La motivazione
Se proviamo a pensare a tutte le azioni che accompagnano una nostra giornata tipo, ci renderemo
conto facilmente che la gran parte di esse è guidata da scopi precisi: esse sono cioè volte a
raggiungere dei precisi obiettivi, e sono guidate da precise ragioni (pratiche, etiche, filosofiche,
fisiologiche, economiche, ...) che vanno a costituire i motivi delle azioni stesse.
Per quanto familiari e scontati questi concetti possano apparire, lo psicologo che si pone come
obiettivo quello di studiare queste motivazioni non si troverà davanti a un compito semplice. Questo
perché a una medesima azione possono corrispondere coerentemente motivi diversi. Per
esempio, se osservo una persona che mangia del cioccolato potrò ragionevolmente ipotizzare che lo
fa perché ha fame, perché soffre di improvvisi cali di zuccheri, perché sta per affrontare un
impegnativo sforzo fisico, perché è depresso e trova consolazione nel mangiare cioccolato, e via di
seguito.
Dall'esempio si dedurrà facilmente come la motivazione umana sia un qualcosa di estremamente
complesso e multisfaccettato. Studiandola occorrerà tenere conto da una parte dei bisogni
fisici/biologici che l'uomo condivide con il mondo animale, dall'altra del complesso universo delle
motivazioni più “complesse” e propriamente umane.
•Gli istinti
Procedendo in un certo senso dal basso verso l'alto, come primo elemento riguardante ciò che può
guidare i nostri scopi troviamo il concetto di istinto. In psicologia con il termine istinto ci si
riferisce a un impulso innato a un certo comportamento, innescato da determinati stimoli
ambientali. Tale concetto, come è noto, è stato oggetto di studio soprattutto delle prospettive
evoluzionistiche, per le quali gli istinti (selezionati e “fissati” nella loro gamma dei comportamenti
propri di una specie sulla base dell'utilità dell'istinto per la sopravvivenza della specie stessa) vanno
a costituire le principali motivazioni alla base del comportamento umano.
Una critica che può essere avanzata a questa prospettiva è che nell'ampliare così tanto il raggio di
azione degli istinti si rischia di perderne di vista il vero significato. Inoltre spiegare la motivazione
che sta dietro determinate azioni riconducendola a un istinto risulta piuttosto fine a se stesso.
Il concetto di istinto è stato anche ripreso in maniera forte dall'etologia, che lo ha studiato come
predisposizione istintiva degli animali nel loro ambiente naturale a comportarsi in un
determinato modo. Esso, a differenza di quanto postulato dagli evoluzionisti, è visto come un
processo complesso e non del tutto rigido (pur essendo biologicamente determinato), che lascia
quindi spazio ad apprendimenti successivi sulla base delle condizioni ambientali e delle esperienze
degli individui. Tra gli etologi ricordiamo K. Lorenz, famoso anche per aver introdotto il concetto
di imprinting, inteso come forma di apprendimento che avviene nelle prime fasi di vita mediante
un'“impressione” che fissa in modo rigido alcuni comportamenti basilari per la sopravvivenza. Ad
esempio è per forza di un imprinting che i pulcini di varie specie di uccelli nella vita adulta si
identificano nella specie del primo essere vivente (o anche oggetto mobile) con cui vengono in
contatto subito dopo la fuoriuscita dall'uovo.
Ma gli istinti sono stati considerati oggetto di studio anche dagli psicologi. Per esempio, W. James
considera come istinti propri dell'uomo – che si caratterizza anche per l'avere molti più istinti
rispetto agli altri animali – l'imitazione, la rivalità, la combattività, la simpatia, l'amore per i
genitori. Anche Freud come è noto riprese il concetto di istinto in maniera forte: egli basò infatti la
sua teoria delle motivazioni sulla contrapposizione tra istinti sessuali aggressivi. Dal punto di vista
della storia della psicologia, prima dell'avvento del comportamentismo (che, spiegando i
comportamenti umani in termini di stimolo-risposta guidati da ricompense specifiche, escludeva di
conseguenza ogni tipo di predisposizione innata ad un certo comportamento) ogni tipo di
motivazione era in qualche modo ricondotta a un istinto. Successivamente questa posizione fin
troppo forte, e in un certo senso anche limitativa, sotto l'influsso, come si è detto, del
comportamentismo e anche sulla base dell'evoluzione di studi antropologici comparati che
evidenziavano come molte delle motivazioni ricondotte ad istinti non erano affatto universali, e
non potevano di conseguenza essere considerate specie-specifiche, fu riconsiderata e gli istinti
rimasero interesse degli psicologi soprattutto così come intesi dagli etologi.
•Pulsioni e incentivi
Volendo considerare come punto di partenza i bisogni fisiologici degli individui, accanto all'istinto
si può considerare il concetto di pulsione, intendendola come la dimensione psicologica di un
bisogno fisiologico. Le pulsioni forniscono dunque “energia” al comportamento, attivano le
persone all'azione per perseguire degli scopi. Esse sono stati temporanei, in quanto generalmente
dopo che il bisogno che ne sta alla base è stato in qualche modo soddisfatto, la pulsione stessa
sparisce: se abbiamo fame proviamo quindi la pulsione a procurarci del cibo, ma una volta
consumato un pasto o comunque ridotto il senso di fame, la pulsione a procurarci del cibo
scompare, a meno che tale pulsione non fosse originata da un effettivo bisogno fisiologico ma da
più complesse motivazioni psicologiche: ad esempio il bisogno di assumere cibo come
compensazione per carenze affettive. Da questo punto di vista questi stati pulsionali si
contrappongono a disposizioni motivazionali più stabili (motivi), che vanno a costituire parte del
carattere di una persona guidando scelte più a lungo raggio (li esamineremo nel dettaglio più
avanti): essi hanno ovviamente influenze più durature.
Altri fattori motivazionali che possono incidere (aumentandole o facendole diminuire di intensità)
sulle pulsioni a raggiungere determinati scopi sono gli incentivi. Un incentivo in psicologia è uno
stimolo esterno (“ricompense” tangibili quali cibo, denaro, o premi) o interno all'individuo
(sensazioni gradite, come la gratificazione che segue il risultato positivo di una sfida sportiva o
intellettuale o la ratificazione data dalla percezione di aver fatto un buon lavoro) che può attivare,
intensificare o motivare un determinato comportamento; naturalmente gli incentivi interni e
esterni spesso sono collegati e si potenziano a vicenda. Gli incentivi inducono l'insorgere di nuove
pulsioni e hanno la capacità di motivare un certo comportamento anche quando non vi è un vero e
proprio bisogno organico: i cibi dolci, per esempio, sono per la maggior parte degli uomini dei forti
incentivi anche in assenza di fame. Agli incentivi positivi si contrappongono i deterrenti che
conducono ad atti di rifiuto o scoraggiano l'azione.
Pulsioni e incentivi vanno considerati come strettamente collegati tra di loro in quanto è
particolarmente difficile, se non in certi casi addirittura impossibile, arrivare a determinare dove
termini il raggio di azione delle pulsioni e dove inizi quello degli incentivi. Più semplice diventa la
distinzione ragionando sul concetto di motivazioni non su base prevalentemente biologica, ma
apprese o acquisite dai singoli individui. In questo caso, tuttavia, si vedrà come gli incentivi
diventeranno maggiormente dipendenti dalle condizioni dei singoli. Ad esempio del cibo può essere
considerato un incentivo per qualsiasi persona affamata. Un viaggio premio, invece, sarà un
incentivante solamente per persone che amano viaggiare. Una persona che si trovasse a temere i
viaggi in aereo vedrebbe un volo in America come un deterrente, mentre la stessa prospettiva
potrebbe essere un forte incentivo per un amante dei voli transoceanici.
Riassumendo possiamo dunque dire che i bisogni fanno nascere pulsioni volte ad attivare
comportamenti mirati a ridurre il bisogno originario. Questa visione che riguarda le azioni
come esecuzione di pulsioni per ridurre i bisogni che ne stanno alla base è coerente con quanto
postulato dai primi teorici dell'apprendimento. Un rinforzo positivo corrisponde all'ottenere
qualcosa e riduce di conseguenza il bisogno collegato. Per esempio, un topo affamato che riceve
come rinforzo del cibo, sentirà diminuire il suo bisogno di nutrirsi. Un rinforzo negativo al contrario
spinge all'azione per eliminare una situazione nociva o spiacevole, rispondendo quindi al bisogno di
migliorare una situazione negativa. Analogamente, nel caso dei cani utilizzati per gli esperimenti
collegati al condizionamento, non ricevere più fastidiose scosse elettriche. Più in generale questa
visione è nota come teoria delle pulsioni. Essa, nata appunto da esperimenti condotti
prevalentemente sul comportamento animale, postula che eventi interni (chiamati “pulsioni”)
influiscano sul valore che gli individui attribuiscono a stimoli esterni, che possono quindi essere di
volta in volta vissuti come stimoli neutri o come rinforzi. Le pulsioni sono dunque considerate, in
sintonia con quanto sopra esposto, come comportamenti innescati da stati di forte attivazione che
vanno ad attivare comportamenti volti a loro volta a ridurre questi stati di eccitazione. Siccome un
sistema così strutturato è principalmente volto al mantenimento di un suo equilibrio, questa
modalità di funzionamento delle pulsioni è nota anche come principio dell'omeostasi.
Un'accettazione forte di questa posizione (che a partire dagli anni Quaranta riscosse grande
successo in America, in quanto portava con sé possibilità non solo di spiegare determinati
comportamenti ma anche di prevederli e controllarli), portò Clark Hull a ritenere che le pulsioni
fossero causa e ragione sufficiente per ogni tipo di apprendimento. Per lo studioso americano,
dunque, si apprende per alleviare stati di tensione, e di conseguenza è possibile spiegare
comportamenti finalizzati a scopi specifici (come ad esempio l'apprendere) anche senza ipotizzare
l'esistenza di un organismo che in una qualche misura pianifica e pensa il suo agire (posizione in
sintonia con il comportamentismo che vede la mente come una black box)
•Motivazioni psicologiche
Le motivazioni che abbiamo esaminato finora sono collegate al soddisfacimento di bisogni
fisiologici. Ma accanto ad essi si pongono anche motivazioni che potremmo definire come
propriamente psicologiche, collegate ai valori, alle credenze, alla personalità dei singoli individui.
Naturalmente nella vita quotidiana noi sperimentiamo tutti questi bisogni e le connesse motivazioni
come strettamente legati tra di loro, in quanto noi come esseri viventi dobbiamo vivere in sintonia
con noi stessi (come composti da una parte fisiologica e una psicologica tra loro interconnesse) e
con l'ambiente in cui siamo inseriti. Di conseguenza i bisogni che danno il via alle dinamiche
motivazionali non si presentano tutti contemporaneamente e con la stessa urgenza. Come ha
teorizzato lo psicologo statunitense Maslow, esiste una gerarchia dei bisogni: ciascuno di essi si
intensifica o viene avvertito soltanto dopo che il bisogno precedente, più fondamentale per la
sopravvivenza dell'uomo, è stato soddisfatto. In questa prospettiva i bisogni vengono distinti in
primari e secondari; quelli primari riguardano le principali funzioni biologiche, e sono quindi i
bisogni fisiologici su cui ci siamo già soffermati (fame, sete, sesso...), e che risultano fondamentali
per la sopravvivenza e la riproduzione dell'individuo. Collegati a questi primari ci sono i bisogni
secondari, che potremmo definire come quelli più tipicamente umani (sicurezza, appartenenza,
stima, autorealizzazione). Maslow distribuisce anche graficamente questi bisogni in una piramide, i
cui gradini di base sono occupati dai bisogni di carenza (quelli primari che scompaiono una volta
soddisfatti e si ripresentano solo in situazione di carenza: se ho fame e mi procuro del cibo, non
avvertirò più il bisogno di mangiare fintanto che non sarò nuovamente affamato), mentre i gradini
più alti sono costituiti dai bisogni di crescita, che piuttosto che scomparire tendono ad evolversi
con il crescere della persona.
Soffermandoci ora sulle motivazioni più propriamente psicologiche possiamo farle rientrare in tre
grandi categorie: il bisogno di affiliazione, il bisogno di successo e il bisogno di potere.
Il bisogno di affiliazione corrisponde al bisogno di creare una condizione di vicinanza con altre
persone e di ricercare l'appartenenza a un gruppo. La vicinanza dell'altro avrebbe lo scopo di ridurre
l'ansietà e di confrontare le proprie emozioni. L'origine di questo bisogno può essere ricercata
nell'attaccamento infantile che riguarda la necessità presente alla nascita di stabilire un legame con
una figura umana, di fatto in prevalenza la madre. Come ha evidenziato l'etologia, l'attaccamento ha
la funzione di proteggere il piccolo dai pericoli esterni e si esprime in comportamenti come quelli di
seguire e ricercare la figura di attaccamento, l'utilizzarla come base e punto di partenza per la
propria crescita personale, piangere o protestare per la separazione. Il legame persiste anche in caso
di separazione, purché l'ambiente fornisca una figura sostitutiva adeguata: l'attaccamento si
costituisce dunque anche nei confronti di altre persone oltre alla madre, purché con esse si instauri
una relazione permanente. Secondo J. Bowlby comportamenti di attaccamento si sviluppano
durante tutta la vita, subendo l'influenza del primo tipo di attaccamento. Grazie a un paradigma
osservativo ispirato all'interpretazione psicoanalitica dell'angoscia provata dal neonato dall'ottavo
mese in presenza di estranei, Ainsworth nel 1978 ha individuato tre tipi di attaccamento: sicuro
(essendo stato abituato a poter contare sull'appoggio della figura adulta di riferimento il bambino
non manifesta angoscia in caso di separazione), evitante (si verifica quando per motivi diversi il
bambino ha avuto occasione di sperimentare frequenti rifiuti/abbandoni da parte della madre: di
conseguenza non darà segni negativi in occasione dell'allontanamento della figura materna e
tenderà a non cercarne l'aiuto), ambivalente (non essendo stato rassicurato adeguatamente sulla
presenza della madre, il bambino manifesta angoscia in caso di separazione, e pur cercando l'aiuto
dell'adulto una volta ottenutolo lo rifiuta spesso). Le modalità di attaccamento sviluppate dai
bambini vanno a costituire la base per la costruzione di modelli operativi interni, stabili nel tempo,
relativamente alle aspettative nei rapporti affettivi (ad esempio nella formazione della coppia e nei
processi di separazione). Un buon tipo di attaccamento aiuterà quindi non solamente il bambino
nella sua prima fase di crescita, ma porterà a sviluppare in lui sicurezza, autonomia e capacità di
costruire legami che resteranno stabili nel suo diventare adulto. Infatti anche nell'instaurare
relazioni d'amore la scelta del partner avviene spesso in maniera simmetrica a quello che è stato il
proprio tipo di attaccamento: ad esempio bambini con uno stile di attaccamento sicuro tenderanno a
investire fortemente nelle relazioni, credendo nella loro solidità, e sceglieranno tendenzialmente
partner con alle spalle il loro stesso tipo di attaccamento.
Il bisogno di affiliazione si manifesta anche nella tendenza, riscontrabile già in bambini di 2 anni,
ad attuare nei confronti dei coetanei un comportamento prosociale, un comportamento volto cioè
all'aiuto reciproco e alla condivisione di esperienze o sofferenze, che negli adulti si articolerà poi
nella ricerca attiva di compagnia, nell'attitudine alla collaborazione, nell'empatia (intesa come
capacità di assumere il punto di vista degli altri).
Il bisogno di successo è basato sulla tendenza all'affermazione personale, alla perfezione, e spinge
le persone a svolgere al meglio i compiti in cui sono impegnati, in modo da incrementare la propria
autostima. Chi vive intensamente questo bisogno tenderà a prefiggersi scopi alla sua portata, ma che
al contempo non appaiono troppo facili, in modo da poter essere adeguatamente stimolati, ottenere
giuste gratificazioni dai propri successi, ma non incontrare troppo spesso il fallimento. Così come il
bisogno di affiliazione basato sulle tipologie di attaccamento dei bambini risulta predittivo delle
scelte affettive degli adulti, così il bisogno di successo risulta predittivo delle scelte lavorative degli
individui, e ha le sue radici nel tipo di rapporto genitore-bambino: se i genitori riversano sui figli
aspettative realistiche, incoraggiandoli al contempo a trovare una loro indipendenza, e premiando
affettivamente i loro piccoli successi, è molto probabile che questo favorirà lo sviluppo di una
buona motivazione al successo. Aspettative troppo elevate o al contrario eccessivamente basse
(percepite quindi come “svalutanti” da parte del bambino) portano ad inibire il bisogno di successo
dei bambini. La motivazione al successo porta con sé, come aspetto positivo, un forte orientamento
al futuro, e la tendenza quindi ad investire in mete a lungo termine, escludendo strade che sembrano
non portare a nessuno scopo concreto relativamente agli obiettivi base. D'altro lato però il bisogno
di successo è spesso collegato alla paura del fallimento, che in casi estremi può portare le persone a
fuggire da ogni situazione in cui (a ragione o a torto) credono di vedere in qualche modo valutate le
loro abilità.
Infine il bisogno di potere consiste nella tendenza da parte delle persone a voler esercitare la
propria influenza sulle situazioni e sulle persone con cui vengono a contatto: è quindi differente dal
bisogno di potere che spinge le persone a ricercare successo sulla base di loro standard personali,
non necessariamente in stretto rapporto con quelli del gruppo di appartenenza. Il bisogno di potere
spesso ha le sue radici in situazioni di forte insicurezza personale che si traducono nel tentativo di
“controllare” chi sta vicino, leggendo quindi nella sua dipendenza una rassicurazione indiretta
riguardo la capacità di “dominio sociale”. Una persona con forte bisogno di potere non temerà le
sfide, sarà sempre pronto a mettersi in discussione, anche in situazioni che comportano una certa
dose di rischio. Come nel caso del bisogno di successo questa tendenza al potere può essere vissuta
come negativa (possiamo parlare in questo caso di motivazione al potere personalizzato, dove si
tende a voler sconfiggere a tutti i costi gli avversari per una gratificazione personale) ma anche
come positiva (in questo caso la motivazione sarà a un potere socializzato, e gli individui
cercheranno il potere come mezzo per fare del bene agli altri, non cercando quindi di sottomettere
chi sta loro vicino, ma piuttosto di influenzarli positivamente al fine di renderli poi maggiormente
autonomi).
Tratto da http://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/psicologiapedagogia/Psicologia/La-psicologia-affettivo-emotiva/La-motivazione.html