanta dell'Ottocento, chiusa con una dura repressione l'epoca del brigantaggio nell'area
calabra, imperversa il grande banditismo siciliano: numerosi briganti raccolti in bande scorazzano per la campagna, commettendo
furti, furti di bestiame, rapine, sequestri di persona. Partendo dall'analisi dell'organizzazione e del funzionamento dei diversi gruppi
della società, John A. Davis individua le responsabilità delle élite siciliane nel favorire la proliferazione della violenza e del disordine
sociale: esclusi dall'esercizio del potere dallo stato unitario, centralizzatore e dominato da una classe dirigente settentrionale, i
notabili siciliani non ostacolano le insurrezioni popolari, a dimostrazione della loro estraneità e opposizione al nuovo corso imposto
dal governo nazionale.
2. Il banditismo in Sicilia [da J. Davis, Legge e ordine, Franco Angeli, Milano, 1989]
Lo scontento popolare in Sicilia era cresciuto in modo allarmante durante l'inverno e la primavera del 1860-61; una
delle cause principali di questo fenomeno stava nelle speranze frustrate suscitate dalle incaute promesse di riforma
terriera da parte di Garibaldi. Ma anche l'introduzione della legislazione piemontese liberoscambista aveva
aggravato lo scontento, gettando le economie commerciali di Palermo e Messina nella crisi e provocando una forte
disoccupazione. Le autorità guardavano con allarme al crescente sostegno fornito dagli artigiani urbani alle
associazioni repubblicane mazziniane: Ricasoli riferì, con toni inorriditi, che non si poteva contare per un voto di
sostegno al governo neppure sugli impiegati pubblici. Il sintomo più grave di disagio sull'isola era l'allarmante aumento
di crimini comuni, soprattutto rapine, rapimenti e omicidi. […] Un altro sintomo del fatto che lo stretto controllo,
precedentemente esercitato dai proprietari terrieri, si era allentato in seguito agli eventi del 1860 era l'aumento del
brigantaggio .[...] Anche la coscrizione ebbe un ruolo importante nell'aumento del crimine e del disordine, al punto
che nel 1863 il generale Covone fu autorizzato a utilizzare tutti i mezzi militari necessari per realizzare le quote di
arruolamento dell'isola. Durante l'estate venne lanciata all'interno una campagna sistematica di coscrizione,
impiegando venti reggimenti di fanteria per terrorizzare le comunità rurali, finché consegnassero i loro contingenti alle
commissioni coscrizionali e rivelassero dove si nascondevano i giovani che avevano evaso la leva. Le tattiche usate
dagli uomini di Covone erano particolarmente brutali e spesso le truppe circondavano aree residenziali, dopo aver
isolato il rifornimento :d'acqua, fucilando chiunque tentasse di sfuggire. L'intervento dell'esercito diede luogo a
numerose atrocità che furono molto pubblicizzate. […] La risposta non fu l'ostilità aperta […]. Le elite non ebbero un
ruolo dichiarato neppure l’insurrezione di Palermo del 1866 […] Se le élite non ebbero un ruolo dirigente aperto […] il
loro rifiuto di esercitare un influsso frenante era significativo e quasi paragonabile ad un sostegno aperto. È
notevole come la violenza della folla urbana fosse selettiva, assalendo edifici e funzionari pubblici, ma risparmiando in
genere case o palazzi privati. Solo un giovane nobile, il marchese Di Rudinì, fece un tentativo di restaurare l'ordine e
venne ricompensato dal governo con il posto di prefetto.
Le successive tattiche del Di Rudinì rivelarono una comprensione dello sfondo della rivolta che era possibile forse solo
per un membro del ceto dirigente siciliano. I sottoprefetti della provincia ricevettero l'istruzione di «accarezzare i
proprietari terrieri...». In termini ancor più espliciti, egli faceva appello ai proprietari terrieri della Sicilia occidentale
nel suo insieme, i quali potevano avere un ruolo nella restaurazione dell'ordine pubblico, grazie alla loro posizione
sociale, alla vasta rete clientelare e all'autorità morale che esercitavano sulla popolazione. Era un invito ad unirsi al
governo per conservare intatto l'esercizio dei loro diritti e il godimento dei loro beni.
Di Rudinì comprendeva chiaramente che la questione dell'ordine pubblico in Sicilia poggiava in ultima analisi sulle
elite. Finché le elite siciliane e meridionali erano disaffezionate e politicamente escluse, il crimine e il disordine,
perfino la rivoluzione e l'insurrezione, sarebbero rimasti un pericolo assai reale. Una soluzione poteva essere trovata
solo quando i dirigenti del nuovo stato avessero consentito a lasciare un potere effettivo nelle mani dei notabili, il che
non si sarebbe verificato in Sicilia finché la Destra, predominantemente nordica, non fosse stata sostituita dalla
Sinistra, dopo la rivoluzione parlamentare del 1876.
La differenza fra bandito e mafioso, enfatizzata fino a qualche tempo fa dalla storiografia, stava nell'essere, il primo apertamente
fuori legge, latitante e ricercato, il secondo inserito nel tessuto sociale, libero e rispettato. In realtà, il bandito solo periodicamente
viveva alla macchia, mentre per la maggior parte dell'anno soggiornava in paese, ben protetto da una rete di parentele e di amicizie
che comprendeva anche proprietari e, a volte, funzionari pubblici. Inoltre, egli esercitava il proprio dominio sul territorio con la forza,
in modo analogo alle cosche mafiose, servendosi degli stessi codici culturali - per esempio quello dell'onore - per garantirsi la
complicità delle popolazioni. Paolo Pezzino sottolinea il legame tra banditismo/mafia e la borghesia siciliana, che si serve del
brigantaggio per la conservazione della propria egemonia nei confronti dello stato centrale
3. La mafia come vettore di ascesa sociale [da Paolo Pezzino, All’origine del potere mafioso: stato e società in Sicilia
nella Seconda metà dell’Ottocento]
In realtà mafia e brigantaggio appaiono strettamente collegati nella pubblicistica del primo ventennio post-unitario,
tanto da potersi difficilmente distinguere l'una dall'altro; di origine relativamente recente, il termine mafia (o maffia
come allora si scriveva) compare sempre più frequentemente fra fine anni sessanta ed anni settanta come sinonimo di
delinquenza, malandrinismo, brigantaggio. La sua diffusione è rapidissima: anche a voler accettare la motivazione che
ne viene data (la fortuna di una commedia popolare sui carcerati di Palermo, che utilizzava il termine nel titolo), resta
il fatto che nel giro di pochi anni esso diventa di uso talmente comune che Bonfadini scriveva: «di questa parola si è
molto abusato, e il significato suo non rimane ancora, fuori dell'isola, né chiaro, né definito». Il termine rinviava ad
una serie di situazioni che, sommate, venivano componendo agli occhi della classe dirigente nazionale il nucleo di
una questione siciliana sempre più pressante e preoccupante, soprattutto a partire dalla rivolta di Palermo del 1866,
e composta di un intricato, e spesso inestricabile per gli osservatori non nativi dell'isola, nodo fatto di banditismo
organizzato, di renitenza alla leva, di omertà, di ostilità al governo ed ai suoi funzionari e, soprattutto, di quello che
veniva definito manutengolismo, cioè complicità ed appoggi che banditi e malfattori trovavano spesso presso
ambienti insospettabili e ceti elevati. […] La parola entra così nell'uso comune di funzionari statali per indicare, più
che un'associazione specifica od una rete di relazioni sociali ben individuabili, una qualità particolare della delinquenza
in Sicilia, un atteggiamento dello spirito pubblico, quando non assume la caratterizzazione di definizione siciliana,
quasi dialettale, di generici fenomeni di delinquenza: essa non guadagna quindi concretezza dalla sua diffusione, e
viene utilizzata per fenomeni disparati, compresi spesso atteggiamenti di opposizione politica o forme di
organizzazione di classe: così ad esempio il pretore di Piazza Armerina individuava «una larva di mafia nell'operaio, ma
non compromettente». [...] La mafia sorge dalle tensioni che si sviluppano nell'impatto fra Stato italiano e una
realtà come quella siciliana caratterizzata da notevoli margini di autonomia politica effettiva: essa va inquadrata
quindi nella configurazione specifica del processo di formazione statale nell'isola, e deriva dai caratteri che questo
assume in relazione all'esistenza di una classe dirigente siciliana dotata di notevoli poteri di controllo sulla società
locale. In particolare il nucleo di questa classe dirigente si dimostra in grado di controllare le principali risorse
economiche anche se non di utilizzarle ai fini di uno sviluppo regionale: si tratta di un ceto caratterizzato da un uso
borghese della terra […] ma che ha sviluppato, nel tardivo processo di dissoluzione del feudalesimo, la capacità di
utilizzare codici culturali tipici di questa realtà (in particolare quello d'onore) e di manipolarli facendo assumere loro
funzioni differenti da quelle che avevano nel contesto storico che li aveva generati, e finalizzandoli alla nuova
configurazione del potere. Si forma così una classe borghese, composta non solo di affittuari ed intermediari delle
zone della Sicilia interna, ma anche di imprenditori delle aree a coltura ricca della provincia di Palermo e Trapani, che
possiamo definire mafiosa in quanto utilizzava la violenza nelle relazioni sociali ottenendo una sostanziale
legittimazione da parte del resto della popolazione in base all'appartenenza ad un comune sistema culturale. Tale
classe viene rafforzata dal nuovo ordinamento assunto dallo Stato dopo l'unificazione, che ne esalta, nell'impossibilità
di imporre il monopolio delle proprie istituzioni, le capacità di controllo e di mediazione. Essa viene sempre più
assumendo funzioni riservate per diritto allo Stato, ma che quest’ultimo è costretto nella prassi ad alienare:
protezione, mediazione tra interessi e classi sociali, regolamentazione dei conflitti. In in tal senso la mafia
rappresenta una dimensione prammatica dello Stato ed un canale di comunicazione tra questo e società locale: si
spiega perciò perché, nonostante le denunce e le indagini, non solo lo Stato non abbia predisposto strumenti efficaci
di lotta al potere mafioso, ma l'abbia legittimato, attraverso la collusione tra mafiosi ed apparato statale […] e,
soprattutto, attraverso il sistema rappresentativo che, innescando un meccanismo clientelare-mafioso, ha messo in
mano alla borghesia mafiosa un'arma essenziale per il rafforzamento delle proprie funzioni di mediazione,
permettendole oltretutto di adattarsi a contesti storici mutanti attraverso una penetrazione sempre più capillare
negli interstizi della società. Questa borghesia mafiosa viene così differenziandosi al suo interno, arrivando a
comprendere, oltre alle tradizionali figure di «imprenditori contadini violenti» delle zone interne, ed a quelle meno
studiate delle zone ad agricoltura intensiva della Sicilia occidentale, un ceto di professionisti che proprio dei contatti
con le istituzioni statali e della manipolazione dei circuiti politici ha fatto la propria risorsa fondamentale.