Il Pil africano fa boom, ma è vera crescita?

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il fatto, il commento
Il Pil africano fa boom,
ma è vera crescita?
I
Riccardo Moro
Economista, si
occupa di questioni
internazionali e
in particolare del
problema della
lotta alla povertà.
Negli ultimi anni ha
studiato il problema
del debito estero dei
Paesi del Sud del
mondo, concorrendo
ad animare la
campagna per la
remissione del debito
lanciata dalla Chiesa
italiana. È docente di
Politiche dello sviluppo
all’Università di Milano.
30 Popoli aprile 2011
l 25 gennaio, mentre gli
occhi di tutto il mondo erano puntati su piazza Tahrir
al Cairo, il Fondo monetario
internazionale (Fmi) pubblicava
l’aggiornamento del suo World
Economic Outlook, il set di dati
e previsioni che ogni sei mesi
fa il punto sulle prospettive
economiche delle diverse aree
del mondo. Leggendo i dati
dell’Fmi si può rimanere stupiti dalla crescita registrata dai
Paesi dell’Africa sub-sahariana,
la regione più povera del pianeta. Nel periodo 2006-2010,
l’aumento del Prodotto interno
lordo (Pil) è stato mediamente
del 6,4% annuo per tutta l’area,
con punte dell’8% in Etiopia.
Che cosa significano questi dati? Come è possibile che Paesi
con economie deboli crescano più rapidamente dei Paesi
ricchi? Finalmente l’Africa sta
cambiando e la sconfitta della
povertà è più vicina?
Per rispondere abbiamo bisogno anzitutto di chiarire i termini della questione. Quando si
parla di «crescita» di un Paese
si intende l’aumento di ciò che
chiamiamo Pil, cioè la somma
del valore di tutto ciò che viene
prodotto in un anno in una nazione. Il valore della produzione
corrisponde a quello dei redditi
distribuiti. Il prezzo di un bene
venduto, il suo valore economico, equivale, infatti, alla somma
dei costi sostenuti per produrlo
più il guadagno di chi lo produce e vende. I costi sostenuti
altro non sono che i salari pagati a chi lavora o i soldi spesi
per gli acquisti di semilavorati,
cioè di altri prodotti che, in
ultima istanza, corrispondono
a loro volta a salari e guadagni. Insomma calcolare il
valore della produzione equivale a misurare i redditi
guadagnati da chi concorre nei vari stadi a realizzarla.
Per questo si dà così tanta importanza al Pil: un suo
aumento significa più redditi, vuoi perché aumenta
l’occupazione, vuoi perché la gente guadagna di più. La
crescita è diventato così una meta per ogni politico e
un metro per valutare lo stato dell’economia e la bontà
delle politiche e dei governi.
Proviamo a osservare, con questo sguardo, i dati di
crescita africani. A fronte di cifre molto contenute per i
Paesi occidentali, le economie di altre regioni crescono
di più. Per il 2010 i dati più alti sono quelli asiatici, in
particolare quelli dei giganti cinese (9,5%) e indiano
(8,1%), ma è l’Africa «povera» che colpisce di più. Oltre
al già citato 8% dell’Etiopia, il Mozambico registra un
A una prima lettura potremmo dire che
nei Paesi africani l’economia finalmente sta
decollando. Le imprese lavorano di più, quindi
richiedono più lavoro e le famiglie, con più
redditi a disposizione, effettuano acquisti
che prima non potevano permettersi
aumento del 7,8%, lo Zambia del 7,4%, la Tanzania del
7%. Anche l’Africa occidentale cresce a ritmi sostenuti:
7,6% in Liberia, 6,5% in Sierra Leone e Burkina Faso,
6% in Nigeria e Costa d’Avorio. Tutti sensibilmente più
alti del misero 1% dell’Italia o dell’1,8% dell’area euro.
A una prima lettura potremmo dire che in questi Paesi
l’economia finalmente sta decollando. Le imprese lavorano di più, quindi richiedono più lavoro e le famiglie,
con più redditi a disposizione, effettuano acquisti che
prima non potevano permettersi. Questo genera, a sua
volta, un aumento della domanda (e dell’occupazione)
in settori prima stagnanti, in una spirale che si autoalimenta. In parte questo è quanto effettivamente sta
capitando in molte nazioni africane. Per due ragioni.
La prima è la riduzione dei conflitti: diversi Paesi sono usciti da situazioni di guerra o di disordini interni.
Condizioni di sicurezza favoriscono gli scambi, i quali
vengono registrati e riscontrati nella misura del Pil. Ma
non è solo una questione di registrazione. Situazioni di
sicurezza favoriscono gli investimenti, cioè lo sviluppo
di attività imprenditoriali, con benefici anche sui mercati e le economie limitrofe.
La seconda ragione, più importate nel lungo periodo,
è il processo che negli ultimi dieci anni ha messo la
parola fine alle politiche di aggiustamento strutturale,
le politiche di liberalizzazione selvaggia imposte negli
anni Ottanta e Novanta dalle istituzioni internazionali
dominate dai Paesi ricchi. La nuova stagione politica ha restituito protagonismo e ruolo allo Stato e ha
fatto investire nella lotta alla povertà con politiche
che mirano a sostenere scuola, salute e infrastrutture.
La data che segna il cambiamento è il 1999, quando
le campagne sul debito internazionale ottengono che
Banca mondiale e Fmi cancellino i debiti insostenibili e
offrano nuovi prestiti agevolati a condizione che i Paesi
interessati redigano un Poverty Reduction Stategy Paper (Prsp), cioè un documento che programmi le scelte
pubbliche in materia di riduzione della povertà redatto
dal governo attraverso un processo partecipativo e non
da funzionari dell’Fmi o della Banca mondiale. I risultati
di questi cambiamenti sono difficilmente misurabili, ma
questa uniformità di dati di crescita del Pil, non riscontrata nei decenni precedenti, fa pensare che le politiche
della nuova stagione abbiano effettivamente maggiore
efficacia economica rispetto al credo neoliberista degli
aggiustamenti strutturali e delle liberalizzazioni.
Questi dati però non vanno sopravvalutati. Occorre
ricordare, infatti, che per molti Paesi si parte da condizioni di disagio economico particolarmente gravi. Se le
economie ricche del Nord hanno raggiunto una sorta
di saturazione che rende sempre più difficili ulteriori
aumenti, nel Sud gli spazi di crescita sono maggiori e
aumenti anche contenuti possono apparire rilevanti in
rapporto a un Pil di partenza molto basso. A volte anche
solo far emergere una parte dell’economia informale,
«tracciandola» e registrandola all’interno degli scambi
economici del Paese, si traduce in consistenti aumenti
del Pil (che ora tiene conto di ciò che prima esisteva,
ma non era registrato), quando la realtà economica e
i redditi reali delle famiglie non sono mutati. Inoltre,
la semplice misura del Pil o della sua crescita non dice
nulla della sua distribuzione. Uno stesso aumento del
reddito potrebbe essere concentrato nelle mani di una
sola persona o distribuito fra tutta la popolazione, ma
nella misura del Pil non vi sarebbe differenza.
Infine vi è un ulteriore elemento che va ricordato quando si intende valutare i dati della crescita economica.
Guardare all’aumento del valore della produzione non
dice nulla dell’impatto che questa ha dal punto di vista ambientale. In molti casi aumenti di Pil nel Sud e
del Nord del mondo sono stati perseguiti a qualunque
prezzo. Molti terreni sono stati sottratti alle foreste per
esaurirli in pochi anni con colture intensive che aumentano la desertificazione. Sono stati installati impianti
industriali con forti impatti inquinanti, giocando sulla
presenza di leggi ambientali meno rigorose di quelle dei
Paesi ricchi. I risultati di queste pratiche ricadono su
tutti. E non parliamo solo delle generazioni future: già
oggi ne stiamo misurando le conseguenze in termini di
cambiamenti climatici.
In conclusione, i dati di crescita vanno letti con attenzione. In parte, rilevano processi positivi di maggior
partecipazione alle relazioni economiche e maggiore
diffusione del benessere, ma pongono il problema della
sostenibilità dei percorsi di sviluppo e della distribuzione
dei redditi. La politica e i mass media si concentrano
sui dati di crescita considerandoli metro di valutazione
delle politiche, occorre semmai uno sforzo per elaborare
I dati di crescita vanno letti con attenzione.
In parte rilevano processi positivi di maggior
partecipazione alle relazioni economiche e
maggiore diffusione del benessere, ma pongono
il problema della sostenibilità dei percorsi di
sviluppo e della distribuzione dei redditi
nuovi indicatori che permettano di tener conto degli
altri fattori che abbiamo suggerito. È uno sforzo in atto - come dimostrano i molti contributi delle reti della
società civile e i risultati della Commissione Stiglitz,
recentemente costituita dal presidente francese Nicolas
Sarkozy -, ma che non gode ancora di consenso diffuso.
E finché ciò non avverrà continueremo ad avere spinte, in Africa come nel resto del mondo, a promuovere
aumenti del Pil, in una corsa di fatto dissennata che
non sappiamo dove possa portare, come se cercassimo
di accelerare sempre di più la velocità della nostra auto
tenendo gli occhi bendati senza curarci della direzione.
Rinnovare la politica
significa anche ragionare sugli strumenti che usiamo
per misurarci.
Sullo sfondo, un
franco Cfa d’argento
con il simbolo della
Banca centrale degli
Stati dell’Africa occidentale
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