Massimo Bulgarelli
Alberti a Mantova. Divagazioni intorno a Sant’Andrea
1-2. Mantova, Sant’Andrea, facciata
fotografata a quote diverse (foto A.
Chemollo).
Il fine che mi sono posto nello scrivere questo
saggio è di indagare soluzioni illusionistiche nell’architettura di Leon Battista Alberti, e di
dimostrare come una di queste soluzioni – un
arco che sembra sovrapporsi alla trabeazione
superiore – sia presente sulla facciata della basilica di Sant’Andrea a Mantova. La dimostrazione comincia con un’analisi delle forme adottate,
si articola con il confronto con un’altra architettura albertiana, per poi considerare come la
sovrapposizione entri in risonanza con i diversi
modelli di cui l’architetto si serve per quell’edificio: Pantheon, San Marco a Venezia, archi
onorari. L’esame delle fonti è preceduto da un
paragrafo dedicato alla facciata di Sant’Andrea
come avancorpo, necessario a chiarire cosa
Alberti cercasse negli exempla in questione. Si
tratta anche, quindi, di una riflessione su modi e
significati dell’imitazione, e della ricezione.
Archi
Sulla facciata di Sant’Andrea a Mantova si incurva un arco monumentale. Osservando una fotografia eseguita – come spesso accade – a una
certa altezza, ci si rende conto che la modanatura superiore dell’archivolto lambisce la prima
fascia dell’architrave superiore. Se però il punto
di vista si abbassa fino a coincidere con il margi-
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3. Mantova, Sant’Andrea, facciata:
modanature di una delle nicchie
(foto A. Chemollo).
4. Mantova, Sant’Andrea, modanature
di un arco all’interno (foto A. Chemollo).
5-6. Mantova, Sant’Andrea, facciata:
archivolto (foto A. Chemollo).
ne opposto della piccola piazza di fronte all’edificio, si assiste a un fenomeno singolare. L’arco,
che sporge decisamente dal piano della facciata,
dà l’impressione di insinuarsi sopra la trabeazione, arrivando a toccare la fascia centrale dell’architrave (ill. 1-2). Avvicinandosi alla facciata,
l’impressione della sovrapposizione aumenta e
l’arco si innalza sempre di più. Sembrerebbe
ovvio liquidare la cosa come insignificante,
dovuta al caso. Se non che una sovrapposizione
– questa volta fisica – delle modanature si ripete
nelle due nicchie in facciata, e, all’interno della
chiesa, sopra gli archi delle cappelle maggiori1
(ill. 3-4). Si tratta di una soluzione, l’intersezione di arco e trabeazione, adottata raramente
all’epoca e nell’architettura antica. Tuttavia, si
può considerare concettualmente affine a motivi presenti in opere dei maestri fiorentini del
primo Quattrocento e in altre architetture
albertiane2. A distanza di pochi anni dall’avvio
del cantiere mantovano, poi, un’eco immediata
di quegli archi rimbalza nelle opere di Francesco
di Giorgio Martini e Donato Bramante.
È mia intenzione dimostrare che l’impressione prodotta dall’arco in facciata sia voluta, frutto
di una scelta progettuale. Scelta che, per di più, si
presenta come un paradosso. L’arco inquadrato
dall’ordine – motivo all’antica per eccellenza, a
rappresentare una duplice struttura intersecata –,
invece di reggere la trabeazione dell’ordine maggiore, mostra di sovrapporsi a essa. Per quel che
so, nella prima metà del secolo XV e nell’antico,
sono rarissimi i casi in cui si produca un effetto
del genere, anche in modo fortuito: arco e trabeazione superiore sono sempre ben distinti.
Intendo, inoltre, sostenere che la comparsa di
questa soluzione a Sant’Andrea sia riconducibile
al progetto di Leon Battista Alberti. Per far ciò è
necessario affrontare preliminarmente alcune
questioni relative alla costruzione dell’edificio.
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7. Mantova, Sant’Andrea, facciata:
archivolto all’interno della loggia
(foto A. Chemollo).
Come si sa, i lavori iniziarono nel 1472 – subito dopo la demolizione della chiesa medievale –
ma la basilica si può dire compiuta soltanto all’inizio del XIX secolo, con la chiusura di un cantiere che si è trascinato, con alterne vicende, per
tre secoli e mezzo, e che ci ha consegnato l’edificio quale oggi lo conosciamo3. Quanto al completamento della facciata disponiamo del termine
ante quem del 1488, data rinvenuta nell’imbotte
del tondo affrescato al centro del timpano, mentre le cappelle sono concluse nel 14824. A questo
tortuoso processo di edificazione è paragonabile
la tormentata vicenda dell’interpretazione storiografica – che all’architettura si è sovrapposta,
sostituendosi a essa – dal corso a sua volta ormai
secolare. Poiché oggetto del contendere è principalmente la ricostruzione del progetto di Alberti,
e secondariamente la questione della fedeltà a
quel progetto di quanto realizzato – la morte di
Alberti risale all’aprile 1472, due mesi prima del-
l’avvio della costruzione – è necessaria la più
grande cautela nell’analisi di un’anomalia formale come quella cui si è fatto cenno.
Non c’è dubbio che il conduttore del cantiere in questa prima campagna di lavori, Luca Fancelli, sia pienamente a giorno delle intenzioni
albertiane, e della sua concezione dell’architettura, disponendo del modello ligneo approntato
per la fabbrica di Sant’Andrea, avendo avviato da
tempo la costruzione del San Sebastiano, e
potendo accedere ai progetti di Leon Battista per
altri edifici mantovani5. Fancelli, poi, ebbe certamente occasione di parlare a più riprese direttamente con Alberti, anche a Roma6.
Inoltre dobbiamo tener conto che Fancelli
non solo è nella condizione di condurre fedelmente le fabbriche a lui affidate: è tenuto a farlo.
Dai documenti, infatti, risulta evidente la
volontà da parte dei Gonzaga di fare rispettare
le intenzioni albertiane, almeno fino al 1478,
anno della morte di Ludovico, ma con ogni probabilità anche in seguito. Per i signori di Mantova è indubbio motivo di prestigio poter contare sui servigi di quello che viene riconosciuto
come il più grande architetto del tempo7. Considerazione che vale soprattutto per Sant’Andrea, fulcro politico e monumentale delle trasformazioni avviate da Ludovico. Il quale, significativamente, esercitò un controllo strettissimo
sulla fabbrica della basilica, intervenendo di persona in diverse occasioni8.
È dunque molto probabile che quanto
costruito nel corso del XV secolo risponda al
progetto albertiano. Alcuni studiosi, però, sono
convinti che solo lo schema della facciata sia
attribuibile a Leon Battista, preferendo assegnare i dettagli della decorazione agli esecutori9. Si
tratta di dubbi fondati, dal momento che alcune
fra le testimonianze superstiti relative a cantieri
albertiani – la serie di lettere che riguardano la
costruzione del Tempio Malatestiano – attestano la presenza a Rimini di un modello ligneo
complesso, e l’invio successivo, mentre la campagna di lavori era in corso, di disegni per la facciata e per i capitelli10. Quanto a Sant’Andrea, in
assenza di fonti documentarie, non è facile individuare elementi utili a un’attribuzione in un
senso o nell’altro. In alcuni casi, però, non
impossibile. Soluzioni di dettaglio, come ad
esempio quelle per i capitelli delle paraste minori e per l’archivolto, sembrano più disponibili
all’interpretazione.
Mi sono occupato di recente dei capitelli,
proponendone l’attribuzione ad Alberti11, veniamo dunque all’archivolto (ill. 5). Composto da
tre fasce inferiori, intervallate da fusarole, e
sovrastate da ovoli, da una modanatura liscia di
sezione semicircolare – una sorta di toro che si
può ipotizzare in origine dipinto con una decorazione a ghirlanda, sul modello di esempi fio-
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8. Firenze, Santa Maria Novella, facciata:
paraste del portale, capitelli (foto A.
Chemollo).
9. Firenze, Santa Maria Novella, facciata:
paraste del portale, basi (foto A. Chemollo).
10. Facciata di Santa Maria Novella
a Firenze, paraste del portale (rilievo e
restituzione di A. Bixio e A. Conte).
rentini e antichi – e da una serie di modanature
intagliate concluse da un’altra ghiera a ovoli.
Ghiera con la quale l’archivolto risulterebbe
concluso in conformità all’architrave sottostante, configurando un tipo non comune, ma conosciuto a Firenze e con precedenti antichi. Se non
che una sorta di gocciolatoio sormontato da gola
– elemento assolutamente inusuale, senza
riscontri anche nell’antico – avvolge l’intero
arco. In sostanza, lungi dall’essere un accidente,
la terminazione dell’arco è stata pensata proprio
come elemento aggiunto, per realizzare l’effetto
di sovrapposizione. Procedimento reso del tutto
esplicito dalla posizione del raffinatissimo modiglione assiale, contenuto entro il semicerchio
della modanatura superiore che, in tal modo, di
fatto nega alla chiave d’arco la sua funzione12 (ill.
6). Per di più Alberti stesso ci fornisce un immediato termine di paragone (ill. 7): all’interno
della loggia, alle spalle dell’arco di facciata, gli
archivolti presentano appunto la tradizionale
soluzione con terminazione a ovoli, e il modiglione centrale sostiene l’architrave superiore
con una sorta di abaco13. Dunque, non solo la
sovrapposizione non ha precedenti quattrocenteschi, ma viene attuata grazie a una combinazione di forme a sua volta unica, per sottolineare l’eccezionalità dell’invenzione.
L’invenzione, inoltre – secondo un procedimento tipico dell’architettura di Alberti – comporta la consapevole infrazione ai praecepta stabiliti nel De re aedificatoria, in questo caso relativi agli archi di trionfo. In luogo di un archivolto
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11. Herman Vischer, Facciata
di Sant’Andrea, disegno, 1515 (Paris,
Louvre, Cabinet des Dessins, 19035).
12. Avancorpo di Sant’Andrea, disegno
(da H. Saalman, L. Volpi Ghirardini,
A. Law, Recent Excavations under the
Ombrellone of Sant’Andrea in Mantua:
Preliminary Report, in “Journal of the
Society of Architectural Historians”, LI,
December 1992, p. 359).
all’antica, di proporzioni oscillanti fra un dodicesimo e un decimo dell’ampiezza dell’arco, troviamo un rapporto di 1:7, che pare tolto di peso
dalla facciata di una cattedrale romanica. Al
posto del dispositivo che prevede – come in un
congegno ben oliato – l’allineamento del sommoscapo delle colonne inquadranti con il punto
sommitale dell’intradosso dell’arco (archi di
Settimio Severo e di Costantino a Roma, e di
Augusto a Rimini), ci imbattiamo in una quota
ben più alta per l’arco, anche rispetto alle altre
architetture albertiane14. È chiaro che il sistema
di scarti rispetto alla regola va considerato un
corollario della ricerca dell’effetto di sovrapposizione fra membrature, ma anche un modo
ulteriore di esplicitarlo.
Nell’insieme, dunque, mi pare che un procedimento di questa raffinatezza non solo mostri
l’esistenza di una precisa intenzione formale, ma
parli anche a favore di Alberti. Tant’è che quando Fancelli si attiene alla soluzione dell’archivolto, lo fa semplificando. A lui, infatti, è probabilmente attribuibile la ripresa – nella cappella
maggiore di San Francesco a Mantova, la cui
costruzione inizia nel 1487 – delle modanature
dell’archivolto di Sant’Andrea, e della sovrapposizione di due dei quattro archi sotto la cupola
alla trabeazione superiore15.
Se l’ipotesi che stiamo avanzando è credibile,
ci troviamo di fronte a una soluzione illusionistica: l’arco è stato disegnato in modo da dare
l’impressione – da un punto di vista privilegiato,
ma comunque non fisso – di coprire la parte
inferiore dell’architrave16. Alberti ha inteso consapevolmente subordinare alcune forme architettoniche all’occhio dello spettatore, ingannandolo. È necessario, in primo luogo, verificare se,
nell’opera albertiana, sia possibile trovare
riscontri, a conferma di questo procedimento.
L’illusione e l’occhio dello spettatore
Innanzi tutto, Alberti è in buona compagnia. La
deformazione ottica – che sia una compensazione o abbia funzione illusionistica – assume un
ruolo costitutivo nell’opera di Donatello, uno
degli artisti che Leon Battista più ammira e cui
più è vicino17. Ma correzioni ottiche sono ripetutamente previste già nel testo del De architectura vitruviano18. E attenzione specifica alla
visione è testimoniata negli edifici antichi, nei
quali quelle correzioni vengono applicate. Un
esempio per tutti: nel Pantheon – architettura
cui Alberti riserva uno studio molto attento – la
trabeazione del pronao è incurvata verso il
basso, e il fusto della colonna angolare risulta di
dimensioni maggiori rispetto agli altri. Altra
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13. Mantova, Sant’Andrea, avancorpo:
nicchione sotto l’ombrellone (foto A.
Chemollo).
soluzione, nell’edificio di età adrianea, che non
avrà mancato di attirare l’attenzione di Leon
Battista è la variazione della dimensione dei
lacunari della cupola, ma anche, e soprattutto,
dei riquadri al loro interno, deformati assecondando la curvatura della superficie della volta.
Questo insieme di pratiche complesse e di specifiche soluzioni trova puntuale riscontro nel
testo del De re aedificatoria, che contiene diversi
passi nei quali Alberti esprime il suo interesse
per il modo in cui l’architettura viene osservata,
e per le soluzioni di conseguenza adottabili. In
particolare per le deformazioni: trabeazioni
inclinate, ritocchi al fusto delle colonne e al
numero delle scanalature, innalzamento del
profilo delle volte19.
Esistono, poi, precedenti pittorici dello specifico motivo dell’arco sovrapposto alla trabeazione – nell’Annunciazione di Filippo Lippi nel
duomo di Spoleto, o in edifici di fantasia disegnati da Jacopo Bellini – dove la sovrapposizione serve ad accentuare l’impressione dello scorcio dal basso, che possono aver dato da pensare
a Leon Battista20.
Tuttavia, ciò che più interessa è la presenza
nell’opera albertiana di una soluzione paragonabile a quella di Sant’Andrea. Soluzione che ha
carattere di assoluta eccezionalità nel panorama
dell’architettura quattrocentesca, che è passata
inosservata, e il cui fine non è correggere la
visione – come nei passi del De re aedificatoria, in
buona parte di derivazione vitruviana – ma produrre un’illusione. Incastonato al centro della
facciata della basilica fiorentina di Santa Maria
Novella, il portale maggiore occupa uno spazio
definito da un arco, retto da paraste scanalate e
inquadrato da colonne lisce e allungate. La parasta riveste lo spigolo del breve atrio di accesso e
raddoppia nello spessore murario, dando luogo
a una soluzione che rimanda al Pantheon. Se si
osservano basi e capitelli accostati, ci si rende
conto che nella seconda parasta le dimensioni di
questi elementi sono maggiori. La base è più
alta di quella antistante, mentre il capitello scende più in basso. In entrambi i casi si tratta di differenze chiaramente visibili, di alcuni centimetri, che determinano un consistente accorciamento del fusto della parasta. Da notare che
anche gli apici dei rudenti si trovano a quote
diverse, più alti nella seconda parasta, mentre gli
apici delle scanalature, al contrario, sono più
bassi nel fusto retrostante. In sostanza, Alberti ci
offre una combinazione di elementi architettonici deformati, prevedendo un punto di vista
frontale collocabile all’incirca a una decina di
metri di distanza. Da questa posizione si percepisce con chiarezza lo scarto delle linee orizzontali, che sembra conferire maggiore profondità
all’atrio (ill. 8-10). L’artificio albertiano – pittorico ma anche partecipe delle anamorfosi donatelliane, essendo realizzato con oggetti disposti
nello spazio – è costruito in modo del tutto
empirico, per conseguire un risultato visivo. Ma
anche per essere scoperto: è collocato sul portale principale della basilica, e la visione laterale lo
rivela immediatamente.
È noto che il progetto per la facciata di Santa
Maria Novella dovette sottostare a vincoli precisi e rispettare l’edificio esistente, in particolare
conservare gli avelli alla base della facciata21. Per
questo motivo, probabilmente, Alberti – non
potendo giocare su effetti di profondità come
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ria della redazione volgare del De pictura23. Leon
Battista, infatti, riprende i principali elementi
architettonici della Trinità – vera e propria
opera inaugurale per l’uso della prospettiva nel
XV secolo – che si trova oltre il portale all’interno della basilica. Restituisce all’antica lacunari e arco inquadrato, mettendo a paragone –
secondo una prassi che gli è propria – architetture di epoche diverse. La soluzione del portale
di Santa Maria Novella non trova riscontri nell’architettura del tempo, rimane – a quel che so
– un unicum. Sembra dunque difficile attribuirla
ad altri se non ad Alberti, ottenendo un’ulteriore conferma all’ipotesi sugli archi mantovani24.
A questo punto il discorso può procedere in
due direzioni distinte: mettere a confronto la
soluzione del Sant’Andrea con forme presenti in
tutte le opere architettoniche di Alberti, tentando un’interpretazione in rapporto alla sua concezione dell’architettura, e soprattutto dell’ornamento; oppure rintracciare i possibili modelli
di quella soluzione, saggiando l’uso complesso
delle fonti che Alberti mette in atto nelle sue
architetture. Seguiremo questo secondo percorso, dopo qualche cenno sulla prassi albertiana
dell’imitazione, che ci chiarisca in che direzione,
e in che modo, cercare.
14. Sezione dell’avancorpo di Sant’Andrea
a Mantova (rilievo e restituzione di L.
Volpi Ghirardini e M. Nascig).
nelle altre facciate di chiesa da lui progettate –
scelse una soluzione che consente di superare
con un virtuosismo le difficoltà, e allo stesso
tempo di sottolinearle22. Ma è possibile che questa scelta sia leggibile anche come una sorta di
omaggio a un artista, Masaccio, collocato fra i
grandi maestri fiorentini nella lettera dedicato-
Imitazione
Nulla più della pedissequa imitazione è lontano
dalla mentalità di Leon Battista. L’interposizione di una distanza – l’uso della filologia applicato all’architettura – è condizione della conoscenza per Alberti. Il De re aedificatoria – soprattutto i libri dal VI al IX – può essere letto come
un monumentale esercizio di straniamento25. È
al livello della cognitio atque ratiocinatio che il
libro si colloca, istituendo – dove prima non esisteva che un paesaggio di rovine e un “guazzabuglio medievale” – l’architettura come ars26. Se
la res aedificatoria è frutto dell’invenzione di una
tradizione, non costituisce, tuttavia, un sistema
ipostatizzato. Il trattato è attraversato dall’idea
di un continuo rivolgimento, di una metamorfosi continua. Il che implica la necessità della
novità. La novità è necessaria alla tradizione
come la tradizione alla novità27. Che non solo
viene praticata da Leon Battista – talvolta facendo ricorso a modelli eccentrici – ma viene introdotta in passaggi decisivi, là dove l’architettura
deve parlare. Lo scarto non è solo una scelta formale, ma talvolta introduce significati. L’imitazione, dunque, non può che collocarsi nello spazio fra conoscenza e novità.
Un’altra opera di Leon Battista, i Profugiorum ab aerumna libri, ci fornisce una conferma e
qualche ulteriore motivo di riflessione. Nel III
libro, descrivendo il procedimento di costruzione di un testo letterario, Alberti si serve di
un’immagine presa in prestito dall’architettura:
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Alberti. E si alimenta dello studio attento di edifici non solo antichi, ma di ogni epoca storica30.
La costante affermazione di principi “naturali” –
concinnitas – che fungono da cornice, non è antitetica allo sperimentalismo, alla variazione ripetuta e insistentemente perseguita, che risponde
a un’idea dell’arte come artificio31.
Come si applicano queste considerazioni alla
lettura del Sant’Andrea? La celebre interpretazione avanzata da Rudolf Wittkower sulla facciata come intersezione di due grandi temi formali,
tempio e arco di trionfo, va assunta come punto
di partenza32. Prima di entrare nel vivo dell’argomento, però, è necessario un altro passaggio: si
tratta di chiarire, per quanto possibile, la funzione dell’avancorpo progettato da Alberti.
15. Disegno per la controfacciata di Santa
Maria presso San Satiro a Milano,
1487-90 c (da R. Schofield, A Drawing
for S. Maria presso S. Satiro, in
“Journal of the Warburg and Courtauld
Institutes”, XXXIX, 1976).
16. Brescia, Beata Vergine dei Miracoli,
controfacciata (foto Brogiolo).
il mosaico pavimentale. Un testo – come un’architettura, suggerisce Leon Battista – è il risultato dell’accostamento di frammenti ripresi qua
e là, da fonti diverse, ma composti secondo un
ordine e una forma che conferiscono loro nuovo
significato. L’enfasi sulla coerenza del risultato e
sulla sua novità risultano particolarmente
importanti: “qual compreendesti faccenda da
niuno de’ buoni antiqui prima attinta”28. Come
ci ha insegnato Cecil Grayson, l’originalità è
uno dei valori che Alberti persegue più coerentemente anche nella sua opera letteraria. Il passo
dei Profugia – facendo ricorso a un topos della
letteratura umanistica – ci consegna una riflessione sull’imitazione in grado di suggerire un
approccio all’opera architettonica di Leon Battista da considerare con attenzione29. Questa idea
dell’imitazione contempla l’uso sistematico del
montaggio e della variazione, secondo la prassi
degli umanisti, ma anche degli artisti fiorentini
del primo Quattrocento più congeniali ad
L’avancorpo e la reliquia del Sangue di Cristo
Uno degli esiti di maggiore rilievo raggiunto
negli ultimi anni dalla ricerca sull’architettura
albertiana è senza dubbio il resoconto degli scavi
effettuati da Howard Saalman e Livio Volpi
Ghirardini sotto la volta dell’ombrellone della
basilica mantovana33. Da Paolo Pozzo in poi la
grande volta sommitale è stata in genere considerata un elemento di disturbo alla classica
sobrietà della facciata, aggiunto in un momento
imprecisato della storia dell’edificio. Con la
conseguente proposta di eliminarlo, fisicamente
o metaforicamente, dalla vista. Fino a quando è
riemerso dagli archivi il disegno di Hermann
Vischer (ill. 11). La presenza dell’ombrellone
nel foglio dei primi del Cinquecento ha di fatto
risolto la questione dell’appartenenza della
struttura alla fabbrica quattrocentesca, aprendo
quella del suo significato. Contemporaneamente alla pubblicazione del disegno, Erich Hubala
ha avanzato l’ipotesi che la grande volta vada
considerata una struttura pensata ab origine per
proteggere la finestra alla sommità della controfacciata, finestra che mette in comunicazione lo
spazio coperto dall’ombrellone con la navata34.
La proposta non è del tutto convincente,
data l’importanza della volta nell’economia della
facciata. Difficilmente possiamo considerare
l’ombrellone elemento puramente funzionale,
dal momento che, sia che si osservi l’edificio da
vicino, che da lontano, questo assume chiaramente il significato di grande segnale architettonico. Significato enfatizzato dall’intenzionale
riduzione dell’altezza del timpano sottostante,
realizzata – ancora una volta – discostandosi dai
precetti del De re aedificatoria35. Inoltre, è opportuno tener presente che la facciata di Sant’Andrea non è solo uno schermo architettonico, ma
una sorta di edificio indipendente, un avancorpo
– vera e propria macchina architettonica, la cui
profondità corrisponde a quella della loggia
inferiore – che si addossa al corpo della basilica.
Un definitivo chiarimento è giunto grazie
16
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17. Francesco Piranesi, Pantheon,
sezione sul corpo intermedio (da F. Piranesi,
Raccolta de’ tempi antichi, II, Roma
1790).
18. Anonimo, Arco a due fornici con
Colosseo e Pantheon, disegno, entro
il primo decennio del XVI secolo (Paris,
Louvre, Cabinet des Dessins, 1409DR).
alla campagna di scavi, effettuata nei primi anni
Novanta. Nella zona sotto l’ombrellone – liberata dai materiali di riporto che la ingombravano – sono emersi ambienti di grande interesse.
Si trovano nello spazio delimitato in un senso da
facciata e controfacciata, nell’altro dai muri che
reggono la volta dell’ombrellone a una quota
immediatamente superiore alla volta di ingresso
alla chiesa. Si tratta di una stanza posta a ridosso della facciata – con volta a botte a essa parallela – e di un corridoio antistante che distribuisce altri ambienti. Il tutto accessibile da una
rampa di scale (ill. 12). Anche se il funzionamento dell’ insieme di ambienti non è del tutto
chiaro, questa parte sepolta dell’edificio, con le
altre stanze contenute all’interno della facciata e
alle scale a doppia rampa che ne consentono
l’accesso, sono state messe in relazione con lo
svolgimento delle cerimonie connesse al culto
della reliquia del Preziosissimo Sangue di Cristo, custodita da secoli nella chiesa di Sant’Andrea. Nel vano a ridosso della facciata è stata
individuata la cripta in cui la reliquia era ospitata, in occasioni specifiche, mentre gli altri sono
considerati ambienti di servizio36.
In particolare, lo spazio sotto l’ombrellone
era utilizzato per le ostensioni della reliquia, che
molto probabilmente avvenivano verso l’interno
della chiesa, come testimonia una celebre lettera indirizzata da Alberti a Ludovico Gonzaga37.
Altre fonti a sostegno di questa ipotesi sono i
documenti che, nel corso del Quattrocento,
fanno riferimento a un podio all’interno della
chiesa precedente – sostituita da quella albertiana – da cui la reliquia veniva mostrata ai fedeli.
Dal momento che la struttura si trovava a ridosso della facciata, l’avancorpo albertiano sembra
assumerne la funzione, conferendole forma
architettonica complessa38.
L’ostensione doveva avvenire tramite la finestra – probabilmente centinata, in origine –
aperta nel lunettone di controfacciata sopra la
trabeazione39. La cui cornice – resa profonda
dall’accentuato, quanto anomalo, risalto delle
paraste – consentiva forse all’officiante di affacciarsi verso i fedeli. E verso la finestra è rivolto
il nicchione – struttura straordinariamente
monumentale, dalla funzione non del tutto chiara – che, se la nostra ipotesi regge, potremmo
identificare con un’abside (ill. 13). Abside che si
trova sopra l’ambiente della cripta: un altare sul
pavimento – ma non abbiamo alcun riscontro
che ne confermi la presenza – darebbe luogo a
una sistemazione che ricorda da vicino quella
dei martyria paleocristiani40 (ill. 14).
È possibile, tuttavia, che la macchina messa a
punto da Alberti sia rimasta inutilizzata. In
un’opera scritta probabilmente all’inizio del
XVI secolo, il carmelitano Pietro da Novellara
lamenta la decadenza del culto per il santo san-
gue di Mantova, quasi scomparsa dopo anni di
straordinarie manifestazioni di devozione, quando, per il concorso dei pellegrini “parevassi essere ad Roma al tempo del iubileo”41. Come è
stato notato di recente, è probabile che questo
calo di interesse per la reliquia abbia – al pari
della fioritura quattrocentesca del culto – motivazioni soprattutto politiche: a quanto pare, nel
primo Cinquecento, Francesco II e Federico
sembrano meno propensi dei loro predecessori
ad associare l’immagine della famiglia al sangue
di Cristo42. Questo mutamento si verifica in un
periodo in cui la prima campagna di costruzione
di Sant’Andrea è appena conclusa. Viene il
sospetto che lo stato di abbandono dell’apparato
albertiano per l’ostensione della reliquia sia
intervenuto precocemente, e che il cantiere non
sia stato portato a termine. Quando abbiamo
nuovamente notizia di una cerimonia cui partecipi la famiglia ducale, nel 1533 – significativamente i lavori di costruzione sono interrotti
dagli anni Novanta del Quattrocento al 1530 –
il documento menziona un poggio all’interno
della chiesa, sul quale vengono offerti doni a
Federico da parte delle corporazioni, per una
libagione seguita dall’ostensione del sangue43.
Possiamo escludere che si tratti del piano supe-
17
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19. Cassone nuziale di Paola Gonzaga,
anni Settanta del XV secolo, dettaglio
(da R. Milesi, Mantegna und die Reliefs
der Brauttruhen Paola Gonzagas,
Klagenfurt 1975).
riore dell’avancorpo. Piuttosto, una struttura del
tipo di quella progettata nel 1591 da Pompeo
Pedemonte alla conclusione della navata. A
quella data, con ogni probabilità, della funzione
dell’avancorpo si era già persa memoria44.
Ciò non toglie che la soluzione albertiana
non vanti almeno un precedente quattrocentesco – certamente noto ad Alberti – la controfacciata del duomo di Prato, dove, sopra il portale
si apre una finestra per l’ostensione del Sacro
Cingolo all’interno della chiesa45. Ma anche un
paio di derivazioni in ambito lombardo, a Santa
Maria presso San Satiro a Milano e nella Beata
Vergine dei Miracoli a Brescia (ill. 15-16). Questo secondo caso è tanto più interessante perché
congruente rispetto a Sant’Andrea anche per la
funzione della tribuna in facciata: l’ostensione
dell’immagine miracolosa46. Se dunque l’avancorpo della basilica mantovana ingloba il podio,
in uso nella chiesa medievale precedente, l’ombrellone ne segnala la presenza, coronando lo
spazio reliquiario come un grande baldacchino.
Fonti. 1. Il Pantheon e Bernardo Rucellai
Questa messa a fuoco del funzionamento della
facciata della basilica mantovana ci consente di
avviare la ricognizione delle sue fonti principali.
Ricognizione che conduce, in primo luogo, alla
fronte di tempio. L’uso della fronte di tempio
come grande tema formale che organizza la facciata è chiarissimo, preceduto dal ricorrere dello
stesso tema sulle facciate di Santa Maria Novella e del duomo di Pienza. Da qualche tempo,
tuttavia, le ipotesi si sono affinate, individuando
nel Pantheon uno dei punti di riferimento privilegiati per il progetto mantovano47. Il Pantheon
è l’edificio antico per eccellenza, unico a essersi
interamente conservato perché cristianizzato,
quindi templum ma anche chiesa di Santa Maria
ad Martyres48. In esso troviamo un elemento
direttamente confrontabile con il tipo di facciata che Alberti aveva in mente, il corpo intermedio che connette l’imponente invaso sormontato dalla cupola al pronao. Al suo interno si
dispongono su due piani ambienti voltati a
botte, raggiungibili tramite rampe di scale laterali (ill. 17). Non solo. Frontalmente, la parete
del corpo intermedio è scavata dall’atrio di
accesso, voltato a botte con cassettoni, e da due
nicchioni laterali. Paraste scanalate sono disposte in corrispondenza delle colonne del pronao.
Nella zona sommitale si disegna un timpano
murario, che ripete le forme di quello del pronao, con il quale si interseca. Se eliminassimo il
pronao, ci troveremmo di fronte ad alcuni dei
principali elementi formali della facciata di
Sant’Andrea: tripartizione, paraste – comprese
quelle che si incastrano nelle parete a fianco del
portale – timpano.
Come è noto, l’idea che il pronao sia separato dal resto dell’edificio risale ai primi del Cinquecento: l’accostamento fra le componenti dell’architettura, in particolare cella rotonda e loggia antistante, era comunemente giudicato frutto
di campagne costruttive distinte, attribuibili ad
architetti diversi. Ai problemi di interpretazione
contribuì la tormentata vicenda del Pantheon,
che vede susseguirsi nel tempo tre edifici distinti. Al primo realizzato da Agrippa in età augustea, succede la versione domizianea, a sua volta
sostituita dall’edificio giunto fino a noi, costruito
all’inizio del II secolo d.C. per iniziativa di
Adriano. Le poche fonti antiche conosciute –
soprattutto passi dalla Naturalis Historia di Plinio
18
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e dalla Storia romana di Cassio Dione – messe a
confronto con l’evidenza fisica dell’edificio, in
mancanza di una cronologia attendibile, aumentarono, se possibile, le difficoltà. Solo in seguito
a prospezioni archeologiche, alla fine del XIX
secolo, si giunse alla conclusione che l’edificio sia
realizzato in modo unitario. Mentre, prima che
si sbrogliasse la matassa, ci si arrabattava per far
largo agli interventi di epoca augustea, descritti
da Plinio, nell’edificio adrianeo49.
E Alberti? È possibile che l’interpretazione
dell’edificio come insieme di parti separate risalga a qualche decennio prima di quanto si pensi,
e che abbia avuto un peso nel progetto per
Sant’Andrea50? Non mi pare ci siano riscontri in
tal senso nelle opere letterarie albertiane.
Disponiamo però di una fonte in grado di offrire qualche indizio al riguardo: il De urbe Roma di
Bernardo Rucellai.
Figlio di Giovanni di Paolo, committente
fiorentino di Alberti, Bernardo è figura di rilievo della Firenze del secondo Quattrocento e del
primo Cinquecento. Cognato di Lorenzo de’
Medici, con Lorenzo condivide interessi e passioni. Da una lettera scritta da Bernardo nel
1474, sappiamo della loro attività di giovani
architetti dilettanti51. E sappiamo della collezione di pezzi antichi, in parte collocati nel suo
giardino, quegli Orti Oricellari alla cui costruzione Bernardo partecipò in prima persona52.
Altra passione condivisa con Lorenzo è quella,
che qui ci interessa da vicino, per l’opera di
Alberti53. Nel De urbe Roma si fa più volte riferimento agli scritti e alle architetture di Leon Battista, giudicato “sane architecturae peritissimus,
ut eius scripta indicant, et qui in prosequendis
antiquitatum monumentis huius aevi omnes
facile superavit”54.
Non solo. Dallo stesso testo sappiamo di una
celebre visita agli edifici antichi di Roma che
Bernardo, Lorenzo e Donato Acciaiuoli fecero
in compagnia di Alberti, nel 1471. In quella
occasione, passeggiando attraverso le rovine
delle terme e del Circo Massimo, Rucellai ebbe
modo di conoscere di persona le opinioni dell’architetto e studioso di architettura antica più
celebre del tempo, e iniziò a farsi un’idea del
metodo di lavoro che avrebbe poi messo a frutto negli studi preliminari alla stesura del suo
libro. Stesura che comincia forse già nel corso
degli anni Novanta del Quattrocento e si conclude probabilmente entro il 150555.
Ma veniamo al Pantheon. Sull’edificio si sono
depositate, nel corso del Medioevo, storie e dicerie – ne sono testimonianza i Mirabilia Urbis – che
ci parlano del grande fascino che emana da questa architettura. Non c’è dubbio che Bernardo,
con il suo approccio da umanista, fosse immune
da credenze di questo tipo. Tuttavia, il capitolo
sul Pantheon del De urbe Roma si apre proprio
sull’oculo, che tanto aveva impressionato i commentatori dei secoli precedenti. Oculo considerato dapprima parte integrante di un monumentale
meccanismo di misurazione del tempo, foro di
accesso della luce nel grande orologio solare che
è la rotonda. Poi riferimento simbolico – forma
traslata – all’impluvium del mito, attraverso il
quale passano i due serpenti strangolati da Ercole in fasce. All’esterno dell’edificio, infatti, Rucellai colloca un culto di Ercole, mentre per il tempio riferisce di un’intitolazione a Giove Ultore.
In entrambi i casi fa riferimento a passi corrotti
del suo Plinio56. Il travisamento più affascinante –
il Pantheon come orologio – si deve, invece, a un
Vitruvio corrotto. In questo caso, la lettura del
passo avrà ricordato a Bernardo la straordinaria
suggestione esercitata dal grande fascio di luce
che penetra dall’alto nell’invaso della rotonda,
percorrendone le superfici57.
È probabilmente l’inattendibile dedicazione
a Giove Vendicatore a suggerire una ricostruzione dell’area antistante il Pantheon “in atrii
speciem”, con una loggia perimetrale, corrispettivo evidente della sistemazione del tempio di
Marte Ultore nel foro di Augusto. Magari con
l’aiuto di una moneta di Alessandro Severo,
nella quale davanti al pronao del tempio di
Giove Ultore compare appunto un ampio loggiato perimetrale accessibile tramite un arco di
trionfo58. La consacrazione a Giove ci permette
anche di individuare un primo argomento
comune a Bernardo e a Leon Battista, a proposito del Pantheon. Alberti, pur non nominando
l’edificio antico, a esso fa riferimento in un
passo del trattato: “Giove – dice Varrone –, poiché è all’origine di tutte le cose, esige un tempio
col tetto perforato”. Passo da leggere insieme
alla lettera a Matteo de’ Pasti del 1454, dove si
trova un’ulteriore specificazione: “mai vederai
fattovi occhio se non alle chupole in luogho
della chericha; e questo si fa a certi tempii, a
Iove, a Phebo, quali sono patroni della luce, et
hanno certa ragione in la sua larghezza”59.
La frase del De urbe Roma che ci interessa – e
che riporta, come vedremo, un giudizio albertiano – si trova in un passo in cui l’edificio viene
messo a confronto con il testo di Plinio. A proposito del pronao leggiamo: “quod nostri homines architecturae peritissimi contendunt, locum
columnis praegrandibus frequentibusque ex Ilya
insula ornatum, quem vulgo dicunt porticum
pronaon fuisse templi vestibulum, ita reliquo
operi coniunctum, ut separari nequeat, agnatumque una simul cum aede videatur”60. Agnatus, nell’ultima parte dell’inciso finale, pone un
problema di interpretazione di non poco conto:
potrebbe designare grado di parentela stretto –
che per metafora significhi prossimità, unione –
ma anche figlio nato dopo il primo. Nel qual
caso, la metafora indicherebbe una successione
19
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20. Pantheon, fronte e sezione del corpo
intermedio (da K. De Fine Licht, The
Rotunda in Rome. A Study of Hadrian’s
Pantheon, Copenhagen, 1968, p. 67).
temporale: “benché successivo”. Entrambi i
significati sono attestati nel lessico giuridico
antico, per passare poi all’uso comune. Non è
facile dirimere la questione sulla base del solo
contesto61.
Ma c’è un’altra considerazione da fare, indipendentemente dal significato del singolo termine: questo inciso sembra alludere proprio all’interpretazione dell’edificio scisso in parti distinte.
L’insistenza sull’unità (una simul cum), apparente
(videatur), non è leggibile altrimenti. Ma proprio
il verbo conclusivo introduce una torsione del
giudizio che non si trova in altri testi cinquecenteschi: i due elementi sono accostati in modo da
apparire uniti, forse anche si intende che vadano
visti, guardati, come un tutt’uno. E – caso raro,
se non unico – sull’unione ottenuta il giudizio
implicito è di apprezzamento. Mi pare che si
possano cogliere assonanze evidenti con quanto
abbiamo detto a proposito della prassi architettonica, ma anche della concezione dell’architettura, di Leon Battista. Elementi separati producono un’unità, come tessere differenti di un
mosaico, unità fondata sulla visione. Sembra
proprio che Rucellai parli per bocca di Alberti. È
indubbio, per di più, che il richiamo all’autorità
e al giudizio dei “nostri homines architecturae
peritissimi”, a lui, o quantomeno anche a lui, faccia riferimento62 (ill. 18).
Altro indizio a favore dell’ipotesi che Alberti
sia a conoscenza dell’opinione sul Pantheon lo
fornisce un’immagine. L’immagine di una facciata di tempio su un cassone nuziale di Paola
Gonzaga (ill. 19). Eseguito negli anni Settanta
del XV secolo, il cassone presenta una scena
all’antica, in cui sullo sfondo del corteo imperiale, fra altri edifici antichizzanti, è visibile un
tempio con corpo murario anteriore – nicchione
centrale, paraste laterali, e doppio timpano
(quello maggiore ne include uno più piccolo) –
e grande cupola retrostante, ribassata e priva di
lanterna. L’allusione al Pantheon mi sembra evidente, e si tratta di un Pantheon privo di pronao. A conferma che il riferimento all’ipotetica
rotonda originaria circolasse a Mantova molto
precocemente. Non solo. La datazione colloca il
cassone subito dopo la firma del contratto
matrimoniale, del 1476, escludendo ogni possibilità di un interessamento diretto da parte di
Alberti. Tuttavia l’attribuzione alla bottega di
Andrea Mantegna potrebbe richiamarlo in
causa. Con ogni probabilità, infatti, Leon Battista conosceva il pittore di corte di Ludovico
Gonzaga, e si può ritenere che con lui si intrattenesse sugli argomenti più diversi, e in particolare sulle antichità, di cui entrambi erano appassionati studiosi. Non possiamo escludere, quindi, che quell’edificio rappresenti una lontana eco
di una conversazione sul Pantheon63.
Del resto, che l’operazione di scomporre
mentalmente il Pantheon corrisponda in pieno
alla mentalità di Leon Battista, ce lo conferma un
passo del De re aedificatoria, riguardante l’approccio agli edifici degni di considerazione, che
prevede lo studio attento tramite il disegno, il
rilievo, e la restituzione con modelli. Dopo di
che: “si dovrà soprattutto ricercare in ogni elemento che cosa vi sia di prezioso e di ammirevole in virtù di un artificio meditato e nascosto o di
qualche novità”64. Non è difficile immaginarsi il
nostro esaminare la soluzione che mette a confronto i lacunari della cupola con l’attico e con il
piano sottostante, soluzione che dà luogo all’allineamento verticale degli elementi soltanto sugli
assi principali (sequenza di vuoti sovrapposti) o
su quelli diagonali (costola fra lacunari in asse),
lasciando a disassamenti casuali le altre file di
lacunari65. O apprezzare la leggera piega sul
paramento lapideo esterno proprio sopra la parasta che segna il passaggio dal corpo intermedio al
pronao; annotare la rotazione della mensola, che,
immediatamente sopra, unica si dispone a
novanta gradi rispetto alle altre; e, infine, seguire il tracciato della modanatura che – alla stessa
quota – si trasforma da ovolo della cornice dell’ordine maggiore all’interno, in elemento della
mostra del portale, per poi, passata all’esterno,
definire la linea su cui risaltano gli astragali dei
capitelli delle paraste, e infine, abbandonato il
pronao, perdersi sopra una delle cornici che cerchiano la rotonda. Esempio straordinario di
metamorfosi delle forme, ma anche gioco raffinatissimo che lega interno ed esterno, pronao e
rotonda. Per inciso, queste ultime soluzioni sembrano alludere, tutte, a una facciata muraria66.
Se torniamo al problema della derivazione
dell’avancorpo di Sant’Andrea dal Pantheon,
otteniamo una conferma inaspettata. Come si è
detto, una volta liberato l’edificio antico dal pronao, ci troviamo di fronte alla ipotetica facciata
originaria, in cui si apre l’andito centrale con
volta a botte. L’arco – proiezione della volta
sulla facciata – interrompe le modanature,
altrettanto ipotetiche, della trabeazione alla base
20
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21. Baldassarre Peruzzi, Pantheon,
sezione, disegno (Ferrara, Biblioteca
Ariostea, Ms. Classe I, n. 217).
22. Marten van Heemskerck, Pantheon,
disegno (da E. Filippi, Maarten van
Heemskerk: inventio urbis, Milano
1990).
del timpano (ill. 20), costituendo un preciso precedente antico per la soluzione adottata a Mantova. Del resto, l’interno del Pantheon forniva,
un tempo, immediato riscontro della sovrapposizione dell’esterno: in corrispondenza del vano
di accesso e dell’abside di fronte a esso, infatti, le
paraste, che si affollavano sull’ampia curva dell’attico, erano tagliate dall’intrusione dei rispettivi archi. Rendersi conto della sovrapposizione
non era poi così difficile, anche per un architetto dell’epoca: una sezione (ill. 21) come quella
tracciata da Baldassarre Peruzzi consente agevolmente di rilevarla67.
È probabile che Alberti pensasse a questo
edificio immaginario come risalente all’età
repubblicana. Secondo una successione cronologica che colloca la realizzazione del pronao da
parte di Agrippa all’inizio del principato di
Augusto – come attesta l’iscrizione sotto il timpano – ad arricchire l’edificio precedente. Grandi colonne vengono aggiunte a un’architettura
quasi disadorna. Il che corrisponde alla celebre
digressione storica all’inizio del VI libro del De
re aedificatoria: l’architettura giunta a Roma dalla
Grecia, in un primo periodo sobria e utilitaristica, diviene trionfale, sempre più ornata e rappresentativa nell’età dei Cesari. Non c’è bisogno
di ricordare che principale ornamento dell’architettura, per Leon Battista, sia la colonna68.
È chiaro, tuttavia, che la decisione di ricorrere a questo Pantheon primitivo per la facciata
dell’edificio mantovano sia da mettere in relazione con le forme architettoniche: il corpo
intermedio fornisce una soluzione efficace e
contaminabile con altri modelli, rispondendo
alle intenzioni albertiane. Tilmann Buddensieg
ha osservato giustamente, citando la famosa lettera a Matteo de’ Pasti del 1454, che Leon Battista nutre un profondo rispetto per l’architettura del Pantheon, e che per questo motivo invece
di sottoporla al vaglio di criteri astratti, se ne
serve per giustificare soluzioni formali inusuali,
non convenzionali69.
Probabilmente è affascinato anche dall’idea
del susseguirsi di interventi diversi, che non
intacchino, però, l’unità dell’edificio. Idea che,
infatti, dispiega in successione diacronica quanto Alberti considera un procedimento di sintesi,
il procedimento stesso del pensare e disegnare
l’architettura. Il Pantheon diviene allora non
semplicemente una fonte, ma una sorta di paradigma della concezione albertiana dell’architettura. Leon Battista si mostra consapevole che
l’edificio è soggetto alla legge del tempo, è
immerso in un continuo processo di trasformazione70. Tanto che persino il campanile medievale, ben visibile all’epoca sopra il timpano antico
(ill. 22), si può considerare diretto precedente
per Sant’Andrea. Non solo per la somiglianza
rispetto alla posizione dell’ombrellone71, ma
perché la torre, come l’ombrellone, è l’elemento straniante che conferisce significato alla facciata. Nell’un caso esibendo il carattere cristiano
dell’edificio – conseguito dopo la consacrazione
e la cacciata degli idoli – nell’altro esplicitando
la ragione stessa dell’edificio, la presenza della
reliquia e il culto a essa connessa.
Fonti. 2. San Marco
Abbandonato il Pantheon, passiamo a occuparci
di un’altra delle tessere che compongono il
mosaico della facciata di Sant’Andrea. Una tessera veneziana. Alberti, per quel che sappiamo,
trascorse la giovinezza fra Venezia e Padova.
Ritornò in diverse occasioni nella città lagunare,
avendo modo di studiarne a fondo l’architettura,
e di Venezia troviamo menzione nelle sue opere
letterarie72. Si interessò anche della basilica di
San Marco, cui si fa riferimento in un passo del
De re aedificatoria73. Passo confrontabile con un
altro celebre locus albertiano che ci testimonia
attenzione e apprezzamento nei confronti di
edifici medievali74. Del resto, sono proprio le
21
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23. Venezia, San Marco, facciata.
24. Sezioni di San Marco a Venezia
(da L’augusta ducale basilica
dell’evangelista San Marco nell’inclita
dominante di Venezia, Venezia 1761,
tavv. VI-VIII).
25. Sezione di San Marco a Venezia
(da L’augusta ducale basilica…, cit.,
tav. X).
opere architettoniche di Alberti a confermarci
un preciso interesse per l’architettura medievale, che viene presa a modello nelle architetture
per i Rucellai a Firenze, e nel progetto per il
Tempio Malatestiano a Rimini tramandatoci
dalla medaglia di Matteo de’ Pasti. Progetto nel
quale, appunto, Leon Battista sembra fare riferimento, nel coronamento curvilineo della facciata, anche a San Marco75.
Non ci sorprenderà, quindi, che, per
Sant’Andrea, Alberti guardi di nuovo alla basilica marciana. È stato giustamente notato che il
sistema strutturale e l’impianto di Sant’Andrea,
e in particolare l’alternanza delle cappelle – con
conseguente svuotamento dei pilastri – risulta
largamente debitore della soluzione marciana a
pilastri cavi tetrapili, con volte a calotta, alternati alle grandi volte a botte laterali76. Anche in
facciata, però, il debito è consistente. San Marco
fornisce a Leon Battista un precedente preciso
di edificio a pianta basilicale con nartece a due
piani, nel secondo dei quali si trova una serie di
ambienti voltati. Non solo. Al centro della facciata, l’arco principale è sormontato da un
secondo arco, quello della grande finestra (ill.
23). Come si vede, la vicinanza ad alcune delle
soluzioni che maggiormente caratterizzano la
facciata di Sant’Andrea è notevole. Ma osserviamo più da vicino il meccanismo di funzionamento della facciata veneziana.
La parte del nartece corrispondente al corpo
della chiesa è composta da tre campate connesse da arconi trasversali. Le campate laterali sono
sormontate da volte a calotta, quella centrale da
un grosso foro, tradizionalmente denominato
pozzo, che connette il nartece all’ambiente
superiore. Il centro del nartece, quindi, si configura come una campata maggiore – in cui si apre
l’esedra di accesso alla navata – affiancata da due
arconi archiacuti che, in quella posizione, si
allungano assumendo la forma di una sorta di
volta a botte (ill. 24). Esattamente lo schema
della loggia di Sant’Andrea, fatta salva una differente gerarchia delle campate e una diversa
disposizione degli accessi77. Al piano superiore,
quattro ambienti si dispongono ai lati del grande vano centrale, coperto da una volta a botte
che prolunga fino all’arco del finestrone le volte
della navata maggiore. È uno spazio che si apre
anche verso la navata centrale, in forma di alto
podio. Il fatto che, da un lato, si affacci sull’interno della basilica e, dall’altro, si proietti in facciata ne fa un precedente diretto dell’ombrellone mantovano (ill. 25).
Inoltre, è probabile che Alberti sia interessato a un altro aspetto dell’architettura di San
Marco: l’esplicita valenza trionfale della facciata,
determinata dagli archi, e soprattutto dalla presenza del celebre gruppo di cavalli bronzei. Le
fonti quattrocentesche non si pronunciano in
modo univoco sul significato e sulla provenienza della quadriga78, tuttavia non è certo difficile
per Alberti associare il gruppo sull’arco marciano a un trionfo romano. Il testo del De re aedificatoria – nell’estesa trattazione dedicata agli
archi trionfali – cita appunto la quadriga fra le
decorazioni ricorrenti sopra l’attico, e sull’argomento Leon Battista dispone di fonti antiche di
diverso genere, letterarie e iconografiche, oltre,
22
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26. Venezia, San Marco, facciata: campata
centrale.
ovviamente, alla cospicua produzione pittorica e
scultorea a lui contemporanea79. Così come possiamo ritenere sia in grado di cogliere la valenza
politica dell’apparato della facciata, testimoniata
da fonti diverse che ci parlano – in modo più o
meno esplicito – dell’identificazione della figura
del doge, dominator quartae et dimidiae partis
totius Romaniae, con il potere imperiale80. E, infine, è senz’altro consapevole della tradizione che
indica nell’Apostoleion a Costantinopoli, edificio
di fondazione imperiale, il modello di San
Marco. Tradizione che, grazie alla conoscenza
dei testi di Eusebio e Procopio, era in grado di
mettere a confronto con descrizioni antiche dell’edificio costantinopolitano81.
La connotazione trionfale della facciata di
San Marco fornisce dunque ad Alberti un precedente diretto per l’uso dell’arco antico sulla fronte di una basilica cristiana, e gli consente di valutare diverse declinazioni della forma, in epoche
differenti. Una sorta di cortocircuito temporale,
se si considera la presenza a San Marco di un
gruppo di reliquie di Costantino il Grande, strumenti della vittoria imperiale cristiana82, e si
tiene conto dell’iscrizione dedicatoria che sull’arco di Costantino a Roma attribuisce la vittoria su Massenzio a una “ispirazione divina”. Parlando dall’alto di uno dei grandi edifici trionfali
dell’antichità, l’iscrizione autorizza a considerare
quello stesso arco, e per associazione ogni arco
trionfale, come simbolo della vittoria della croce
sul paganesimo, e del trionfo di Cristo sulla
morte83. Non a caso, la presenza delle reliquie
costantiniane a San Marco è stata messa in relazione con il progetto di crociata contro il Turco,
che viene avviato dal 1459 in seguito alla caduta
di Costantinopoli. Negli anni successivi la basilica marciana diventa, a Venezia, centro simbolico
dell’idea di crociata84. Quanto a Mantova, come
sappiamo, Ludovico Gonzaga poteva gloriarsi di
aver ospitato la dieta convocata da Pio II con
l’intenzione di chiamare a raccolta i principi cristiani contro gli ottomani85. La relazione fra
Sant’Andrea – edificio reliquiario, con il quale
Ludovico riafferma con forza il ruolo ideale dei
Gonzaga come custodi del sangue – e San Marco
sembra affondare le radici in questo sostrato di
eventi e simboli. Quanto meno per il committente, cui Alberti non avrà mancato di illustrare i
molteplici legami della chiesa veneziana con gli
imperatori cristiani e Costantinopoli, tanto più
che la basilica veneziana – ormai perduto, per la
cristianità, il suo prototipo greco, dopo la caduta
della capitale paleologa – rimaneva la sola testimonianza di quella storia86.
Mi sembra probabile, tuttavia, che Alberti –
anche in questo caso – fosse interessato soprattutto alla specifica proprietà delle forme di
attrarsi e combinarsi. Interessato al fatto che in
architetture differenti – facciata di chiesa e arco
trionfale – le forme dialoghino fra loro a distanza. Ipotesi che trova conferma nella presenza,
sulla facciata della basilica veneziana, del motivo
dell’arco sovrapposto. L’arcone centrale – che
presenta proporzioni molto simili a quello di
Sant’Andrea – interseca l’elemento che attraversa orizzontalmente l’intera facciata, la balaustra
della loggia dei cavalli (ill. 26).
Fonti. 3. Archi onorari
Se prendiamo in considerazione l’arco di
trionfo, è difficile individuare un singolo esempio calzante per Sant’Andrea. Più probabile che
– come Zeusi, da lui citato più di una volta87 –
Alberti abbia tenuto conto di modelli diversi. Le
due campate laterali nella loggia di Sant’Andrea
fanno pensare ai vani di raccordo fra i fornici
dell’arco di Settimio Severo88. Possiamo riferirci
agli archi di Tito e Traiano, ma anche a quello
di Costantino, per la presenza – forse nel vano
dentro l’attico – di una cappella, che potrebbe
aver fornito qualche suggestione per la collocazione del complesso della cripta nell’avancorpo
mantovano89.
È però ancora all’idea peregrina della trabeazione intersecata dall’arco che bisogna tornare.
A eccezione del caso – virtuale – del Pantheon e
di quello dell’anfiteatro di Pola, per quel che so,
gli unici esempi antichi del motivo ricorrono
proprio in edifici di questo tipo. Innanzitutto in
immagini antiche di archi. Se ne sono conservate alcune certamente visibili anche nel Quattrocento. Dal rilievo con trionfo di Marco Aurelio
(ill. 27) – all’epoca nella chiesa di Santa Martina
nel foro romano – all’arco quadrifronte sormontato da elefanti, in uno dei rilievi aureliani dell’arco di Costantino90. Non sappiamo se nella
Roma del XV secolo esistessero archi monumentali recanti soluzioni di questo tipo. Ritenia-
23
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27. Trionfo di Marco Aurelio (diateca
DSA, Università Iuav di Venezia).
28. Atene, arco di Adriano (diateca DSA,
Università Iuav di Venezia).
mo, però, che Leon Battista fosse in condizione
di mettere a confronto gli archi in effigie con
almeno un caso esotico di cui aveva notizia, l’arco di Adriano ad Atene (ill. 28).
Alberti conosceva bene Ciriaco d’Ancona. È
pensabile che i loro incontri non si siano limitati alle occasioni fiorentine, durante lo svolgimento del Certame coronario, nel 1441, cui
Ciriaco partecipò, e nel corso del concilio fra le
chiese di Oriente e Occidente91. Leon Battista,
come altri umanisti, era certamente molto interessato alla messe di notizie su luoghi, edifici e
libri che Ciriaco poteva mettergli a disposizione,
di ritorno dai suoi numerosi viaggi. E altrettanto probabile è che conoscesse i suoi disegni di
architettura. Tanto più che – come è stato ipotizzato di recente – buona parte dei materiali
greci di Ciriaco furono custoditi a Rimini da
Matteo de’ Pasti, dalla fine degli anni Quaranta
per oltre un decennio92. Periodo che, come si sa,
coincide in buona parte con la campagna
costruttiva del Tempio Malatestiano.
Ciriaco visitò Atene due volte, durante viaggi compiuti nel 1436 e nel 1444, e ne studiò con
attenzione rovine e iscrizioni. Aveva ormai
acquisito una notevole conoscenza di monumenti antichi, dopo più di due decenni di viaggi
su e giù per il Mediterraneo, annotando, studiando e acquistando pezzi antichi93.
Vide certamente l’arco di Adriano. Nei codici di cui disponiamo, in buona parte copie dei
manoscritti di Ciriaco, non compaiono disegni
dell’arco, mentre l’immagine di altri edifici si è
fatta strada fino a noi per mano di diversi copisti. Tuttavia il suo interesse per l’arco – genere
di edificio monumentale cui Ciriaco riserva particolari attenzioni – è testimoniato dalla trascrizione delle iscrizioni che corrono su di esso94.
Sembra probabile quindi che anche un’immagine sia tornata con lui in Italia. Il problema da
porsi, allora, è: il nostro viaggiatore era in
grado, non tanto di rappresentare, quanto di
vedere un dettaglio inusuale come un archivolto
che copre un architrave?
Anche tenendo conto che nel caso di Atene
l’arco si sovrappone per intero alle due fasce
dell’architrave e lambisce il fregio, e dunque
l’intenzione formale è chiarissima, per comprenderla è necessaria, quanto meno, una conoscenza precisa del funzionamento della sintassi
dell’ordine. La questione delle competenze
architettoniche di Ciriaco sarebbe difficilmente
risolvibile se non potessimo appellarci a disegni
– derivanti dai suoi – che rappresentano un’altra
architettura adrianea ad Atene, l’arco sulla facciata del serbatoio dell’acquedotto. In questo
caso, due codici di mani diversissime fra loro (ill.
29) – che mostrano sensibilità per le forme lontanissime – rappresentano uno stesso particolare desueto, la cui attendibilità ci è testimoniata
inequivocabilmente dalla tavola incisa e pubblicata alcuni secoli dopo nelle Antiquities of Athens
di James Stuart e Nicholas Revett95.
L’arco si trova al centro di tre campate scandite da colonne, le due laterali con trabeazione
rettilinea. L’archivolto imposta non sulla cornice, ma direttamente sull’architrave a due fasce –
di cui riprende la forma – interrompendo fregio
e cornice. Concettualmente una soluzione vicina a quella che stiamo studiando. Che Ciriaco è
perfettamente in grado di comprendere e registrare. È dunque molto probabile che l’arco ateniese fosse noto nei dettagli ad Alberti, e che
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29. Giuliano da Sangallo, Acquedotto di
Adriano ad Atene, disegno da un originale
di Ciriaco d’Ancona (da Il libro di
Giuliano da Sangallo. Codice Vaticano
Barberiniano Latino 4424, ed. a cura di
C. Hülsen, Leipzig 1910).
facesse parte della famiglia di exempla architettonici convocata sul suo tavolo in occasione della
stesura del progetto per Sant’Andrea.
Un viaggio in Provenza
Disponiamo infine di una possibile terza fonte.
È un’altra gloriosa provincia dell’impero a dare
il suo contributo, la Provenza. Quella di un
viaggio oltremontano di Alberti è una sorta di
convenzione storiografica che non è mai stata
seriamente confutata. Non ci sono prove che
questo viaggio sia avvenuto – come vuole la pionieristica biografia di Girolamo Mancini – nel
1431, al seguito del cardinale Albergati. Tuttavia i riferimenti a usi e costumi di popoli nordici nel De re aedificatoria sono sufficienti a renderlo comunque plausibile96. Non siamo in
grado di dire in quale periodo – o in quali
periodi – della vita di Alberti debba essere collocato. Abbiamo però la ragionevole convinzione che un interesse per l’architettura molto precoce97 abbia spinto Leon Battista a osservare
con attenzione edifici antichi e medievali in
Francia e Germania, quale che sia la data in cui
ebbe occasione di vederli.
Un altro passo avanti in questa terra incognita ci porta a considerare probabile che, essendo
la Provenza uno dei maggiori depositi di anticaglie fuori d’Italia, l’itinerario verso nord vi prevedesse una tappa obbligata. Non è un caso che
più di una volta le architetture provenzali antiche siano state date per conosciute da Alberti98.
Del resto, è lo stesso Leon Battista che ricorda – nelle pagine della Famiglia – come Avignone fosse la sede di una nutrita colonia della
“nostra famiglia Alberta”99. E proprio nei dintorni di Avignone si trovano alcuni esempi del
motivo che stiamo inseguendo. L’arco che invade la trabeazione superiore è visibile in edifici
datati alla fine del XII secolo, edifici che mostrano un evidente interesse antiquario per i resti di
epoca romana presenti nella regione100. Nel portale della cappella di Saint-Gabriel, e in quello
della chiesa di Notre-Dame de Nazareth a Pernes-les-Fontaines (ill. 30-31). Come anche nel
frammento superstite della navata della cattedrale romanica di Saint-Siffrein a Carpentras101.
Intorno ad Avignone – che risulta collocata
in posizione baricentrica – si trovano dunque tre
esempi del nostro tipo. E non posso escludere
che ne esistano (o esistessero) altri. Tutti i casi
considerati appartengono ad architetture in cui
la ripresa di motivi antichi è diretta: dai piedistalli sotto le colonne, ai risalti di trabeazione,
dai capitelli, alle modanature delle trabeazioni.
Sembra quindi probabile che almeno in uno dei
numerosi archi di trionfo antichi presenti nella
zona comparisse il motivo dell’arco sovrapposto
alla trabeazione102.
L’ipotesi dell’esistenza di una comune fonte
antica che giustifichi la presenza di un arco di
questo tipo in edifici medievali ci consente di
osservare con occhi diversi il portico della cattedrale di Notre-Dame des Doms a Avignone (ill.
32). Questo è senza dubbio l’esempio più raffinato di ripresa dall’antico fra quelli citati. L’impaginato della facciata – arco su paraste fra
semicolonne che reggono il grande timpano – e
i dettagli – colonne scanalate su piedistalli e
risalti di trabeazione, trabeazione contratta,
capitelli corinzi eseguiti all’antica in due parti
sovrapposte – ci parlano di un attento studio di
modelli romani103. L’arco gira immediatamente
sotto la trabeazione, ma gli è stato conferito un
risalto tale che sembra tagliare l’architrave (ill.
33). Sia osservandolo da vicino, che – ancor di
più – dai piedi dell’erta di accesso alla chiesa,
posta sull’altura che domina la piazza del palazzo dei papi, un tempo punto di vista privilegiato
per osservare la facciata. Non saprei dire se l’architetto medievale consapevolmente ricercasse
un effetto illusionistico104. Mi pare però probabile che un osservatore quattrocentesco, attento ai
motivi architettonici inusuali come Alberti –
forse a conoscenza di qualcuno degli esempi fra
quelli da noi citati, e magari anche del loro
modello antico – potesse considerare la soluzione della cattedrale di Avignone appartenente
alla serie di forme che stiamo considerando.
Il che risulta di notevole interesse per noi.
Notre-Dame des Doms, infatti, presenta diverse analogie con l’impianto di Sant’Andrea. È
una chiesa con loggia esterna e avancorpo. La
loggia, coperta da volta a botte, è aperta frontalmente dall’arco centrale sormontato dal timpa-
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30. Pernes-les-Fontaines (Carpentras),
Notre-Dame de Nazareth, dettaglio del
portale.
31. Cappella di Saint-Gabriel, dettaglio
del portale.
no e lateralmente da un arco di dimensioni
minori. Alle sue spalle si innalza la massiccia
torre, con un ambiente al livello superiore,
cupolato e aperto sulla navata da un grande arco.
È pensabile che Leon Battista abbia avuto modo
di arricchire i suoi taccuini e di esercitare la sua
capacità di comparazione. Il che, ovviamente,
non esclude che – all’epoca del progetto mantovano – avesse ben presente altri esempi di chiesa con avancorpo, anche italiani105.
Nel concludere il discorso sugli archi onorari, avanziamo un’ulteriore ipotesi. Se esempi di
archi con la trabeazione tagliata dall’archivolto
esistono nell’antichità – per quel che ne so – in
Grecia, in Asia Minore (a quanto pare a Efeso),
e, forse, in Provenza, perché negarsi la possibilità che anche a Roma, o quantomeno in Italia,
ne esistesse almeno un altro esempio? Tanto più
che – come abbiamo visto – archi del genere
compaiono in immagini realizzate a Roma. È
un’ipotesi decisamente economica, che, comunque, nulla toglie a quanto detto in precedenza.
Conclusioni
La moltiplicazione dei modelli, tuttavia, rischia di
suscitare qualche perplessità e richiede uno sforzo ulteriore di comprensione. Più precisamente è
necessario chiedersi cosa significhi indicare i
modelli architettonici di un edificio albertiano.
La scelta di un modello – ripetiamolo – è dettata, in prima istanza, da un interesse specifico
verso le forme, che spesso vengono fatte dialogare con forme analoghe in altri modelli. Ma questo non basta. In un’epoca in cui ogni exemplum si
carica di significati intessuti di tradizioni, storie,
conoscenze, dicerie, che fanno parte di quella che
potremmo definire la dimensione dell’immaginario connessa all’edificio – dimensione anche politica: le architetture sono parte dell’identità civica
delle grandi città italiane – Alberti è il solo architetto in grado di rispondere alle sollecitazioni dei
committenti non con un generico appello, o con
un approccio pragmatico, all’antico, ma con l’arma affilata della filologia applicata all’architettura106. Del suo modo di procedere – come si è detto
– troviamo qualche riflesso nel De urbe Roma di
Bernardo Rucellai. È lui stesso, tuttavia, a rendere esplicito il metodo, in un passo del De re aedificatoria che, non a caso, si apre con un paragone
fra architetto e letterato, qualche riga sotto uno
dei passaggi più solenni di tutto il libro: “Magna
est res architectura, neque est omnium tantam
rem aggredi”107. Dice il testo: “Inoltre è auspicabile che l’architetto si regoli allo stesso modo di
chi si dà agli studi letterari. Giacché nessuno, in
questo campo, penserà di essersi adoperato a sufficienza finché non avrà letto e approfondito gli
autori, e non soltanto i migliori, ma tutti quelli
che su tali argomenti costituenti l’oggetto del
proprio studio abbiano lasciato scritto qualcosa.
Parimente l’architetto, dovunque si trovino opere
universalmente stimate e ammirate, tutte le esaminerà con la massima cura, ne farà il disegno, ne
misurerà le proporzioni, se ne costruirà dei
modelli per tenerseli appresso, e così le studierà,
comprenderà l’ordinamento, la collocazione, i
generi e le proporzioni delle singole parti; soprattutto se ne han fatto uso gli autori più grandi e
più importanti, i quali – è da supporre – furono
certo uomini non comuni, dacché seppero amministrare spese tanto cospicue”108.
Qui troviamo, applicato all’architettura, il
metodo degli umanisti: l’indagine attenta delle
fonti, la schedatura che le rende disponibili, ma
anche l’esame delle derivazioni, il confronto fra
il modello e le soluzioni che ne discendono109.
Ma appunto: all’epoca, Alberti è il solo a comprendere in un’unica persona la figura di architetto e quella di umanista. Ciò significa che a
fianco dello schedario dell’architetto – e a esso
intersecato – si trova quello dell’umanista, che
ha setacciato testi e fonti iconografiche alla
ricerca di notizie su quegli stessi edifici studiati
architectonico more110. E questa dimensione pesa
nel progetto, soprattutto nel rapporto con il
pubblico, e in particolare nel rapporto con il
primo degli spettatori, il committente. Leon
Battista si serve dell’approccio filologico all’architettura anche in funzione retorica, per giustificare le sue scelte progettuali. È giunto fino a
noi un frammento, importantissimo, del suo
modo di argomentare: la lettera a Ludovico
Gonzaga, scritta per ottenere l’incarico di progettare Sant’Andrea. Tutta la lettera andrebbe
studiata come esempio di costruzione retorica.
Qui ci basta ricordare l’accenno al tempio etru-
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32. Avignon, Notre-Dame des Doms,
portico.
33. Avignon, Notre-Dame des Doms,
arco del portico.
sco111, il punto esatto in cui possiamo verificare
come nuova architettura ed erudizione si congiungano in modo tale da costituire un’esca perfetta per il committente. Argomento che, però,
implica anche la precisa intenzione di studiare
un progetto in cui l’architettura sia in grado di
dialogare con la tradizione, e con la storia, della
città di Mantova112.
Per inciso, questo comporta che leggere le
architetture albertiane, appiattendole sul trattato, sia non solo riduttivo, ma spesso fuorviante.
Il De re aedificatoria espone i risultati – ottenuti
in modo induttivo – di un immane sforzo analitico, ordinandoli per categorie semplificate113,
mentre nel processo di progettazione Alberti
ragiona in modo complesso, tenendo conto di
pubblici diversi, considerando gli exempla in
ogni loro aspetto, e in relazione gli uni agli altri.
Tornando al rapporto con il committente, fa
al caso nostro un passaggio della bella lettera
scritta da Gaspare da Verona a Giovanni Tortelli intorno al 1451. Nell’invitare l’amico in villa,
Gaspare gli elenca i piaceri di cui vi potrà godere. Quello che ci interessa più da vicino viene
così presentato: “si Baptistam Albertum florentinum una tecum optaveris, enitar ut adsit: qui
tot, talia, tanta proloquatur de architectura,
quot, qualia, quanta solitum esse non ignoras”114.
La passione per la conversazione sull’architettura, per la quale Leon Battista precocemente
andava famoso, doveva essere ben nota ai suoi
committenti, Ludovico Gonzaga in testa115.
Ancor più che con il trattato, dunque, Alberti
educa i suoi interlocutori con la parola. E gioca
con loro, ricorrendo alle conoscenze acquisite
nel corso di anni di studio.
Possiamo immaginare, infatti, che Ludovico
fosse poco interessato a un Pantheon repubblicano sulla facciata della sua chiesa, e che lo appassionasse molto di più la valenza imperiale di San
Marco e quella esplicitamente trionfale degli
archi onorari. Il che ovviamente ha a che fare con
la dimensione rappresentativa dell’architettura, e
con l’autoaffermazione del committente. È probabile che i committenti di Leon Battista, a loro
volta, avanzassero richieste o ponessero problemi
anche a proposito dei modi della rappresentazione: ognuna delle sue architetture è il risultato di
un dialogo fra committente e architetto, che si
trasforma in un dialogo fra i modelli che al nuovo
edificio danno corpo, o meglio, veste. Diventando ornamenta della nuova architettura.
Non è detto, quindi, che Alberti – la cui
duplicità è stata più volte riconosciuta nelle
opere letterarie, e che nel Momus teorizza la pratica della dissimulazione116 – si riconosca senza
riserve, non tanto nel procedimento o nella scelta delle fonti, quanto nel significato che a esse
può essere conferito: il ricorso al Pantheon per
Sant’Andrea sembra attestarlo. Proprio l’allu-
sione a un edificio di epoca repubblicana rivela
l’ambiguità del suo atteggiamento. Nell’excursus
storico all’inizio del VI libro del trattato – cui si
è già fatto cenno – si distingue appunto fra
architettura della Roma repubblicana, disadorna
e funzionale – che richiama i giudizi dei grandi
moralisti antichi, e che sembra consona a quanto si legge nel suo ultimo dialogo, il De Iciarchia117 – e lo sfarzo dell’architettura imperiale,
che deve essere ornata. L’impossibilità di un’architettura senza ornamentum, e l’evidente passione di Alberti per le forme architettoniche118
mettono in mostra una contraddizione insanabile. Che viene accettata in quanto tale. Del resto
a Leon Battista non doveva dispiacere l’aver
evocato in un unico edificio diversi mondi architettonici – etrusco, greco, latino – che, dando
lustro alla casata dei signori di Mantova, fanno
di Sant’Andrea un ideale compendio storico,
una combinazione di temi e motivi sapientemente articolati.
Rimane da chiarire il motivo della scelta di
quell’arco, sempre presente nei modelli prescelti, tanto da apparire come l’elemento ricorrente
di una composizione a chiave.
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Ringrazio, per le discussioni e i suggerimenti, Luca Boschetto, Arnaldo Bruschi,
Matteo Ceriana, Giovanna Curcio,
Christoph L. Frommel, Maurizio Gargano, Saverio Lomartire, Ida Gilda
Mastrorosa, Richard Schofield, Carlo
Tosco, Livio Volpi Ghirardini, Massimo
Zaggia, e ringrazio inoltre tutti coloro
che, in vari modi, hanno contribuito al
mio lavoro, in particolare Debora Antonini, Antonio Bixio, Antonio Conte,
Monica Nascig. Questo saggio è dedicato alla memoria di Paolo.
1. Sia pur di poco, archi all’interno e
modanature delle nicchie intersecano la
trabeazione. La soluzione adottata per le
nicchie potrebbe rimandare alle finestre
centinate della porta dei Leoni a Verona,
che intersecano le tabelle superiori.
2. A titolo di esempio, possiamo elencare
diverse sovrapposizioni fra membrature
architettoniche in opere fiorentine.
Dalle paraste che coprono archi: nella
tomba Brancacci di Michelozzo e Donatello in Sant’Angelo a Nilo a Napoli,
nella cornice architettonica del Miracolo
della mula di Donatello a Padova, e sulla
facciata della cappella Pazzi a Santa
Croce a Firenze; agli archi che – in corrispondenza della crociera di San Lorenzo a Firenze – si sovrappongono alle
paraste, e a loro volta sono sormontati da
paraste. Da ricordare anche la soluzione
molto raffinata dei capitelli delle semicolonne di Santo Spirito, sui quali la cornice del tratto di trabeazione, allungandosi, taglia le modanature a fascio che
incorniciano le cappelle, e ne interrompe
il fluire lineare per segnare l’imposta dell’arco. Per non parlare di sovrapposizioni di illustre ascendenza come quelle del
portale albertiano di palazzo Rucellai a
Firenze, e delle logge sulla facciata dei
Torricini di palazzo ducale a Urbino,
dove le cornici si sovrappongono a paraste laterali al modo del Pantheon e della
basilica Aemilia. Notiamo infine come
nello stesso portico di Sant’Andrea si
trovino archi interrotti da paraste, e
paraste che si incastrano – ancora una
volta richiamando il Pantheon – nella
muratura, mentre in facciata la trabeazione minore viene idealmente coperta
dai fusti delle paraste maggiori.
3. Sulle campagne di costruzione della
chiesa cfr. E.J. Johnson, S. Andrea in
Mantua. The Building History, University
Park-London 1975, pp. 8-42. Sui restauri compiuti fra il 1828 e il 1833, che possono considerarsi la conclusione della
storia costruttiva dell’edificio, cfr. P. Carpeggiani, C. Tellini Perina, Sant’Andrea
in Mantova, Mantova 1987, pp. 69-72; G.
Pastore, L’atrio della basilica di Sant’Andrea, in Storia e arte religiosa a Mantova.
Basilica Concattedrale di Sant’Andrea. L’atrio meridionale. Indagini, saggi e restauri
dell’apparato decorativo, catalogo della
mostra (Mantova, 1991), Mantova 1991,
pp. 41-42.
4. Cfr. Johnson, S. Andrea in Mantua…,
cit. [cfr. nota 3], pp. 15-16 e 18. Sul
tondo cfr. I. Marelli, in Leon Battista
Alberti, catalogo della mostra (Mantova,
1994), a cura di J. Rykwert e A. Engel,
Milano 1994, cat. 138, pp. 535-536 (con
bibliografia precedente). Sulla costruzione della facciata vedi anche L. Volpi Ghirardini, La ‘porta dei sette cieli’, numeri e
geometrie del portico principale di Sant’Andrea a Mantova, in “Atti e memorie dell’Accademia Nazionale Virgiliana”, n.s.,
LXI, 1993, pp. 37-72; Id., Sulle tracce dell’Alberti nel Sant’Andrea a Mantova. L’avvio di un’analisi archeologica e iconometrica,
in Leon Battista Alberti, cit., pp. 224-41.
5. Su Fancelli a Mantova cfr. Carteggio di
Luca Fancelli con Ludovico Federico e Francesco Gonzaga marchesi di Mantova, ed. a
cura di P. Carpeggiani, A. M. Lorenzoni,
Mantova 1998, che, oltre ai documenti,
contiene un saggio di P. Carpeggiani, “Io
stimo anche più l’onore”. Luca Fancelli, il
principe, la professione, pp. 13-80 (con
bibliografia precedente). Su Fancelli esecutore a Sant’Andrea, cfr. Johnson, S.
Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp.
48-50. Quanto ai progetti, vedi la famosa lettera di Alberti a Ludovico Gonzaga
del 27 febbraio 1460, in Leon Battista
Alberti, Opere volgari, ed. C. Grayson, IIII, Bari 1960-1973, III, p. 295, sulla
quale cfr. L. Volpi Ghirardini, L’iconometria del San Sebastiano, in A. Calzona, L.
Volpi Ghirardini, Il San Sebastiano di
Leon Battista Alberti, Firenze 1994, pp.
237-238, e H. Burns, Leon Battista Alberti, in F.P. Fiore (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, Milano
1998, p. 144. Cfr. anche M. Dall’Acqua,
Storia di un progetto albertiano non realizzato: la ricostruzione della rotonda di San
Lorenzo in Mantova, in Il Sant’Andrea di
Mantova e Leon Battista Alberti, atti del
convegno (Mantova, 25-26 aprile 1972),
Mantova 1974, pp. 229-236; K. W. Forster, Templum, Laubia, Figura: l’architettura di Alberti per una nuova Mantova, in
Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp.
162-177. Per il modello di Sant’Andrea,
vedi la lettera di Ludovico al figlio Francesco del 2 gennaio 1472, in Johnson, S.
Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], p.
65. Sull’insieme degli interventi avviati
dal marchese, cfr. anche P. Carpeggiani,
“Renovatio urbis”. Strategie urbane a Mantova nell’età di Ludovico Gonzaga, in Leon
Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp. 178185 (con bibliografia precedente); I.
Lazzarini, Gerarchie sociali e spazi urbani
a Mantova dal Comune alla Signoria gonzaghesca, Pisa 1994, in particolare pp.
143-147, e passim; F. Cantatore, Leon
Battista Alberti e Mantova: proposte architettoniche al tempo della Dieta, in Il sogno di
Pio II e il viaggio da Roma a Mantova, atti
del convegno (Mantova, 2000), a cura di
A. Calzona, F.P. Fiore, A. Tenenti, C.
Vasoli, Firenze 2003, pp. 443-455; A.
Calzona, Mantova in attesa della Dieta,
ivi, pp. 529-578.
6. Cfr. lettera da Roma di Fancelli a
Ludovico Gonzaga, 2 dicembre 1464, in
Carteggio di Luca Fancelli…, cit. [cfr. nota
5], p. 117: “Sono stato chon messer Batista et ò intexo quanto s’à a seguitare per
l’avenire”, passo messo in relazione alla
fabbrica di San Sebastiano già in G.
Mancini, Vita di Leon Battista Alberti,
Roma 1911, II ed., p. 398.
7. Basti ricordare – pur facendo la tara
sulla buone maniere – l’attestazione di
stima da parte di Ludovico nella lettera a
Alberti del 28 luglio 1463: “voressemo
pur intendere bene il parer vostro perché
l’è tanta l’autoritade vostra presso a ciaschuno e maximamente apresso nui che
non deliberamo se facia né più innanti né
più indietro se non come a vui parerà,
perhò non procederemo più ultra fino a
la venuta vostra presso nui”, in Calzona,
Volpi Ghirardini, Il San Sebastiano…, cit.
[cfr. nota 5], p. 158.
8. Sull’importanza di Sant’Andrea per
Ludovico, cfr. il bel saggio di D.S.
Chambers, Sant’Andrea in Mantua and
Gonzaga Patronage 1460-1472, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XL, 1977, pp. 99-127. A titolo di
esempio dell’attenzione di Ludovico si
legga la lettera alla moglie Barbara di
Brandeburgo del 20 settembre 1477, in
Luca Fancelli architetto. Epistolario gonzaghesco, ed. a cura di C. Vasić Vatovec,
Firenze 1979, p. 139, citata da Burns,
Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p.
165, nota 223, che si sofferma anche
sulla questione della rispondenza della
navata di Sant’Andrea alle intenzioni di
Alberti (ivi, p. 150). Da ricordare infine
l’episodio del modello per San Sebastiano approntato da Fancelli. La dura reazione del marchese di fronte a probabili
modifiche, o errori di interpretazione,
rispetto al progetto albertiano chiarisce
definitivamente a Fancelli, fin dal 1460,
come l’edificio debba essere eseguito
attenendosi alle intenzioni di Leon Battista, cfr. la lettera di Fancelli a Ludovico, non datata (ma 1460), in Calzona,
Volpi Ghirardini, Il San Sebastiano…, cit.
[cfr. nota 5], pp. 142-143, e in Carteggio
di Luca Fancelli…, cit. [cfr. nota 5], p. 99.
Per l’interpretazione del documento cfr.
Burns, Leon Battista Alberti, cit., p. 164,
nota 198; Carpeggiani, “Io stimo anche
più l’onore”…, cit. [cfr. nota 5], pp. 2829; L. Volpi Ghirardini, La presenza di
Ludovico II Gonzaga nei cantieri delle chiese albertiane di San Sebastiano e di
Sant’Andrea, in Il principe architetto, atti
del convegno (Mantova, 1999), a cura di
A. Calzona, F. P. Fiore, A. Tenenti, C.
Vasoli, Firenze 2002, pp. 284-285, e passim sul tema del controllo dei cantieri da
parte del marchese.
9. Cfr. E. Hubala, Sant’Andrea in Mantua. Beobachtungen zur ersten Bauphase, in
“Kunstchronik”, XIII, 12, 1960, p. 356;
Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr.
nota 3], p. 20. Arnaldo Bruschi si interroga – lasciando aperta la questione –
sulla rispondenza a intenzioni albertiane
dei singoli dettagli dell’apparato decorativo nelle diverse opere di Leon Battista
in L’Antico e il processo di identificazione
degli ordini nella seconda metà del Quattrocento, in L’Emploi des ordres dans l’architecture de la Renaissance, atti del convegno
(Tours, 9-14 giugno 1986), a cura di J.
Guillaume, Paris 1992, pp. 17-18 e 21.
10. La serie di documenti relativi all’edificio malatestiano è stata di recente pubblicata in A. Turchini, Il Tempio Malatestiano, Sigismondo Pandolfo Malatesta e
Leon Battista Alberti, Cesena 2000, vedi
in particolare la famosa lettera di Alberti
a Matteo de’ Pasti del 18 novembre
1454, pp. 620-621 (pubblicata integralmente per la prima volta in C. Grayson,
An Autograph Letter from Leon Battista
Alberti to Matteo de’ Pasti, New York 1957
– riedito in Id., Studi su Leon Battista
Alberti, a cura di P. Claut, Firenze 1998,
pp. 157-167, e in Alberti e il Tempio Malatestiano, in “Albertiana”, II, 1999, pp.
237-258 – e poi ripresa in Leon Battista
Alberti, Opere volgari, cit. [cfr. nota 5],
III, pp. 291-293) e la lettera di Pietro
Gennari e Matteo de’ Pasti a Sigismondo
Malatesta, 17 dicembre 1454, p. 622.
L’invio di disegni per dettagli durante la
costruzione corrisponde a quanto Antonio Manetti ci dice sui cantieri degli edifici di Filippo Brunelleschi, cfr. Antonio
Manetti, Vita di Filippo Brunelleschi, ed.
D. de Robertis, G. Tanturli, Milano
1976, pp. 116-118. Quanto al trattato,
cfr. E. Battisti, Il metodo progettuale secondo il “De re aedificatoria” di Leon Battista
Alberti, in Il Sant’Andrea di Mantova…,
cit. [cfr. nota 5], passim e 155-156, che
commenta un famoso passo in De re aedificatoria, II, 1, peraltro concluso dalla
seguente affermazione: “Itaque modulos
huiusmodi [nudos et simplices] fecisse
oportet et eos ita diligentissime tecum
ipso et una cum pluribus examinasse et
iterum atque iterum recognovisse, ut
nihil in opere vel minimum futurum sit,
quod non et quid et quale ipsum sit et
quas sedes et quantum spatii occupaturum sit et quos ad usus futurum sit,
teneas” (“È dunque opportuno costruire
modelli del tipo suddetto [nudi e schietti], ed esaminarli e vagliarli a più riprese
sia per conto proprio che con altri, finché non vi sia un solo particolare di cui
non sian determinate la natura, le caratteristiche, la collocazione, lo spazio che
occuperà, le funzioni cui è destinato”,
Leon Battista Alberti, L’architettura [De
re aedificatoria], testo latino e traduzione
a cura di G. Orlandi, intr. e note di P.
Portoghesi, Milano 1966, II, 1, pp. 98-99
[d’ora in poi De re aedificatoria]). Per una
lettura che mette a confronto i due passi,
di Alberti e di Manetti, cfr. G. Tanturli,
Per l’interpretazione storica della Vita del
Brunelleschi, in “Paragone. Arte”, 301,
1975, pp. 8-11. Cfr. anche R. Pacciani, I
modelli lignei nella progettazione rinascimentale, in “Rassegna”, IX, 4, 1987, pp.
7-8 e 15-16; H. Millon, I modelli architettonici nel Rinascimento, in Rinascimento.
Da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell’architettura, catalogo della
mostra (Venezia, 1994), a cura di H. Millon, V. Magnago Lampugnani, Milano
1994, pp. 22-32; A. Lepik, Das Architekturmodell in Italien 1335-1550, Worms
1994, pp. 120-130.
11. Cfr. M. Bulgarelli, Caso e ornamento.
Alberti e Mantegna a Mantova, in “Casabella”, 712, giugno 2003, pp. 42-53.
Howard Burns ritiene verosimile che i
capitelli delle paraste minori sulla facciata di Sant’Andrea siano stati eseguiti su
disegno di Alberti, cfr. H. Burns, Un disegno architettonico di Alberti e la questione
del rapporto fra Brunelleschi e Alberti, in
Filippo Brunelleschi. La sua opera e il suo
tempo, atti del convegno (Firenze, 1977),
Firenze 1980, p. 116. Dello stesso parere
R. Casarin, in Leon Battista Alberti, cit.
[cfr. nota 5], cat. 147, p. 552, e C. Syndikus, Leon Battista Alberti. Das Bauornament, Münster 1996, p. 124 (che ritiene
ascrivibile ad Alberti l’intero apparato
decorativo della facciata).
12. Attualmente non disponiamo di fonti
scritte che documentino interventi, successivi alla prima campagna di lavori,
sugli archi in facciata o all’interno. Esiste
tuttavia un documento che manifesta
l’intenzione di sostituire l’archivolto in
cotto con uno in marmo bianco. Si tratta
del capitolo d’appalto dell’intervento di
restauro eseguito fra il 1828 e il 1833. Il
documento viene redatto dall’ingegner
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Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza
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Paolo Pianzolla. La versione citata da
Paolo Carpeggiani – al contrario di quella trascritta da Eugene J. Johnson – registra appunto l’intenzione di intervenire
sull’arco (un recente riscontro presso
l’Archivio Storico Diocesano di Mantova
– effettuato da Monica Nascig, che ringrazio – non ha permesso di rinvenire il
documento). Intervento poi evidentemente rimasto inattuato, dal momento
che l’arco oggi visibile è in cotto, e si
presenta del tutto conforme a quanto
registrato nella veduta settecentesca di
Berlino, sulla quale vedi oltre. Cfr. Carpeggiani, Tellini Perina, Sant’Andrea in
Mantova, cit. [cfr. nota 3], p. 72; P. Carpeggiani, Oltre l’Alberti: storia e trasformazioni del Sant’Andrea in Mantova, in
Architettura: processualità e trasformazione,
atti del convegno (Roma, 1999), a cura di
M. Caperna, G. Spagnesi, Roma 2002, p.
272; Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit.
[cfr. nota 3], pp. 91-96 (a p. 96 si trova un
passo in cui viene prevista la riparazione
della “fascia all’ingiro del grande archivolto”). Quanto ai documenti visivi, non
sono di grande interesse in relazione alla
questione che stiamo affrontando. I disegni in alzato, infatti, ovviamente non
registrano la sovrapposizione dell’arco,
e, con un’eccezione, neppure quella sulle
nicchie. Il più antico è un disegno di
Hermann Vischer il giovane, realizzato
nel 1515. Seguono i fogli di Leandro
Marconi, allievo di Paolo Pozzo all’Accademia Teresiana di Mantova, e di un anonimo che disegna per la raccolta di JeanBaptiste Seroux d’Agincourt. Datati
1788 e, probabilmente, 1789. Il primo è
conservato a Parigi (Louvre, Département
des Arts Graphiques, inv. 19035r). Il
secondo a Mantova, al museo di Palazzo
Ducale; da questo sembrano derivare due
disegni che si trovano a Milano (Accademia di Brera, Gabinetto disegni e stampe,
cartelle 22, 37 e 39). Il terzo (Biblioteca
Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 13480, f.
287) fa parte del materiale preparatorio
per l’Histoire de l’art par le monuments
depuis sa décadence au IVe siècle jusqu’à son
renouvellement au XVIe, IV, Planche,
Architecture et sculpture, Paris 1823, tav.
LII. Cfr. W. Lotz, Zu Hermann Vischers
d. J. Aufnahmen italienischer Bauten, in
Miscellanea Bibliothecae Hertzianae, München 1961, pp. 167-174, in particolare
pp. 173-174; R.T., in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], cat. 119, p. 515. Sul
foglio di Marconi, cfr. M. Pelliciari, ivi,
cat. 104, p. 499; vedi anche Carpeggiani,
Tellini Perina, Sant’Andrea in Mantova,
cit. [cfr. nota 3], pp. 67-68. Sulla raccolta
di Seroux, cfr. A. Cipriani, Una proposta
per Seroux d’Agincourt. La Storia dell’Architettura, in “Storia dell’arte”, 11, lugliosettembre1971, pp. 211-261. Quanto alle
immagini della facciata in prospettiva, la
sovrapposizione dell’arco compare. Vedi
il dipinto conservato a Berlino, pubblicato in W. Wolters, Die ursprüngliche Gestalt
der Fassade von S. Andrea in Mantua, in
“Mitteilungen des Kunsthistorischen
Institutes in Florenz”, XXX, 3, 1986, pp.
424-432. E anche il disegno dell’architetto olandese Herman Hertzberger, cfr. H.
van Bergeijk, D. Hauptmann (a cura di),
Notations of Herman Hertzberger, Rotterdam 1998, p. 52.
13. Una terza variante è presente negli
archi delle cappelle maggiori all’interno
di Sant’Andrea: fasce sormontate da
ovoli e cavetto e modiglione sopra le
modanature dell’archivolto. L’archivolto
concluso da ovoli si trova anche sull’arco
al centro della facciata di Santa Maria
Novella a Firenze. È stato ipotizzato che
la versione di questo motivo che Alberti
adotta negli archi dell’atrio derivi dall’arco di Giove Ammone a Verona, cfr. H.
Burns, Le antichità di Verona e l’architettura del Rinascimento, in Palladio e Verona,
catalogo della mostra (Verona, 1980), a
cura di P. Marini, Verona 1980, p. 107.
La stessa soluzione si trova anche nell’arco di Settimio Severo. Su esempi fiorentini cfr. M. Bulgarelli, La cappella Cardini
a Pescia, in M. Bulgarelli, M. Ceriana,
All’ombra delle volte. Architettura del
Quattrocento a Firenze e Venezia, Milano
1996, p. 37.
14. La distanza è di circa 50 centimetri.
La stessa soluzione si trova all’interno,
negli archi delle cappelle. In questo caso
la distanza fra intradosso dell’arco e sommoscapo si aggira intorno ai 60 centimetri. Come si sa, gli archi trionfali costituiscono una delle fonti principali per la
facciata e per l’interno di Sant’Andrea;
per le norme relative, cfr. De re aedificatoria, VIII, 6, cit. [cfr. nota 10], pp. 718723. Le norme cui ci riferiamo sono
sostanzialmente rispettate nel Tempio
Malatestiano e a Santa Maria Novella.
15. Cfr. E. Marani, Architettura, in Mantova. Le arti, II, Dall’inizio del secolo XV
alla metà del XVI, Mantova 1961, pp. 9596. Sulla possibilità di considerare la
soluzione per cupola e archi di sostegno
nella cappella di San Francesco derivante da quella albertiana per la cupola di
Sant’Andrea cfr. Johnson, S. Andrea in
Mantua…, cit. [cfr. nota 3], p. 47; R.
Schofield, G. Sironi, Bramante and the
Problem of Santa Maria presso San Satiro,
in “Annali di Architettura”, 12, 2000, pp.
27-28.
16. Si tratta della medesima soluzione –
ottenuta illusionisticamente – dell’interno del San Bernardino a Urbino, sulla
quale cfr. M. Tafuri, Le chiese di Francesco
di Giorgio Martini, in Francesco di Giorgio
architetto, catalogo della mostra (Siena,
1993), a cura di F.P. Fiore, M. Tafuri,
Milano 1993, p. 37, e da ultimo R. Schofield, Bramante e un rinascimento locale
all’antica, in F.P. Di Teodoro (a cura di),
Donato Bramante. Ricerche, proposte, riletture, Urbino 2001, p. 54 (con bibliografia precedente). Che Francesco di Giorgio conoscesse la facciata di Sant’Andrea
è molto probabile, cfr. M. Tafuri, Il
duomo di Urbino, in Francesco di Giorgio
architetto, cit., p. 189.
17. Cfr. R. Munman, Optical Corrections
in the Sculpture of Donatello, in “Transactions of the American Philosophical
Society”, LXXV, 2, 1985, pp. 1-96 (con
bibliografia precedente), passim, e sui
significati che le correzioni assumono
nell’opera donatelliana pp. 1-9 e 56-58.
Sull’uso di correzioni ottiche nel David si
sofferma a più riprese Francesco Caglioti in Donatello e i Medici. Storia del David
e della Giuditta, Firenze 2000 (con
bibliografia precedente), ad indicem:
David mediceo, rapporti collo spazio e collo
spettatore. Su Donatello e Alberti, cfr. M.
Collareta, Considerazioni in margine al De
statua ed alla sua fortuna, in “Annali della
Scuola Normale Superiore di Pisa”, XII,
1, 1982, pp. 178-179; Id., La figura e lo
spazio. Una lettura del De statua, in Leon
Battista Alberti, De statua, ed. a cura di
M. Collareta, Livorno 1998, p. 44;
Caglioti, Donatello e i Medici…, cit., pp.
191-192 e 218-222. In almeno un’occasione, Donatello applica correzioni ottiche all’architettura, nei capitelli ionici
del tabernacolo di Parte Guelfa, cfr. D.
Finiello Zervas, The Parte Guelfa, Brunelleschi & Donatello, Locust Valley 1987, p.
141. Da notare anche che, nella tomba
Brancacci, opera in cui collaborano
Michelozzo e Donatello, le volute dei
capitelli appiattiti sulla parete di fondo
presentano una lieve rotazione in avanti,
a suggerire profondità. Un improbabile
rapporto a senso unico, improntato alla
derivazione nella prassi di Donatello
delle teorie albertiane, viene ipotizzato
in G. Morolli, Donatello: immagini di
architettura, Firenze 1988, II ed., e in Id.,
Donatello e Alberti “amicissimi”. Suggestioni e suggerimenti albertiani nelle immagini
architettoniche dei rilievi donatelliani, in
Donatello-Studien, München 1989, pp.
43-67. Altro esempio di deformazione
ottica a scala architettonica nella Firenze
del Quattrocento è quello delle cappelle
angolari di Santo Spirito, cfr. L. Benevolo, S. Chieffi, G. Mezzetti, Indagine sul S.
Spirito di Brunelleschi, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’architettura”, XV,
85-90, 1968, pp. 21-34; H. Saalman,
Filippo Brunelleschi. The Buildings, London 1993, pp. 349-50.
(Paris), Berlin 1990, ff. 15 e 29; e ivi, 6.
Band. Katalog 720-725, pp. 323 e 344346. La soluzione dell’arco che gira sulla
trabeazione si ripete diverse volte anche
in dipinti del secondo Quattrocento,
dalle Tavole di San Bernardino a Perugia, a Melozzo, a Bergognone (e Bramante), per fare qualche esempio. Il
tema del rapporto dell’architettura albertiana con la pittura è largamente inesplorato. Vedi qualche cenno oltre e in Bulgarelli, Caso e ornamento…, cit. [cfr. nota
11], passim. Quanto all’importanza teorica della pittura, e del pittore, per la concezione dell’architettura, e soprattutto
dell’ornamento, in Alberti, cfr. G. Wolf,
The Body and Antiquity in Alberti’s Art
Theoretical Writings, in A. Payne, A.
Kuttner, R. Smick (a cura di), Antiquity
and Its Interpreters, Cambridge 2000, pp.
174-189; H.-K. Lücke, Das Bauwerk als
Gedankenwerk: über Vitruv und L.B.
Alberti, in “Albertiana”, V, 2002, pp. 5054. Cfr. anche Heydenreich, Strukturprinzipien…, cit. [cfr. nota 19], pp. 130139. Il concetto di prospectiva aedificandi,
nonostante diverse utili considerazioni
contenute nel contributo di Heydenreich, mi pare non colga a pieno il problema, soprattutto perché non scioglie il
legame fra prospettiva pittorica e architettonica, istituito in una serie di studi
degli anni Cinquanta (citati nella bibliografia del saggio), a mio parere del tutto
fuorviante.
18. Cfr. Vitruvio, De architectura, ed. P.
Gros, Torino 1997, 3, 3, 11-13; 3, 5, 9-10
e 13; 4, 4, 2-3; 6, 2, 1-5; pp. 248-251,
258-261, 384-385, 834-837. Alberti può
avere incontrato passi sul tema delle correzioni ottiche in architettura anche in
Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, 36,
178); cfr. Vitruvio, De architectura, cit.,
pp. 318, nota 131, e 348, nota 208.
21. Per la storia dell’edificio, cfr. M.
Dezzi Bardeschi, La facciata di Santa
Maria Novella a Firenze, Pisa 1970, pp.
12-13 (improbabile l’ipotesi di un progetto precoce per la facciata, cfr. F.W.
Kent, The Making of a Renaissance Patrons
of the Arts, in Giovanni Rucellai ed il suo
Zibaldone, II, A Florentine Patrician and
his Palace, London 1981, pp. 42-43); M.
Scalzo, La facciata albertiana di Santa
Maria Novella, in Leon Battista Alberti.
Architettura e cultura, atti del convegno
(Mantova, 1994), Firenze 1999, pp. 265283. Cfr. anche Burns, Leon Battista
Alberti, cit. [cfr. nota 5], pp. 137-140.
19. Cfr. De re aedificatoria, VI, 10; VII, 6;
VII, 9; VII, 9; VII, 10; VIII, 3; VIII, 6
(questi ultimi due passaggi – innalzamento di statue collocate alla sommità di
edifici per consentirne la completa visibilità – si riferiscono a quelle che Robert
Munman definisce correzioni ottiche
passive, cfr. Munman, Optical Corrections…, cit. [cfr. nota 17], pp. 1-2); IX, 3;
cit. [cfr. nota 10], pp. 506-7, 566-67,
586-87, 598-603, 612-13, 690-91, 72223, 796-97. Su alcuni di questi passi si
sono soffermati L. Heydenreich, Strukturprinzipien der Florentiner Frührenaissance-Architektur: Prospectiva Aedificandi, in The Renaissance and Mannerism.
Studies in Western Art, II, Princeton
1963, p. 119, ora in Id., Studien zur
Architektur der Renaissance. Ausgewählte
Aufsätze, München 1981, pp. 135-136;
Battisti, Il metodo progettuale…, cit. [cfr.
nota 10], pp. 150, 153-154; A.G. Cassani, La fatica del costruire. Tempo e materia
nel pensiero di Leon Battista Alberti, Milano 2000, pp. 146-147.
20. Due disegni dell’Album di Parigi di
Jacopo Bellini mostrano l’arco che interseca la trabeazione. Il primo è una Flagellazione ambientata in un palazzo di Pilato con loggia sottostante, il secondo,
un’Annunciazione, presenta in secondo
piano una porta urbica trionfale con
colonne libere e timpano, cfr. B.
Degenhart, A. Schmitt, Corpus der Italienischen Zeichnungen. 1300-1450, II, Venedig. Jacopo Bellini, 7. Band. Tafel 1-119
22. Secondo Hellmut Lorenz l’arretramento della parte superiore della facciata delinea, a sua volta, una soluzione di
tipo ottico-prospettico, con la funzione
di unificare visivamente le diverse componenti della facciata, bilanciando la
profondità degli avelli, cfr. Zur Architektur L.B. Albertis: die Kirchenfassaden, in
“Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte”,
XXIX, 1976, pp. 77-78. In tal caso la
soluzione del portale sarebbe parte di un
più complesso dispositivo.
23. Cfr. Leon Battista Alberti, De pictura,
in Id., Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], III,
p. 7. Cfr. anche, sull’impressione suscitata dall’opera di Masaccio su Alberti in
occasione del suo primo viaggio fiorentino, A. Bruschi, Note sulla formazione
architettonica dell’Alberti, in “Palladio”,
XXV, 1, 1978, p. 9; M. Bulgarelli, Orafo
del Quattrocento (da Leon Battista Alberti?),
Cristo libera l’indemoniato, in Masaccio e
le origini del Rinascimento, catalogo della
mostra (San Giovanni Valdarno, 2002), a
cura di L. Bellosi, Milano 2002, cat. 38,
pp. 218-221.
24. Per Santa Maria Novella non disponiamo di uno studio sugli interventi dei
secoli successivi, né esistono immagini
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15|2003 Annali di architettura
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significative. Una ricognizione della
documentazione relativa ai restauri cui la
facciata fu sottoposta nel secondo Ottocento mi ha portato a escludere modificazioni di qualche rilievo nella zona del
portale, cfr. Firenze, Archivio Storico del
Comune, Corporazioni religiose soppresse,
bb. 9673, 9676; Chiese monumentali cedute al Comune, bb. 5308, 5310, B.A.281,
B.A.283. Da rilevare come la deformazione delle basi – ma non quella dei capitelli – sia stata notata già nel 1900, vedi le
tavole su Santa Maria Novella in “Ricordi di architettura e di decorazione”, XVI,
1900, Arte antica, in particolare tav. 15.
Tornerò sull’argomento con uno studio
dettagliato.
25. Sul distacco come atteggiamento
conoscitivo dell’antico, cfr. E. Panofsky,
Renaissance and Renascences in Western Art,
Stockholm 1960, trad. it. Milano 1984, II
ed., p. 130; S. Settis, Continuità, distanza,
conoscenza. Tre usi dell’antico, in S. Settis (a
cura di), Memoria dell’antico nell’arte italiana, III, Dalla tradizione all’archeologia,
Torino 1986, pp. 445-486.
26. Cfr. De re aedificatoria, VI, 1 e 2; cit.
[cfr. nota 10], pp. 442-443, 448-449,
450-451. Sul trattato, cfr. Burns, Leon
Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], pp. 120122. Sul De re aedificatoria come testo
inaugurale, cfr. F. Choay, La Règle et le
modèle, Paris 1980, trad. it. Roma 1986,
pp. 93-180; Ead., Le De re aedificatoria
comme texte inaugural, in Les Traités d’architecture, atti del convegno (Tours, 1°11 luglio 1981), a cura di J. Guillaume,
Paris 1988, pp. 83-90. Benché il paesaggio di rovine fosse studiato da personaggi come Poggio Bracciolini e Biondo
Flavio, che Alberti conosce molto bene,
non esiste nulla di paragonabile al trattato. Ci rimane soltanto, a quel che so, il
passaggio di una lettera di Guarino,
notevole per diversi aspetti, anche per la
data precoce: 1413. Si tratta di una feroce invettiva contro Niccolò Niccoli, che
si sofferma, fra l’altro, sulla pretesa di
“spiegare i principi dell’architettura”:
“Quis sibi quominus risu dirumpatur
abstineat, cum ille ut etiam de architectura rationes esplicare credatur, lacertos
exerens, antiqua probat aedificia, moenia
recenset, iacentium ruinas urbium et
‘semirutos’ fornices, diligenter edisserit
quot disiecta gradibus theatra, quot per
areas columnae aut stratae iaceant aut
stantes exurgant, quot pedibus basis
pateat, quot obeliscorum vertex emineat.
Quantis mortalium pectora tenebris
obducuntur!” (Guarino Veronese, Epistolario, ed. R. Sabbadini, I, Venezia 1915,
pp. 39-40). Nonostante il tono satirico,
potremmo considerare – con una certa
cautela – il passo come indizio dell’esistenza, nella Firenze del primo Quattrocento, quantomeno di un progetto di
ricognizione dell’antico, alla ricerca
delle rationes dell’architettura. Cfr. anche
E.H. Gombrich, Dalla rinascita delle lettere alla riforma delle arti: Niccolò Niccoli e
Filippo Brunelleschi, in The Heritage of
Apelles. Studies in the Art of the Renaissance, Oxford 1976, trad. it. Torino 1986,
pp. 141-143; C. Smith, Architecture in the
Culture of Early Humanism. Ethics,
Aesthetics, and Eloquence 1440-1470, New
York-Oxford 1992, p. 70.
27. Sul valore della novità, cfr. De re
aedificatoria, I, 9; VII, 9 (passaggio sulla
commistione di diverse rationes architettoniche, considerato un’esplicita critica
a Vitruvio in A. Payne, The Architectural
Treatise in the Italian Renaissance. Architectural Invention, Ornament, and Literary
Culture, Cambridge-New York 1999, p.
72); VIII, 2 e 3; IX, 1; IX, 10 (“et probabo, si novis inventis operum probatissimae rationes veterum et illis nova ingenii commenta non deerunt”, “e mi dirò
soddisfatto se la novità del ritrovato non
andrà disgiunta dagli sperimentatissimi
criteri delle opere antiche, e se questi
d’altra parte saranno ricreati e rinnovati
dall’ingegno dell’architetto”); cit. [cfr.
nota 10], pp. 68-69, 596-597, 678-679,
680-681, 786-787, 856-857, 858-859.
La novità, appunto, va compresa in un
dialogo serrato con la tradizione, come
ribadisce il polemico accenno a novis
ineptiarum deliramentis (VI, 1, pp. 442443) cui indulgono gli architetti moderni. Il che conferma la necessità e l’urgenza dell’immane lavoro di sistematizzazione del trattato. I praecepta raccolti e
ordinati nel De re aedificatoria, tuttavia,
non presentano carattere normativo, ma
sono frutto di un approccio pragmatico
allo studio dell’architettura, cfr. in proposito A. Bruschi, Osservazioni sulla teoria architettonica rinascimentale nella formulazione albertiana, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, 3148, 1961, pp. 115-130; Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], pp. 125126; Payne, The Architectural Treatise…,
cit., pp. 72-73; e più in generale H.
Burns, Antike Monumente als Muster und
als Lehrstücke. Zur Bedeutung von
Antikenzitat und Antikenstudium für
Albertis architektonische Entwurfspraxis, in
K.W. Forster, H. Locher (a cura di),
Theorie der Praxis. Leon Battista Alberti
als Humanist und Theoretiker der bildenden Künste, Berlin 1999, pp. 129-155. Su
questi temi, considerati in un contesto
storico più ampio, cfr. M. Tafuri, Ricerca
del Rinascimento. Principi, città, architettura, Torino 1992, pp. 3-32.
28. Cfr. Leon Battista Alberti, Profugiorum ab aerumna libri III, in Id., Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], pp. 161-162.
29. Cfr. C. Grayson, Il prosatore latino e
volgare, in Convegno internazionale indetto
nel V centenario di Leon Battista Alberti, atti
del convegno (Roma-Mantova-Firenze,
25-29 aprile 1972), Roma 1974, pp. 273286 (ora in Id., Studi su Leon Battista
Alberti, cit. [cfr. nota 10], pp. 325-341); L.
Trenti, “Nihil dictum quin prius dictum”.
La fenomenologia sentenziosa in Leon Battista Alberti, in “Quaderni di retorica e poetica”, 2, 1986, pp. 51-62; M.L. McLaughlin, Literary Imitation in the Italian Renaissance. The Theory and Practice of Literary
Imitation in Italy from Dante to Bembo,
Oxford 1995, pp. 149-166; Cassani, La
fatica del costruire…, cit. [cfr. nota 19], pp.
96-100. Cfr. anche R. Cardini, Mosaici. Il
“nemico” dell’Alberti, Roma 1990; Id.,
Alberti o della nascita dell’umorismo moderno. I, in “Schede umanistiche”, 1, 1993,
pp. 43-46. Sul passo in questione si è soffermata Christine Smith, analizzandolo
in relazione all’architettura, cfr. Smith,
Architecture…, cit. [cfr. nota 26], pp. 1934, 69-71 (con ulteriore bibliografia); cfr.
anche Leon Battista Alberti e l’ornamento:
rivestimenti parietali e pavimentazioni, in
Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp.
196-215. Nei suoi contributi, la Smith
sostiene che Alberti consideri passibile di
innovazione soltanto l’aspetto tecnicoingegneresco dell’architettura (cfr. Smith,
Architecture…, cit., pp. 27-28 – ma vedi
pp. 70-71 – in ciò seguita da L. Kanerva,
Defining the Architect in Fifteenth Century
Italy. Exemplary Architects in L. B. Alberti’s
De re aedificatoria, Helsinki 1998, pp.
133-137), senza tener conto dei passi del
De re aedificatoria che attestano il contrario, e senza considerare quanto le architetture albertiane abbiano da dirci in proposito.
per la regolazione della luce compare
anche in Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp. 20-21;
Lorenz, Zur Architektur L.B. Albertis…,
cit. [cfr. nota 22], p. 93; R. Tavernor, On
Alberti and the Art of Building, New
Haven-London 1998, p. 167. Secondo
Howard Saalman e Livio Volpi Ghirardini, la funzione dell’ombrellone è di riparare dalla pioggia l’area sottostante, cfr.
Saalman, Volpi Ghirardini, Law, Recent
Excavations…, cit. [cfr. nota 33], p. 361, e
Recenti scavi…, cit. [cfr. nota 33], p. 166.
30. Cfr. De re aedificatoria, IX, 10, cit.
[cfr. nota 10], p. 856-857. Sull’uso delle
fonti da parte di Alberti, ultimi di una
serie di contributi, cfr. Burns, Antike
Monumente…, cit. [cfr. nota 27], passim;
P. Davies, Observations on Alberti’s Attitude to Late Medieval Architecture, in L.
Golden (a cura di), Raising the Eyebrow:
John Onians and World Art Studies. An
Album Amicorum in His Honour, Oxford
2001, pp. 43-65. Vedi anche A. Grafton,
Leon Battista Alberti: The Writer as Reader, in Id., Commerce with the Classics.
Ancient Books and Renaissance Readers,
Ann Arbor 1997, pp. 52-92, e R. Rinaldi,
“Melancholia christiana”. Studi sulle fonti di
Leon Battista Alberti, Firenze 2002,
entrambi dedicati alle fonti letterarie, ma
molto utili anche per l’approccio albertiano ai modelli architettonici.
35. Carlo Bertelli definisce l’ombrellone
visto da lontano “quasi un arco di trionfo
che si innalzi al di sopra dei tetti delle
case” (C. Bertelli, “La loggia auanti la
Chiesa” a Mantova, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], p. 244). Nel trattato,
Alberti prescrive per i timpani un’altezza
non minore di un quinto, e non maggiore di un quarto della larghezza della facciata, De re aedificatoria, VII, 12, cit. [cfr.
nota 10], pp. 616-617. Nel caso di
Sant’Andrea il rapporto è all’incirca di
un sesto, e dà luogo al timpano più basso
fra quelli presenti in edifici albertiani (in
San Sebastiano 1:4.15, in Santa Maria
Novella 1:3.40).
31. Si veda, ad esempio, il passo del De re
aedificatoria nel quale Alberti distingue
due tipi di praecepta: le opzioni filosofiche più generali, e i princìpi che più
direttamente regolano l’architettura, VI,
3, cit. [cfr. nota 10], p. 456-457. Sull’idea
di natura in relazione alle arti, nell’opera
teorica albertiana, cfr. Tafuri, Ricerca del
Rinascimento…, cit. [cfr. nota 27], pp. 5062; M. Paoli, L’idée de nature chez Leon
Battista Alberti (1404-1472), Paris 1999,
pp. 185-187. Sull’artificiosità dell’ars, cfr.
Grafton, Leon Battista Alberti…, cit. [cfr.
nota 30], pp. 75-79; Wolf, The Body and
Antiquity…, cit. [cfr. nota 20], passim. A
questo proposito è fondamentale il concetto di ornamentum nel De re aedificatoria, sul quale ho avuto modo di soffermarmi in un intervento al convegno Gli
impegni civili del De re aedificatoria,
Mantova 2002, di cui è prevista la pubblicazione negli atti.
32. Cfr. R. Wittkower, Architectural Principles in the Age of the Humanism, London
1962 (I ed. 1949), trad. it. Torino 1964
(III ed.), p. 55. La prima formulazione di
questa idea si trova in F. Schumacher,
Alberti und seine Bauten, in “Die Baukunst”,
II, 1, 1899, p. 11.
33. H. Saalman, L. Volpi Ghirardini, A.
Law, Recent Excavations under the
Ombrellone of Sant’Andrea in Manta:
Preliminary Report, in “Journal of the
Society of Architectural Historians”, LI,
December 1992, pp. 357-376; Recenti
scavi sotto l’“ombrellone” di Sant’Andrea in
Mantova, in “Atti e memorie dell’Accademia nazionale virgiliana di scienze lettere e arti”, LX, 1992, pp. 165-190.
34. Cfr. Lotz, Zu Hermann Vischers…,
cit. [cfr. nota 12], p. 174 (con bibliografia
precedente); Hubala, Sant’Andrea in
Mantua…, cit. [cfr. nota 9], pp. 355-356,
con discussione seguente pp. 356-359.
L’ipotesi dell’ombrellone come apparato
36. Cfr. Saalman, Volpi Ghirardini, Law,
Recent Excavations…, cit. [cfr. nota 33],
passim; e Recenti scavi…, cit. [cfr. nota 33],
passim. La questione dell’uso della parte
superiore dell’avancorpo viene lasciata
aperta in Bertelli, “La loggia auanti la
Chiesa”…, cit. [cfr. nota 35], p. 243, che
tuttavia sottolinea l’importanza del
tondo con i santi Andrea e Longino
recanti le pissidi del sangue, dipinto negli
anni Ottanta del Quattrocento – un
tempo al centro del timpano.
37. “Ceterum io intesi a questi dì che la
S. V. et questi vostri cittadini ragionavano de edificare qui a Sancto Andrea. Et
che la intenzione principale era per havere gram spatio dove molto populo capesse a vedere el sangue de Cristo” (lettera
di Alberti a Ludovico Gonzaga, ottobre
1470, pubblicata in Alberti, Opere volgari,
cit. [cfr. nota 5], III, p. 295.
38. Cfr. Tavernor, On Alberti…, cit. [cfr.
nota 34], pp. 179-182. I documenti in
questione sono pubblicati in Johnson, S.
Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp.
62, 65-66. Cfr. anche Chambers,
Sant’Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota
8], p. 113. A favore di questa ipotesi è
anche la struttura dell’avancorpo – inedita per l’Italia del XV secolo – con le due
torri scalari, entrambe attrezzate con
scale a doppia rampa. Struttura che sembra rimandare alle chiese medievali con
avancorpo – spesso connesso al culto di
reliquie – che si apre verso l’interno. Sull’argomento, che mi ripropongo di studiare in modo più approfondito in altra
occasione, cfr. anche C.L. Frommel, Il
San Sebastiano e l’idea del tempio in Leon
Battista Alberti, in Leon Battista Alberti e il
Quattrocento. Studi in onore di Cecil Grayson e Ernst Gombrich, atti del convegno
(Mantova, 1998), a cura di L. Chiavoni,
G. Ferlisi, M. V. Grassi, Firenze 2001,
pp. 300-304, contributo nel quale si ipotizza invece che gli avancorpi delle chiese mantovane siano da mettere in relazione con il tempio antico. Quanto all’ostensione, Saalman e Volpi Ghirardini
ritengono che avvenisse verso l’esterno, e
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verso gli ambienti all’interno dell’avancorpo, in particolari occasioni di pericolo, ad esempio epidemie, cfr. Saalman,
Volpi Ghirardini, Law, Recent Excavations…, cit. [cfr. nota 33], pp. 371-76,
Recenti scavi…, cit. [cfr. nota 33], pp. 173177. Ma cfr. Bertelli, “La loggia auanti la
Chiesa”…, cit. [cfr. nota 35], p. 243, che
fa notare come nel secondo Quattrocento l’ostensione delle reliquie avvenisse di
norma all’interno delle chiese, e Burns,
Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p.
165, nota 250. Le ostensioni della reliquia iniziano nel 1401, per iniziativa di
Francesco Gonzaga, e assumono un
chiaro significato politico, ribadito dalla
presenza della pisside del sangue su gran
parte delle monete coniate da Ludovico
Gonzaga, dopo una prima comparsa nel
grosso del 1432 di Gianfrancesco, cfr. R.
Capuzzo, Note sulla tradizione e sul culto
del sangue di Cristo nella Mantova medievale, in Storia e arte religiosa a Mantova. Visite di Pontefici e la reliquia del Preziosissimo
Sangue, catalogo della mostra (Mantova,
1991), Mantova 1991, pp. 61-72. Sulle
monete, cfr. Corpus nummorum italicorum, IV, Lombardia (zecche minori), Milano 1913, pp. 229-234; Monete e medaglie
di Mantova e dei Gonzaga dal XII al XIX
secolo. La collezione della Banca Agricola
Mantovana, III, Il Comune. I Gonzaga
capitani generali del popolo di Mantova e
vicari imperiali. I Gonzaga marchesi di
Mantova (1117-1530), Milano 1997, pp.
95-132. Cfr. anche J. Lawson, The Palace
at Revere and the Earlier Architectural
Patronage of Lodovico Gonzaga, Marquis of
Mantua (1444-78), Ph.D. Dissertation,
University of Edinburgh, 1979, pp. 248249. Da ricordare, naturalmente, anche
la medaglia di Ludovico fusa nel 1475,
per celebrare la costruzione di Sant’Andrea, cfr. L. Syson, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], cat. 94, pp. 488-489.
39. L’intervento di fine Settecento ha
cancellato con l’apertura del grande
oculo, ancora oggi esistente, e con la
distruzione del pavimento originario,
ogni traccia della sistemazione originaria. Sull’oculo cfr. Saalman, Volpi Ghirardini, Law, Recent Excavations…, cit.
[cfr. nota 33], p. 361; e Recenti scavi…,
cit. [cfr. nota 33], p. 180, nota 22, dove
però si sostiene che la finestra originaria
fosse circolare. Robert Tavernor propone una ricostruzione con apertura centinata, come richiede l’ipotesi dell’ostensione della reliquia verso la navata, cfr.
Tavernor, On Alberti…, cit. [cfr. nota 34],
p. 179.
40. Saalman e Volpi Ghirardini ipotizzano
per il nicchione la funzione di contrafforte, e di alleggerimento della muratura.,
cfr. Saalman, Volpi Ghirardini, Law,
Recent Excavations…, cit. [cfr. nota 33], pp.
363-64, Recenti scavi…, cit. [cfr. nota 33],
p. 167. Quanto alla presenza di un altare,
sarebbe utile il confronto con analoghe
soluzioni in avancorpi medievali.
41. Cfr. P. Gavasseti da Novellara, De
precioso Christi sanguine libellus, Mantova,
Biblioteca Comunale, ms. 1281, cc.19v;
cfr. A.B. Cashman III, Public Life in
Renaissance Mantua: Ritual and Power in
the Age of the Gonzaga 1444-1540, Ph.D.
Dissertation, Duke University, Durham
(NC) 1999, pp. 182-189. È possibile che
il testo sia stato scritto in occasione della
nomina del cardinal Sigismondo Gonza-
ga – cui l’opera è dedicata – a primicerio
di Sant’Andrea, nel 1511. Sul manoscritto cfr. C. Guerra, in Storia e arte religiosa
a Mantova…, cit. [cfr. nota 3], cat. 18, pp.
133-134.
42. Cfr. Cashman III, Public Life…, cit.
[cfr. nota 41], pp. 182-189.
43. Ivi, p. 181. Sulla seconda campagna
di costruzione, cfr. Johnson, S. Andrea in
Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp. 23-27.
Esistono tuttavia prove documentarie di
un interesse per la reliquia da parte di
Federico Gonzaga già nel 1523, quando
vengono ordinati nuovi reliquiari, cfr. G.
Pecorari, Le commissioni artistiche della
famiglia Boschetti, in Giulio Romano, catalogo della mostra (Mantova, 1989), Milano 1989, p. 444.
44. Cfr. T.B. Thurber, I disegni di Pompeo
Pedemonte nel Civico Gabinetto dei disegni
di Milano, in “Il disegno di architettura”,
V, 9, 1994, pp. 51-52, che ritiene, a torto,
che il podio medievale si trovasse nella
stessa posizione. Non si trova menzione
delle stanze sotto l’ombrellone nella visita apostolica del 1575, mentre ci si aspetterebbe il contrario se fossero utilizzate
per il culto, documento trascritto in
Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr.
nota 3], pp. 77-79.
45. Cfr. C. Cerretelli, La pieve e la cintola.
Le trasformazioni legate alla reliquia, in La
Sacra Cintola nel Duomo di Prato, Prato
1995, pp. 89-104.
46. Nulla sappiamo, invece, dell’uso previsto per la facciata di San Satiro. Cfr. A.
Bruschi, Alberti e Bramante: un rapporto
decisivo, in Leon Battista Alberti e il Quattrocento…, cit. [cfr. nota 38], pp. 357-538,
dove si sottolineano le somiglianze fra le
due facciate, e si fa notare che la facciata
come struttura tridimensionale complessa abbia un precedente nel San Sebastiano a Mantova, e si ritrovi in seguito nei
progetti bramanteschi per San Pietro e
per la basilica di Loreto. A queste considerazioni credo si possa aggiungere che
Bramante avesse in mente un avancorpo
aperto sulla navata, vedi il disegno pubblicato in R. Schofield, A Drawing for S.
Maria presso S. Satiro, in “Journal of the
Warburg and Courtauld Institutes”,
XXXIX, 1976, pp. 246-253. Sulla chiesa
bresciana, cfr. M. Ceriana, La Beata Vergine dei Miracoli a Brescia, in B. Adorni (a
cura di), La chiesa a pianta centrale. Tempio
civico del Rinascimento, Milano 2002, pp.
144-145, e Id., Il santuario civico della
Beata Vergine dei Miracoli a Brescia, in
“Annali di architettura”, XIV, 2002, p.
75, oltre alle analogie del lessico architettonico, quello che qui interessa è la
presenza della grande tribuna sulla facciata, aperta sia all’esterno che all’interno, da dove era visibile l’immagine sacra.
47. Cfr. Bertelli, “La loggia auanti la Chiesa”…, cit. [cfr. nota 35], p. 244; Burns,
Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p.
156. Un rapido cenno in proposito anche
in Hubala, Sant’Andrea in Mantua…, cit.
[cfr. nota 9], p. 355.
48. Cfr. S. de Blaauw, Das Pantheon als
christlicher Tempel, in “BOREAS”, XVII,
1994 (Bild- und Formensprache der spätantiken Kunst. Hugo Brandenburg zum 65.
Geburtstag), pp. 13-26.
49. Cfr. T. Buddensieg, Criticism and
Praise of the Pantheon in the Middle Ages
and the Renaissance, in Classical Influences
on European Culture A.D. 500-1500, atti
del convegno (Cambridge, 1969), a cura
di R.R. Bolgar, Cambridge 1971, pp.
263-267; F. Lucchini, Pantheon, Roma
1996, pp. 14-16; S. Pasquali, Il Pantheon.
Architettura e antiquaria nel Settecento a
Roma, Modena 1996, pp. 3-5, 19 nota 4.
Gli studiosi di architettura antica, tuttavia, continuano a porsi domande, che l’edificio sembra eludere, cfr. P. Davies, D.
Hemsoll, M. Wilson Jones, The Pantheon,
Triumph of Rome or Triumph of Compromise, in “Art History”, X, 1987, pp. 133153; M. Wilson Jones, Principles of
Roman Architecture, New Haven-London
2000, pp. 177-214. Fonti antiche: Plinio,
Naturalis historia, XXXIV, 13; XXXVI,
38 (G. Plinio Secondo, Storia Naturale,
ed. A. Corso, R. Mugellesi, Gianpiero
Rosati, Torino 1988, V, pp. 124-125;
592-593). Cassio Dione, Rhomaïkè
historía, LIII, 27; LXVI, 24.
50. Ipotesi avanzata in Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 156.
51. Cfr. F.W. Kent, Lorenzo de’ Medici’s
Acquisition of Poggio a Caiano in 1474 and
an Early Reference to his Architectural
Expertise, in “Journal of the Warburg and
Courtauld Institutes”, XLII, 1979, pp.
254-257. Un altro episodio è documentato in P.C. Marani, Leonardo e Bernardo
Rucellai fra Ludovico il Moro e Lorenzo il
Magnifico sull’architettura militare: il caso
della rocca di Casalmaggiore, in Il principe
architetto, cit. [cfr. nota 8], pp. 99-123.
Sulla figura di Bernardo, cfr. G. Pellegrini, L’umanista Bernardo Rucellai. Le sue
opere storiche, Livorno 1920; F. Gilbert,
Bernardo Rucellai and the Orti Oricellari. A
Study on the Origin of Modern Political
Thought, in “Journal of the Warburg and
Courtauld Institutes”, XII, 1949, pp.
101-131; Id., Bernardo Rucellai e gli Orti
Oricellari. Studio sull’origine del pensiero
politico moderno, in Niccolò Machiavelli e la
vita culturale del suo tempo, Bologna 1964,
pp. 7-58; F.W. Kent, The Making…, cit.
[cfr. nota 21], pp. 68-85; W. McCuaig,
Bernardo Rucellai and Sallust, in “Rinascimento”, XXII, 1982, pp. 75-98; C. Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di
Machiavelli, Torino 1980, pp. 138-142;
S.B. Butters, The Triumph of Vulcan.
Sculptors’ Tools, Porphyry, and the Prince in
Ducal Florence, Firenze 1996, pp. 133143; R.M. Comanducci, Il carteggio di
Bernardo Rucellai. Inventario, Firenze
1996, pp. VII-XLIII.
Orlandi, Le prime fasi nella diffusione del
Trattato architettonico albertiano, in Leon
Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp. 96105; S. Fiaschi, Una copia di tipografia
finora sconosciuta: il Laurenziano Plut. 89
sup. 113 e l’editio princeps’ del De re aedificatoria, in “Rinascimento”, s. II, XLI,
2001, pp. 267-284. Sui rapporti, di non
semplice lettura, fra i due, cfr. L.
Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze,
Firenze 2000, pp. 117 nota 74, 168, 17981; e Id., Incrociare le fonti: archivi e letteratura. Rileggendo la lettera di Leon Battista Alberti a Giovanni di Cosimo de’ Medici, 10 aprile [1456?], di prossima pubblicazione in “Medioevo e Rinascimento”
(ringrazio Luca Boschetto per avermi
consentito la lettura del manoscritto),
che fa riferimento all’interesse di Lorenzo per il trattato, rimandando alla lettera
di Niccolò Michelozzi che descrive il
Magnifico ai Bagni di San Filippo, impaziente di ricevere i fascicoli dell’editio
princeps (lettera pubblicata in M. Martelli, Studi laurenziani, Firenze 1965, p. 191,
nota 53); e torna sulla questione del dialogo fra Lorenzo e Leon Battista messo
in scena da Cristoforo Landino nelle
Disputationes Camaldulenses. Quanto a
Lorenzo intendente di architettura, vedi
da ultimo R. Pacciani, Lorenzo il Magnifico: promotore, fautore, “architetto”, in Il
principe architetto, cit. [cfr. nota 8], pp.
377-411 (con la fin troppo ampia bibliografia precedente, che contempla diversi
incroci con Alberti). Di recente è comparso anche G.F. Borsi, Alberti e Lorenzo,
in Leon Battista Alberti, atti del convegno
(Paris, 1995), a cura di F. Furlan, TorinoParis 2000, pp. 871-878.
52. Sul collezionismo di Bernardo, cfr.
R.M. Comanducci, Gli Orti Oricellari, in
“Interpres”, XV, 1995-96, pp. 302-358.
Sul giardino e la collezione, D. Becucci,
Dissertatio de vita et in rem litterariam
meritis Bernardi Oricellarii, in Rerum Italicarum Scriptores, ed. a cura di G. Tartini, II, Firenze 1770, coll. 771-772. cfr.
anche C. Elam, Lorenzo de’ Medici’s
Sculpture Garden, in “Mitteilungen des
Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 1-2, 1992, p. 65.
54. Bernardo Rucellai, De urbe Roma, in
Rerum Italicarum Scriptores, cit. [cfr. nota
52], col. 796. Sono diversi i passi in cui
Bernardo cita Alberti, con espressioni di
elogio. Nel passo dedicato alla piramide
di Caio Cestio, Bernardo fa riferimento
alla Descriptio urbis Romae, lodando l’esatta misurazione della città grazie a un
congegno matematico (machinis mathematicis). E mostra inoltre di apprezzare
gli insegnamenti albertiani anche a proposito di un altro locus cruciale della cultura architettonica al volgere del secolo:
gli ordini architettonici. Allineati i genera vitruviani (“quatuor fuisse genera
aedificandi, Corinthium, Ionium, Doricum, ac Tuscanicum in aperto est”), cita
Leon Battista, elogiandone la capacità di
illuminare i passi più ostici del testo
antico. Cfr. ivi, coll. 1099 e 992. Altri
riferimenti all’opera di Alberti in coll.
880, 1101 e 1129. Sul legame con Alberti insiste Comanducci, Gli Orti Oricellari, cit. [cfr. nota 52], passim. Cfr. anche S.
Borsi, Leon Battista Alberti e Roma,
Firenze 2003, pp. 330-333, contributo
nel quale stranamente si definisce il De
urbe Roma un “opuscolo”, quasi fosse un
agile pamphlet e non il tomo poderoso
di centinaia di carte che è. Vedi anche G.
Morolli, Antologia delle fonti albertiane
dall’umanesimo all’età neoclassica, in F.
Borsi, Leon Battista Alberti. L’opera completa, Milano 1980, II ed., p. 364: “l’opuscolo, per breve che sia…”.
53. Su Lorenzo e Alberti, e in particolare sull’editio princeps del De re aedificatoria, del 1485, cfr. A. Spiriti, La prefazione
del Poliziano al De re aedificatoria di Leon
Battista Alberti: ipotesi di lettura, in “Arte.
Documento”, 1992, pp. 93-96; G.
55. Cfr. Bernardo Rucellai, De urbe
Roma, cit. [cfr. nota 54], coll. 828 (“Ceterum quod substructionum cadavera,
duce Baptista Alberto, olim invisimus,
eas quoad per vetustatem lucuit suis
lineamentis describendas curavimus”),
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839, 1077. Cfr. Mancini, Vita di Leon
Battista Alberti, cit. [cfr. nota 6], p. 486. Il
metodo che traspare leggendo il De urbe
Roma rimanda alla tradizione degli antiquari quattrocenteschi – Biondo Flavio
in testa – ma ha molto in comune con
l’approccio albertiano all’antico. Le fonti
classiche sono messe a confronto con
epigrafi, monete e soprattutto con gli
edifici, analizzati direttamente – anche
per quanto attiene a tecniche costruttive
e strutture – grazie all’uso del disegno. In
proposito, cfr. R. Weiss, The Renaissance
Discovery of Classical Antiquity, London
1969, trad. it. Padova 1989, pp. 89-93; P.
Jacks, The Antiquarian and the Myth of
Antiquity. The Origins of Rome in Renaissance Thought, Cambridge 1993, pp. 157161. Vedi anche M.E. Micheli, Due disegni di terme nel De urbe Roma di Bernardo Rucellai, in “Notizie da palazzo Albani”, XX, 1-2, 1991, pp. 23-28. Per il 1505
come data ante quem, cfr. Gilbert, Bernardo Rucellai…, cit. [cfr. nota 51], p. 110,
nota 1. Weiss propone un inizio dopo il
1495, The Renaissance Discovery…, cit., p.
91, mentre una stesura fra il 1492 e il
1494 viene ipotizzata in Jacks, The Antiquarian…, cit., p. 158. Sembra di poter
escludere quest’ultima ipotesi, dal
momento che Bernardo cerca di procurarsi una copia in volgare della Storia
romana di Cassio Dione – testo che circola con difficoltà nel Quattrocento, e
che viene ripetutamente citato nel De
urbe Roma – nel luglio 1499; come ci
testimonia una lettera di Taddeo Vimercati al duca di Milano in cui si domanda,
per conto di Bernardo, una copia della
versione in volgare dell’opera, approntata da Niccolò Leoniceno, e in possesso
del cardinale Ippolito d’Este, cfr. V. Farinella, Archeologia e pittura a Roma tra
Quattrocento e Cinquecento, Torino 1992,
p. 111.
56. Sul culto di Ercole e la dedicazione a
Giove, cfr. Rucellai, De urbe Roma, cit.
[cfr. nota 54], coll. 1004-1005. In tutti gli
incunaboli della Naturalis Historia che ho
avuto modo di controllare – tre delle
quindici edizioni quattrocentesche
(Venezia 1469, editio princeps con curatore anonimo, XXXVI, 39 e 102; Roma
1470, curata da Giovanni Andrea de’
Bussi, nella copia posseduta dal cardinal
Bessarione, Venezia, Biblioteca Marciana, inc. 102, priva di numerazione; Venezia 1483, curata da Filippo Beroaldo,
XXXVI, 5 e 15) e la traduzione in volgare di Cristoforo Landino (Venezia 1476,
XXXVI, 5 e 15) – compaiono il riferimento al culto di Ercole, e al culto di
Giove Ultore (XXXVI, 38, e in XXXVI,
102, delle edizioni moderne). In questo
secondo passo, “Pantheon Iovi Ultori ab
Agrippa factum” ha preso il posto di
“tectum diribitori ab Agrippa factum” in
un elenco delle meraviglie architettoniche di Roma. Sulla fortuna di Plinio e
sulle edizioni, cfr. C.G. Nauert jr., Caius
Plinius Secundus, in F.E. Cranz, P.O. Kristeller (a cura di), Catalogus translationum
et commentariorum: Medieval and Renaissance Latin Translations and Commentaries,
IV, Washington D.C. 1980, pp. 297-351.
Prima di Rucellai, fa riferimento al passo
corrotto con l’intitolazione a Giove
Ultore Giovanni Tortelli, nel lemma
Rhoma del De ortographia – libro scritto
probabilmente fra il 1437 e il 1451, cfr.
Giovanni Tortelli, Roma antica, ed. a cura
di L. Capoduro, Roma 1999, p. 72.
57. Il passo dedicato al Pantheon come
orologio solare – presente nell’apografo
in Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms.
754, cc. nn., su cui è stata condotta l’edizione settecentesca, e su cui ho riscontrato i passi sul Pantheon – non è riportato
nell’edizione a stampa, probabilmente
perché l’editore disponeva di un Vitruvio
emendato (il passaggio viene corretto già
nell’edizione di Fra’ Giocondo), mentre
le corruzioni della Naturalis Historia permangono anche nelle edizioni disponibili nel XVIII secolo. Il passo vitruviano in
questione si trova in De architectura, 9, 8,
1, cit. [cfr. nota 18], pp. 1234-1235, e la
svista di Bernardo ci consente di individuare con una certa precisione l’edizione
di cui disponeva. Al posto di Panthium,
che ricorre nell’editio princeps di Giovanni Sulpicio da Veroli, e in codici manoscritti quattrocenteschi (Vitruvius Pollio,
De architectura, Roma 1486, IX, De horologiorum ratione …; e Lucii Vitruvii de
architectura libri decem, BAV, Urb. Lat., c.
124r; e Vat. Lat. 8489, c. 104r) e del definitivo plinthium, presente già in Fra’
Giocondo (M. Vitruvius per Iucundum
solito castigator factus …, Venezia 1511, c.
92v), il “Pantheum sive lacunar” citato
fra gli orologi – nella versione evidentemente letta da Rucellai – si trova, a quanto ho potuto vedere, solo nelle due edizioni fiorentina e veneziana del 1496 e
1497. Edizioni che si rifanno a Sulpicio
(X, De horologiorum), introducendo correzioni. Sulla fortuna di Vitruvio nel XV
secolo, cfr. P.N. Pagliara, Vitruvio da testo
a canone, in Settis (a cura di), Memoria
dell’antico…, cit. [cfr. nota 25], pp. 16-33,
in particolare pp. 32-33.
58. Cfr. H. Mattingly, Coins of the Roman
Empire in the British Museum, VI, Severus
Alexander to Balbinus and Pupiens, London 1976, II ed., 8, 207-208, p. 134.
Sulla conoscenza delle monete da parte
degli antiquari, cfr. G. Bodon, I monumenti antichi di Roma negli studi numismatici tra XV e XVI secolo, in “Xenia Antiqua”, V, 1996, pp. 107-142. La collocazione di un portico davanti al tempio gli
consente, per di più, di trovar posto ai
capitelli bronzei pliniani, scomparsi dall’edificio nei successivi rifacimenti. È
possibile che Rucellai avesse in mente
Vitruvio, 5, 9, 9, dove si suggerisce di
disporre ambulacri davanti ai templi di
tutti gli dei; non si serve, tuttavia, del lessico del passo (ambulatio), cfr. Vitruvio,
De architectura, cit. [cfr. nota 18], pp.
580-581.
59. Cfr. De re aedificatoria, VII, 3, cit. [cfr.
nota 10], pp. 546-547: “Iovisque templum, quod semina rerum omnium patefaciat, tecto stare oportere aiebat Varro
perforato”. La lettera in Alberti, Opere
volgari, cit. [cfr. nota 5], III, p. 293, vedi
supra nota 11. È dunque probabile che
anche Alberti si riferisse allo stesso passo
pliniano, il che non esclude la possibilità
di uno scambio di opinioni fra i due sull’argomento.
60. Una traduzione, che lasci in sospeso
agnatus, suona all’incirca: “i nostri più
esperti conoscitori di architettura affermano che lo spazio ornato da colonne
gigantesche e numerose, provenienti dall’isola di Ilya, spazio in genere chiamato
portico, fosse un pronao, il vestibolo del
tempio, congiunto al resto dell’edificio
in modo tale, da non poter essere separa-
to, e tale da sembrare unito al tempio”
(Rucellai, De urbe Roma, cit. [cfr. nota
54], col. 1005).
61. Gli studiosi che ho interpellato sull’interpretazione del passo – Luca
Boschetto, Ida Gilda Mastrorosa,
Richard Schofield, Massimo Zaggia –
hanno lasciato aperto il problema oppure dato pareri diversi sulla questione cruciale del significato di agnatus, attribuendo al termine ora uno ora l’altro dei due
significati possibili. Sui significati del
termine, cfr. LTL, I, s. v., dove, fra l’altro,
si rileva che il termine assume il significato di superpositus, a proposito di pietre
e metalli (Plinio, Naturalis Historia, VIII,
33), significato che sembrerebbe confermare l’intenzione di alludere a una
sequenza temporale. Da segnalare infine
la presenza del termine agnatio, con l’esplicito significato di prossimo alla famiglia ma giuridicamente distinto, in un
testo trecentesco che conobbe una vastissima diffusione, il De insignis et armis, di
Bartolo da Sassoferrato (paragrafi 6 e 7).
Il problema specifico rimane aperto, il
che, però, mi pare non infici l’interpretazione complessiva.
62. Rucellai, De urbe Roma, cit. [cfr. nota
54], col. 1005. Come si è detto in precedenza sono diversi gli espedienti ottici
presenti nel Pantheon, espedienti che
potrebbero legittimare una lettura fondata sulla visione del rapporto fra rotonda e cella. Lo stesso Bernardo fa riferimento alla deformazione, con funzione
illusionistica, dei lacunari della cupola
nel passo all’inizio del capitolo sul
Pantheon, cassato dall’editore settecentesco del testo. Sulla curvatura del pavimento, e sul suo possibile significato, cfr.
Wilson Jones, Principles…, cit. [cfr. nota
49], p. 184. È probabile che all’epoca
della stesura del De urbe Roma l’ipotesi
sul Pantheon realizzato per parti circolasse ampiamente. All’inizio del Cinquecento, infatti, risalgono disegni che presentano l’edificio con facciata muraria: il
foglio Louvre, Département des Arts
Graphiques, Collection Rothschild, 1409
DR, che fa parte di una raccolta di un
centinaio di disegni della stessa mano,
attribuibili a un artista probabilmente
attivo nel nord Italia entro il primo
decennio del secolo (cfr. M. Beltramini,
Le illustrazioni del Trattato d’architettura
di Filarete: storia, analisi e forma, in
“Annali di architettura”, XIII, 2001, pp.
42 e 51-52 note 180-182), e presenta un
arco di trionfo a due fornici, che inquadrano un Colosseo e un Pantheon rivisitati; due fogli del Victoria and Albert
Museum, attribuibili a un collaboratore
di Jacopo Ripanda, con carri trionfali su
cui torreggiano Colosseo e Pantheon,
disegni probabilmente tardi ma che sembrano tratti da analoghi disegni eseguiti
nel 1492, cfr. Farinella, Archeologia e pittura…, cit. [cfr. nota 55], pp. 181-182.
Da considerare anche le interpretazioni
dell’edificio antico date in occasione del
concorso per San Giovanni dei Fiorentini a Roma del 1518-19, su cui cfr. Tafuri,
Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr. nota
27], pp. 159-178.
63. Sul cassone cfr. R. Milesi, Mantegna
und die Reliefs der Brauttruhen Paola Gonzagas, Klagenfurt 1975; D. Gregori, Die
Brauttruhen der Paola Gonzaga: zu
Herkunft, Ikonographie und Autorenfrage
der Cassone-Tafeln im Kärntner Landesmuseum, in “Veröfflentlichungen des Tiroler Landesmuseums Ferdinandeum”,
1999, pp. 5-17; G. Ammann, in 1500
circa. Leonardo e Paola. Una coppia diseguale. De ludo globi. Il gioco del mondo. Alle
soglie dell’impero, catalogo della mostra
(Innsbruck, 2000), Milano 2000, cat.
1.9.6, pp. 141-142; S. Ferino-Pagden,
Nozze Gonzaga. Andrea Mantegna e i cassoni nuziali di Paola Gonzaga, in “FMR”,
149, 2001, pp. 17-59. Vedi anche A.
Martindale, The Triumphs of Caesar by
Andrea Mantegna, London 1979, trad. it.
Milano 1980, pp. 49-50. In genere la facciata viene messa in relazione con
Sant’Andrea, cfr. anche Johnson, S.
Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp.
47 e 112 note 39-40. Per il rapporto fra
Alberti e Mantegna, cfr. K. Christiansen,
Rapporti presunti, probabili e (forse anche)
effettivi tra Alberti e Mantegna, in Leon
Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp. 336357; Bulgarelli, Caso e ornamento…, cit.
[cfr. nota 11], passim.
64. De re aedificatoria, IX, 10, cit. [cfr.
nota 10], pp. 856-857: “Sic istic, quotquot ubique aderunt opinione et consensu hominum probata opera, perquam
diligentissime spectabit, mandabit lineis,
notabit numeris, volet apud se diducta
esse modulis atque exemplaribus; cognoscet repetet ordinem locos genera numerosque rerum singularum […] sed in primis disquiret, quid in quocunque sit,
artificii percogitati et reconditi aut
inventi ratione, rarum et admirabile”.
65. Il gioco dell’alternanza fra pieno e
vuoto in asse all’interno del Pantheon
(sul quale cfr. Wilson Jones, Principles…,
cit. [cfr. nota 49], pp. 193-196) potrebbe
essere all’origine della curiosa soluzione
adottata nella loggia di Sant’Andrea,
dove sulle volte laterali sono disposti in
asse alternativamente vuoto dei lacunari
e pieno della costola intermedia, su questo cfr. anche Volpi Ghirardini, La ‘porta
dei sette cieli’…, cit. [cfr. nota 4], pp. 2223. Sull’apprezzamento dei disassamenti,
in genere molto criticati fra fine Quattrocento e primo Cinquecento, dell’edificio antico da parte di Alberti, cfr. anche
Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr.
nota 27], p. 210 nota 105, che ipotizza
una ripresa sulla facciata di Santa Maria
Novella.
66. Anche il fatto che dimensioni e passo
dei modiglioni della cornice del pronao
differiscano da quelli dei corrispondenti
modiglioni del corpo intermedio e della
rotonda (cfr. Wilson Jones, Principles…,
cit. [cfr. nota 49], p. 203) suggerisce una
distinzione.
67. Sul disegno di Peruzzi, databile ai
primi anni Trenta del Cinquecento, cfr.
H. Burns, A Peruzzi Drawing in Ferrara,
in “Mitteilungen des Kunsthistorischen
Institutes in Florenz”, XII, 3-4, 1966, pp.
245-270; vedi anche H. Wurm, Baldassarre Peruzzi. Architekturzeichnungen,
Tübingen 1984, p. 473. Si tratta di una
sezione molto accurata, eseguita sull’asse
principale dell’edificio, nella quale la
quota dell’arco si può mettere facilmente
in relazione con la cornice alla base del
timpano, che si trova alla stessa altezza
della trabeazione del primo ordine all’interno. Per una sezione frontale del corpo
intermedio, cfr. K. De Fine Licht, The
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15|2003 Annali di architettura
Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza
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Rotunda in Rome. A Study of Hadrian’s
Pantheon, Copenhagen 1968, p. 67.
68. Il fatto che Alberti faccia ricorso alla
locuzione porticus Agrippae per indicare il
pronao del Pantheon sembra confermare
la nostra ipotesi, vedi De re aedificatoria,
VI, 11, cit. [cfr. nota 10], pp. 510-511.
Successivamente anche Andrea Palladio
e Carlo Fontana penseranno a un primo
edificio di epoca repubblicana, cfr. Wilson Jones, Principles…, cit. [cfr. nota 49],
p. 200. Sulla digressione del VI libro, cfr.
De re aedificatoria, VI, 3, cit., pp. 452457. Vedi J. Onians, Bearers of Meaning.
The Classical Orders in Antiquity, the
Middle Ages, and the Renaissance, Princeton 1990, pp. 149-152 (poco convincente, però, l’ipotesi dell’approccio nazionalistico di Alberti); H.-K. Lücke, Alberti,
Vitruvio e Cicerone, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp. 83-87, e Id., Das
Bauwerk als Gedankenwerk…, cit. [cfr.
nota 20], pp. 16-27; V. Biermann, Ornamentum. Studien zum Traktat ”De re aedificatoria“ des Leon Battista Alberti, Hildesheim 1997, pp. 88-92. La colonna come
primarium certe ornamentum in De re
aedificatoria, VI, 13, cit., pp. 520-21.
69. Cfr. Buddensieg, Criticism and Praise…, cit. [cfr. nota 49], p. 265. Per un
approccio diverso proprio riguardo al
rapporto fra arco dell’andito e timpano
superiore del Pantheon, possiamo citare
– a titolo di esempio – Andrea Palladio.
Nel trattato la quota della cornice esterna è innalzata per impedire che nella
sezione trasversale sul pronao avvengano
contatti illeciti fra membrature. Sembra
questo l’unico motivo plausibile per
modificare l’allineamento fra trabeazione
interna ed esterna. La stessa correzione,
a quanto pare, compare nel disegno di
Palladio RIBA, VIII, 9 (vedi G. Zorzi, I
disegni delle antichità di Andrea Palladio,
Venezia 1958, p. 77 e fig. 165) che rappresenta l’esterno dell’edificio con sezione sul pronao.
70. Sul tema albertiano della vicissitudine cfr. E. Garin, Rinascite e rivoluzioni.
Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Bari 1990, pp. 136-137; Cassani, La
fatica del costruire…, cit. [cfr. nota 19], pp.
37-60, (con bibliografia precedente).
71. Da tener presente che la parte superiore della facciata di Sant’Andrea non è
compiuta. Come ha notato Livio Volpi
Ghirardini, le rampe ai due lati dell’avancorpo si interrompono bruscamente,
probabilmente in seguito a crolli e
demolizioni, cfr. L. Volpi Ghirardini,
Annotazioni del giornale dei lavori di
restauro della Basilica di Sant’Andrea in
Mantova dal 1985 al 1988, in “Atti e
memorie dell’Accademia Virgiliana di
Scienze Lettere ed Arti”, LX, 1992, pp.
144-147; Id. Ipotesi per una lettura globale
della facciata della basilica di Sant’Andrea
in Mantova, in “Civiltà mantovana”,
XXVIII, 1993, pp. 15-17 (contributi nei
quali si avanza anche un’ipotesi di ricostruzione della zona restrostante l’ombrellone). Mi pare probabile che le torri
scalari, contrariamente a quanto accade
oggi, emergessero dalla massa dell’edificio e fossero individuabili come elementi autonomi, tali dunque da dialogare con
l’ombrellone.
72. Cfr. Mancini, Vita di Leon Battista
Alberti, cit. [cfr. nota 6], pp. 40-42. Il
testo del De amore fu scritto a Venezia,
cfr. Boschetto, Leon Battista Alberti…, cit.
[cfr. nota 53], p. 114, nota 60. Fra le
opere, la Famiglia, dove, fra l’altro, compare la descrizione di una regata, un
breve elogio della città e si dice che
Giannozzo vi abita volentieri, Alberti,
Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], I, 138 e
189; e diversi riferimenti in De re aedificatoria, II, 6; III, 2; X, 1 e 13 (dove si
trova un fugace cenno autobiografico:
per mea tempora), cit. [cfr. nota 10], pp.
124-25, 180-81, 878-81, 974-75. I soggiorni veneziani di Alberti lasciano tracce sia nella prosa che nell’architettura,
cfr. L. Bertolini, Prospezioni linguistiche
sulla formazione di Leon Battista Alberti, in
Leon Battista Alberti e il Quattrocento, cit.
[cfr. nota 38], pp. 81-106; Davies, Observations…, cit. [cfr. nota 30], passim. Cfr.
anche Bulgarelli, Orafo del Quattrocento…, cit. [cfr. nota 23], pp. 220-221.
73. De re aedificatoria, I, 8, cit. [cfr. nota
10], p. 63: “Aream enim totius templi
cum confertissime obsolidaret, pluribus
puteis refossam reliquit, quo, siqui forte
flatus terrae subter conciperentur, facilem sibi exitum vendicarent”, passo che si
riferisce al sistema di sfiati che originariamente metteva in connessione la cripta al
coro, cfr. A. Peroni, Due citazioni per il
San Marco di Venezia: gli sfiati della fabbrica contariniana (in Leon Battista Alberti,
1485); il confronto con le cupole del Sant’Antonio di Padova (in August von Essenwein,
1863), in Storia dell’arte marciana: l’architettura, atti del convegno (Venezia, 1994),
a cura di R. Polacco, Venezia 1997, p.
235-239.
74. Sulla descrizione di Santa Maria del
Fiore all’inizio dei Profugiorum ab aerumna libri (cfr. Alberti, Opere volgari, cit.
[cfr. nota 5], II, p. 108) si soffermano
Smith, Architecture…, cit. [cfr. nota 26],
pp. 80-97, e più in generale pp. 57-69, e
J. Lawson, Alberti on Florence Cathedral,
in “Word&Image”, XVIII, 4, 2002, pp.
332-347. Cfr. anche Davies, Observations…, cit. [cfr. nota 30], pp. 48-50.
75. Cfr. ivi, pp. 44-50 (con bibliografia
precedente), che ipotizza la derivazione
da San Marco della soluzione delle absidi nella cripta di San Sebastiano. Cfr.
anche Burns, Leon Battista Alberti, cit.
[cfr. nota 5], p. 133; J. Onians, Leon Battista Alberti. The Problem of Personal and
Urban Identity, in La Corte di Mantova
nell’età di Andrea Mantegna: 1450-1550,
atti del convegno (Londra-Mantova,
1992), a cura di C. Mozzarelli, R. Oresko, L. Ventura, Roma 1997, pp. 211212. Un’ulteriore connessione marciana
nel primo edificio mantovano di Alberti
viene individuata da R. Schofield, in
“Annali di architettura”, 1998-99, 10-11,
recensione di Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, p. 351. Su Alberti e
l’architettura medievale, cfr. anche M.
Brandis, La maniera tedesca. Eine Studie
zum Historischen Verständnis der Gotik im
Italien der Renaissance in Geschichtsschreibung, Kunsttheorie und Baupraxis, Weimar
2002, pp. 70-77.
76. Cfr. Burns, Leon Battista Alberti, cit.
[cfr. nota 5], p. 155.
77. Poco cambia, agli effetti della nostra
analisi, che nel Quattrocento fosse visibi-
le una copertura a calotta al posto del
pozzo, come ipotizza O. Demus, The
Mosaics of San Marco in Venice, I, The Eleventh and Twelfth Centuries, Chicago-London 1984, pp. 22 e 315 nota 6, cambiando
opinione rispetto a quanto sostenuto in
Id., The Church of San Marco in Venice,
Washington D.C. 1960, pp. 81-82 (con
bibliografia precedente). Cfr. anche V.
Herzner, Die Baugeschichte von San Marco
und der Aufstieg Venedigs zur Grossmacht, in
“Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte”,
XXXVIII, 1985, pp. 46-47.
78. Cfr. M. Perry, Saint Mark’s Trophies:
Legend, Superstition, and Archaeology in
Renaissance Venice, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XL,
1977, pp. 27-34. Alle fonti qui passate in
rassegna vanno aggiunte le terzine, datate 1442, del mercante fiorentino Jacopo
d’Albizzotto Guidi: “Sopra la porta è
messo con tant’arte / quatro cavai di
bronzo sì ben fatti / ch’altri che Pulicreto
v’ebe parte; / tutti son ben di maestrevol’atti, / formati che si vede ogni fazione
/ ch’ognun di maraviglia par che schiatti”,
in El sommo della condizione di Vinegia, IV,
31-36, ed. M. Ceci, Roma 1995, p. 29.
79. De re aedificatoria, VIII, 6, cit. [cfr.
nota 10], pp. 722-723. Un esempio del
modo di procedere della filologia umanistica, in relazione a questo tema, ci viene
offerto dalla Roma Triumphans di Biondo
Flavio, libro che fa senz’altro parte della
biblioteca di Alberti. Nel capitolo finale,
le due serie documentarie cui ci siamo
riferiti – fonti scritte e immagini – vengono messe a confronto, e se ne colgono
differenze e somiglianze, leggendo i testi
antichi davanti al celebre rilievo dell’arco
di Tito, cfr. Biondo da Forlì, Roma trionfante, Venezia 1549, pp. 362v e 365r-v. Su
modi e forme del trionfo durante
Medioevo ed Età moderna, cfr. A. Pinelli, Feste e trionfi: continuità e metamorfosi di
un tema, in S. Settis (a cura di), Memoria
dell’antico nell’arte italiana, II, I generi e i
temi ritrovati, Torino 1984, pp. 279-350;
sul caso di San Marco, M. Jacoff, The
Horses of San Marco and the Quadriga of the
Lord, Princeton 1993, pp. 62-83 e passim.
Sull’arco di Alfonso di Aragona a Napoli,
certamente noto ad Alberti, cfr. A. Beyer,
Parthenope. Neapel und der Süden der
Renaissance, München-Berlin 2000, pp.
13-61; arco napoletano che, peraltro,
vanta un’attribuzione albertiana, cfr. E.
Bernich, Leon Battista Alberti e l’arco trionfale di Alfonso d’Aragona in Napoli, in
“Napoli Nobilissima”, XII, 1903, pp.
114-119 e 131-136. Almeno un viaggio a
Napoli di Leon Battista è documentato:
L. Boschetto, Nuove ricerche sulla biografia
e sugli scritti volgari di Leon Battista Alberti. Dal viaggio a Napoli all’ideazione del De
iciarchia (maggio-settembre 1465), in
“Interpres”, XX, 2001, pp. 185-194.
80. Cfr. M. Perry Caldwell, The Public
Display of Antique Sculpture in Venice,
1200-1600, Ph.D. Dissertation, University of London, 1975, pp. 18-23; Perry,
Saint Mark’s Trophies…, cit. [cfr. nota 78],
pp. 28-33; G. Perocco, I cavalli di S.
Marco a Venezia, in I cavalli di S. Marco,
catalogo della mostra (Venezia, 19771978), Venezia 1977, pp. 69-82; Herzner,
Die Baugeschichte…, cit. [cfr. nota 77], pp.
55-56; Jacoff, The Horses of San Marco…,
cit. [cfr. nota 79], pp. 102-103, che propone un’interpretazione differente dei
documenti, a mio parere comunque compatibile con la lettura politica della facciata; P. Fortini Brown, Venice and Antiquity.
The Venetian Sense of the Past, New
Haven-London 1996, pp. 19-20; M.
Belozerskaya, K. Lapatin, Antiquity Consumed. Transformation at San Marco, Venice, in Payne, Kuttner, Smick (a cura di),
Antiquity…, cit. [cfr. nota 20], pp. 83-95.
Cfr. anche L. De Lachenal, Spolia. Uso e
reimpiego dell’antico dal III al XIV secolo,
Milano 1995, p. 320, dove si sostiene che
dalla loggia dei cavalli si affacciasse il
doge dopo la sua elezione, ma vedi G.
Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, in A.
Pertusi (a cura di), Venezia e il Levante fino
al secolo XV, Firenze 1973, I, pp. 261-93.
81. Sulla derivazione di San Marco dalla
chiesa dei Dodici Apostoli a Costantinopoli, e sulla consapevolezza del modello
anche nel XV secolo, cfr. da ultimo E.
Concina, San Marco, Costantinopoli e il
primo Rinascimento veneziano: “traditio
magnificentiae”, in Storia dell’arte marciana: l’architettura, cit. [cfr. nota 73], pp.
23-28; Id., San Marco “triumphante”:
pietà e magnificenza, in E. Vio, Lo splendore di San Marco, Venezia 2001, pp. 88105. È probabile che Alberti conoscesse i
due testi principali che tramandano la
storia della chiesa costantinopolitana e la
sua descrizione: il De vita Constantini di
Eusebio di Cesarea e il De aedificiis di
Procopio. Quanto al primo, sappiamo –
cfr. P. Eleuteri, in Bessarione e l’Umanesimo, catalogo della mostra (Venezia,
1994), a cura di G. Fiaccadori, Napoli
1994, scheda 103, p. 490 – che intorno al
1468, la biblioteca romana del cardinal
Bessarione si arricchì di un codice contenente diverse opere di Eusebio di Cesarea, fra le quali il De vita Constantini (PG,
XX, coll. 1210-1212) che fornisce una
descrizione dell’Apostoleion costantiniano
come mausoleo imperiale. Negli anni
Sessanta Leon Battista faceva parte della
cerchia del cardinale (G. Pugliese Carratelli, L’immagine della ‘Bessarionis Academia’ in un inedito scritto di Andrea Contrario, in “Atti della Accademia Nazionale
dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Rendiconti”, VII,
1996, p. 806), e può avere avuto accesso
all’opera. È possibile, tuttavia, che l’abbia maneggiata anche in precedenza, dal
momento che inventari di biblioteche
medicee e della biblioteca di Federico da
Montefeltro segnalano la presenza di
codici dell’opera di Eusebio, pur senza
nominare la Vita, cfr. in proposito H.
Saalman, Filippo Brunelleschi. The Buildings, University Park 1993, p. 140, con
l’ipotesi che il programma della Sagrestia
Vecchia dipenda dalla descrizione dell’Apostoleion. Per quel che riguarda il De
aedificiis, diversi codici di varia datazione
fanno pensare a una diffusione precoce
del testo, e anche in questo caso possiamo ritenere che Alberti lo conoscesse
(cfr. C. Occhipinti, Sulla fortuna di Procopio da Cesarea nel XV secolo: il Giustiniano
di Costantinopoli e i primi monumenti equestri di età umanistica, in “Rinascimento”,
s. II, XLII, 2002, pp. 355-357 e 363364). Si deve considerare anche un’altra
possibilità di incontro con Procopio, tramite Ciriaco d’Ancona, personaggio ben
noto a Leon Battista (sui contatti fra i
due vedi oltre). Di pugno di Ciriaco,
infatti, ci è pervenuta la trascrizione di
un frammento del libro, che, pur non
contenendo la parte relativa alla chiesa
33
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degli Apostoli, testimonia di un preciso
interesse da parte sua, cfr. F. Di Benedetto, Un codice epigrafico di Ciriaco ritrovato,
in Ciriaco d’Ancona e la cultura antiquaria
dell’Umanesimo, atti del convegno (Ancona, 1992), a cura di G. Paci e S. Sconocchia, Reggio Emilia 1998, p. 164, nota
27. Il passo di Procopio (II, 24) dedicato
al secondo Apostoleion, quello giustinianeo, descrive una chiesa cruciforme con
cinque cupole, una sulla crociera e le
altre su ciascun braccio della croce.
Cosicché Alberti è in grado di riscontrare con il testo antico la tradizione veneziana che fa derivare San Marco dalla
chiesa costantinopolitana, ma può anche
ricostruire per sommi capi la storia di
quest’ultima.
82. Il trionfo celebrato dagli archi di San
Marco è trionfo di Cristo e della croce.
Sulla facciata si dispiega un programma
cristologico, che culmina proprio al di
sotto dell’arcone centrale con l’immagine dell’Adventus Domini, visibile nel telero di Gentile Bellini. Si tratta del secondo adventus – che prelude al Giudizio –
del Redentore, attorniato dagli angeli
che reggono gli attributi della passione,
riferimento diretto alle reliquie custodite
nel tesoro della basilica, fra le quali si
trova, anche a Venezia, un’ampolla del
sangue di Cristo, cfr. Demus, The
Mosaics…, cit. [cfr. nota 77], II, pp. 198199. Sulle reliquie, cfr. D. Pincus, Christian Relics and the Body Politic: A Thirteenth-Century Relief Plaque in the Church
of San Marco, in D. Rosand (a cura di),
Interpretazioni veneziane. Studi di Storia
dell’Arte in onore di Michelangelo Muraro,
Venezia 1984, pp. 39-57; M. Donega, I
reliquiari del Sangue di Cristo del Tesoro di
San Marco, in “Arte documento”, XI,
1997, pp. 65-71. Vedi anche Concina,
San Marco, Costantinopoli…, cit. [cfr. nota
81], p. 22. Anche a San Marco si conserva qualche stilla del sangue di Cristo,
che, tuttavia, dopo aver avuto grande
rilevanza politica e religiosa nel XIII
secolo, nel Quattrocento sembra essere
dimenticato, perlomeno fuori Venezia: il
francescano Giacomo della Marca nel De
sanguine Christi, scritto negli anni Sessanta in occasione della disputa teologica
sul sangue, elenca 15 casi di reliquie connesse alla passione, fra questi sono presenti le reliquie mantovane, ma non
quelle marciane, cfr. Iacobus de Marchia,
De sanguine Christi, ed. a cura di D. Lasić,
Falconara M. 1976, pp. 138-139.
83. Cfr. R. Krautheimer, The Carolingian
Revival of Early Christian Architecture, in
“The Art Bulletin”, XXIV, 1942, pp. 138, trad. it. in R. Krautheimer, Architettura sacra paleocristiana e medievale e altri
saggi su Rinascimento e Barocco, Torino
1993, pp. 204-207; Pinelli, Feste e trionfi…, cit. [cfr. nota 79], p. 285.
84. Cfr. Concina, San Marco “triumphante”…, cit. [cfr. nota 81], p. 101. In un
recente saggio sugli affreschi di Benedetto Bonfigli nella cappella dei Priori a
Perugia (dal 1454), è stata avanzata l’ipotesi che la scena su cui campeggia l’arco
di Costantino alluda alla situazione
determinatasi dopo la caduta di Costantinopoli e alla necessità della crociata. È
interessante per noi che l’edificio sul
fondo, che si intravede attraverso il fornice dell’arco – fra una lacuna e l’altra –
venga identificato con San Marco a
Venezia. In tal modo, pittore ed estensore del programma avrebbero istituito una
relazione diretta fra basilica marciana ed
edificio antico, alludendo al possibile
ruolo dei veneziani in una guerra contro
il turco; cfr. S. Miccolis, L’arco di Costantino e i Turchi nella pittura italiana del
Quattrocento, in “Belfagor”, LIII, 3, 1998,
pp. 277-296. Mi pare però che l’argomento necessiti almeno di un supplemento di indagine, a partire dalla identificazione della facciata di chiesa sul
fondo, che è difficile ritenere qualcosa di
più di un’allusione a un edificio di tradizione veneziana, come in L. Sensi, Benedetto Bonfigli e l’antico, in Un pittore e la
sua città, catalogo della mostra (Perugia,
1996-97), a cura di V. Garibaldi, Milano
1996, p. 90.
85. È in quel momento, probabilmente,
che si precisa il progetto del marchese di
prendere possesso della chiesa, e che si
mette a punto un primo progetto per il
rifacimento dell’edificio, cfr. Chambers,
Sant’Andrea at Mantua…, cit. [cfr. nota
8], pp. 99-109. Cfr. anche I. Bini, Mantova sede papale durante la dieta convocata da
Pio II, in “Civiltà mantovana”, n.s., III,
1984, pp. 7-22; Calzona, Mantova in attesa…, cit. [cfr. nota 5], pp. 529-578 (con
bibliografia precedente). Sulla situazione
politica è ancora fondamentale G.B.
Picotti, La dieta di Mantova e la politica de’
Veneziani [Venezia 1912], a cura di G. M.
Varanini, Trento 1996.
86. Da notare che Ludovico fece coniare
alla zecca mantovana monete con il
motto in hoc signo vinces, chiaro riferimento a Costantino, interpretato come
proclamazione di una discendenza,
anche spirituale, ed espressione di zelo
crociato, cfr. Lawson, The Palace at Revere…, cit. [cfr. nota 38], p. 249. Sulle
monete, cfr. Corpus nummorum italicorum, cit. [cfr. nota 38], pp. 233-234;
Monete e medaglie…, cit. [cfr. nota 38], p.
108. Fra gli argomenti di discussione fra
Alberti e il marchese, a proposito della
scelta di San Marco come modello, possiamo immaginare ben presente la derivazione della chiesa veneziana dall’edificio greco. Al carattere imperiale della
serie – ma forse a Ludovico non sarà
dispiaciuto che per la sua basilica ci si
rifacesse alla cappella palatina del doge –
si aggiungeva un ulteriore elemento di
interesse: la presenza nell’Apostoleion
della tomba di sant’Andrea, segnalata da
Procopio (De aedificiis, II, 24) e dalla
patristica (cfr. F. Dvornik, The Idea of
Apostolicity in Byzantium and the Legend of
the Apostle Andrew, Cambridge [Mass.]
1958, pp. 138-180). Alberti avrà certamente ricordato lo spettacolare arrivo a
Roma – otto anni prima del progetto per
Sant’Andrea – della reliquia della testa
dell’apostolo, e le esplicite implicazioni
politiche della cerimonia utilizzata da
Pio II a sostegno della campagna per la
crociata antiottomana. In proposito cfr.
R. Olitsky Rubinstein, Pius II’s Piazza S.
Pietro and St. Andrew’s Head, in D. Fraser,
H. Hibbard, M.J. Levine (a cura di),
Essays in the History of Architecture presented to Rudolf Wittkower, London 1967,
pp. 22-33, che ipotizza un coinvolgimento di Alberti nella sistemazione, realizzata in quell’occasione, della piazza antistante San Pietro.
87. Cfr. Grafton, Leon Battista Alberti…,
cit. [cfr. nota 30], pp. 79-83. Per una lettura più generale del tema, vedi L.
Barkan, The Heritage of Zeuxis: Painting,
Rhetoric, and History, in Payne, Kuttner,
Smick (a cura di), Antiquity…, cit. [cfr.
nota 20], pp. 99-109.
88. Cfr. M. Horster, Brunelleschi und
Alberti in ihrer Stellung zur römischen
Antike, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, XVII, 1,
1973, pp. 59-60.
89. Rudolf Wittkower individua negli
archi a un unico fornice, di Tito a Roma
e di Traiano ad Ancona, le fonti di Alberti, rilevando anche che la presenza di
tabelle laterali, all’altezza dei capitelli di
imposta dell’arco, potrebbe aver suggerito la soluzione della trabeazione che sembra insinuarsi sotto l’ordine maggiore
sulla facciata mantovana, cfr. Wittkower,
Architectural Principles…, cit. [cfr. nota
32], p. 55, anche se, in proposito, l’esempio antico più pertinente è l’arco di
Costantino. Arco da cui Howard Burns fa
derivare il motivo degli oculi all’interno
di Sant’Andrea, cfr. Burns, Leon Battista
Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 155. Per la
cappella, di cui abbiamo notizia dal 1230,
e l’arco di Costantino, cfr. Krautheimer,
The Carolingian Revival…, cit. [cfr. nota
83], p. 206. Anche ammettendo che la
cappella in questione non abbia nulla a
che vedere con gli ambienti dentro l’attico, va rilevato che la presenza del vano
voltato superiore all’interno degli archi di
Costantino e Settimio Severo costituisce
un precedente per l’avancorpo di
Sant’Andrea, al pari delle stanze nel nartece di San Marco e nel corpo intermedio
del Pantheon.
90. Cfr. S. De Maria, Gli archi onorari di
Roma e dell’Italia romana, Roma 1988, pp.
303-305. Per l’identificazione dell’arco
nei rilievi, cfr. anche F. Coarelli, Il Foro
Boario dalle origini alla fine della repubblica, Roma 1992, pp. 363-414. Un altro
esempio di arco trionfale con sovrapposizione dell’arco alla trabeazione è rappresentato in un frammento conservato al
Museo Nazionale Romano, inv. 8640,
cfr. De Maria, Gli archi onorari…, cit., p.
30, non visibile nel Quattrocento.
91. Su Ciriaco al Certame, cfr. De vera
amicitia. I testi del primo Certame coronario,
ed. L. Bertolini, Modena 1993, pp. 335339. Nel 1442, Leon Battista e Ciriaco
sono, di nuovo, entrambi a Firenze: F.
Babinger, Notes on Cyriac of Ancona and
some of his Friends, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XXV, 34, 1962, p. 321; Boschetto, Leon Battista
Alberti…, cit. [cfr. nota 53], p. 122. Sui
rapporti fra Ciriaco con gli artisti fiorentini e in particolare con Donatello –
grande amico di Alberti – a Firenze e a
Padova, cfr. M. Bergstein, Donatello’s
Gattamelata and its Humanist Audience, in
“Renaissance Quarterly”, LV, 2002, pp.
845-862, che si sofferma sul ruolo di tramite per la conoscenza dell’arte greca. Su
Ciriaco e Venezia, cfr. Fortini Brown,
Venice and Antiquity…, cit. [cfr. nota 80],
pp. 81-91.
92. Cfr. E.W. Bodnar, Ciriaco’s Cycladic
Diary, in Ciriaco d’Ancona…, cit. [cfr.
nota 81], pp. 57-59; cfr. anche P.W. Lehmann, Cyriacus of Ancona’s Visit to
Samothrace, in P.W. Lehmann, K. Leh-
mann, Samothracian Reflections: Aspects of
the Revival of Antique, Princeton 1973,
pp. 19-22. Per connessioni riminesi di
Ciriaco, cfr. A. Campana, L’elefante malatestiano e Ciriaco d’Ancona, in Ciriaco
d’Ancona…, cit., pp. 198-200; Id., Ciriaco
d’Ancona e Lorenzo Valla sull’iscrizione
greca del tempio dei Dioscuri a Napoli, in
“Archeologia classica”, XXV-XXVI,
1973-74, pp. 90-92. Cfr. anche Turchini,
Il Tempio Malatestiano…, cit. [cfr. nota
10], pp. 372-373.
93. Cfr. E.W. Bodnar, Cyriacus of Ancona
and Athens, Bruxelles-Berchem 1960; Id.,
Athens in April 1436, in “Archeology”,
XXIII-XXIV, 1970-71, pp. 96-105 e 188199. Sui viaggi di Ciriaco, cfr. Lehmann,
Cyriacus of Ancona’s Visit…, cit. [cfr. nota
92]; Id., Cyriacus of Ancona’s Egyptian Visit
and its Reflections in Gentile Bellini and
Hieronymus Bosch, Locust Valley 1977;
E.W. Bodnar, C. Mitchell (a cura di),
Cyriacus of Ancona’s Journeys in the Propontis and the North Aegean 1444-1445,
Philadelphia 1976; F. Scalamonti, Vita
viri clarissimi et famosissimi Kyriaci anconitani, ed. C. Mitchell, E.W. Bodnar, Philadelphia 1996.
94. Cfr. Bodnar, Cyriacus of Ancona…, cit.
[cfr. nota 93], p. 39; Id., Athens…, cit.
[cfr. nota 93], p. 195; L. Beschi, I disegni
ateniesi di Ciriaco: analisi di una tradizione,
in Ciriaco d’Ancona…, cit. [cfr. nota 81],
p. 91.
95. Cfr. Bodnar, Cyriacus of Ancona…, cit.
[cfr. nota 93], pp. 39 e 128-129; Id.,
Athens…, cit. [cfr. nota 93], p. 196;
Beschi, I disegni ateniesi…, cit. [cfr. nota
94], pp. 88-89. Sui disegni ateniesi, cfr.
anche Il libro di Giuliano da Sangallo.
Codice Vaticano Barberiniano Latino 4424,
ed. a cura di C. Hülsen, Lipsia 1910, pp.
36-43, ff. 2-29v; C. Mitchell, Ciriaco
d’Ancona: Fifteenth-Century Drawings and
Descriptions of the Parthenon, in V. Bruno
(a cura di), The Parthenon, New York
1974, pp. 111-123; B.L. Brown, D.E.E.
Kleiner, Giuliano da Sangallo’s Drawings
after Ciriaco d’Ancona: Transformations of
Greek and Roman Antiquities in Athens, in
“Journal of the Society of Architectural
Historians”, XLII, 4, 1983, pp. 321-335;
C.R. Chiarlo, “Gli fragmenti dilla sancta
antiquitate”: studi antiquari e produzione
delle immagini da Ciriaco d’Ancona a Francesco Colonna, in S. Settis (a cura di),
Memoria dell’antico nell’arte italiana, I,
L’uso dei classici, Torino 1984, pp. 272280; S. Borsi, Giuliano da Sangallo. I disegni di architettura e dell’antico, Roma 1985,
pp. 149-57; B. Degenhart, A. Schmitt,
Jacopo Bellini und die Antike, in Corpus der
Italienischen Zeichnungen. 1300-1450, II,
Venedig, 5, Jacopo Bellini. Text, Berlin
1990, pp. 192-228; A. Schmitt,
Antikenkopien und künstlerische Selbstverwirklichung in der Frührenaissance.
Jacopo Bellini auf der Spuren römischer Epitaphien, in Antikenzeichnung und Antikenstudium in Renaissance und Frühbarock,
atti del convegno (Coburg, 1986), a cura
di R. Harprath, R. Wrede, Mainz am
Rhein 1989, pp. 1-20; L. Vandi, Ciriaco
d’Ancona: lo stile all’antica nella scrittura e
nell’immagine, in “Prospettiva”, 95-96,
1999, pp. 122-130.
96. Cfr. Mancini, Vita di Leon Battista
Alberti, cit. [cfr. nota 6], pp. 86-87, dove
si indicano alcuni dei passi del trattato
34
15|2003 Annali di architettura
Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza
www.cisapalladio.org
con riferimenti nordici. Cfr. anche R.
Krautheimer, T. Krautheimer-Hess,
Lorenzo Ghiberti, Princeton 1990, IV ed.,
pp. 317-318 e nota 12.
97. Cfr. in proposito ivi, p. 317; C. Grayson, The Composition of L. B. Alberti’s
“Decem libri de re aedificatoria”, in “Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst”, s.
3, IX, 1960, pp. 152-161, ora in Id., Studi
su Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 10],
p. 186.
98. Oltre alla letteratura citata in precedenza, cfr. in proposito P.W. Lehmann,
Alberty and Antiquity: Additional Observations, in “The Art Bulletin”, LXX, 3,
1988, pp. 397-399.
99. Leon Battista Alberti, I libri della
famiglia, in Id., Opere volgari, cit. [cfr.
nota 5], I, p. 85.
100. Sul tema in generale, con un’ampia
casistica, cfr. V. Lassalle, L’influence antique dans l’art roman provençal, Paris 1970;
cfr. anche A. Erlande-Brandenburg, A.B. Mérel-Brandenburg, Histoire de l’architecture française. Du Moyen Âge à la
Renaissance (IVe siècle-début XVIe siècle),
Paris 1995, pp. 224-225.
101. Su Notre-Dame de Nazareth e
Saint-Gabriel, cfr. J.-M. Rouquette, Notes
sur 49 églises romanes, e Les Alpilles, in Provence romane, 1, La Provence Rhodanienne,
Yonne 1974, pp. 29-30 e 241-249; É. Vergnolle, L’art roman en France. Architecture-Sculpture-Peinture, Paris 1994, pp.
324-325. Su Saint-Siffrein, cfr. L.-H.
Labande, Notices diverses, in Congrès
archéologique de France, I (Avignon, 1909),
Paris-Caen 1910, pp. 288-293, che pubblica una foto di inizio secolo nella quale
la trabeazione è visibile, contrariamente a
quanto accade sul posto.
102. Sulla soluzione dell’interposizione
di una membratura fra capitelli e arco nel
portale di Saint Gabriel esistono opinioni differenti: chi considera la soluzione
derivante dall’antico (Lassalle, L’influence
antique…, cit. [cfr. nota 100], p. 87), chi
un ripiego (A. Borg, Architectural Sculpture in romanescque Provence, Oxford
1972, pp. 104-105). Quanto agli archi
antichi, sopravvissuti e non, cfr. J. Formigé, Les arcs de la Narbonnaise, in Congrès archéologique de France, cit., II, pp.
56-97.
103. Su Notre-Dame des Doms, cfr. L.H. Labande, L’église Notre-Dame-desDoms d’Avignon des origines au XIIIe siècle,
in “Bulletin archéologique du Comité
des Travaux historiques et scientifiques”,
1906, pp. 282-365; Id., Cathédrale de
Notre-Dame-des-Doms, in Congrès Archéologique de France, I, cit. [cfr. nota 101], pp.
7-16; J.-M. Rouquette, W. Witters,
Notre-Dame-des-Doms en Avignon, in Provence romane…, cit. [cfr. nota 101], pp.
205-218. La ripresa della tecnica antica
di realizzazione del capitello in due parti
– del tutto inusuale nel Medioevo – è
stata notata da L. de Lasterye, L’architecture religieuse en France à l’epoque romane,
Paris 1929, p. 418. Da notare anche l’uso
di apici rovesci nelle scanalature, presente in edifici antichi francesi fino a Susa.
Per inciso, l’unico esempio che conosco
di questo motivo nel Quattrocento italiano si trova nelle paraste dell’edificio rap-
presentato nel Miracolo della mula di
Donatello.
104. A quanto pare lo stesso effetto viene
ricercato nel portale della chiesa di
Saint-Restitut, a nord di Avignone.
105. Sulla torre occidentale di Avignone,
cfr. G. Démians d’Archimbaud, Y. Esquieu,
M. Fixot, A. Hartmann-Virnich, Espaces
d’accueil et pôles occidentaux dans l’architecture religieuse préromane et romane de Provence, in Avant-nefs et espaces d’accueil dans
l’église entre le IVe et le XIIe siècle, atti del
convegno (Auxerre, 1999), a cura di C.
Sapin, Paris 2002, pp. 198-199. Per una
rassegna recente di alcuni casi italiani, cfr.
S. Lomartire, L’organisation des avantcorps occidentaux. À propos de quelques exemples de l’Italie du nord au moyen âge, ivi, pp.
351-371.
106. Sulla filologia come strumento di
studio del passato in Lorenzo Valla, cfr.
S. Camporeale, Il problema della imitatio
nel primo Quattrocento. Differenze e controversia tra Bracciolini e Valla, in “Annali di
architettura”, IX, 1997, pp. 149-154, da
cui vale la pena citare un passo sulla prevalenza del grammaticus sul philosophus,
che ha direttamente a che fare con l’approccio di Alberti: “Il ‘filosofo’, classico
ed ellenistico, platonico o aristotelico,
era impegnato nella ricerca delle dimensioni ontologiche delle realtà contingenti e trascendenti, attraverso la definizione
(socratica) del ‘concetto’ di quelle medesime realtà; il ‘grammatico’, invece, esercitava il proprio compito sulla realtà storica in genere, e sull’operare umano del
passato in particolare, nei modi e nei
limiti in cui quella realtà e quell’operare
potevano essere appresi e indotti dall’analisi filologica delle scritture ebraiche,
greche e latine” (p. 153). Cfr. anche Id.,
Lorenzo Valla. ‘Repastinatio, liber primus’:
Retorica e Linguaggio, in O. Besomi e M.
Regoliosi (a cura di), Lorenzo Valla e l’Umanesimo Italiano, Padova 1986, pp. 217239. Su Valla e Alberti, cfr. Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr. nota 27],
pp. 58-59.
107. De re aedificatoria, IX, 10, cit. [cfr.
nota 10], pp. 854-855.
108. Ivi, pp. 854-857: “Caeterum sic gerat
velim sese, uti in studiis litterarum faciunt.
Nemo enim se satis dedisse operam litteris
putabit, ni auctores omnes etiam non
bonos legerit atque cognorit, qui quidem
in ea facultate aliquid scripserint, quam
sectentur. Sic istic, quotquot ubique aderunt opinione et consensu hominum probata opera, perquam diligentissime spectabit, mandabit lineis, notabit numeris, volet
apud se diducta esse modulis atque exemplaribus; cognoscet repetet ordinem locos
genera numerosque rerum singularium,
quibus illi quidem usi sunt praesertim, qui
maxima et dignissima effecerint, quos fuisse viros egregios coniectura est, quandoquidem tantarum impensarum moderatores fuerint”.
109. Su Alberti lettore, cfr. Grafton, Leon
Battista Alberti…, cit. [cfr. nota 30], pp.
53-92.
110. Cfr. Burns, Leon Battista Alberti, cit.
[cfr. nota 5], p. 121.
111. Per la lettera, cfr. nota 41. Sull’etru-
scum sacrum mi limito a citare il contributo di R. Krautheimer, Alberti’s Templum Etruscum, in Id., Studies in Early
Christian, Medieval, and Renaissance Art,
New York 1969, pp. 333-344, l’unico
veramente importante in una pletora di
studi sull’argomento. Sull’intera questione mi ripropongo di tornare in un prossimo contributo.
112. Cfr. Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr. nota 27], pp. 9-10, 59.
113. Cfr. Burns, Leon Battista Alberti, cit.
[cfr. nota 5], p. 122. Sulla struttura del
trattato, cfr. R. Krautheimer, Alberti and
Vitruvius, in The Renaissance and Mannerism, cit. [cfr. nota 19], pp. 42-52; Choay,
La Règle…, cit. [cfr. nota 26], pp. 93-180;
Ead., Le De re aedificatoria…, cit. [cfr.
nota 26], pp. 83-90; H. Biermann, Die
Aufbauprinzipien von L.B. Albertis De re
aedificatoria, in “Zeitschrift für Kunstgeschichte”, 4, 1990, pp. 443-485; C. van
Eck, The Structure of De re aedificatoria
Reconsidered, in “Journal of the Society of
Architectural Historians”, LVII, 3, 1998,
pp. 280-297.
114. Lettera trascritta in G. Zippel, Un
umanista in villa, in Storia e cultura del
Rinascimento italiano, Padova 1979, p.
285-287.
115. Di recente, Maria Beltramini ha
richiamato l’attenzione su un passo del
trattato di Filarete, nel quale Ludovico
Gonzaga parla di Alberti a Francesco
Sforza, presentandolo – senza nominarlo – come un cortigiano molto intendente nel costruire “al modo anticho”, che
aveva realizzato per lui “alchuno modello di legname di cotali miei edificetti che
voglio fare per mia devozione”. Sono
d’accordo che il personaggio in questione non possa che essere Leon Battista –
non essendo Luca Fancelli e Antonio
Manetti candidati credibili – e di lui
Ludovico, rispondendo a una richiesta
di chiarimento da parte di Francesco
Sforza, dice: “La Signoria vostra gli
parlò bene, ma perché forse lui era una
persona non con troppe parole, e none
in parole mostra il suo sapere, per questo non forse così vi ricorda” (Antonio
Averlino detto il Filarete, Trattato d’Architettura, ed. a cura di A.M. Finoli e L.
Grassi, I, Milano 1972, pp. 380-381
[codice Magliabechiano, c. 100r]; Beltramini, Le illustrazioni…, cit. [cfr. nota
62], pp. 39 e 50 note 153, 154). Come si
vede, questa seconda testimonianza sulla
propensione a conversare di architettura
da parte di Alberti è di segno esattamente opposto alla prima. Non possiamo
certo sapere se, a poco più di dieci anni
dalla lettera di Gaspare da Verona (entro
il 1464), l’indole di Leon Battista fosse
così radicalmente cambiata. È opportuno, comunque, tener conto del genere
cui il trattato appartiene, una finzione
narrativa che impone una maschera a
ogni personaggio, come ricorda Beltramini. Maschera che, nel caso di Leon
Battista, sembra tratteggiata con ironia,
presente del resto anche nel passo della
lettera.
117. Su De re aedificatoria, VI, 3, cfr. nota
72. Naturalmente è necessario tener
conto della differenza fra l’Alberti che
scrive di Firenze, da patrizio fiorentino, e
l’Alberti cortigiano che vive a contatto
con i signori che governano gran parte
dell’Italia del tempo, cfr. Boschetto,
Incrociare le fonti…, cit. [cfr. nota 53] Non
c’è dubbio, però, che le pagine del De
iciarchia, l’elogio della sobrietà, della
moderazione, e dei costumi aviti, abbia
un preciso significato politico nella
Firenze degli anni Sessanta (Id., Nota sul
“De iciarchia” di Leon Battista Alberti, in
“Rinascimento”, s. II, XXXI, 1991, pp.
195-202) e mostri una divaricazione, che
riguarda proprio la concezione dell’architettura e l’uso delle forme architettoniche, con il comportamento di Alberti
architetto. Quanto agli autori antichi,
vedi, ad esempio, Seneca, Epistulae, 86, e
90.19, in cui risuonano temi analoghi a
quelli dell’opera albertiana. Da ricordare
anche l’elogio del cristianesimo primitivo, di tono ben diverso da quello dei
passi sull’ornamento dell’architettura
sacra, vedi De re aedificatoria, VII, 13, cit.
[cfr. nota 10], pp. 626-629. Cfr. in proposito, Tafuri, Ricerca del Rinascimento…,
cit. [cfr, nota 27], pp. 52-53.
118. Cfr. De re aedificatoria, VI, 2, cit.
[cfr. nota 10], pp. 444-451. È l’architettura di Leon Battista, comunque, la fonte
principale che ci testimonia della sua
passione per l’ornamento, inteso come
immagine dell’edificio.
116. Cfr. da ultimo Rinaldi, “Melancholia
christiana”…, cit. [cfr. nota 30], pp. 111188 (con bibiografia precedente). Vedi
Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr.
nota 27], pp. 50-62.
35
15|2003 Annali di architettura
Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza
www.cisapalladio.org