Massimo Bulgarelli Alberti a Mantova. Divagazioni intorno a Sant’Andrea 1-2. Mantova, Sant’Andrea, facciata fotografata a quote diverse (foto A. Chemollo). Il fine che mi sono posto nello scrivere questo saggio è di indagare soluzioni illusionistiche nell’architettura di Leon Battista Alberti, e di dimostrare come una di queste soluzioni – un arco che sembra sovrapporsi alla trabeazione superiore – sia presente sulla facciata della basilica di Sant’Andrea a Mantova. La dimostrazione comincia con un’analisi delle forme adottate, si articola con il confronto con un’altra architettura albertiana, per poi considerare come la sovrapposizione entri in risonanza con i diversi modelli di cui l’architetto si serve per quell’edificio: Pantheon, San Marco a Venezia, archi onorari. L’esame delle fonti è preceduto da un paragrafo dedicato alla facciata di Sant’Andrea come avancorpo, necessario a chiarire cosa Alberti cercasse negli exempla in questione. Si tratta anche, quindi, di una riflessione su modi e significati dell’imitazione, e della ricezione. Archi Sulla facciata di Sant’Andrea a Mantova si incurva un arco monumentale. Osservando una fotografia eseguita – come spesso accade – a una certa altezza, ci si rende conto che la modanatura superiore dell’archivolto lambisce la prima fascia dell’architrave superiore. Se però il punto di vista si abbassa fino a coincidere con il margi- 9 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 3. Mantova, Sant’Andrea, facciata: modanature di una delle nicchie (foto A. Chemollo). 4. Mantova, Sant’Andrea, modanature di un arco all’interno (foto A. Chemollo). 5-6. Mantova, Sant’Andrea, facciata: archivolto (foto A. Chemollo). ne opposto della piccola piazza di fronte all’edificio, si assiste a un fenomeno singolare. L’arco, che sporge decisamente dal piano della facciata, dà l’impressione di insinuarsi sopra la trabeazione, arrivando a toccare la fascia centrale dell’architrave (ill. 1-2). Avvicinandosi alla facciata, l’impressione della sovrapposizione aumenta e l’arco si innalza sempre di più. Sembrerebbe ovvio liquidare la cosa come insignificante, dovuta al caso. Se non che una sovrapposizione – questa volta fisica – delle modanature si ripete nelle due nicchie in facciata, e, all’interno della chiesa, sopra gli archi delle cappelle maggiori1 (ill. 3-4). Si tratta di una soluzione, l’intersezione di arco e trabeazione, adottata raramente all’epoca e nell’architettura antica. Tuttavia, si può considerare concettualmente affine a motivi presenti in opere dei maestri fiorentini del primo Quattrocento e in altre architetture albertiane2. A distanza di pochi anni dall’avvio del cantiere mantovano, poi, un’eco immediata di quegli archi rimbalza nelle opere di Francesco di Giorgio Martini e Donato Bramante. È mia intenzione dimostrare che l’impressione prodotta dall’arco in facciata sia voluta, frutto di una scelta progettuale. Scelta che, per di più, si presenta come un paradosso. L’arco inquadrato dall’ordine – motivo all’antica per eccellenza, a rappresentare una duplice struttura intersecata –, invece di reggere la trabeazione dell’ordine maggiore, mostra di sovrapporsi a essa. Per quel che so, nella prima metà del secolo XV e nell’antico, sono rarissimi i casi in cui si produca un effetto del genere, anche in modo fortuito: arco e trabeazione superiore sono sempre ben distinti. Intendo, inoltre, sostenere che la comparsa di questa soluzione a Sant’Andrea sia riconducibile al progetto di Leon Battista Alberti. Per far ciò è necessario affrontare preliminarmente alcune questioni relative alla costruzione dell’edificio. 10 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 7. Mantova, Sant’Andrea, facciata: archivolto all’interno della loggia (foto A. Chemollo). Come si sa, i lavori iniziarono nel 1472 – subito dopo la demolizione della chiesa medievale – ma la basilica si può dire compiuta soltanto all’inizio del XIX secolo, con la chiusura di un cantiere che si è trascinato, con alterne vicende, per tre secoli e mezzo, e che ci ha consegnato l’edificio quale oggi lo conosciamo3. Quanto al completamento della facciata disponiamo del termine ante quem del 1488, data rinvenuta nell’imbotte del tondo affrescato al centro del timpano, mentre le cappelle sono concluse nel 14824. A questo tortuoso processo di edificazione è paragonabile la tormentata vicenda dell’interpretazione storiografica – che all’architettura si è sovrapposta, sostituendosi a essa – dal corso a sua volta ormai secolare. Poiché oggetto del contendere è principalmente la ricostruzione del progetto di Alberti, e secondariamente la questione della fedeltà a quel progetto di quanto realizzato – la morte di Alberti risale all’aprile 1472, due mesi prima del- l’avvio della costruzione – è necessaria la più grande cautela nell’analisi di un’anomalia formale come quella cui si è fatto cenno. Non c’è dubbio che il conduttore del cantiere in questa prima campagna di lavori, Luca Fancelli, sia pienamente a giorno delle intenzioni albertiane, e della sua concezione dell’architettura, disponendo del modello ligneo approntato per la fabbrica di Sant’Andrea, avendo avviato da tempo la costruzione del San Sebastiano, e potendo accedere ai progetti di Leon Battista per altri edifici mantovani5. Fancelli, poi, ebbe certamente occasione di parlare a più riprese direttamente con Alberti, anche a Roma6. Inoltre dobbiamo tener conto che Fancelli non solo è nella condizione di condurre fedelmente le fabbriche a lui affidate: è tenuto a farlo. Dai documenti, infatti, risulta evidente la volontà da parte dei Gonzaga di fare rispettare le intenzioni albertiane, almeno fino al 1478, anno della morte di Ludovico, ma con ogni probabilità anche in seguito. Per i signori di Mantova è indubbio motivo di prestigio poter contare sui servigi di quello che viene riconosciuto come il più grande architetto del tempo7. Considerazione che vale soprattutto per Sant’Andrea, fulcro politico e monumentale delle trasformazioni avviate da Ludovico. Il quale, significativamente, esercitò un controllo strettissimo sulla fabbrica della basilica, intervenendo di persona in diverse occasioni8. È dunque molto probabile che quanto costruito nel corso del XV secolo risponda al progetto albertiano. Alcuni studiosi, però, sono convinti che solo lo schema della facciata sia attribuibile a Leon Battista, preferendo assegnare i dettagli della decorazione agli esecutori9. Si tratta di dubbi fondati, dal momento che alcune fra le testimonianze superstiti relative a cantieri albertiani – la serie di lettere che riguardano la costruzione del Tempio Malatestiano – attestano la presenza a Rimini di un modello ligneo complesso, e l’invio successivo, mentre la campagna di lavori era in corso, di disegni per la facciata e per i capitelli10. Quanto a Sant’Andrea, in assenza di fonti documentarie, non è facile individuare elementi utili a un’attribuzione in un senso o nell’altro. In alcuni casi, però, non impossibile. Soluzioni di dettaglio, come ad esempio quelle per i capitelli delle paraste minori e per l’archivolto, sembrano più disponibili all’interpretazione. Mi sono occupato di recente dei capitelli, proponendone l’attribuzione ad Alberti11, veniamo dunque all’archivolto (ill. 5). Composto da tre fasce inferiori, intervallate da fusarole, e sovrastate da ovoli, da una modanatura liscia di sezione semicircolare – una sorta di toro che si può ipotizzare in origine dipinto con una decorazione a ghirlanda, sul modello di esempi fio- 11 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 8. Firenze, Santa Maria Novella, facciata: paraste del portale, capitelli (foto A. Chemollo). 9. Firenze, Santa Maria Novella, facciata: paraste del portale, basi (foto A. Chemollo). 10. Facciata di Santa Maria Novella a Firenze, paraste del portale (rilievo e restituzione di A. Bixio e A. Conte). rentini e antichi – e da una serie di modanature intagliate concluse da un’altra ghiera a ovoli. Ghiera con la quale l’archivolto risulterebbe concluso in conformità all’architrave sottostante, configurando un tipo non comune, ma conosciuto a Firenze e con precedenti antichi. Se non che una sorta di gocciolatoio sormontato da gola – elemento assolutamente inusuale, senza riscontri anche nell’antico – avvolge l’intero arco. In sostanza, lungi dall’essere un accidente, la terminazione dell’arco è stata pensata proprio come elemento aggiunto, per realizzare l’effetto di sovrapposizione. Procedimento reso del tutto esplicito dalla posizione del raffinatissimo modiglione assiale, contenuto entro il semicerchio della modanatura superiore che, in tal modo, di fatto nega alla chiave d’arco la sua funzione12 (ill. 6). Per di più Alberti stesso ci fornisce un immediato termine di paragone (ill. 7): all’interno della loggia, alle spalle dell’arco di facciata, gli archivolti presentano appunto la tradizionale soluzione con terminazione a ovoli, e il modiglione centrale sostiene l’architrave superiore con una sorta di abaco13. Dunque, non solo la sovrapposizione non ha precedenti quattrocenteschi, ma viene attuata grazie a una combinazione di forme a sua volta unica, per sottolineare l’eccezionalità dell’invenzione. L’invenzione, inoltre – secondo un procedimento tipico dell’architettura di Alberti – comporta la consapevole infrazione ai praecepta stabiliti nel De re aedificatoria, in questo caso relativi agli archi di trionfo. In luogo di un archivolto 12 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 11. Herman Vischer, Facciata di Sant’Andrea, disegno, 1515 (Paris, Louvre, Cabinet des Dessins, 19035). 12. Avancorpo di Sant’Andrea, disegno (da H. Saalman, L. Volpi Ghirardini, A. Law, Recent Excavations under the Ombrellone of Sant’Andrea in Mantua: Preliminary Report, in “Journal of the Society of Architectural Historians”, LI, December 1992, p. 359). all’antica, di proporzioni oscillanti fra un dodicesimo e un decimo dell’ampiezza dell’arco, troviamo un rapporto di 1:7, che pare tolto di peso dalla facciata di una cattedrale romanica. Al posto del dispositivo che prevede – come in un congegno ben oliato – l’allineamento del sommoscapo delle colonne inquadranti con il punto sommitale dell’intradosso dell’arco (archi di Settimio Severo e di Costantino a Roma, e di Augusto a Rimini), ci imbattiamo in una quota ben più alta per l’arco, anche rispetto alle altre architetture albertiane14. È chiaro che il sistema di scarti rispetto alla regola va considerato un corollario della ricerca dell’effetto di sovrapposizione fra membrature, ma anche un modo ulteriore di esplicitarlo. Nell’insieme, dunque, mi pare che un procedimento di questa raffinatezza non solo mostri l’esistenza di una precisa intenzione formale, ma parli anche a favore di Alberti. Tant’è che quando Fancelli si attiene alla soluzione dell’archivolto, lo fa semplificando. A lui, infatti, è probabilmente attribuibile la ripresa – nella cappella maggiore di San Francesco a Mantova, la cui costruzione inizia nel 1487 – delle modanature dell’archivolto di Sant’Andrea, e della sovrapposizione di due dei quattro archi sotto la cupola alla trabeazione superiore15. Se l’ipotesi che stiamo avanzando è credibile, ci troviamo di fronte a una soluzione illusionistica: l’arco è stato disegnato in modo da dare l’impressione – da un punto di vista privilegiato, ma comunque non fisso – di coprire la parte inferiore dell’architrave16. Alberti ha inteso consapevolmente subordinare alcune forme architettoniche all’occhio dello spettatore, ingannandolo. È necessario, in primo luogo, verificare se, nell’opera albertiana, sia possibile trovare riscontri, a conferma di questo procedimento. L’illusione e l’occhio dello spettatore Innanzi tutto, Alberti è in buona compagnia. La deformazione ottica – che sia una compensazione o abbia funzione illusionistica – assume un ruolo costitutivo nell’opera di Donatello, uno degli artisti che Leon Battista più ammira e cui più è vicino17. Ma correzioni ottiche sono ripetutamente previste già nel testo del De architectura vitruviano18. E attenzione specifica alla visione è testimoniata negli edifici antichi, nei quali quelle correzioni vengono applicate. Un esempio per tutti: nel Pantheon – architettura cui Alberti riserva uno studio molto attento – la trabeazione del pronao è incurvata verso il basso, e il fusto della colonna angolare risulta di dimensioni maggiori rispetto agli altri. Altra 13 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 13. Mantova, Sant’Andrea, avancorpo: nicchione sotto l’ombrellone (foto A. Chemollo). soluzione, nell’edificio di età adrianea, che non avrà mancato di attirare l’attenzione di Leon Battista è la variazione della dimensione dei lacunari della cupola, ma anche, e soprattutto, dei riquadri al loro interno, deformati assecondando la curvatura della superficie della volta. Questo insieme di pratiche complesse e di specifiche soluzioni trova puntuale riscontro nel testo del De re aedificatoria, che contiene diversi passi nei quali Alberti esprime il suo interesse per il modo in cui l’architettura viene osservata, e per le soluzioni di conseguenza adottabili. In particolare per le deformazioni: trabeazioni inclinate, ritocchi al fusto delle colonne e al numero delle scanalature, innalzamento del profilo delle volte19. Esistono, poi, precedenti pittorici dello specifico motivo dell’arco sovrapposto alla trabeazione – nell’Annunciazione di Filippo Lippi nel duomo di Spoleto, o in edifici di fantasia disegnati da Jacopo Bellini – dove la sovrapposizione serve ad accentuare l’impressione dello scorcio dal basso, che possono aver dato da pensare a Leon Battista20. Tuttavia, ciò che più interessa è la presenza nell’opera albertiana di una soluzione paragonabile a quella di Sant’Andrea. Soluzione che ha carattere di assoluta eccezionalità nel panorama dell’architettura quattrocentesca, che è passata inosservata, e il cui fine non è correggere la visione – come nei passi del De re aedificatoria, in buona parte di derivazione vitruviana – ma produrre un’illusione. Incastonato al centro della facciata della basilica fiorentina di Santa Maria Novella, il portale maggiore occupa uno spazio definito da un arco, retto da paraste scanalate e inquadrato da colonne lisce e allungate. La parasta riveste lo spigolo del breve atrio di accesso e raddoppia nello spessore murario, dando luogo a una soluzione che rimanda al Pantheon. Se si osservano basi e capitelli accostati, ci si rende conto che nella seconda parasta le dimensioni di questi elementi sono maggiori. La base è più alta di quella antistante, mentre il capitello scende più in basso. In entrambi i casi si tratta di differenze chiaramente visibili, di alcuni centimetri, che determinano un consistente accorciamento del fusto della parasta. Da notare che anche gli apici dei rudenti si trovano a quote diverse, più alti nella seconda parasta, mentre gli apici delle scanalature, al contrario, sono più bassi nel fusto retrostante. In sostanza, Alberti ci offre una combinazione di elementi architettonici deformati, prevedendo un punto di vista frontale collocabile all’incirca a una decina di metri di distanza. Da questa posizione si percepisce con chiarezza lo scarto delle linee orizzontali, che sembra conferire maggiore profondità all’atrio (ill. 8-10). L’artificio albertiano – pittorico ma anche partecipe delle anamorfosi donatelliane, essendo realizzato con oggetti disposti nello spazio – è costruito in modo del tutto empirico, per conseguire un risultato visivo. Ma anche per essere scoperto: è collocato sul portale principale della basilica, e la visione laterale lo rivela immediatamente. È noto che il progetto per la facciata di Santa Maria Novella dovette sottostare a vincoli precisi e rispettare l’edificio esistente, in particolare conservare gli avelli alla base della facciata21. Per questo motivo, probabilmente, Alberti – non potendo giocare su effetti di profondità come 14 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org ria della redazione volgare del De pictura23. Leon Battista, infatti, riprende i principali elementi architettonici della Trinità – vera e propria opera inaugurale per l’uso della prospettiva nel XV secolo – che si trova oltre il portale all’interno della basilica. Restituisce all’antica lacunari e arco inquadrato, mettendo a paragone – secondo una prassi che gli è propria – architetture di epoche diverse. La soluzione del portale di Santa Maria Novella non trova riscontri nell’architettura del tempo, rimane – a quel che so – un unicum. Sembra dunque difficile attribuirla ad altri se non ad Alberti, ottenendo un’ulteriore conferma all’ipotesi sugli archi mantovani24. A questo punto il discorso può procedere in due direzioni distinte: mettere a confronto la soluzione del Sant’Andrea con forme presenti in tutte le opere architettoniche di Alberti, tentando un’interpretazione in rapporto alla sua concezione dell’architettura, e soprattutto dell’ornamento; oppure rintracciare i possibili modelli di quella soluzione, saggiando l’uso complesso delle fonti che Alberti mette in atto nelle sue architetture. Seguiremo questo secondo percorso, dopo qualche cenno sulla prassi albertiana dell’imitazione, che ci chiarisca in che direzione, e in che modo, cercare. 14. Sezione dell’avancorpo di Sant’Andrea a Mantova (rilievo e restituzione di L. Volpi Ghirardini e M. Nascig). nelle altre facciate di chiesa da lui progettate – scelse una soluzione che consente di superare con un virtuosismo le difficoltà, e allo stesso tempo di sottolinearle22. Ma è possibile che questa scelta sia leggibile anche come una sorta di omaggio a un artista, Masaccio, collocato fra i grandi maestri fiorentini nella lettera dedicato- Imitazione Nulla più della pedissequa imitazione è lontano dalla mentalità di Leon Battista. L’interposizione di una distanza – l’uso della filologia applicato all’architettura – è condizione della conoscenza per Alberti. Il De re aedificatoria – soprattutto i libri dal VI al IX – può essere letto come un monumentale esercizio di straniamento25. È al livello della cognitio atque ratiocinatio che il libro si colloca, istituendo – dove prima non esisteva che un paesaggio di rovine e un “guazzabuglio medievale” – l’architettura come ars26. Se la res aedificatoria è frutto dell’invenzione di una tradizione, non costituisce, tuttavia, un sistema ipostatizzato. Il trattato è attraversato dall’idea di un continuo rivolgimento, di una metamorfosi continua. Il che implica la necessità della novità. La novità è necessaria alla tradizione come la tradizione alla novità27. Che non solo viene praticata da Leon Battista – talvolta facendo ricorso a modelli eccentrici – ma viene introdotta in passaggi decisivi, là dove l’architettura deve parlare. Lo scarto non è solo una scelta formale, ma talvolta introduce significati. L’imitazione, dunque, non può che collocarsi nello spazio fra conoscenza e novità. Un’altra opera di Leon Battista, i Profugiorum ab aerumna libri, ci fornisce una conferma e qualche ulteriore motivo di riflessione. Nel III libro, descrivendo il procedimento di costruzione di un testo letterario, Alberti si serve di un’immagine presa in prestito dall’architettura: 15 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org Alberti. E si alimenta dello studio attento di edifici non solo antichi, ma di ogni epoca storica30. La costante affermazione di principi “naturali” – concinnitas – che fungono da cornice, non è antitetica allo sperimentalismo, alla variazione ripetuta e insistentemente perseguita, che risponde a un’idea dell’arte come artificio31. Come si applicano queste considerazioni alla lettura del Sant’Andrea? La celebre interpretazione avanzata da Rudolf Wittkower sulla facciata come intersezione di due grandi temi formali, tempio e arco di trionfo, va assunta come punto di partenza32. Prima di entrare nel vivo dell’argomento, però, è necessario un altro passaggio: si tratta di chiarire, per quanto possibile, la funzione dell’avancorpo progettato da Alberti. 15. Disegno per la controfacciata di Santa Maria presso San Satiro a Milano, 1487-90 c (da R. Schofield, A Drawing for S. Maria presso S. Satiro, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XXXIX, 1976). 16. Brescia, Beata Vergine dei Miracoli, controfacciata (foto Brogiolo). il mosaico pavimentale. Un testo – come un’architettura, suggerisce Leon Battista – è il risultato dell’accostamento di frammenti ripresi qua e là, da fonti diverse, ma composti secondo un ordine e una forma che conferiscono loro nuovo significato. L’enfasi sulla coerenza del risultato e sulla sua novità risultano particolarmente importanti: “qual compreendesti faccenda da niuno de’ buoni antiqui prima attinta”28. Come ci ha insegnato Cecil Grayson, l’originalità è uno dei valori che Alberti persegue più coerentemente anche nella sua opera letteraria. Il passo dei Profugia – facendo ricorso a un topos della letteratura umanistica – ci consegna una riflessione sull’imitazione in grado di suggerire un approccio all’opera architettonica di Leon Battista da considerare con attenzione29. Questa idea dell’imitazione contempla l’uso sistematico del montaggio e della variazione, secondo la prassi degli umanisti, ma anche degli artisti fiorentini del primo Quattrocento più congeniali ad L’avancorpo e la reliquia del Sangue di Cristo Uno degli esiti di maggiore rilievo raggiunto negli ultimi anni dalla ricerca sull’architettura albertiana è senza dubbio il resoconto degli scavi effettuati da Howard Saalman e Livio Volpi Ghirardini sotto la volta dell’ombrellone della basilica mantovana33. Da Paolo Pozzo in poi la grande volta sommitale è stata in genere considerata un elemento di disturbo alla classica sobrietà della facciata, aggiunto in un momento imprecisato della storia dell’edificio. Con la conseguente proposta di eliminarlo, fisicamente o metaforicamente, dalla vista. Fino a quando è riemerso dagli archivi il disegno di Hermann Vischer (ill. 11). La presenza dell’ombrellone nel foglio dei primi del Cinquecento ha di fatto risolto la questione dell’appartenenza della struttura alla fabbrica quattrocentesca, aprendo quella del suo significato. Contemporaneamente alla pubblicazione del disegno, Erich Hubala ha avanzato l’ipotesi che la grande volta vada considerata una struttura pensata ab origine per proteggere la finestra alla sommità della controfacciata, finestra che mette in comunicazione lo spazio coperto dall’ombrellone con la navata34. La proposta non è del tutto convincente, data l’importanza della volta nell’economia della facciata. Difficilmente possiamo considerare l’ombrellone elemento puramente funzionale, dal momento che, sia che si osservi l’edificio da vicino, che da lontano, questo assume chiaramente il significato di grande segnale architettonico. Significato enfatizzato dall’intenzionale riduzione dell’altezza del timpano sottostante, realizzata – ancora una volta – discostandosi dai precetti del De re aedificatoria35. Inoltre, è opportuno tener presente che la facciata di Sant’Andrea non è solo uno schermo architettonico, ma una sorta di edificio indipendente, un avancorpo – vera e propria macchina architettonica, la cui profondità corrisponde a quella della loggia inferiore – che si addossa al corpo della basilica. Un definitivo chiarimento è giunto grazie 16 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 17. Francesco Piranesi, Pantheon, sezione sul corpo intermedio (da F. Piranesi, Raccolta de’ tempi antichi, II, Roma 1790). 18. Anonimo, Arco a due fornici con Colosseo e Pantheon, disegno, entro il primo decennio del XVI secolo (Paris, Louvre, Cabinet des Dessins, 1409DR). alla campagna di scavi, effettuata nei primi anni Novanta. Nella zona sotto l’ombrellone – liberata dai materiali di riporto che la ingombravano – sono emersi ambienti di grande interesse. Si trovano nello spazio delimitato in un senso da facciata e controfacciata, nell’altro dai muri che reggono la volta dell’ombrellone a una quota immediatamente superiore alla volta di ingresso alla chiesa. Si tratta di una stanza posta a ridosso della facciata – con volta a botte a essa parallela – e di un corridoio antistante che distribuisce altri ambienti. Il tutto accessibile da una rampa di scale (ill. 12). Anche se il funzionamento dell’ insieme di ambienti non è del tutto chiaro, questa parte sepolta dell’edificio, con le altre stanze contenute all’interno della facciata e alle scale a doppia rampa che ne consentono l’accesso, sono state messe in relazione con lo svolgimento delle cerimonie connesse al culto della reliquia del Preziosissimo Sangue di Cristo, custodita da secoli nella chiesa di Sant’Andrea. Nel vano a ridosso della facciata è stata individuata la cripta in cui la reliquia era ospitata, in occasioni specifiche, mentre gli altri sono considerati ambienti di servizio36. In particolare, lo spazio sotto l’ombrellone era utilizzato per le ostensioni della reliquia, che molto probabilmente avvenivano verso l’interno della chiesa, come testimonia una celebre lettera indirizzata da Alberti a Ludovico Gonzaga37. Altre fonti a sostegno di questa ipotesi sono i documenti che, nel corso del Quattrocento, fanno riferimento a un podio all’interno della chiesa precedente – sostituita da quella albertiana – da cui la reliquia veniva mostrata ai fedeli. Dal momento che la struttura si trovava a ridosso della facciata, l’avancorpo albertiano sembra assumerne la funzione, conferendole forma architettonica complessa38. L’ostensione doveva avvenire tramite la finestra – probabilmente centinata, in origine – aperta nel lunettone di controfacciata sopra la trabeazione39. La cui cornice – resa profonda dall’accentuato, quanto anomalo, risalto delle paraste – consentiva forse all’officiante di affacciarsi verso i fedeli. E verso la finestra è rivolto il nicchione – struttura straordinariamente monumentale, dalla funzione non del tutto chiara – che, se la nostra ipotesi regge, potremmo identificare con un’abside (ill. 13). Abside che si trova sopra l’ambiente della cripta: un altare sul pavimento – ma non abbiamo alcun riscontro che ne confermi la presenza – darebbe luogo a una sistemazione che ricorda da vicino quella dei martyria paleocristiani40 (ill. 14). È possibile, tuttavia, che la macchina messa a punto da Alberti sia rimasta inutilizzata. In un’opera scritta probabilmente all’inizio del XVI secolo, il carmelitano Pietro da Novellara lamenta la decadenza del culto per il santo san- gue di Mantova, quasi scomparsa dopo anni di straordinarie manifestazioni di devozione, quando, per il concorso dei pellegrini “parevassi essere ad Roma al tempo del iubileo”41. Come è stato notato di recente, è probabile che questo calo di interesse per la reliquia abbia – al pari della fioritura quattrocentesca del culto – motivazioni soprattutto politiche: a quanto pare, nel primo Cinquecento, Francesco II e Federico sembrano meno propensi dei loro predecessori ad associare l’immagine della famiglia al sangue di Cristo42. Questo mutamento si verifica in un periodo in cui la prima campagna di costruzione di Sant’Andrea è appena conclusa. Viene il sospetto che lo stato di abbandono dell’apparato albertiano per l’ostensione della reliquia sia intervenuto precocemente, e che il cantiere non sia stato portato a termine. Quando abbiamo nuovamente notizia di una cerimonia cui partecipi la famiglia ducale, nel 1533 – significativamente i lavori di costruzione sono interrotti dagli anni Novanta del Quattrocento al 1530 – il documento menziona un poggio all’interno della chiesa, sul quale vengono offerti doni a Federico da parte delle corporazioni, per una libagione seguita dall’ostensione del sangue43. Possiamo escludere che si tratti del piano supe- 17 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 19. Cassone nuziale di Paola Gonzaga, anni Settanta del XV secolo, dettaglio (da R. Milesi, Mantegna und die Reliefs der Brauttruhen Paola Gonzagas, Klagenfurt 1975). riore dell’avancorpo. Piuttosto, una struttura del tipo di quella progettata nel 1591 da Pompeo Pedemonte alla conclusione della navata. A quella data, con ogni probabilità, della funzione dell’avancorpo si era già persa memoria44. Ciò non toglie che la soluzione albertiana non vanti almeno un precedente quattrocentesco – certamente noto ad Alberti – la controfacciata del duomo di Prato, dove, sopra il portale si apre una finestra per l’ostensione del Sacro Cingolo all’interno della chiesa45. Ma anche un paio di derivazioni in ambito lombardo, a Santa Maria presso San Satiro a Milano e nella Beata Vergine dei Miracoli a Brescia (ill. 15-16). Questo secondo caso è tanto più interessante perché congruente rispetto a Sant’Andrea anche per la funzione della tribuna in facciata: l’ostensione dell’immagine miracolosa46. Se dunque l’avancorpo della basilica mantovana ingloba il podio, in uso nella chiesa medievale precedente, l’ombrellone ne segnala la presenza, coronando lo spazio reliquiario come un grande baldacchino. Fonti. 1. Il Pantheon e Bernardo Rucellai Questa messa a fuoco del funzionamento della facciata della basilica mantovana ci consente di avviare la ricognizione delle sue fonti principali. Ricognizione che conduce, in primo luogo, alla fronte di tempio. L’uso della fronte di tempio come grande tema formale che organizza la facciata è chiarissimo, preceduto dal ricorrere dello stesso tema sulle facciate di Santa Maria Novella e del duomo di Pienza. Da qualche tempo, tuttavia, le ipotesi si sono affinate, individuando nel Pantheon uno dei punti di riferimento privilegiati per il progetto mantovano47. Il Pantheon è l’edificio antico per eccellenza, unico a essersi interamente conservato perché cristianizzato, quindi templum ma anche chiesa di Santa Maria ad Martyres48. In esso troviamo un elemento direttamente confrontabile con il tipo di facciata che Alberti aveva in mente, il corpo intermedio che connette l’imponente invaso sormontato dalla cupola al pronao. Al suo interno si dispongono su due piani ambienti voltati a botte, raggiungibili tramite rampe di scale laterali (ill. 17). Non solo. Frontalmente, la parete del corpo intermedio è scavata dall’atrio di accesso, voltato a botte con cassettoni, e da due nicchioni laterali. Paraste scanalate sono disposte in corrispondenza delle colonne del pronao. Nella zona sommitale si disegna un timpano murario, che ripete le forme di quello del pronao, con il quale si interseca. Se eliminassimo il pronao, ci troveremmo di fronte ad alcuni dei principali elementi formali della facciata di Sant’Andrea: tripartizione, paraste – comprese quelle che si incastrano nelle parete a fianco del portale – timpano. Come è noto, l’idea che il pronao sia separato dal resto dell’edificio risale ai primi del Cinquecento: l’accostamento fra le componenti dell’architettura, in particolare cella rotonda e loggia antistante, era comunemente giudicato frutto di campagne costruttive distinte, attribuibili ad architetti diversi. Ai problemi di interpretazione contribuì la tormentata vicenda del Pantheon, che vede susseguirsi nel tempo tre edifici distinti. Al primo realizzato da Agrippa in età augustea, succede la versione domizianea, a sua volta sostituita dall’edificio giunto fino a noi, costruito all’inizio del II secolo d.C. per iniziativa di Adriano. Le poche fonti antiche conosciute – soprattutto passi dalla Naturalis Historia di Plinio 18 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org e dalla Storia romana di Cassio Dione – messe a confronto con l’evidenza fisica dell’edificio, in mancanza di una cronologia attendibile, aumentarono, se possibile, le difficoltà. Solo in seguito a prospezioni archeologiche, alla fine del XIX secolo, si giunse alla conclusione che l’edificio sia realizzato in modo unitario. Mentre, prima che si sbrogliasse la matassa, ci si arrabattava per far largo agli interventi di epoca augustea, descritti da Plinio, nell’edificio adrianeo49. E Alberti? È possibile che l’interpretazione dell’edificio come insieme di parti separate risalga a qualche decennio prima di quanto si pensi, e che abbia avuto un peso nel progetto per Sant’Andrea50? Non mi pare ci siano riscontri in tal senso nelle opere letterarie albertiane. Disponiamo però di una fonte in grado di offrire qualche indizio al riguardo: il De urbe Roma di Bernardo Rucellai. Figlio di Giovanni di Paolo, committente fiorentino di Alberti, Bernardo è figura di rilievo della Firenze del secondo Quattrocento e del primo Cinquecento. Cognato di Lorenzo de’ Medici, con Lorenzo condivide interessi e passioni. Da una lettera scritta da Bernardo nel 1474, sappiamo della loro attività di giovani architetti dilettanti51. E sappiamo della collezione di pezzi antichi, in parte collocati nel suo giardino, quegli Orti Oricellari alla cui costruzione Bernardo partecipò in prima persona52. Altra passione condivisa con Lorenzo è quella, che qui ci interessa da vicino, per l’opera di Alberti53. Nel De urbe Roma si fa più volte riferimento agli scritti e alle architetture di Leon Battista, giudicato “sane architecturae peritissimus, ut eius scripta indicant, et qui in prosequendis antiquitatum monumentis huius aevi omnes facile superavit”54. Non solo. Dallo stesso testo sappiamo di una celebre visita agli edifici antichi di Roma che Bernardo, Lorenzo e Donato Acciaiuoli fecero in compagnia di Alberti, nel 1471. In quella occasione, passeggiando attraverso le rovine delle terme e del Circo Massimo, Rucellai ebbe modo di conoscere di persona le opinioni dell’architetto e studioso di architettura antica più celebre del tempo, e iniziò a farsi un’idea del metodo di lavoro che avrebbe poi messo a frutto negli studi preliminari alla stesura del suo libro. Stesura che comincia forse già nel corso degli anni Novanta del Quattrocento e si conclude probabilmente entro il 150555. Ma veniamo al Pantheon. Sull’edificio si sono depositate, nel corso del Medioevo, storie e dicerie – ne sono testimonianza i Mirabilia Urbis – che ci parlano del grande fascino che emana da questa architettura. Non c’è dubbio che Bernardo, con il suo approccio da umanista, fosse immune da credenze di questo tipo. Tuttavia, il capitolo sul Pantheon del De urbe Roma si apre proprio sull’oculo, che tanto aveva impressionato i commentatori dei secoli precedenti. Oculo considerato dapprima parte integrante di un monumentale meccanismo di misurazione del tempo, foro di accesso della luce nel grande orologio solare che è la rotonda. Poi riferimento simbolico – forma traslata – all’impluvium del mito, attraverso il quale passano i due serpenti strangolati da Ercole in fasce. All’esterno dell’edificio, infatti, Rucellai colloca un culto di Ercole, mentre per il tempio riferisce di un’intitolazione a Giove Ultore. In entrambi i casi fa riferimento a passi corrotti del suo Plinio56. Il travisamento più affascinante – il Pantheon come orologio – si deve, invece, a un Vitruvio corrotto. In questo caso, la lettura del passo avrà ricordato a Bernardo la straordinaria suggestione esercitata dal grande fascio di luce che penetra dall’alto nell’invaso della rotonda, percorrendone le superfici57. È probabilmente l’inattendibile dedicazione a Giove Vendicatore a suggerire una ricostruzione dell’area antistante il Pantheon “in atrii speciem”, con una loggia perimetrale, corrispettivo evidente della sistemazione del tempio di Marte Ultore nel foro di Augusto. Magari con l’aiuto di una moneta di Alessandro Severo, nella quale davanti al pronao del tempio di Giove Ultore compare appunto un ampio loggiato perimetrale accessibile tramite un arco di trionfo58. La consacrazione a Giove ci permette anche di individuare un primo argomento comune a Bernardo e a Leon Battista, a proposito del Pantheon. Alberti, pur non nominando l’edificio antico, a esso fa riferimento in un passo del trattato: “Giove – dice Varrone –, poiché è all’origine di tutte le cose, esige un tempio col tetto perforato”. Passo da leggere insieme alla lettera a Matteo de’ Pasti del 1454, dove si trova un’ulteriore specificazione: “mai vederai fattovi occhio se non alle chupole in luogho della chericha; e questo si fa a certi tempii, a Iove, a Phebo, quali sono patroni della luce, et hanno certa ragione in la sua larghezza”59. La frase del De urbe Roma che ci interessa – e che riporta, come vedremo, un giudizio albertiano – si trova in un passo in cui l’edificio viene messo a confronto con il testo di Plinio. A proposito del pronao leggiamo: “quod nostri homines architecturae peritissimi contendunt, locum columnis praegrandibus frequentibusque ex Ilya insula ornatum, quem vulgo dicunt porticum pronaon fuisse templi vestibulum, ita reliquo operi coniunctum, ut separari nequeat, agnatumque una simul cum aede videatur”60. Agnatus, nell’ultima parte dell’inciso finale, pone un problema di interpretazione di non poco conto: potrebbe designare grado di parentela stretto – che per metafora significhi prossimità, unione – ma anche figlio nato dopo il primo. Nel qual caso, la metafora indicherebbe una successione 19 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 20. Pantheon, fronte e sezione del corpo intermedio (da K. De Fine Licht, The Rotunda in Rome. A Study of Hadrian’s Pantheon, Copenhagen, 1968, p. 67). temporale: “benché successivo”. Entrambi i significati sono attestati nel lessico giuridico antico, per passare poi all’uso comune. Non è facile dirimere la questione sulla base del solo contesto61. Ma c’è un’altra considerazione da fare, indipendentemente dal significato del singolo termine: questo inciso sembra alludere proprio all’interpretazione dell’edificio scisso in parti distinte. L’insistenza sull’unità (una simul cum), apparente (videatur), non è leggibile altrimenti. Ma proprio il verbo conclusivo introduce una torsione del giudizio che non si trova in altri testi cinquecenteschi: i due elementi sono accostati in modo da apparire uniti, forse anche si intende che vadano visti, guardati, come un tutt’uno. E – caso raro, se non unico – sull’unione ottenuta il giudizio implicito è di apprezzamento. Mi pare che si possano cogliere assonanze evidenti con quanto abbiamo detto a proposito della prassi architettonica, ma anche della concezione dell’architettura, di Leon Battista. Elementi separati producono un’unità, come tessere differenti di un mosaico, unità fondata sulla visione. Sembra proprio che Rucellai parli per bocca di Alberti. È indubbio, per di più, che il richiamo all’autorità e al giudizio dei “nostri homines architecturae peritissimi”, a lui, o quantomeno anche a lui, faccia riferimento62 (ill. 18). Altro indizio a favore dell’ipotesi che Alberti sia a conoscenza dell’opinione sul Pantheon lo fornisce un’immagine. L’immagine di una facciata di tempio su un cassone nuziale di Paola Gonzaga (ill. 19). Eseguito negli anni Settanta del XV secolo, il cassone presenta una scena all’antica, in cui sullo sfondo del corteo imperiale, fra altri edifici antichizzanti, è visibile un tempio con corpo murario anteriore – nicchione centrale, paraste laterali, e doppio timpano (quello maggiore ne include uno più piccolo) – e grande cupola retrostante, ribassata e priva di lanterna. L’allusione al Pantheon mi sembra evidente, e si tratta di un Pantheon privo di pronao. A conferma che il riferimento all’ipotetica rotonda originaria circolasse a Mantova molto precocemente. Non solo. La datazione colloca il cassone subito dopo la firma del contratto matrimoniale, del 1476, escludendo ogni possibilità di un interessamento diretto da parte di Alberti. Tuttavia l’attribuzione alla bottega di Andrea Mantegna potrebbe richiamarlo in causa. Con ogni probabilità, infatti, Leon Battista conosceva il pittore di corte di Ludovico Gonzaga, e si può ritenere che con lui si intrattenesse sugli argomenti più diversi, e in particolare sulle antichità, di cui entrambi erano appassionati studiosi. Non possiamo escludere, quindi, che quell’edificio rappresenti una lontana eco di una conversazione sul Pantheon63. Del resto, che l’operazione di scomporre mentalmente il Pantheon corrisponda in pieno alla mentalità di Leon Battista, ce lo conferma un passo del De re aedificatoria, riguardante l’approccio agli edifici degni di considerazione, che prevede lo studio attento tramite il disegno, il rilievo, e la restituzione con modelli. Dopo di che: “si dovrà soprattutto ricercare in ogni elemento che cosa vi sia di prezioso e di ammirevole in virtù di un artificio meditato e nascosto o di qualche novità”64. Non è difficile immaginarsi il nostro esaminare la soluzione che mette a confronto i lacunari della cupola con l’attico e con il piano sottostante, soluzione che dà luogo all’allineamento verticale degli elementi soltanto sugli assi principali (sequenza di vuoti sovrapposti) o su quelli diagonali (costola fra lacunari in asse), lasciando a disassamenti casuali le altre file di lacunari65. O apprezzare la leggera piega sul paramento lapideo esterno proprio sopra la parasta che segna il passaggio dal corpo intermedio al pronao; annotare la rotazione della mensola, che, immediatamente sopra, unica si dispone a novanta gradi rispetto alle altre; e, infine, seguire il tracciato della modanatura che – alla stessa quota – si trasforma da ovolo della cornice dell’ordine maggiore all’interno, in elemento della mostra del portale, per poi, passata all’esterno, definire la linea su cui risaltano gli astragali dei capitelli delle paraste, e infine, abbandonato il pronao, perdersi sopra una delle cornici che cerchiano la rotonda. Esempio straordinario di metamorfosi delle forme, ma anche gioco raffinatissimo che lega interno ed esterno, pronao e rotonda. Per inciso, queste ultime soluzioni sembrano alludere, tutte, a una facciata muraria66. Se torniamo al problema della derivazione dell’avancorpo di Sant’Andrea dal Pantheon, otteniamo una conferma inaspettata. Come si è detto, una volta liberato l’edificio antico dal pronao, ci troviamo di fronte alla ipotetica facciata originaria, in cui si apre l’andito centrale con volta a botte. L’arco – proiezione della volta sulla facciata – interrompe le modanature, altrettanto ipotetiche, della trabeazione alla base 20 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 21. Baldassarre Peruzzi, Pantheon, sezione, disegno (Ferrara, Biblioteca Ariostea, Ms. Classe I, n. 217). 22. Marten van Heemskerck, Pantheon, disegno (da E. Filippi, Maarten van Heemskerk: inventio urbis, Milano 1990). del timpano (ill. 20), costituendo un preciso precedente antico per la soluzione adottata a Mantova. Del resto, l’interno del Pantheon forniva, un tempo, immediato riscontro della sovrapposizione dell’esterno: in corrispondenza del vano di accesso e dell’abside di fronte a esso, infatti, le paraste, che si affollavano sull’ampia curva dell’attico, erano tagliate dall’intrusione dei rispettivi archi. Rendersi conto della sovrapposizione non era poi così difficile, anche per un architetto dell’epoca: una sezione (ill. 21) come quella tracciata da Baldassarre Peruzzi consente agevolmente di rilevarla67. È probabile che Alberti pensasse a questo edificio immaginario come risalente all’età repubblicana. Secondo una successione cronologica che colloca la realizzazione del pronao da parte di Agrippa all’inizio del principato di Augusto – come attesta l’iscrizione sotto il timpano – ad arricchire l’edificio precedente. Grandi colonne vengono aggiunte a un’architettura quasi disadorna. Il che corrisponde alla celebre digressione storica all’inizio del VI libro del De re aedificatoria: l’architettura giunta a Roma dalla Grecia, in un primo periodo sobria e utilitaristica, diviene trionfale, sempre più ornata e rappresentativa nell’età dei Cesari. Non c’è bisogno di ricordare che principale ornamento dell’architettura, per Leon Battista, sia la colonna68. È chiaro, tuttavia, che la decisione di ricorrere a questo Pantheon primitivo per la facciata dell’edificio mantovano sia da mettere in relazione con le forme architettoniche: il corpo intermedio fornisce una soluzione efficace e contaminabile con altri modelli, rispondendo alle intenzioni albertiane. Tilmann Buddensieg ha osservato giustamente, citando la famosa lettera a Matteo de’ Pasti del 1454, che Leon Battista nutre un profondo rispetto per l’architettura del Pantheon, e che per questo motivo invece di sottoporla al vaglio di criteri astratti, se ne serve per giustificare soluzioni formali inusuali, non convenzionali69. Probabilmente è affascinato anche dall’idea del susseguirsi di interventi diversi, che non intacchino, però, l’unità dell’edificio. Idea che, infatti, dispiega in successione diacronica quanto Alberti considera un procedimento di sintesi, il procedimento stesso del pensare e disegnare l’architettura. Il Pantheon diviene allora non semplicemente una fonte, ma una sorta di paradigma della concezione albertiana dell’architettura. Leon Battista si mostra consapevole che l’edificio è soggetto alla legge del tempo, è immerso in un continuo processo di trasformazione70. Tanto che persino il campanile medievale, ben visibile all’epoca sopra il timpano antico (ill. 22), si può considerare diretto precedente per Sant’Andrea. Non solo per la somiglianza rispetto alla posizione dell’ombrellone71, ma perché la torre, come l’ombrellone, è l’elemento straniante che conferisce significato alla facciata. Nell’un caso esibendo il carattere cristiano dell’edificio – conseguito dopo la consacrazione e la cacciata degli idoli – nell’altro esplicitando la ragione stessa dell’edificio, la presenza della reliquia e il culto a essa connessa. Fonti. 2. San Marco Abbandonato il Pantheon, passiamo a occuparci di un’altra delle tessere che compongono il mosaico della facciata di Sant’Andrea. Una tessera veneziana. Alberti, per quel che sappiamo, trascorse la giovinezza fra Venezia e Padova. Ritornò in diverse occasioni nella città lagunare, avendo modo di studiarne a fondo l’architettura, e di Venezia troviamo menzione nelle sue opere letterarie72. Si interessò anche della basilica di San Marco, cui si fa riferimento in un passo del De re aedificatoria73. Passo confrontabile con un altro celebre locus albertiano che ci testimonia attenzione e apprezzamento nei confronti di edifici medievali74. Del resto, sono proprio le 21 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 23. Venezia, San Marco, facciata. 24. Sezioni di San Marco a Venezia (da L’augusta ducale basilica dell’evangelista San Marco nell’inclita dominante di Venezia, Venezia 1761, tavv. VI-VIII). 25. Sezione di San Marco a Venezia (da L’augusta ducale basilica…, cit., tav. X). opere architettoniche di Alberti a confermarci un preciso interesse per l’architettura medievale, che viene presa a modello nelle architetture per i Rucellai a Firenze, e nel progetto per il Tempio Malatestiano a Rimini tramandatoci dalla medaglia di Matteo de’ Pasti. Progetto nel quale, appunto, Leon Battista sembra fare riferimento, nel coronamento curvilineo della facciata, anche a San Marco75. Non ci sorprenderà, quindi, che, per Sant’Andrea, Alberti guardi di nuovo alla basilica marciana. È stato giustamente notato che il sistema strutturale e l’impianto di Sant’Andrea, e in particolare l’alternanza delle cappelle – con conseguente svuotamento dei pilastri – risulta largamente debitore della soluzione marciana a pilastri cavi tetrapili, con volte a calotta, alternati alle grandi volte a botte laterali76. Anche in facciata, però, il debito è consistente. San Marco fornisce a Leon Battista un precedente preciso di edificio a pianta basilicale con nartece a due piani, nel secondo dei quali si trova una serie di ambienti voltati. Non solo. Al centro della facciata, l’arco principale è sormontato da un secondo arco, quello della grande finestra (ill. 23). Come si vede, la vicinanza ad alcune delle soluzioni che maggiormente caratterizzano la facciata di Sant’Andrea è notevole. Ma osserviamo più da vicino il meccanismo di funzionamento della facciata veneziana. La parte del nartece corrispondente al corpo della chiesa è composta da tre campate connesse da arconi trasversali. Le campate laterali sono sormontate da volte a calotta, quella centrale da un grosso foro, tradizionalmente denominato pozzo, che connette il nartece all’ambiente superiore. Il centro del nartece, quindi, si configura come una campata maggiore – in cui si apre l’esedra di accesso alla navata – affiancata da due arconi archiacuti che, in quella posizione, si allungano assumendo la forma di una sorta di volta a botte (ill. 24). Esattamente lo schema della loggia di Sant’Andrea, fatta salva una differente gerarchia delle campate e una diversa disposizione degli accessi77. Al piano superiore, quattro ambienti si dispongono ai lati del grande vano centrale, coperto da una volta a botte che prolunga fino all’arco del finestrone le volte della navata maggiore. È uno spazio che si apre anche verso la navata centrale, in forma di alto podio. Il fatto che, da un lato, si affacci sull’interno della basilica e, dall’altro, si proietti in facciata ne fa un precedente diretto dell’ombrellone mantovano (ill. 25). Inoltre, è probabile che Alberti sia interessato a un altro aspetto dell’architettura di San Marco: l’esplicita valenza trionfale della facciata, determinata dagli archi, e soprattutto dalla presenza del celebre gruppo di cavalli bronzei. Le fonti quattrocentesche non si pronunciano in modo univoco sul significato e sulla provenienza della quadriga78, tuttavia non è certo difficile per Alberti associare il gruppo sull’arco marciano a un trionfo romano. Il testo del De re aedificatoria – nell’estesa trattazione dedicata agli archi trionfali – cita appunto la quadriga fra le decorazioni ricorrenti sopra l’attico, e sull’argomento Leon Battista dispone di fonti antiche di diverso genere, letterarie e iconografiche, oltre, 22 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 26. Venezia, San Marco, facciata: campata centrale. ovviamente, alla cospicua produzione pittorica e scultorea a lui contemporanea79. Così come possiamo ritenere sia in grado di cogliere la valenza politica dell’apparato della facciata, testimoniata da fonti diverse che ci parlano – in modo più o meno esplicito – dell’identificazione della figura del doge, dominator quartae et dimidiae partis totius Romaniae, con il potere imperiale80. E, infine, è senz’altro consapevole della tradizione che indica nell’Apostoleion a Costantinopoli, edificio di fondazione imperiale, il modello di San Marco. Tradizione che, grazie alla conoscenza dei testi di Eusebio e Procopio, era in grado di mettere a confronto con descrizioni antiche dell’edificio costantinopolitano81. La connotazione trionfale della facciata di San Marco fornisce dunque ad Alberti un precedente diretto per l’uso dell’arco antico sulla fronte di una basilica cristiana, e gli consente di valutare diverse declinazioni della forma, in epoche differenti. Una sorta di cortocircuito temporale, se si considera la presenza a San Marco di un gruppo di reliquie di Costantino il Grande, strumenti della vittoria imperiale cristiana82, e si tiene conto dell’iscrizione dedicatoria che sull’arco di Costantino a Roma attribuisce la vittoria su Massenzio a una “ispirazione divina”. Parlando dall’alto di uno dei grandi edifici trionfali dell’antichità, l’iscrizione autorizza a considerare quello stesso arco, e per associazione ogni arco trionfale, come simbolo della vittoria della croce sul paganesimo, e del trionfo di Cristo sulla morte83. Non a caso, la presenza delle reliquie costantiniane a San Marco è stata messa in relazione con il progetto di crociata contro il Turco, che viene avviato dal 1459 in seguito alla caduta di Costantinopoli. Negli anni successivi la basilica marciana diventa, a Venezia, centro simbolico dell’idea di crociata84. Quanto a Mantova, come sappiamo, Ludovico Gonzaga poteva gloriarsi di aver ospitato la dieta convocata da Pio II con l’intenzione di chiamare a raccolta i principi cristiani contro gli ottomani85. La relazione fra Sant’Andrea – edificio reliquiario, con il quale Ludovico riafferma con forza il ruolo ideale dei Gonzaga come custodi del sangue – e San Marco sembra affondare le radici in questo sostrato di eventi e simboli. Quanto meno per il committente, cui Alberti non avrà mancato di illustrare i molteplici legami della chiesa veneziana con gli imperatori cristiani e Costantinopoli, tanto più che la basilica veneziana – ormai perduto, per la cristianità, il suo prototipo greco, dopo la caduta della capitale paleologa – rimaneva la sola testimonianza di quella storia86. Mi sembra probabile, tuttavia, che Alberti – anche in questo caso – fosse interessato soprattutto alla specifica proprietà delle forme di attrarsi e combinarsi. Interessato al fatto che in architetture differenti – facciata di chiesa e arco trionfale – le forme dialoghino fra loro a distanza. Ipotesi che trova conferma nella presenza, sulla facciata della basilica veneziana, del motivo dell’arco sovrapposto. L’arcone centrale – che presenta proporzioni molto simili a quello di Sant’Andrea – interseca l’elemento che attraversa orizzontalmente l’intera facciata, la balaustra della loggia dei cavalli (ill. 26). Fonti. 3. Archi onorari Se prendiamo in considerazione l’arco di trionfo, è difficile individuare un singolo esempio calzante per Sant’Andrea. Più probabile che – come Zeusi, da lui citato più di una volta87 – Alberti abbia tenuto conto di modelli diversi. Le due campate laterali nella loggia di Sant’Andrea fanno pensare ai vani di raccordo fra i fornici dell’arco di Settimio Severo88. Possiamo riferirci agli archi di Tito e Traiano, ma anche a quello di Costantino, per la presenza – forse nel vano dentro l’attico – di una cappella, che potrebbe aver fornito qualche suggestione per la collocazione del complesso della cripta nell’avancorpo mantovano89. È però ancora all’idea peregrina della trabeazione intersecata dall’arco che bisogna tornare. A eccezione del caso – virtuale – del Pantheon e di quello dell’anfiteatro di Pola, per quel che so, gli unici esempi antichi del motivo ricorrono proprio in edifici di questo tipo. Innanzitutto in immagini antiche di archi. Se ne sono conservate alcune certamente visibili anche nel Quattrocento. Dal rilievo con trionfo di Marco Aurelio (ill. 27) – all’epoca nella chiesa di Santa Martina nel foro romano – all’arco quadrifronte sormontato da elefanti, in uno dei rilievi aureliani dell’arco di Costantino90. Non sappiamo se nella Roma del XV secolo esistessero archi monumentali recanti soluzioni di questo tipo. Ritenia- 23 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 27. Trionfo di Marco Aurelio (diateca DSA, Università Iuav di Venezia). 28. Atene, arco di Adriano (diateca DSA, Università Iuav di Venezia). mo, però, che Leon Battista fosse in condizione di mettere a confronto gli archi in effigie con almeno un caso esotico di cui aveva notizia, l’arco di Adriano ad Atene (ill. 28). Alberti conosceva bene Ciriaco d’Ancona. È pensabile che i loro incontri non si siano limitati alle occasioni fiorentine, durante lo svolgimento del Certame coronario, nel 1441, cui Ciriaco partecipò, e nel corso del concilio fra le chiese di Oriente e Occidente91. Leon Battista, come altri umanisti, era certamente molto interessato alla messe di notizie su luoghi, edifici e libri che Ciriaco poteva mettergli a disposizione, di ritorno dai suoi numerosi viaggi. E altrettanto probabile è che conoscesse i suoi disegni di architettura. Tanto più che – come è stato ipotizzato di recente – buona parte dei materiali greci di Ciriaco furono custoditi a Rimini da Matteo de’ Pasti, dalla fine degli anni Quaranta per oltre un decennio92. Periodo che, come si sa, coincide in buona parte con la campagna costruttiva del Tempio Malatestiano. Ciriaco visitò Atene due volte, durante viaggi compiuti nel 1436 e nel 1444, e ne studiò con attenzione rovine e iscrizioni. Aveva ormai acquisito una notevole conoscenza di monumenti antichi, dopo più di due decenni di viaggi su e giù per il Mediterraneo, annotando, studiando e acquistando pezzi antichi93. Vide certamente l’arco di Adriano. Nei codici di cui disponiamo, in buona parte copie dei manoscritti di Ciriaco, non compaiono disegni dell’arco, mentre l’immagine di altri edifici si è fatta strada fino a noi per mano di diversi copisti. Tuttavia il suo interesse per l’arco – genere di edificio monumentale cui Ciriaco riserva particolari attenzioni – è testimoniato dalla trascrizione delle iscrizioni che corrono su di esso94. Sembra probabile quindi che anche un’immagine sia tornata con lui in Italia. Il problema da porsi, allora, è: il nostro viaggiatore era in grado, non tanto di rappresentare, quanto di vedere un dettaglio inusuale come un archivolto che copre un architrave? Anche tenendo conto che nel caso di Atene l’arco si sovrappone per intero alle due fasce dell’architrave e lambisce il fregio, e dunque l’intenzione formale è chiarissima, per comprenderla è necessaria, quanto meno, una conoscenza precisa del funzionamento della sintassi dell’ordine. La questione delle competenze architettoniche di Ciriaco sarebbe difficilmente risolvibile se non potessimo appellarci a disegni – derivanti dai suoi – che rappresentano un’altra architettura adrianea ad Atene, l’arco sulla facciata del serbatoio dell’acquedotto. In questo caso, due codici di mani diversissime fra loro (ill. 29) – che mostrano sensibilità per le forme lontanissime – rappresentano uno stesso particolare desueto, la cui attendibilità ci è testimoniata inequivocabilmente dalla tavola incisa e pubblicata alcuni secoli dopo nelle Antiquities of Athens di James Stuart e Nicholas Revett95. L’arco si trova al centro di tre campate scandite da colonne, le due laterali con trabeazione rettilinea. L’archivolto imposta non sulla cornice, ma direttamente sull’architrave a due fasce – di cui riprende la forma – interrompendo fregio e cornice. Concettualmente una soluzione vicina a quella che stiamo studiando. Che Ciriaco è perfettamente in grado di comprendere e registrare. È dunque molto probabile che l’arco ateniese fosse noto nei dettagli ad Alberti, e che 24 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 29. Giuliano da Sangallo, Acquedotto di Adriano ad Atene, disegno da un originale di Ciriaco d’Ancona (da Il libro di Giuliano da Sangallo. Codice Vaticano Barberiniano Latino 4424, ed. a cura di C. Hülsen, Leipzig 1910). facesse parte della famiglia di exempla architettonici convocata sul suo tavolo in occasione della stesura del progetto per Sant’Andrea. Un viaggio in Provenza Disponiamo infine di una possibile terza fonte. È un’altra gloriosa provincia dell’impero a dare il suo contributo, la Provenza. Quella di un viaggio oltremontano di Alberti è una sorta di convenzione storiografica che non è mai stata seriamente confutata. Non ci sono prove che questo viaggio sia avvenuto – come vuole la pionieristica biografia di Girolamo Mancini – nel 1431, al seguito del cardinale Albergati. Tuttavia i riferimenti a usi e costumi di popoli nordici nel De re aedificatoria sono sufficienti a renderlo comunque plausibile96. Non siamo in grado di dire in quale periodo – o in quali periodi – della vita di Alberti debba essere collocato. Abbiamo però la ragionevole convinzione che un interesse per l’architettura molto precoce97 abbia spinto Leon Battista a osservare con attenzione edifici antichi e medievali in Francia e Germania, quale che sia la data in cui ebbe occasione di vederli. Un altro passo avanti in questa terra incognita ci porta a considerare probabile che, essendo la Provenza uno dei maggiori depositi di anticaglie fuori d’Italia, l’itinerario verso nord vi prevedesse una tappa obbligata. Non è un caso che più di una volta le architetture provenzali antiche siano state date per conosciute da Alberti98. Del resto, è lo stesso Leon Battista che ricorda – nelle pagine della Famiglia – come Avignone fosse la sede di una nutrita colonia della “nostra famiglia Alberta”99. E proprio nei dintorni di Avignone si trovano alcuni esempi del motivo che stiamo inseguendo. L’arco che invade la trabeazione superiore è visibile in edifici datati alla fine del XII secolo, edifici che mostrano un evidente interesse antiquario per i resti di epoca romana presenti nella regione100. Nel portale della cappella di Saint-Gabriel, e in quello della chiesa di Notre-Dame de Nazareth a Pernes-les-Fontaines (ill. 30-31). Come anche nel frammento superstite della navata della cattedrale romanica di Saint-Siffrein a Carpentras101. Intorno ad Avignone – che risulta collocata in posizione baricentrica – si trovano dunque tre esempi del nostro tipo. E non posso escludere che ne esistano (o esistessero) altri. Tutti i casi considerati appartengono ad architetture in cui la ripresa di motivi antichi è diretta: dai piedistalli sotto le colonne, ai risalti di trabeazione, dai capitelli, alle modanature delle trabeazioni. Sembra quindi probabile che almeno in uno dei numerosi archi di trionfo antichi presenti nella zona comparisse il motivo dell’arco sovrapposto alla trabeazione102. L’ipotesi dell’esistenza di una comune fonte antica che giustifichi la presenza di un arco di questo tipo in edifici medievali ci consente di osservare con occhi diversi il portico della cattedrale di Notre-Dame des Doms a Avignone (ill. 32). Questo è senza dubbio l’esempio più raffinato di ripresa dall’antico fra quelli citati. L’impaginato della facciata – arco su paraste fra semicolonne che reggono il grande timpano – e i dettagli – colonne scanalate su piedistalli e risalti di trabeazione, trabeazione contratta, capitelli corinzi eseguiti all’antica in due parti sovrapposte – ci parlano di un attento studio di modelli romani103. L’arco gira immediatamente sotto la trabeazione, ma gli è stato conferito un risalto tale che sembra tagliare l’architrave (ill. 33). Sia osservandolo da vicino, che – ancor di più – dai piedi dell’erta di accesso alla chiesa, posta sull’altura che domina la piazza del palazzo dei papi, un tempo punto di vista privilegiato per osservare la facciata. Non saprei dire se l’architetto medievale consapevolmente ricercasse un effetto illusionistico104. Mi pare però probabile che un osservatore quattrocentesco, attento ai motivi architettonici inusuali come Alberti – forse a conoscenza di qualcuno degli esempi fra quelli da noi citati, e magari anche del loro modello antico – potesse considerare la soluzione della cattedrale di Avignone appartenente alla serie di forme che stiamo considerando. Il che risulta di notevole interesse per noi. Notre-Dame des Doms, infatti, presenta diverse analogie con l’impianto di Sant’Andrea. È una chiesa con loggia esterna e avancorpo. La loggia, coperta da volta a botte, è aperta frontalmente dall’arco centrale sormontato dal timpa- 25 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 30. Pernes-les-Fontaines (Carpentras), Notre-Dame de Nazareth, dettaglio del portale. 31. Cappella di Saint-Gabriel, dettaglio del portale. no e lateralmente da un arco di dimensioni minori. Alle sue spalle si innalza la massiccia torre, con un ambiente al livello superiore, cupolato e aperto sulla navata da un grande arco. È pensabile che Leon Battista abbia avuto modo di arricchire i suoi taccuini e di esercitare la sua capacità di comparazione. Il che, ovviamente, non esclude che – all’epoca del progetto mantovano – avesse ben presente altri esempi di chiesa con avancorpo, anche italiani105. Nel concludere il discorso sugli archi onorari, avanziamo un’ulteriore ipotesi. Se esempi di archi con la trabeazione tagliata dall’archivolto esistono nell’antichità – per quel che ne so – in Grecia, in Asia Minore (a quanto pare a Efeso), e, forse, in Provenza, perché negarsi la possibilità che anche a Roma, o quantomeno in Italia, ne esistesse almeno un altro esempio? Tanto più che – come abbiamo visto – archi del genere compaiono in immagini realizzate a Roma. È un’ipotesi decisamente economica, che, comunque, nulla toglie a quanto detto in precedenza. Conclusioni La moltiplicazione dei modelli, tuttavia, rischia di suscitare qualche perplessità e richiede uno sforzo ulteriore di comprensione. Più precisamente è necessario chiedersi cosa significhi indicare i modelli architettonici di un edificio albertiano. La scelta di un modello – ripetiamolo – è dettata, in prima istanza, da un interesse specifico verso le forme, che spesso vengono fatte dialogare con forme analoghe in altri modelli. Ma questo non basta. In un’epoca in cui ogni exemplum si carica di significati intessuti di tradizioni, storie, conoscenze, dicerie, che fanno parte di quella che potremmo definire la dimensione dell’immaginario connessa all’edificio – dimensione anche politica: le architetture sono parte dell’identità civica delle grandi città italiane – Alberti è il solo architetto in grado di rispondere alle sollecitazioni dei committenti non con un generico appello, o con un approccio pragmatico, all’antico, ma con l’arma affilata della filologia applicata all’architettura106. Del suo modo di procedere – come si è detto – troviamo qualche riflesso nel De urbe Roma di Bernardo Rucellai. È lui stesso, tuttavia, a rendere esplicito il metodo, in un passo del De re aedificatoria che, non a caso, si apre con un paragone fra architetto e letterato, qualche riga sotto uno dei passaggi più solenni di tutto il libro: “Magna est res architectura, neque est omnium tantam rem aggredi”107. Dice il testo: “Inoltre è auspicabile che l’architetto si regoli allo stesso modo di chi si dà agli studi letterari. Giacché nessuno, in questo campo, penserà di essersi adoperato a sufficienza finché non avrà letto e approfondito gli autori, e non soltanto i migliori, ma tutti quelli che su tali argomenti costituenti l’oggetto del proprio studio abbiano lasciato scritto qualcosa. Parimente l’architetto, dovunque si trovino opere universalmente stimate e ammirate, tutte le esaminerà con la massima cura, ne farà il disegno, ne misurerà le proporzioni, se ne costruirà dei modelli per tenerseli appresso, e così le studierà, comprenderà l’ordinamento, la collocazione, i generi e le proporzioni delle singole parti; soprattutto se ne han fatto uso gli autori più grandi e più importanti, i quali – è da supporre – furono certo uomini non comuni, dacché seppero amministrare spese tanto cospicue”108. Qui troviamo, applicato all’architettura, il metodo degli umanisti: l’indagine attenta delle fonti, la schedatura che le rende disponibili, ma anche l’esame delle derivazioni, il confronto fra il modello e le soluzioni che ne discendono109. Ma appunto: all’epoca, Alberti è il solo a comprendere in un’unica persona la figura di architetto e quella di umanista. Ciò significa che a fianco dello schedario dell’architetto – e a esso intersecato – si trova quello dell’umanista, che ha setacciato testi e fonti iconografiche alla ricerca di notizie su quegli stessi edifici studiati architectonico more110. E questa dimensione pesa nel progetto, soprattutto nel rapporto con il pubblico, e in particolare nel rapporto con il primo degli spettatori, il committente. Leon Battista si serve dell’approccio filologico all’architettura anche in funzione retorica, per giustificare le sue scelte progettuali. È giunto fino a noi un frammento, importantissimo, del suo modo di argomentare: la lettera a Ludovico Gonzaga, scritta per ottenere l’incarico di progettare Sant’Andrea. Tutta la lettera andrebbe studiata come esempio di costruzione retorica. Qui ci basta ricordare l’accenno al tempio etru- 26 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 32. Avignon, Notre-Dame des Doms, portico. 33. Avignon, Notre-Dame des Doms, arco del portico. sco111, il punto esatto in cui possiamo verificare come nuova architettura ed erudizione si congiungano in modo tale da costituire un’esca perfetta per il committente. Argomento che, però, implica anche la precisa intenzione di studiare un progetto in cui l’architettura sia in grado di dialogare con la tradizione, e con la storia, della città di Mantova112. Per inciso, questo comporta che leggere le architetture albertiane, appiattendole sul trattato, sia non solo riduttivo, ma spesso fuorviante. Il De re aedificatoria espone i risultati – ottenuti in modo induttivo – di un immane sforzo analitico, ordinandoli per categorie semplificate113, mentre nel processo di progettazione Alberti ragiona in modo complesso, tenendo conto di pubblici diversi, considerando gli exempla in ogni loro aspetto, e in relazione gli uni agli altri. Tornando al rapporto con il committente, fa al caso nostro un passaggio della bella lettera scritta da Gaspare da Verona a Giovanni Tortelli intorno al 1451. Nell’invitare l’amico in villa, Gaspare gli elenca i piaceri di cui vi potrà godere. Quello che ci interessa più da vicino viene così presentato: “si Baptistam Albertum florentinum una tecum optaveris, enitar ut adsit: qui tot, talia, tanta proloquatur de architectura, quot, qualia, quanta solitum esse non ignoras”114. La passione per la conversazione sull’architettura, per la quale Leon Battista precocemente andava famoso, doveva essere ben nota ai suoi committenti, Ludovico Gonzaga in testa115. Ancor più che con il trattato, dunque, Alberti educa i suoi interlocutori con la parola. E gioca con loro, ricorrendo alle conoscenze acquisite nel corso di anni di studio. Possiamo immaginare, infatti, che Ludovico fosse poco interessato a un Pantheon repubblicano sulla facciata della sua chiesa, e che lo appassionasse molto di più la valenza imperiale di San Marco e quella esplicitamente trionfale degli archi onorari. Il che ovviamente ha a che fare con la dimensione rappresentativa dell’architettura, e con l’autoaffermazione del committente. È probabile che i committenti di Leon Battista, a loro volta, avanzassero richieste o ponessero problemi anche a proposito dei modi della rappresentazione: ognuna delle sue architetture è il risultato di un dialogo fra committente e architetto, che si trasforma in un dialogo fra i modelli che al nuovo edificio danno corpo, o meglio, veste. Diventando ornamenta della nuova architettura. Non è detto, quindi, che Alberti – la cui duplicità è stata più volte riconosciuta nelle opere letterarie, e che nel Momus teorizza la pratica della dissimulazione116 – si riconosca senza riserve, non tanto nel procedimento o nella scelta delle fonti, quanto nel significato che a esse può essere conferito: il ricorso al Pantheon per Sant’Andrea sembra attestarlo. Proprio l’allu- sione a un edificio di epoca repubblicana rivela l’ambiguità del suo atteggiamento. Nell’excursus storico all’inizio del VI libro del trattato – cui si è già fatto cenno – si distingue appunto fra architettura della Roma repubblicana, disadorna e funzionale – che richiama i giudizi dei grandi moralisti antichi, e che sembra consona a quanto si legge nel suo ultimo dialogo, il De Iciarchia117 – e lo sfarzo dell’architettura imperiale, che deve essere ornata. L’impossibilità di un’architettura senza ornamentum, e l’evidente passione di Alberti per le forme architettoniche118 mettono in mostra una contraddizione insanabile. Che viene accettata in quanto tale. Del resto a Leon Battista non doveva dispiacere l’aver evocato in un unico edificio diversi mondi architettonici – etrusco, greco, latino – che, dando lustro alla casata dei signori di Mantova, fanno di Sant’Andrea un ideale compendio storico, una combinazione di temi e motivi sapientemente articolati. Rimane da chiarire il motivo della scelta di quell’arco, sempre presente nei modelli prescelti, tanto da apparire come l’elemento ricorrente di una composizione a chiave. 27 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org Ringrazio, per le discussioni e i suggerimenti, Luca Boschetto, Arnaldo Bruschi, Matteo Ceriana, Giovanna Curcio, Christoph L. Frommel, Maurizio Gargano, Saverio Lomartire, Ida Gilda Mastrorosa, Richard Schofield, Carlo Tosco, Livio Volpi Ghirardini, Massimo Zaggia, e ringrazio inoltre tutti coloro che, in vari modi, hanno contribuito al mio lavoro, in particolare Debora Antonini, Antonio Bixio, Antonio Conte, Monica Nascig. Questo saggio è dedicato alla memoria di Paolo. 1. Sia pur di poco, archi all’interno e modanature delle nicchie intersecano la trabeazione. La soluzione adottata per le nicchie potrebbe rimandare alle finestre centinate della porta dei Leoni a Verona, che intersecano le tabelle superiori. 2. A titolo di esempio, possiamo elencare diverse sovrapposizioni fra membrature architettoniche in opere fiorentine. Dalle paraste che coprono archi: nella tomba Brancacci di Michelozzo e Donatello in Sant’Angelo a Nilo a Napoli, nella cornice architettonica del Miracolo della mula di Donatello a Padova, e sulla facciata della cappella Pazzi a Santa Croce a Firenze; agli archi che – in corrispondenza della crociera di San Lorenzo a Firenze – si sovrappongono alle paraste, e a loro volta sono sormontati da paraste. Da ricordare anche la soluzione molto raffinata dei capitelli delle semicolonne di Santo Spirito, sui quali la cornice del tratto di trabeazione, allungandosi, taglia le modanature a fascio che incorniciano le cappelle, e ne interrompe il fluire lineare per segnare l’imposta dell’arco. Per non parlare di sovrapposizioni di illustre ascendenza come quelle del portale albertiano di palazzo Rucellai a Firenze, e delle logge sulla facciata dei Torricini di palazzo ducale a Urbino, dove le cornici si sovrappongono a paraste laterali al modo del Pantheon e della basilica Aemilia. Notiamo infine come nello stesso portico di Sant’Andrea si trovino archi interrotti da paraste, e paraste che si incastrano – ancora una volta richiamando il Pantheon – nella muratura, mentre in facciata la trabeazione minore viene idealmente coperta dai fusti delle paraste maggiori. 3. Sulle campagne di costruzione della chiesa cfr. E.J. Johnson, S. Andrea in Mantua. The Building History, University Park-London 1975, pp. 8-42. Sui restauri compiuti fra il 1828 e il 1833, che possono considerarsi la conclusione della storia costruttiva dell’edificio, cfr. P. Carpeggiani, C. Tellini Perina, Sant’Andrea in Mantova, Mantova 1987, pp. 69-72; G. Pastore, L’atrio della basilica di Sant’Andrea, in Storia e arte religiosa a Mantova. Basilica Concattedrale di Sant’Andrea. L’atrio meridionale. Indagini, saggi e restauri dell’apparato decorativo, catalogo della mostra (Mantova, 1991), Mantova 1991, pp. 41-42. 4. Cfr. Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp. 15-16 e 18. Sul tondo cfr. I. Marelli, in Leon Battista Alberti, catalogo della mostra (Mantova, 1994), a cura di J. Rykwert e A. Engel, Milano 1994, cat. 138, pp. 535-536 (con bibliografia precedente). Sulla costruzione della facciata vedi anche L. Volpi Ghirardini, La ‘porta dei sette cieli’, numeri e geometrie del portico principale di Sant’Andrea a Mantova, in “Atti e memorie dell’Accademia Nazionale Virgiliana”, n.s., LXI, 1993, pp. 37-72; Id., Sulle tracce dell’Alberti nel Sant’Andrea a Mantova. L’avvio di un’analisi archeologica e iconometrica, in Leon Battista Alberti, cit., pp. 224-41. 5. Su Fancelli a Mantova cfr. Carteggio di Luca Fancelli con Ludovico Federico e Francesco Gonzaga marchesi di Mantova, ed. a cura di P. Carpeggiani, A. M. Lorenzoni, Mantova 1998, che, oltre ai documenti, contiene un saggio di P. Carpeggiani, “Io stimo anche più l’onore”. Luca Fancelli, il principe, la professione, pp. 13-80 (con bibliografia precedente). Su Fancelli esecutore a Sant’Andrea, cfr. Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp. 48-50. Quanto ai progetti, vedi la famosa lettera di Alberti a Ludovico Gonzaga del 27 febbraio 1460, in Leon Battista Alberti, Opere volgari, ed. C. Grayson, IIII, Bari 1960-1973, III, p. 295, sulla quale cfr. L. Volpi Ghirardini, L’iconometria del San Sebastiano, in A. Calzona, L. Volpi Ghirardini, Il San Sebastiano di Leon Battista Alberti, Firenze 1994, pp. 237-238, e H. Burns, Leon Battista Alberti, in F.P. Fiore (a cura di), Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, Milano 1998, p. 144. Cfr. anche M. Dall’Acqua, Storia di un progetto albertiano non realizzato: la ricostruzione della rotonda di San Lorenzo in Mantova, in Il Sant’Andrea di Mantova e Leon Battista Alberti, atti del convegno (Mantova, 25-26 aprile 1972), Mantova 1974, pp. 229-236; K. W. Forster, Templum, Laubia, Figura: l’architettura di Alberti per una nuova Mantova, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp. 162-177. Per il modello di Sant’Andrea, vedi la lettera di Ludovico al figlio Francesco del 2 gennaio 1472, in Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], p. 65. Sull’insieme degli interventi avviati dal marchese, cfr. anche P. Carpeggiani, “Renovatio urbis”. Strategie urbane a Mantova nell’età di Ludovico Gonzaga, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp. 178185 (con bibliografia precedente); I. Lazzarini, Gerarchie sociali e spazi urbani a Mantova dal Comune alla Signoria gonzaghesca, Pisa 1994, in particolare pp. 143-147, e passim; F. Cantatore, Leon Battista Alberti e Mantova: proposte architettoniche al tempo della Dieta, in Il sogno di Pio II e il viaggio da Roma a Mantova, atti del convegno (Mantova, 2000), a cura di A. Calzona, F.P. Fiore, A. Tenenti, C. Vasoli, Firenze 2003, pp. 443-455; A. Calzona, Mantova in attesa della Dieta, ivi, pp. 529-578. 6. Cfr. lettera da Roma di Fancelli a Ludovico Gonzaga, 2 dicembre 1464, in Carteggio di Luca Fancelli…, cit. [cfr. nota 5], p. 117: “Sono stato chon messer Batista et ò intexo quanto s’à a seguitare per l’avenire”, passo messo in relazione alla fabbrica di San Sebastiano già in G. Mancini, Vita di Leon Battista Alberti, Roma 1911, II ed., p. 398. 7. Basti ricordare – pur facendo la tara sulla buone maniere – l’attestazione di stima da parte di Ludovico nella lettera a Alberti del 28 luglio 1463: “voressemo pur intendere bene il parer vostro perché l’è tanta l’autoritade vostra presso a ciaschuno e maximamente apresso nui che non deliberamo se facia né più innanti né più indietro se non come a vui parerà, perhò non procederemo più ultra fino a la venuta vostra presso nui”, in Calzona, Volpi Ghirardini, Il San Sebastiano…, cit. [cfr. nota 5], p. 158. 8. Sull’importanza di Sant’Andrea per Ludovico, cfr. il bel saggio di D.S. Chambers, Sant’Andrea in Mantua and Gonzaga Patronage 1460-1472, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XL, 1977, pp. 99-127. A titolo di esempio dell’attenzione di Ludovico si legga la lettera alla moglie Barbara di Brandeburgo del 20 settembre 1477, in Luca Fancelli architetto. Epistolario gonzaghesco, ed. a cura di C. Vasić Vatovec, Firenze 1979, p. 139, citata da Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 165, nota 223, che si sofferma anche sulla questione della rispondenza della navata di Sant’Andrea alle intenzioni di Alberti (ivi, p. 150). Da ricordare infine l’episodio del modello per San Sebastiano approntato da Fancelli. La dura reazione del marchese di fronte a probabili modifiche, o errori di interpretazione, rispetto al progetto albertiano chiarisce definitivamente a Fancelli, fin dal 1460, come l’edificio debba essere eseguito attenendosi alle intenzioni di Leon Battista, cfr. la lettera di Fancelli a Ludovico, non datata (ma 1460), in Calzona, Volpi Ghirardini, Il San Sebastiano…, cit. [cfr. nota 5], pp. 142-143, e in Carteggio di Luca Fancelli…, cit. [cfr. nota 5], p. 99. Per l’interpretazione del documento cfr. Burns, Leon Battista Alberti, cit., p. 164, nota 198; Carpeggiani, “Io stimo anche più l’onore”…, cit. [cfr. nota 5], pp. 2829; L. Volpi Ghirardini, La presenza di Ludovico II Gonzaga nei cantieri delle chiese albertiane di San Sebastiano e di Sant’Andrea, in Il principe architetto, atti del convegno (Mantova, 1999), a cura di A. Calzona, F. P. Fiore, A. Tenenti, C. Vasoli, Firenze 2002, pp. 284-285, e passim sul tema del controllo dei cantieri da parte del marchese. 9. Cfr. E. Hubala, Sant’Andrea in Mantua. Beobachtungen zur ersten Bauphase, in “Kunstchronik”, XIII, 12, 1960, p. 356; Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], p. 20. Arnaldo Bruschi si interroga – lasciando aperta la questione – sulla rispondenza a intenzioni albertiane dei singoli dettagli dell’apparato decorativo nelle diverse opere di Leon Battista in L’Antico e il processo di identificazione degli ordini nella seconda metà del Quattrocento, in L’Emploi des ordres dans l’architecture de la Renaissance, atti del convegno (Tours, 9-14 giugno 1986), a cura di J. Guillaume, Paris 1992, pp. 17-18 e 21. 10. La serie di documenti relativi all’edificio malatestiano è stata di recente pubblicata in A. Turchini, Il Tempio Malatestiano, Sigismondo Pandolfo Malatesta e Leon Battista Alberti, Cesena 2000, vedi in particolare la famosa lettera di Alberti a Matteo de’ Pasti del 18 novembre 1454, pp. 620-621 (pubblicata integralmente per la prima volta in C. Grayson, An Autograph Letter from Leon Battista Alberti to Matteo de’ Pasti, New York 1957 – riedito in Id., Studi su Leon Battista Alberti, a cura di P. Claut, Firenze 1998, pp. 157-167, e in Alberti e il Tempio Malatestiano, in “Albertiana”, II, 1999, pp. 237-258 – e poi ripresa in Leon Battista Alberti, Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], III, pp. 291-293) e la lettera di Pietro Gennari e Matteo de’ Pasti a Sigismondo Malatesta, 17 dicembre 1454, p. 622. L’invio di disegni per dettagli durante la costruzione corrisponde a quanto Antonio Manetti ci dice sui cantieri degli edifici di Filippo Brunelleschi, cfr. Antonio Manetti, Vita di Filippo Brunelleschi, ed. D. de Robertis, G. Tanturli, Milano 1976, pp. 116-118. Quanto al trattato, cfr. E. Battisti, Il metodo progettuale secondo il “De re aedificatoria” di Leon Battista Alberti, in Il Sant’Andrea di Mantova…, cit. [cfr. nota 5], passim e 155-156, che commenta un famoso passo in De re aedificatoria, II, 1, peraltro concluso dalla seguente affermazione: “Itaque modulos huiusmodi [nudos et simplices] fecisse oportet et eos ita diligentissime tecum ipso et una cum pluribus examinasse et iterum atque iterum recognovisse, ut nihil in opere vel minimum futurum sit, quod non et quid et quale ipsum sit et quas sedes et quantum spatii occupaturum sit et quos ad usus futurum sit, teneas” (“È dunque opportuno costruire modelli del tipo suddetto [nudi e schietti], ed esaminarli e vagliarli a più riprese sia per conto proprio che con altri, finché non vi sia un solo particolare di cui non sian determinate la natura, le caratteristiche, la collocazione, lo spazio che occuperà, le funzioni cui è destinato”, Leon Battista Alberti, L’architettura [De re aedificatoria], testo latino e traduzione a cura di G. Orlandi, intr. e note di P. Portoghesi, Milano 1966, II, 1, pp. 98-99 [d’ora in poi De re aedificatoria]). Per una lettura che mette a confronto i due passi, di Alberti e di Manetti, cfr. G. Tanturli, Per l’interpretazione storica della Vita del Brunelleschi, in “Paragone. Arte”, 301, 1975, pp. 8-11. Cfr. anche R. Pacciani, I modelli lignei nella progettazione rinascimentale, in “Rassegna”, IX, 4, 1987, pp. 7-8 e 15-16; H. Millon, I modelli architettonici nel Rinascimento, in Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell’architettura, catalogo della mostra (Venezia, 1994), a cura di H. Millon, V. Magnago Lampugnani, Milano 1994, pp. 22-32; A. Lepik, Das Architekturmodell in Italien 1335-1550, Worms 1994, pp. 120-130. 11. Cfr. M. Bulgarelli, Caso e ornamento. Alberti e Mantegna a Mantova, in “Casabella”, 712, giugno 2003, pp. 42-53. Howard Burns ritiene verosimile che i capitelli delle paraste minori sulla facciata di Sant’Andrea siano stati eseguiti su disegno di Alberti, cfr. H. Burns, Un disegno architettonico di Alberti e la questione del rapporto fra Brunelleschi e Alberti, in Filippo Brunelleschi. La sua opera e il suo tempo, atti del convegno (Firenze, 1977), Firenze 1980, p. 116. Dello stesso parere R. Casarin, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], cat. 147, p. 552, e C. Syndikus, Leon Battista Alberti. Das Bauornament, Münster 1996, p. 124 (che ritiene ascrivibile ad Alberti l’intero apparato decorativo della facciata). 12. Attualmente non disponiamo di fonti scritte che documentino interventi, successivi alla prima campagna di lavori, sugli archi in facciata o all’interno. Esiste tuttavia un documento che manifesta l’intenzione di sostituire l’archivolto in cotto con uno in marmo bianco. Si tratta del capitolo d’appalto dell’intervento di restauro eseguito fra il 1828 e il 1833. Il documento viene redatto dall’ingegner 28 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org Paolo Pianzolla. La versione citata da Paolo Carpeggiani – al contrario di quella trascritta da Eugene J. Johnson – registra appunto l’intenzione di intervenire sull’arco (un recente riscontro presso l’Archivio Storico Diocesano di Mantova – effettuato da Monica Nascig, che ringrazio – non ha permesso di rinvenire il documento). Intervento poi evidentemente rimasto inattuato, dal momento che l’arco oggi visibile è in cotto, e si presenta del tutto conforme a quanto registrato nella veduta settecentesca di Berlino, sulla quale vedi oltre. Cfr. Carpeggiani, Tellini Perina, Sant’Andrea in Mantova, cit. [cfr. nota 3], p. 72; P. Carpeggiani, Oltre l’Alberti: storia e trasformazioni del Sant’Andrea in Mantova, in Architettura: processualità e trasformazione, atti del convegno (Roma, 1999), a cura di M. Caperna, G. Spagnesi, Roma 2002, p. 272; Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp. 91-96 (a p. 96 si trova un passo in cui viene prevista la riparazione della “fascia all’ingiro del grande archivolto”). Quanto ai documenti visivi, non sono di grande interesse in relazione alla questione che stiamo affrontando. I disegni in alzato, infatti, ovviamente non registrano la sovrapposizione dell’arco, e, con un’eccezione, neppure quella sulle nicchie. Il più antico è un disegno di Hermann Vischer il giovane, realizzato nel 1515. Seguono i fogli di Leandro Marconi, allievo di Paolo Pozzo all’Accademia Teresiana di Mantova, e di un anonimo che disegna per la raccolta di JeanBaptiste Seroux d’Agincourt. Datati 1788 e, probabilmente, 1789. Il primo è conservato a Parigi (Louvre, Département des Arts Graphiques, inv. 19035r). Il secondo a Mantova, al museo di Palazzo Ducale; da questo sembrano derivare due disegni che si trovano a Milano (Accademia di Brera, Gabinetto disegni e stampe, cartelle 22, 37 e 39). Il terzo (Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 13480, f. 287) fa parte del materiale preparatorio per l’Histoire de l’art par le monuments depuis sa décadence au IVe siècle jusqu’à son renouvellement au XVIe, IV, Planche, Architecture et sculpture, Paris 1823, tav. LII. Cfr. W. Lotz, Zu Hermann Vischers d. J. Aufnahmen italienischer Bauten, in Miscellanea Bibliothecae Hertzianae, München 1961, pp. 167-174, in particolare pp. 173-174; R.T., in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], cat. 119, p. 515. Sul foglio di Marconi, cfr. M. Pelliciari, ivi, cat. 104, p. 499; vedi anche Carpeggiani, Tellini Perina, Sant’Andrea in Mantova, cit. [cfr. nota 3], pp. 67-68. Sulla raccolta di Seroux, cfr. A. Cipriani, Una proposta per Seroux d’Agincourt. La Storia dell’Architettura, in “Storia dell’arte”, 11, lugliosettembre1971, pp. 211-261. Quanto alle immagini della facciata in prospettiva, la sovrapposizione dell’arco compare. Vedi il dipinto conservato a Berlino, pubblicato in W. Wolters, Die ursprüngliche Gestalt der Fassade von S. Andrea in Mantua, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, XXX, 3, 1986, pp. 424-432. E anche il disegno dell’architetto olandese Herman Hertzberger, cfr. H. van Bergeijk, D. Hauptmann (a cura di), Notations of Herman Hertzberger, Rotterdam 1998, p. 52. 13. Una terza variante è presente negli archi delle cappelle maggiori all’interno di Sant’Andrea: fasce sormontate da ovoli e cavetto e modiglione sopra le modanature dell’archivolto. L’archivolto concluso da ovoli si trova anche sull’arco al centro della facciata di Santa Maria Novella a Firenze. È stato ipotizzato che la versione di questo motivo che Alberti adotta negli archi dell’atrio derivi dall’arco di Giove Ammone a Verona, cfr. H. Burns, Le antichità di Verona e l’architettura del Rinascimento, in Palladio e Verona, catalogo della mostra (Verona, 1980), a cura di P. Marini, Verona 1980, p. 107. La stessa soluzione si trova anche nell’arco di Settimio Severo. Su esempi fiorentini cfr. M. Bulgarelli, La cappella Cardini a Pescia, in M. Bulgarelli, M. Ceriana, All’ombra delle volte. Architettura del Quattrocento a Firenze e Venezia, Milano 1996, p. 37. 14. La distanza è di circa 50 centimetri. La stessa soluzione si trova all’interno, negli archi delle cappelle. In questo caso la distanza fra intradosso dell’arco e sommoscapo si aggira intorno ai 60 centimetri. Come si sa, gli archi trionfali costituiscono una delle fonti principali per la facciata e per l’interno di Sant’Andrea; per le norme relative, cfr. De re aedificatoria, VIII, 6, cit. [cfr. nota 10], pp. 718723. Le norme cui ci riferiamo sono sostanzialmente rispettate nel Tempio Malatestiano e a Santa Maria Novella. 15. Cfr. E. Marani, Architettura, in Mantova. Le arti, II, Dall’inizio del secolo XV alla metà del XVI, Mantova 1961, pp. 9596. Sulla possibilità di considerare la soluzione per cupola e archi di sostegno nella cappella di San Francesco derivante da quella albertiana per la cupola di Sant’Andrea cfr. Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], p. 47; R. Schofield, G. Sironi, Bramante and the Problem of Santa Maria presso San Satiro, in “Annali di Architettura”, 12, 2000, pp. 27-28. 16. Si tratta della medesima soluzione – ottenuta illusionisticamente – dell’interno del San Bernardino a Urbino, sulla quale cfr. M. Tafuri, Le chiese di Francesco di Giorgio Martini, in Francesco di Giorgio architetto, catalogo della mostra (Siena, 1993), a cura di F.P. Fiore, M. Tafuri, Milano 1993, p. 37, e da ultimo R. Schofield, Bramante e un rinascimento locale all’antica, in F.P. Di Teodoro (a cura di), Donato Bramante. Ricerche, proposte, riletture, Urbino 2001, p. 54 (con bibliografia precedente). Che Francesco di Giorgio conoscesse la facciata di Sant’Andrea è molto probabile, cfr. M. Tafuri, Il duomo di Urbino, in Francesco di Giorgio architetto, cit., p. 189. 17. Cfr. R. Munman, Optical Corrections in the Sculpture of Donatello, in “Transactions of the American Philosophical Society”, LXXV, 2, 1985, pp. 1-96 (con bibliografia precedente), passim, e sui significati che le correzioni assumono nell’opera donatelliana pp. 1-9 e 56-58. Sull’uso di correzioni ottiche nel David si sofferma a più riprese Francesco Caglioti in Donatello e i Medici. Storia del David e della Giuditta, Firenze 2000 (con bibliografia precedente), ad indicem: David mediceo, rapporti collo spazio e collo spettatore. Su Donatello e Alberti, cfr. M. Collareta, Considerazioni in margine al De statua ed alla sua fortuna, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, XII, 1, 1982, pp. 178-179; Id., La figura e lo spazio. Una lettura del De statua, in Leon Battista Alberti, De statua, ed. a cura di M. Collareta, Livorno 1998, p. 44; Caglioti, Donatello e i Medici…, cit., pp. 191-192 e 218-222. In almeno un’occasione, Donatello applica correzioni ottiche all’architettura, nei capitelli ionici del tabernacolo di Parte Guelfa, cfr. D. Finiello Zervas, The Parte Guelfa, Brunelleschi & Donatello, Locust Valley 1987, p. 141. Da notare anche che, nella tomba Brancacci, opera in cui collaborano Michelozzo e Donatello, le volute dei capitelli appiattiti sulla parete di fondo presentano una lieve rotazione in avanti, a suggerire profondità. Un improbabile rapporto a senso unico, improntato alla derivazione nella prassi di Donatello delle teorie albertiane, viene ipotizzato in G. Morolli, Donatello: immagini di architettura, Firenze 1988, II ed., e in Id., Donatello e Alberti “amicissimi”. Suggestioni e suggerimenti albertiani nelle immagini architettoniche dei rilievi donatelliani, in Donatello-Studien, München 1989, pp. 43-67. Altro esempio di deformazione ottica a scala architettonica nella Firenze del Quattrocento è quello delle cappelle angolari di Santo Spirito, cfr. L. Benevolo, S. Chieffi, G. Mezzetti, Indagine sul S. Spirito di Brunelleschi, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’architettura”, XV, 85-90, 1968, pp. 21-34; H. Saalman, Filippo Brunelleschi. The Buildings, London 1993, pp. 349-50. (Paris), Berlin 1990, ff. 15 e 29; e ivi, 6. Band. Katalog 720-725, pp. 323 e 344346. La soluzione dell’arco che gira sulla trabeazione si ripete diverse volte anche in dipinti del secondo Quattrocento, dalle Tavole di San Bernardino a Perugia, a Melozzo, a Bergognone (e Bramante), per fare qualche esempio. Il tema del rapporto dell’architettura albertiana con la pittura è largamente inesplorato. Vedi qualche cenno oltre e in Bulgarelli, Caso e ornamento…, cit. [cfr. nota 11], passim. Quanto all’importanza teorica della pittura, e del pittore, per la concezione dell’architettura, e soprattutto dell’ornamento, in Alberti, cfr. G. Wolf, The Body and Antiquity in Alberti’s Art Theoretical Writings, in A. Payne, A. Kuttner, R. Smick (a cura di), Antiquity and Its Interpreters, Cambridge 2000, pp. 174-189; H.-K. Lücke, Das Bauwerk als Gedankenwerk: über Vitruv und L.B. Alberti, in “Albertiana”, V, 2002, pp. 5054. Cfr. anche Heydenreich, Strukturprinzipien…, cit. [cfr. nota 19], pp. 130139. Il concetto di prospectiva aedificandi, nonostante diverse utili considerazioni contenute nel contributo di Heydenreich, mi pare non colga a pieno il problema, soprattutto perché non scioglie il legame fra prospettiva pittorica e architettonica, istituito in una serie di studi degli anni Cinquanta (citati nella bibliografia del saggio), a mio parere del tutto fuorviante. 18. Cfr. Vitruvio, De architectura, ed. P. Gros, Torino 1997, 3, 3, 11-13; 3, 5, 9-10 e 13; 4, 4, 2-3; 6, 2, 1-5; pp. 248-251, 258-261, 384-385, 834-837. Alberti può avere incontrato passi sul tema delle correzioni ottiche in architettura anche in Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, 36, 178); cfr. Vitruvio, De architectura, cit., pp. 318, nota 131, e 348, nota 208. 21. Per la storia dell’edificio, cfr. M. Dezzi Bardeschi, La facciata di Santa Maria Novella a Firenze, Pisa 1970, pp. 12-13 (improbabile l’ipotesi di un progetto precoce per la facciata, cfr. F.W. Kent, The Making of a Renaissance Patrons of the Arts, in Giovanni Rucellai ed il suo Zibaldone, II, A Florentine Patrician and his Palace, London 1981, pp. 42-43); M. Scalzo, La facciata albertiana di Santa Maria Novella, in Leon Battista Alberti. Architettura e cultura, atti del convegno (Mantova, 1994), Firenze 1999, pp. 265283. Cfr. anche Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], pp. 137-140. 19. Cfr. De re aedificatoria, VI, 10; VII, 6; VII, 9; VII, 9; VII, 10; VIII, 3; VIII, 6 (questi ultimi due passaggi – innalzamento di statue collocate alla sommità di edifici per consentirne la completa visibilità – si riferiscono a quelle che Robert Munman definisce correzioni ottiche passive, cfr. Munman, Optical Corrections…, cit. [cfr. nota 17], pp. 1-2); IX, 3; cit. [cfr. nota 10], pp. 506-7, 566-67, 586-87, 598-603, 612-13, 690-91, 72223, 796-97. Su alcuni di questi passi si sono soffermati L. Heydenreich, Strukturprinzipien der Florentiner Frührenaissance-Architektur: Prospectiva Aedificandi, in The Renaissance and Mannerism. Studies in Western Art, II, Princeton 1963, p. 119, ora in Id., Studien zur Architektur der Renaissance. Ausgewählte Aufsätze, München 1981, pp. 135-136; Battisti, Il metodo progettuale…, cit. [cfr. nota 10], pp. 150, 153-154; A.G. Cassani, La fatica del costruire. Tempo e materia nel pensiero di Leon Battista Alberti, Milano 2000, pp. 146-147. 20. Due disegni dell’Album di Parigi di Jacopo Bellini mostrano l’arco che interseca la trabeazione. Il primo è una Flagellazione ambientata in un palazzo di Pilato con loggia sottostante, il secondo, un’Annunciazione, presenta in secondo piano una porta urbica trionfale con colonne libere e timpano, cfr. B. Degenhart, A. Schmitt, Corpus der Italienischen Zeichnungen. 1300-1450, II, Venedig. Jacopo Bellini, 7. Band. Tafel 1-119 22. Secondo Hellmut Lorenz l’arretramento della parte superiore della facciata delinea, a sua volta, una soluzione di tipo ottico-prospettico, con la funzione di unificare visivamente le diverse componenti della facciata, bilanciando la profondità degli avelli, cfr. Zur Architektur L.B. Albertis: die Kirchenfassaden, in “Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte”, XXIX, 1976, pp. 77-78. In tal caso la soluzione del portale sarebbe parte di un più complesso dispositivo. 23. Cfr. Leon Battista Alberti, De pictura, in Id., Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], III, p. 7. Cfr. anche, sull’impressione suscitata dall’opera di Masaccio su Alberti in occasione del suo primo viaggio fiorentino, A. Bruschi, Note sulla formazione architettonica dell’Alberti, in “Palladio”, XXV, 1, 1978, p. 9; M. Bulgarelli, Orafo del Quattrocento (da Leon Battista Alberti?), Cristo libera l’indemoniato, in Masaccio e le origini del Rinascimento, catalogo della mostra (San Giovanni Valdarno, 2002), a cura di L. Bellosi, Milano 2002, cat. 38, pp. 218-221. 24. Per Santa Maria Novella non disponiamo di uno studio sugli interventi dei secoli successivi, né esistono immagini 29 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org significative. Una ricognizione della documentazione relativa ai restauri cui la facciata fu sottoposta nel secondo Ottocento mi ha portato a escludere modificazioni di qualche rilievo nella zona del portale, cfr. Firenze, Archivio Storico del Comune, Corporazioni religiose soppresse, bb. 9673, 9676; Chiese monumentali cedute al Comune, bb. 5308, 5310, B.A.281, B.A.283. Da rilevare come la deformazione delle basi – ma non quella dei capitelli – sia stata notata già nel 1900, vedi le tavole su Santa Maria Novella in “Ricordi di architettura e di decorazione”, XVI, 1900, Arte antica, in particolare tav. 15. Tornerò sull’argomento con uno studio dettagliato. 25. Sul distacco come atteggiamento conoscitivo dell’antico, cfr. E. Panofsky, Renaissance and Renascences in Western Art, Stockholm 1960, trad. it. Milano 1984, II ed., p. 130; S. Settis, Continuità, distanza, conoscenza. Tre usi dell’antico, in S. Settis (a cura di), Memoria dell’antico nell’arte italiana, III, Dalla tradizione all’archeologia, Torino 1986, pp. 445-486. 26. Cfr. De re aedificatoria, VI, 1 e 2; cit. [cfr. nota 10], pp. 442-443, 448-449, 450-451. Sul trattato, cfr. Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], pp. 120122. Sul De re aedificatoria come testo inaugurale, cfr. F. Choay, La Règle et le modèle, Paris 1980, trad. it. Roma 1986, pp. 93-180; Ead., Le De re aedificatoria comme texte inaugural, in Les Traités d’architecture, atti del convegno (Tours, 1°11 luglio 1981), a cura di J. Guillaume, Paris 1988, pp. 83-90. Benché il paesaggio di rovine fosse studiato da personaggi come Poggio Bracciolini e Biondo Flavio, che Alberti conosce molto bene, non esiste nulla di paragonabile al trattato. Ci rimane soltanto, a quel che so, il passaggio di una lettera di Guarino, notevole per diversi aspetti, anche per la data precoce: 1413. Si tratta di una feroce invettiva contro Niccolò Niccoli, che si sofferma, fra l’altro, sulla pretesa di “spiegare i principi dell’architettura”: “Quis sibi quominus risu dirumpatur abstineat, cum ille ut etiam de architectura rationes esplicare credatur, lacertos exerens, antiqua probat aedificia, moenia recenset, iacentium ruinas urbium et ‘semirutos’ fornices, diligenter edisserit quot disiecta gradibus theatra, quot per areas columnae aut stratae iaceant aut stantes exurgant, quot pedibus basis pateat, quot obeliscorum vertex emineat. Quantis mortalium pectora tenebris obducuntur!” (Guarino Veronese, Epistolario, ed. R. Sabbadini, I, Venezia 1915, pp. 39-40). Nonostante il tono satirico, potremmo considerare – con una certa cautela – il passo come indizio dell’esistenza, nella Firenze del primo Quattrocento, quantomeno di un progetto di ricognizione dell’antico, alla ricerca delle rationes dell’architettura. Cfr. anche E.H. Gombrich, Dalla rinascita delle lettere alla riforma delle arti: Niccolò Niccoli e Filippo Brunelleschi, in The Heritage of Apelles. Studies in the Art of the Renaissance, Oxford 1976, trad. it. Torino 1986, pp. 141-143; C. Smith, Architecture in the Culture of Early Humanism. Ethics, Aesthetics, and Eloquence 1440-1470, New York-Oxford 1992, p. 70. 27. Sul valore della novità, cfr. De re aedificatoria, I, 9; VII, 9 (passaggio sulla commistione di diverse rationes architettoniche, considerato un’esplicita critica a Vitruvio in A. Payne, The Architectural Treatise in the Italian Renaissance. Architectural Invention, Ornament, and Literary Culture, Cambridge-New York 1999, p. 72); VIII, 2 e 3; IX, 1; IX, 10 (“et probabo, si novis inventis operum probatissimae rationes veterum et illis nova ingenii commenta non deerunt”, “e mi dirò soddisfatto se la novità del ritrovato non andrà disgiunta dagli sperimentatissimi criteri delle opere antiche, e se questi d’altra parte saranno ricreati e rinnovati dall’ingegno dell’architetto”); cit. [cfr. nota 10], pp. 68-69, 596-597, 678-679, 680-681, 786-787, 856-857, 858-859. La novità, appunto, va compresa in un dialogo serrato con la tradizione, come ribadisce il polemico accenno a novis ineptiarum deliramentis (VI, 1, pp. 442443) cui indulgono gli architetti moderni. Il che conferma la necessità e l’urgenza dell’immane lavoro di sistematizzazione del trattato. I praecepta raccolti e ordinati nel De re aedificatoria, tuttavia, non presentano carattere normativo, ma sono frutto di un approccio pragmatico allo studio dell’architettura, cfr. in proposito A. Bruschi, Osservazioni sulla teoria architettonica rinascimentale nella formulazione albertiana, in “Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura”, 3148, 1961, pp. 115-130; Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], pp. 125126; Payne, The Architectural Treatise…, cit., pp. 72-73; e più in generale H. Burns, Antike Monumente als Muster und als Lehrstücke. Zur Bedeutung von Antikenzitat und Antikenstudium für Albertis architektonische Entwurfspraxis, in K.W. Forster, H. Locher (a cura di), Theorie der Praxis. Leon Battista Alberti als Humanist und Theoretiker der bildenden Künste, Berlin 1999, pp. 129-155. Su questi temi, considerati in un contesto storico più ampio, cfr. M. Tafuri, Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architettura, Torino 1992, pp. 3-32. 28. Cfr. Leon Battista Alberti, Profugiorum ab aerumna libri III, in Id., Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], pp. 161-162. 29. Cfr. C. Grayson, Il prosatore latino e volgare, in Convegno internazionale indetto nel V centenario di Leon Battista Alberti, atti del convegno (Roma-Mantova-Firenze, 25-29 aprile 1972), Roma 1974, pp. 273286 (ora in Id., Studi su Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 10], pp. 325-341); L. Trenti, “Nihil dictum quin prius dictum”. La fenomenologia sentenziosa in Leon Battista Alberti, in “Quaderni di retorica e poetica”, 2, 1986, pp. 51-62; M.L. McLaughlin, Literary Imitation in the Italian Renaissance. The Theory and Practice of Literary Imitation in Italy from Dante to Bembo, Oxford 1995, pp. 149-166; Cassani, La fatica del costruire…, cit. [cfr. nota 19], pp. 96-100. Cfr. anche R. Cardini, Mosaici. Il “nemico” dell’Alberti, Roma 1990; Id., Alberti o della nascita dell’umorismo moderno. I, in “Schede umanistiche”, 1, 1993, pp. 43-46. Sul passo in questione si è soffermata Christine Smith, analizzandolo in relazione all’architettura, cfr. Smith, Architecture…, cit. [cfr. nota 26], pp. 1934, 69-71 (con ulteriore bibliografia); cfr. anche Leon Battista Alberti e l’ornamento: rivestimenti parietali e pavimentazioni, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp. 196-215. Nei suoi contributi, la Smith sostiene che Alberti consideri passibile di innovazione soltanto l’aspetto tecnicoingegneresco dell’architettura (cfr. Smith, Architecture…, cit., pp. 27-28 – ma vedi pp. 70-71 – in ciò seguita da L. Kanerva, Defining the Architect in Fifteenth Century Italy. Exemplary Architects in L. B. Alberti’s De re aedificatoria, Helsinki 1998, pp. 133-137), senza tener conto dei passi del De re aedificatoria che attestano il contrario, e senza considerare quanto le architetture albertiane abbiano da dirci in proposito. per la regolazione della luce compare anche in Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp. 20-21; Lorenz, Zur Architektur L.B. Albertis…, cit. [cfr. nota 22], p. 93; R. Tavernor, On Alberti and the Art of Building, New Haven-London 1998, p. 167. Secondo Howard Saalman e Livio Volpi Ghirardini, la funzione dell’ombrellone è di riparare dalla pioggia l’area sottostante, cfr. Saalman, Volpi Ghirardini, Law, Recent Excavations…, cit. [cfr. nota 33], p. 361, e Recenti scavi…, cit. [cfr. nota 33], p. 166. 30. Cfr. De re aedificatoria, IX, 10, cit. [cfr. nota 10], p. 856-857. Sull’uso delle fonti da parte di Alberti, ultimi di una serie di contributi, cfr. Burns, Antike Monumente…, cit. [cfr. nota 27], passim; P. Davies, Observations on Alberti’s Attitude to Late Medieval Architecture, in L. Golden (a cura di), Raising the Eyebrow: John Onians and World Art Studies. An Album Amicorum in His Honour, Oxford 2001, pp. 43-65. Vedi anche A. Grafton, Leon Battista Alberti: The Writer as Reader, in Id., Commerce with the Classics. Ancient Books and Renaissance Readers, Ann Arbor 1997, pp. 52-92, e R. Rinaldi, “Melancholia christiana”. Studi sulle fonti di Leon Battista Alberti, Firenze 2002, entrambi dedicati alle fonti letterarie, ma molto utili anche per l’approccio albertiano ai modelli architettonici. 35. Carlo Bertelli definisce l’ombrellone visto da lontano “quasi un arco di trionfo che si innalzi al di sopra dei tetti delle case” (C. Bertelli, “La loggia auanti la Chiesa” a Mantova, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], p. 244). Nel trattato, Alberti prescrive per i timpani un’altezza non minore di un quinto, e non maggiore di un quarto della larghezza della facciata, De re aedificatoria, VII, 12, cit. [cfr. nota 10], pp. 616-617. Nel caso di Sant’Andrea il rapporto è all’incirca di un sesto, e dà luogo al timpano più basso fra quelli presenti in edifici albertiani (in San Sebastiano 1:4.15, in Santa Maria Novella 1:3.40). 31. Si veda, ad esempio, il passo del De re aedificatoria nel quale Alberti distingue due tipi di praecepta: le opzioni filosofiche più generali, e i princìpi che più direttamente regolano l’architettura, VI, 3, cit. [cfr. nota 10], p. 456-457. Sull’idea di natura in relazione alle arti, nell’opera teorica albertiana, cfr. Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr. nota 27], pp. 5062; M. Paoli, L’idée de nature chez Leon Battista Alberti (1404-1472), Paris 1999, pp. 185-187. Sull’artificiosità dell’ars, cfr. Grafton, Leon Battista Alberti…, cit. [cfr. nota 30], pp. 75-79; Wolf, The Body and Antiquity…, cit. [cfr. nota 20], passim. A questo proposito è fondamentale il concetto di ornamentum nel De re aedificatoria, sul quale ho avuto modo di soffermarmi in un intervento al convegno Gli impegni civili del De re aedificatoria, Mantova 2002, di cui è prevista la pubblicazione negli atti. 32. Cfr. R. Wittkower, Architectural Principles in the Age of the Humanism, London 1962 (I ed. 1949), trad. it. Torino 1964 (III ed.), p. 55. La prima formulazione di questa idea si trova in F. Schumacher, Alberti und seine Bauten, in “Die Baukunst”, II, 1, 1899, p. 11. 33. H. Saalman, L. Volpi Ghirardini, A. Law, Recent Excavations under the Ombrellone of Sant’Andrea in Manta: Preliminary Report, in “Journal of the Society of Architectural Historians”, LI, December 1992, pp. 357-376; Recenti scavi sotto l’“ombrellone” di Sant’Andrea in Mantova, in “Atti e memorie dell’Accademia nazionale virgiliana di scienze lettere e arti”, LX, 1992, pp. 165-190. 34. Cfr. Lotz, Zu Hermann Vischers…, cit. [cfr. nota 12], p. 174 (con bibliografia precedente); Hubala, Sant’Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 9], pp. 355-356, con discussione seguente pp. 356-359. L’ipotesi dell’ombrellone come apparato 36. Cfr. Saalman, Volpi Ghirardini, Law, Recent Excavations…, cit. [cfr. nota 33], passim; e Recenti scavi…, cit. [cfr. nota 33], passim. La questione dell’uso della parte superiore dell’avancorpo viene lasciata aperta in Bertelli, “La loggia auanti la Chiesa”…, cit. [cfr. nota 35], p. 243, che tuttavia sottolinea l’importanza del tondo con i santi Andrea e Longino recanti le pissidi del sangue, dipinto negli anni Ottanta del Quattrocento – un tempo al centro del timpano. 37. “Ceterum io intesi a questi dì che la S. V. et questi vostri cittadini ragionavano de edificare qui a Sancto Andrea. Et che la intenzione principale era per havere gram spatio dove molto populo capesse a vedere el sangue de Cristo” (lettera di Alberti a Ludovico Gonzaga, ottobre 1470, pubblicata in Alberti, Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], III, p. 295. 38. Cfr. Tavernor, On Alberti…, cit. [cfr. nota 34], pp. 179-182. I documenti in questione sono pubblicati in Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp. 62, 65-66. Cfr. anche Chambers, Sant’Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 8], p. 113. A favore di questa ipotesi è anche la struttura dell’avancorpo – inedita per l’Italia del XV secolo – con le due torri scalari, entrambe attrezzate con scale a doppia rampa. Struttura che sembra rimandare alle chiese medievali con avancorpo – spesso connesso al culto di reliquie – che si apre verso l’interno. Sull’argomento, che mi ripropongo di studiare in modo più approfondito in altra occasione, cfr. anche C.L. Frommel, Il San Sebastiano e l’idea del tempio in Leon Battista Alberti, in Leon Battista Alberti e il Quattrocento. Studi in onore di Cecil Grayson e Ernst Gombrich, atti del convegno (Mantova, 1998), a cura di L. Chiavoni, G. Ferlisi, M. V. Grassi, Firenze 2001, pp. 300-304, contributo nel quale si ipotizza invece che gli avancorpi delle chiese mantovane siano da mettere in relazione con il tempio antico. Quanto all’ostensione, Saalman e Volpi Ghirardini ritengono che avvenisse verso l’esterno, e 30 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org verso gli ambienti all’interno dell’avancorpo, in particolari occasioni di pericolo, ad esempio epidemie, cfr. Saalman, Volpi Ghirardini, Law, Recent Excavations…, cit. [cfr. nota 33], pp. 371-76, Recenti scavi…, cit. [cfr. nota 33], pp. 173177. Ma cfr. Bertelli, “La loggia auanti la Chiesa”…, cit. [cfr. nota 35], p. 243, che fa notare come nel secondo Quattrocento l’ostensione delle reliquie avvenisse di norma all’interno delle chiese, e Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 165, nota 250. Le ostensioni della reliquia iniziano nel 1401, per iniziativa di Francesco Gonzaga, e assumono un chiaro significato politico, ribadito dalla presenza della pisside del sangue su gran parte delle monete coniate da Ludovico Gonzaga, dopo una prima comparsa nel grosso del 1432 di Gianfrancesco, cfr. R. Capuzzo, Note sulla tradizione e sul culto del sangue di Cristo nella Mantova medievale, in Storia e arte religiosa a Mantova. Visite di Pontefici e la reliquia del Preziosissimo Sangue, catalogo della mostra (Mantova, 1991), Mantova 1991, pp. 61-72. Sulle monete, cfr. Corpus nummorum italicorum, IV, Lombardia (zecche minori), Milano 1913, pp. 229-234; Monete e medaglie di Mantova e dei Gonzaga dal XII al XIX secolo. La collezione della Banca Agricola Mantovana, III, Il Comune. I Gonzaga capitani generali del popolo di Mantova e vicari imperiali. I Gonzaga marchesi di Mantova (1117-1530), Milano 1997, pp. 95-132. Cfr. anche J. Lawson, The Palace at Revere and the Earlier Architectural Patronage of Lodovico Gonzaga, Marquis of Mantua (1444-78), Ph.D. Dissertation, University of Edinburgh, 1979, pp. 248249. Da ricordare, naturalmente, anche la medaglia di Ludovico fusa nel 1475, per celebrare la costruzione di Sant’Andrea, cfr. L. Syson, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], cat. 94, pp. 488-489. 39. L’intervento di fine Settecento ha cancellato con l’apertura del grande oculo, ancora oggi esistente, e con la distruzione del pavimento originario, ogni traccia della sistemazione originaria. Sull’oculo cfr. Saalman, Volpi Ghirardini, Law, Recent Excavations…, cit. [cfr. nota 33], p. 361; e Recenti scavi…, cit. [cfr. nota 33], p. 180, nota 22, dove però si sostiene che la finestra originaria fosse circolare. Robert Tavernor propone una ricostruzione con apertura centinata, come richiede l’ipotesi dell’ostensione della reliquia verso la navata, cfr. Tavernor, On Alberti…, cit. [cfr. nota 34], p. 179. 40. Saalman e Volpi Ghirardini ipotizzano per il nicchione la funzione di contrafforte, e di alleggerimento della muratura., cfr. Saalman, Volpi Ghirardini, Law, Recent Excavations…, cit. [cfr. nota 33], pp. 363-64, Recenti scavi…, cit. [cfr. nota 33], p. 167. Quanto alla presenza di un altare, sarebbe utile il confronto con analoghe soluzioni in avancorpi medievali. 41. Cfr. P. Gavasseti da Novellara, De precioso Christi sanguine libellus, Mantova, Biblioteca Comunale, ms. 1281, cc.19v; cfr. A.B. Cashman III, Public Life in Renaissance Mantua: Ritual and Power in the Age of the Gonzaga 1444-1540, Ph.D. Dissertation, Duke University, Durham (NC) 1999, pp. 182-189. È possibile che il testo sia stato scritto in occasione della nomina del cardinal Sigismondo Gonza- ga – cui l’opera è dedicata – a primicerio di Sant’Andrea, nel 1511. Sul manoscritto cfr. C. Guerra, in Storia e arte religiosa a Mantova…, cit. [cfr. nota 3], cat. 18, pp. 133-134. 42. Cfr. Cashman III, Public Life…, cit. [cfr. nota 41], pp. 182-189. 43. Ivi, p. 181. Sulla seconda campagna di costruzione, cfr. Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp. 23-27. Esistono tuttavia prove documentarie di un interesse per la reliquia da parte di Federico Gonzaga già nel 1523, quando vengono ordinati nuovi reliquiari, cfr. G. Pecorari, Le commissioni artistiche della famiglia Boschetti, in Giulio Romano, catalogo della mostra (Mantova, 1989), Milano 1989, p. 444. 44. Cfr. T.B. Thurber, I disegni di Pompeo Pedemonte nel Civico Gabinetto dei disegni di Milano, in “Il disegno di architettura”, V, 9, 1994, pp. 51-52, che ritiene, a torto, che il podio medievale si trovasse nella stessa posizione. Non si trova menzione delle stanze sotto l’ombrellone nella visita apostolica del 1575, mentre ci si aspetterebbe il contrario se fossero utilizzate per il culto, documento trascritto in Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp. 77-79. 45. Cfr. C. Cerretelli, La pieve e la cintola. Le trasformazioni legate alla reliquia, in La Sacra Cintola nel Duomo di Prato, Prato 1995, pp. 89-104. 46. Nulla sappiamo, invece, dell’uso previsto per la facciata di San Satiro. Cfr. A. Bruschi, Alberti e Bramante: un rapporto decisivo, in Leon Battista Alberti e il Quattrocento…, cit. [cfr. nota 38], pp. 357-538, dove si sottolineano le somiglianze fra le due facciate, e si fa notare che la facciata come struttura tridimensionale complessa abbia un precedente nel San Sebastiano a Mantova, e si ritrovi in seguito nei progetti bramanteschi per San Pietro e per la basilica di Loreto. A queste considerazioni credo si possa aggiungere che Bramante avesse in mente un avancorpo aperto sulla navata, vedi il disegno pubblicato in R. Schofield, A Drawing for S. Maria presso S. Satiro, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XXXIX, 1976, pp. 246-253. Sulla chiesa bresciana, cfr. M. Ceriana, La Beata Vergine dei Miracoli a Brescia, in B. Adorni (a cura di), La chiesa a pianta centrale. Tempio civico del Rinascimento, Milano 2002, pp. 144-145, e Id., Il santuario civico della Beata Vergine dei Miracoli a Brescia, in “Annali di architettura”, XIV, 2002, p. 75, oltre alle analogie del lessico architettonico, quello che qui interessa è la presenza della grande tribuna sulla facciata, aperta sia all’esterno che all’interno, da dove era visibile l’immagine sacra. 47. Cfr. Bertelli, “La loggia auanti la Chiesa”…, cit. [cfr. nota 35], p. 244; Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 156. Un rapido cenno in proposito anche in Hubala, Sant’Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 9], p. 355. 48. Cfr. S. de Blaauw, Das Pantheon als christlicher Tempel, in “BOREAS”, XVII, 1994 (Bild- und Formensprache der spätantiken Kunst. Hugo Brandenburg zum 65. Geburtstag), pp. 13-26. 49. Cfr. T. Buddensieg, Criticism and Praise of the Pantheon in the Middle Ages and the Renaissance, in Classical Influences on European Culture A.D. 500-1500, atti del convegno (Cambridge, 1969), a cura di R.R. Bolgar, Cambridge 1971, pp. 263-267; F. Lucchini, Pantheon, Roma 1996, pp. 14-16; S. Pasquali, Il Pantheon. Architettura e antiquaria nel Settecento a Roma, Modena 1996, pp. 3-5, 19 nota 4. Gli studiosi di architettura antica, tuttavia, continuano a porsi domande, che l’edificio sembra eludere, cfr. P. Davies, D. Hemsoll, M. Wilson Jones, The Pantheon, Triumph of Rome or Triumph of Compromise, in “Art History”, X, 1987, pp. 133153; M. Wilson Jones, Principles of Roman Architecture, New Haven-London 2000, pp. 177-214. Fonti antiche: Plinio, Naturalis historia, XXXIV, 13; XXXVI, 38 (G. Plinio Secondo, Storia Naturale, ed. A. Corso, R. Mugellesi, Gianpiero Rosati, Torino 1988, V, pp. 124-125; 592-593). Cassio Dione, Rhomaïkè historía, LIII, 27; LXVI, 24. 50. Ipotesi avanzata in Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 156. 51. Cfr. F.W. Kent, Lorenzo de’ Medici’s Acquisition of Poggio a Caiano in 1474 and an Early Reference to his Architectural Expertise, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XLII, 1979, pp. 254-257. Un altro episodio è documentato in P.C. Marani, Leonardo e Bernardo Rucellai fra Ludovico il Moro e Lorenzo il Magnifico sull’architettura militare: il caso della rocca di Casalmaggiore, in Il principe architetto, cit. [cfr. nota 8], pp. 99-123. Sulla figura di Bernardo, cfr. G. Pellegrini, L’umanista Bernardo Rucellai. Le sue opere storiche, Livorno 1920; F. Gilbert, Bernardo Rucellai and the Orti Oricellari. A Study on the Origin of Modern Political Thought, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XII, 1949, pp. 101-131; Id., Bernardo Rucellai e gli Orti Oricellari. Studio sull’origine del pensiero politico moderno, in Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna 1964, pp. 7-58; F.W. Kent, The Making…, cit. [cfr. nota 21], pp. 68-85; W. McCuaig, Bernardo Rucellai and Sallust, in “Rinascimento”, XXII, 1982, pp. 75-98; C. Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980, pp. 138-142; S.B. Butters, The Triumph of Vulcan. Sculptors’ Tools, Porphyry, and the Prince in Ducal Florence, Firenze 1996, pp. 133143; R.M. Comanducci, Il carteggio di Bernardo Rucellai. Inventario, Firenze 1996, pp. VII-XLIII. Orlandi, Le prime fasi nella diffusione del Trattato architettonico albertiano, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp. 96105; S. Fiaschi, Una copia di tipografia finora sconosciuta: il Laurenziano Plut. 89 sup. 113 e l’editio princeps’ del De re aedificatoria, in “Rinascimento”, s. II, XLI, 2001, pp. 267-284. Sui rapporti, di non semplice lettura, fra i due, cfr. L. Boschetto, Leon Battista Alberti e Firenze, Firenze 2000, pp. 117 nota 74, 168, 17981; e Id., Incrociare le fonti: archivi e letteratura. Rileggendo la lettera di Leon Battista Alberti a Giovanni di Cosimo de’ Medici, 10 aprile [1456?], di prossima pubblicazione in “Medioevo e Rinascimento” (ringrazio Luca Boschetto per avermi consentito la lettura del manoscritto), che fa riferimento all’interesse di Lorenzo per il trattato, rimandando alla lettera di Niccolò Michelozzi che descrive il Magnifico ai Bagni di San Filippo, impaziente di ricevere i fascicoli dell’editio princeps (lettera pubblicata in M. Martelli, Studi laurenziani, Firenze 1965, p. 191, nota 53); e torna sulla questione del dialogo fra Lorenzo e Leon Battista messo in scena da Cristoforo Landino nelle Disputationes Camaldulenses. Quanto a Lorenzo intendente di architettura, vedi da ultimo R. Pacciani, Lorenzo il Magnifico: promotore, fautore, “architetto”, in Il principe architetto, cit. [cfr. nota 8], pp. 377-411 (con la fin troppo ampia bibliografia precedente, che contempla diversi incroci con Alberti). Di recente è comparso anche G.F. Borsi, Alberti e Lorenzo, in Leon Battista Alberti, atti del convegno (Paris, 1995), a cura di F. Furlan, TorinoParis 2000, pp. 871-878. 52. Sul collezionismo di Bernardo, cfr. R.M. Comanducci, Gli Orti Oricellari, in “Interpres”, XV, 1995-96, pp. 302-358. Sul giardino e la collezione, D. Becucci, Dissertatio de vita et in rem litterariam meritis Bernardi Oricellarii, in Rerum Italicarum Scriptores, ed. a cura di G. Tartini, II, Firenze 1770, coll. 771-772. cfr. anche C. Elam, Lorenzo de’ Medici’s Sculpture Garden, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 1-2, 1992, p. 65. 54. Bernardo Rucellai, De urbe Roma, in Rerum Italicarum Scriptores, cit. [cfr. nota 52], col. 796. Sono diversi i passi in cui Bernardo cita Alberti, con espressioni di elogio. Nel passo dedicato alla piramide di Caio Cestio, Bernardo fa riferimento alla Descriptio urbis Romae, lodando l’esatta misurazione della città grazie a un congegno matematico (machinis mathematicis). E mostra inoltre di apprezzare gli insegnamenti albertiani anche a proposito di un altro locus cruciale della cultura architettonica al volgere del secolo: gli ordini architettonici. Allineati i genera vitruviani (“quatuor fuisse genera aedificandi, Corinthium, Ionium, Doricum, ac Tuscanicum in aperto est”), cita Leon Battista, elogiandone la capacità di illuminare i passi più ostici del testo antico. Cfr. ivi, coll. 1099 e 992. Altri riferimenti all’opera di Alberti in coll. 880, 1101 e 1129. Sul legame con Alberti insiste Comanducci, Gli Orti Oricellari, cit. [cfr. nota 52], passim. Cfr. anche S. Borsi, Leon Battista Alberti e Roma, Firenze 2003, pp. 330-333, contributo nel quale stranamente si definisce il De urbe Roma un “opuscolo”, quasi fosse un agile pamphlet e non il tomo poderoso di centinaia di carte che è. Vedi anche G. Morolli, Antologia delle fonti albertiane dall’umanesimo all’età neoclassica, in F. Borsi, Leon Battista Alberti. L’opera completa, Milano 1980, II ed., p. 364: “l’opuscolo, per breve che sia…”. 53. Su Lorenzo e Alberti, e in particolare sull’editio princeps del De re aedificatoria, del 1485, cfr. A. Spiriti, La prefazione del Poliziano al De re aedificatoria di Leon Battista Alberti: ipotesi di lettura, in “Arte. Documento”, 1992, pp. 93-96; G. 55. Cfr. Bernardo Rucellai, De urbe Roma, cit. [cfr. nota 54], coll. 828 (“Ceterum quod substructionum cadavera, duce Baptista Alberto, olim invisimus, eas quoad per vetustatem lucuit suis lineamentis describendas curavimus”), 31 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org 839, 1077. Cfr. Mancini, Vita di Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 6], p. 486. Il metodo che traspare leggendo il De urbe Roma rimanda alla tradizione degli antiquari quattrocenteschi – Biondo Flavio in testa – ma ha molto in comune con l’approccio albertiano all’antico. Le fonti classiche sono messe a confronto con epigrafi, monete e soprattutto con gli edifici, analizzati direttamente – anche per quanto attiene a tecniche costruttive e strutture – grazie all’uso del disegno. In proposito, cfr. R. Weiss, The Renaissance Discovery of Classical Antiquity, London 1969, trad. it. Padova 1989, pp. 89-93; P. Jacks, The Antiquarian and the Myth of Antiquity. The Origins of Rome in Renaissance Thought, Cambridge 1993, pp. 157161. Vedi anche M.E. Micheli, Due disegni di terme nel De urbe Roma di Bernardo Rucellai, in “Notizie da palazzo Albani”, XX, 1-2, 1991, pp. 23-28. Per il 1505 come data ante quem, cfr. Gilbert, Bernardo Rucellai…, cit. [cfr. nota 51], p. 110, nota 1. Weiss propone un inizio dopo il 1495, The Renaissance Discovery…, cit., p. 91, mentre una stesura fra il 1492 e il 1494 viene ipotizzata in Jacks, The Antiquarian…, cit., p. 158. Sembra di poter escludere quest’ultima ipotesi, dal momento che Bernardo cerca di procurarsi una copia in volgare della Storia romana di Cassio Dione – testo che circola con difficoltà nel Quattrocento, e che viene ripetutamente citato nel De urbe Roma – nel luglio 1499; come ci testimonia una lettera di Taddeo Vimercati al duca di Milano in cui si domanda, per conto di Bernardo, una copia della versione in volgare dell’opera, approntata da Niccolò Leoniceno, e in possesso del cardinale Ippolito d’Este, cfr. V. Farinella, Archeologia e pittura a Roma tra Quattrocento e Cinquecento, Torino 1992, p. 111. 56. Sul culto di Ercole e la dedicazione a Giove, cfr. Rucellai, De urbe Roma, cit. [cfr. nota 54], coll. 1004-1005. In tutti gli incunaboli della Naturalis Historia che ho avuto modo di controllare – tre delle quindici edizioni quattrocentesche (Venezia 1469, editio princeps con curatore anonimo, XXXVI, 39 e 102; Roma 1470, curata da Giovanni Andrea de’ Bussi, nella copia posseduta dal cardinal Bessarione, Venezia, Biblioteca Marciana, inc. 102, priva di numerazione; Venezia 1483, curata da Filippo Beroaldo, XXXVI, 5 e 15) e la traduzione in volgare di Cristoforo Landino (Venezia 1476, XXXVI, 5 e 15) – compaiono il riferimento al culto di Ercole, e al culto di Giove Ultore (XXXVI, 38, e in XXXVI, 102, delle edizioni moderne). In questo secondo passo, “Pantheon Iovi Ultori ab Agrippa factum” ha preso il posto di “tectum diribitori ab Agrippa factum” in un elenco delle meraviglie architettoniche di Roma. Sulla fortuna di Plinio e sulle edizioni, cfr. C.G. Nauert jr., Caius Plinius Secundus, in F.E. Cranz, P.O. Kristeller (a cura di), Catalogus translationum et commentariorum: Medieval and Renaissance Latin Translations and Commentaries, IV, Washington D.C. 1980, pp. 297-351. Prima di Rucellai, fa riferimento al passo corrotto con l’intitolazione a Giove Ultore Giovanni Tortelli, nel lemma Rhoma del De ortographia – libro scritto probabilmente fra il 1437 e il 1451, cfr. Giovanni Tortelli, Roma antica, ed. a cura di L. Capoduro, Roma 1999, p. 72. 57. Il passo dedicato al Pantheon come orologio solare – presente nell’apografo in Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 754, cc. nn., su cui è stata condotta l’edizione settecentesca, e su cui ho riscontrato i passi sul Pantheon – non è riportato nell’edizione a stampa, probabilmente perché l’editore disponeva di un Vitruvio emendato (il passaggio viene corretto già nell’edizione di Fra’ Giocondo), mentre le corruzioni della Naturalis Historia permangono anche nelle edizioni disponibili nel XVIII secolo. Il passo vitruviano in questione si trova in De architectura, 9, 8, 1, cit. [cfr. nota 18], pp. 1234-1235, e la svista di Bernardo ci consente di individuare con una certa precisione l’edizione di cui disponeva. Al posto di Panthium, che ricorre nell’editio princeps di Giovanni Sulpicio da Veroli, e in codici manoscritti quattrocenteschi (Vitruvius Pollio, De architectura, Roma 1486, IX, De horologiorum ratione …; e Lucii Vitruvii de architectura libri decem, BAV, Urb. Lat., c. 124r; e Vat. Lat. 8489, c. 104r) e del definitivo plinthium, presente già in Fra’ Giocondo (M. Vitruvius per Iucundum solito castigator factus …, Venezia 1511, c. 92v), il “Pantheum sive lacunar” citato fra gli orologi – nella versione evidentemente letta da Rucellai – si trova, a quanto ho potuto vedere, solo nelle due edizioni fiorentina e veneziana del 1496 e 1497. Edizioni che si rifanno a Sulpicio (X, De horologiorum), introducendo correzioni. Sulla fortuna di Vitruvio nel XV secolo, cfr. P.N. Pagliara, Vitruvio da testo a canone, in Settis (a cura di), Memoria dell’antico…, cit. [cfr. nota 25], pp. 16-33, in particolare pp. 32-33. 58. Cfr. H. Mattingly, Coins of the Roman Empire in the British Museum, VI, Severus Alexander to Balbinus and Pupiens, London 1976, II ed., 8, 207-208, p. 134. Sulla conoscenza delle monete da parte degli antiquari, cfr. G. Bodon, I monumenti antichi di Roma negli studi numismatici tra XV e XVI secolo, in “Xenia Antiqua”, V, 1996, pp. 107-142. La collocazione di un portico davanti al tempio gli consente, per di più, di trovar posto ai capitelli bronzei pliniani, scomparsi dall’edificio nei successivi rifacimenti. È possibile che Rucellai avesse in mente Vitruvio, 5, 9, 9, dove si suggerisce di disporre ambulacri davanti ai templi di tutti gli dei; non si serve, tuttavia, del lessico del passo (ambulatio), cfr. Vitruvio, De architectura, cit. [cfr. nota 18], pp. 580-581. 59. Cfr. De re aedificatoria, VII, 3, cit. [cfr. nota 10], pp. 546-547: “Iovisque templum, quod semina rerum omnium patefaciat, tecto stare oportere aiebat Varro perforato”. La lettera in Alberti, Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], III, p. 293, vedi supra nota 11. È dunque probabile che anche Alberti si riferisse allo stesso passo pliniano, il che non esclude la possibilità di uno scambio di opinioni fra i due sull’argomento. 60. Una traduzione, che lasci in sospeso agnatus, suona all’incirca: “i nostri più esperti conoscitori di architettura affermano che lo spazio ornato da colonne gigantesche e numerose, provenienti dall’isola di Ilya, spazio in genere chiamato portico, fosse un pronao, il vestibolo del tempio, congiunto al resto dell’edificio in modo tale, da non poter essere separa- to, e tale da sembrare unito al tempio” (Rucellai, De urbe Roma, cit. [cfr. nota 54], col. 1005). 61. Gli studiosi che ho interpellato sull’interpretazione del passo – Luca Boschetto, Ida Gilda Mastrorosa, Richard Schofield, Massimo Zaggia – hanno lasciato aperto il problema oppure dato pareri diversi sulla questione cruciale del significato di agnatus, attribuendo al termine ora uno ora l’altro dei due significati possibili. Sui significati del termine, cfr. LTL, I, s. v., dove, fra l’altro, si rileva che il termine assume il significato di superpositus, a proposito di pietre e metalli (Plinio, Naturalis Historia, VIII, 33), significato che sembrerebbe confermare l’intenzione di alludere a una sequenza temporale. Da segnalare infine la presenza del termine agnatio, con l’esplicito significato di prossimo alla famiglia ma giuridicamente distinto, in un testo trecentesco che conobbe una vastissima diffusione, il De insignis et armis, di Bartolo da Sassoferrato (paragrafi 6 e 7). Il problema specifico rimane aperto, il che, però, mi pare non infici l’interpretazione complessiva. 62. Rucellai, De urbe Roma, cit. [cfr. nota 54], col. 1005. Come si è detto in precedenza sono diversi gli espedienti ottici presenti nel Pantheon, espedienti che potrebbero legittimare una lettura fondata sulla visione del rapporto fra rotonda e cella. Lo stesso Bernardo fa riferimento alla deformazione, con funzione illusionistica, dei lacunari della cupola nel passo all’inizio del capitolo sul Pantheon, cassato dall’editore settecentesco del testo. Sulla curvatura del pavimento, e sul suo possibile significato, cfr. Wilson Jones, Principles…, cit. [cfr. nota 49], p. 184. È probabile che all’epoca della stesura del De urbe Roma l’ipotesi sul Pantheon realizzato per parti circolasse ampiamente. All’inizio del Cinquecento, infatti, risalgono disegni che presentano l’edificio con facciata muraria: il foglio Louvre, Département des Arts Graphiques, Collection Rothschild, 1409 DR, che fa parte di una raccolta di un centinaio di disegni della stessa mano, attribuibili a un artista probabilmente attivo nel nord Italia entro il primo decennio del secolo (cfr. M. Beltramini, Le illustrazioni del Trattato d’architettura di Filarete: storia, analisi e forma, in “Annali di architettura”, XIII, 2001, pp. 42 e 51-52 note 180-182), e presenta un arco di trionfo a due fornici, che inquadrano un Colosseo e un Pantheon rivisitati; due fogli del Victoria and Albert Museum, attribuibili a un collaboratore di Jacopo Ripanda, con carri trionfali su cui torreggiano Colosseo e Pantheon, disegni probabilmente tardi ma che sembrano tratti da analoghi disegni eseguiti nel 1492, cfr. Farinella, Archeologia e pittura…, cit. [cfr. nota 55], pp. 181-182. Da considerare anche le interpretazioni dell’edificio antico date in occasione del concorso per San Giovanni dei Fiorentini a Roma del 1518-19, su cui cfr. Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr. nota 27], pp. 159-178. 63. Sul cassone cfr. R. Milesi, Mantegna und die Reliefs der Brauttruhen Paola Gonzagas, Klagenfurt 1975; D. Gregori, Die Brauttruhen der Paola Gonzaga: zu Herkunft, Ikonographie und Autorenfrage der Cassone-Tafeln im Kärntner Landesmuseum, in “Veröfflentlichungen des Tiroler Landesmuseums Ferdinandeum”, 1999, pp. 5-17; G. Ammann, in 1500 circa. Leonardo e Paola. Una coppia diseguale. De ludo globi. Il gioco del mondo. Alle soglie dell’impero, catalogo della mostra (Innsbruck, 2000), Milano 2000, cat. 1.9.6, pp. 141-142; S. Ferino-Pagden, Nozze Gonzaga. Andrea Mantegna e i cassoni nuziali di Paola Gonzaga, in “FMR”, 149, 2001, pp. 17-59. Vedi anche A. Martindale, The Triumphs of Caesar by Andrea Mantegna, London 1979, trad. it. Milano 1980, pp. 49-50. In genere la facciata viene messa in relazione con Sant’Andrea, cfr. anche Johnson, S. Andrea in Mantua…, cit. [cfr. nota 3], pp. 47 e 112 note 39-40. Per il rapporto fra Alberti e Mantegna, cfr. K. Christiansen, Rapporti presunti, probabili e (forse anche) effettivi tra Alberti e Mantegna, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp. 336357; Bulgarelli, Caso e ornamento…, cit. [cfr. nota 11], passim. 64. De re aedificatoria, IX, 10, cit. [cfr. nota 10], pp. 856-857: “Sic istic, quotquot ubique aderunt opinione et consensu hominum probata opera, perquam diligentissime spectabit, mandabit lineis, notabit numeris, volet apud se diducta esse modulis atque exemplaribus; cognoscet repetet ordinem locos genera numerosque rerum singularum […] sed in primis disquiret, quid in quocunque sit, artificii percogitati et reconditi aut inventi ratione, rarum et admirabile”. 65. Il gioco dell’alternanza fra pieno e vuoto in asse all’interno del Pantheon (sul quale cfr. Wilson Jones, Principles…, cit. [cfr. nota 49], pp. 193-196) potrebbe essere all’origine della curiosa soluzione adottata nella loggia di Sant’Andrea, dove sulle volte laterali sono disposti in asse alternativamente vuoto dei lacunari e pieno della costola intermedia, su questo cfr. anche Volpi Ghirardini, La ‘porta dei sette cieli’…, cit. [cfr. nota 4], pp. 2223. Sull’apprezzamento dei disassamenti, in genere molto criticati fra fine Quattrocento e primo Cinquecento, dell’edificio antico da parte di Alberti, cfr. anche Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr. nota 27], p. 210 nota 105, che ipotizza una ripresa sulla facciata di Santa Maria Novella. 66. Anche il fatto che dimensioni e passo dei modiglioni della cornice del pronao differiscano da quelli dei corrispondenti modiglioni del corpo intermedio e della rotonda (cfr. Wilson Jones, Principles…, cit. [cfr. nota 49], p. 203) suggerisce una distinzione. 67. Sul disegno di Peruzzi, databile ai primi anni Trenta del Cinquecento, cfr. H. Burns, A Peruzzi Drawing in Ferrara, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, XII, 3-4, 1966, pp. 245-270; vedi anche H. Wurm, Baldassarre Peruzzi. Architekturzeichnungen, Tübingen 1984, p. 473. Si tratta di una sezione molto accurata, eseguita sull’asse principale dell’edificio, nella quale la quota dell’arco si può mettere facilmente in relazione con la cornice alla base del timpano, che si trova alla stessa altezza della trabeazione del primo ordine all’interno. Per una sezione frontale del corpo intermedio, cfr. K. De Fine Licht, The 32 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org Rotunda in Rome. A Study of Hadrian’s Pantheon, Copenhagen 1968, p. 67. 68. Il fatto che Alberti faccia ricorso alla locuzione porticus Agrippae per indicare il pronao del Pantheon sembra confermare la nostra ipotesi, vedi De re aedificatoria, VI, 11, cit. [cfr. nota 10], pp. 510-511. Successivamente anche Andrea Palladio e Carlo Fontana penseranno a un primo edificio di epoca repubblicana, cfr. Wilson Jones, Principles…, cit. [cfr. nota 49], p. 200. Sulla digressione del VI libro, cfr. De re aedificatoria, VI, 3, cit., pp. 452457. Vedi J. Onians, Bearers of Meaning. The Classical Orders in Antiquity, the Middle Ages, and the Renaissance, Princeton 1990, pp. 149-152 (poco convincente, però, l’ipotesi dell’approccio nazionalistico di Alberti); H.-K. Lücke, Alberti, Vitruvio e Cicerone, in Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 4], pp. 83-87, e Id., Das Bauwerk als Gedankenwerk…, cit. [cfr. nota 20], pp. 16-27; V. Biermann, Ornamentum. Studien zum Traktat ”De re aedificatoria“ des Leon Battista Alberti, Hildesheim 1997, pp. 88-92. La colonna come primarium certe ornamentum in De re aedificatoria, VI, 13, cit., pp. 520-21. 69. Cfr. Buddensieg, Criticism and Praise…, cit. [cfr. nota 49], p. 265. Per un approccio diverso proprio riguardo al rapporto fra arco dell’andito e timpano superiore del Pantheon, possiamo citare – a titolo di esempio – Andrea Palladio. Nel trattato la quota della cornice esterna è innalzata per impedire che nella sezione trasversale sul pronao avvengano contatti illeciti fra membrature. Sembra questo l’unico motivo plausibile per modificare l’allineamento fra trabeazione interna ed esterna. La stessa correzione, a quanto pare, compare nel disegno di Palladio RIBA, VIII, 9 (vedi G. Zorzi, I disegni delle antichità di Andrea Palladio, Venezia 1958, p. 77 e fig. 165) che rappresenta l’esterno dell’edificio con sezione sul pronao. 70. Sul tema albertiano della vicissitudine cfr. E. Garin, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Bari 1990, pp. 136-137; Cassani, La fatica del costruire…, cit. [cfr. nota 19], pp. 37-60, (con bibliografia precedente). 71. Da tener presente che la parte superiore della facciata di Sant’Andrea non è compiuta. Come ha notato Livio Volpi Ghirardini, le rampe ai due lati dell’avancorpo si interrompono bruscamente, probabilmente in seguito a crolli e demolizioni, cfr. L. Volpi Ghirardini, Annotazioni del giornale dei lavori di restauro della Basilica di Sant’Andrea in Mantova dal 1985 al 1988, in “Atti e memorie dell’Accademia Virgiliana di Scienze Lettere ed Arti”, LX, 1992, pp. 144-147; Id. Ipotesi per una lettura globale della facciata della basilica di Sant’Andrea in Mantova, in “Civiltà mantovana”, XXVIII, 1993, pp. 15-17 (contributi nei quali si avanza anche un’ipotesi di ricostruzione della zona restrostante l’ombrellone). Mi pare probabile che le torri scalari, contrariamente a quanto accade oggi, emergessero dalla massa dell’edificio e fossero individuabili come elementi autonomi, tali dunque da dialogare con l’ombrellone. 72. Cfr. Mancini, Vita di Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 6], pp. 40-42. Il testo del De amore fu scritto a Venezia, cfr. Boschetto, Leon Battista Alberti…, cit. [cfr. nota 53], p. 114, nota 60. Fra le opere, la Famiglia, dove, fra l’altro, compare la descrizione di una regata, un breve elogio della città e si dice che Giannozzo vi abita volentieri, Alberti, Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], I, 138 e 189; e diversi riferimenti in De re aedificatoria, II, 6; III, 2; X, 1 e 13 (dove si trova un fugace cenno autobiografico: per mea tempora), cit. [cfr. nota 10], pp. 124-25, 180-81, 878-81, 974-75. I soggiorni veneziani di Alberti lasciano tracce sia nella prosa che nell’architettura, cfr. L. Bertolini, Prospezioni linguistiche sulla formazione di Leon Battista Alberti, in Leon Battista Alberti e il Quattrocento, cit. [cfr. nota 38], pp. 81-106; Davies, Observations…, cit. [cfr. nota 30], passim. Cfr. anche Bulgarelli, Orafo del Quattrocento…, cit. [cfr. nota 23], pp. 220-221. 73. De re aedificatoria, I, 8, cit. [cfr. nota 10], p. 63: “Aream enim totius templi cum confertissime obsolidaret, pluribus puteis refossam reliquit, quo, siqui forte flatus terrae subter conciperentur, facilem sibi exitum vendicarent”, passo che si riferisce al sistema di sfiati che originariamente metteva in connessione la cripta al coro, cfr. A. Peroni, Due citazioni per il San Marco di Venezia: gli sfiati della fabbrica contariniana (in Leon Battista Alberti, 1485); il confronto con le cupole del Sant’Antonio di Padova (in August von Essenwein, 1863), in Storia dell’arte marciana: l’architettura, atti del convegno (Venezia, 1994), a cura di R. Polacco, Venezia 1997, p. 235-239. 74. Sulla descrizione di Santa Maria del Fiore all’inizio dei Profugiorum ab aerumna libri (cfr. Alberti, Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], II, p. 108) si soffermano Smith, Architecture…, cit. [cfr. nota 26], pp. 80-97, e più in generale pp. 57-69, e J. Lawson, Alberti on Florence Cathedral, in “Word&Image”, XVIII, 4, 2002, pp. 332-347. Cfr. anche Davies, Observations…, cit. [cfr. nota 30], pp. 48-50. 75. Cfr. ivi, pp. 44-50 (con bibliografia precedente), che ipotizza la derivazione da San Marco della soluzione delle absidi nella cripta di San Sebastiano. Cfr. anche Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 133; J. Onians, Leon Battista Alberti. The Problem of Personal and Urban Identity, in La Corte di Mantova nell’età di Andrea Mantegna: 1450-1550, atti del convegno (Londra-Mantova, 1992), a cura di C. Mozzarelli, R. Oresko, L. Ventura, Roma 1997, pp. 211212. Un’ulteriore connessione marciana nel primo edificio mantovano di Alberti viene individuata da R. Schofield, in “Annali di architettura”, 1998-99, 10-11, recensione di Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, p. 351. Su Alberti e l’architettura medievale, cfr. anche M. Brandis, La maniera tedesca. Eine Studie zum Historischen Verständnis der Gotik im Italien der Renaissance in Geschichtsschreibung, Kunsttheorie und Baupraxis, Weimar 2002, pp. 70-77. 76. Cfr. Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 155. 77. Poco cambia, agli effetti della nostra analisi, che nel Quattrocento fosse visibi- le una copertura a calotta al posto del pozzo, come ipotizza O. Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, I, The Eleventh and Twelfth Centuries, Chicago-London 1984, pp. 22 e 315 nota 6, cambiando opinione rispetto a quanto sostenuto in Id., The Church of San Marco in Venice, Washington D.C. 1960, pp. 81-82 (con bibliografia precedente). Cfr. anche V. Herzner, Die Baugeschichte von San Marco und der Aufstieg Venedigs zur Grossmacht, in “Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte”, XXXVIII, 1985, pp. 46-47. 78. Cfr. M. Perry, Saint Mark’s Trophies: Legend, Superstition, and Archaeology in Renaissance Venice, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XL, 1977, pp. 27-34. Alle fonti qui passate in rassegna vanno aggiunte le terzine, datate 1442, del mercante fiorentino Jacopo d’Albizzotto Guidi: “Sopra la porta è messo con tant’arte / quatro cavai di bronzo sì ben fatti / ch’altri che Pulicreto v’ebe parte; / tutti son ben di maestrevol’atti, / formati che si vede ogni fazione / ch’ognun di maraviglia par che schiatti”, in El sommo della condizione di Vinegia, IV, 31-36, ed. M. Ceci, Roma 1995, p. 29. 79. De re aedificatoria, VIII, 6, cit. [cfr. nota 10], pp. 722-723. Un esempio del modo di procedere della filologia umanistica, in relazione a questo tema, ci viene offerto dalla Roma Triumphans di Biondo Flavio, libro che fa senz’altro parte della biblioteca di Alberti. Nel capitolo finale, le due serie documentarie cui ci siamo riferiti – fonti scritte e immagini – vengono messe a confronto, e se ne colgono differenze e somiglianze, leggendo i testi antichi davanti al celebre rilievo dell’arco di Tito, cfr. Biondo da Forlì, Roma trionfante, Venezia 1549, pp. 362v e 365r-v. Su modi e forme del trionfo durante Medioevo ed Età moderna, cfr. A. Pinelli, Feste e trionfi: continuità e metamorfosi di un tema, in S. Settis (a cura di), Memoria dell’antico nell’arte italiana, II, I generi e i temi ritrovati, Torino 1984, pp. 279-350; sul caso di San Marco, M. Jacoff, The Horses of San Marco and the Quadriga of the Lord, Princeton 1993, pp. 62-83 e passim. Sull’arco di Alfonso di Aragona a Napoli, certamente noto ad Alberti, cfr. A. Beyer, Parthenope. Neapel und der Süden der Renaissance, München-Berlin 2000, pp. 13-61; arco napoletano che, peraltro, vanta un’attribuzione albertiana, cfr. E. Bernich, Leon Battista Alberti e l’arco trionfale di Alfonso d’Aragona in Napoli, in “Napoli Nobilissima”, XII, 1903, pp. 114-119 e 131-136. Almeno un viaggio a Napoli di Leon Battista è documentato: L. Boschetto, Nuove ricerche sulla biografia e sugli scritti volgari di Leon Battista Alberti. Dal viaggio a Napoli all’ideazione del De iciarchia (maggio-settembre 1465), in “Interpres”, XX, 2001, pp. 185-194. 80. Cfr. M. Perry Caldwell, The Public Display of Antique Sculpture in Venice, 1200-1600, Ph.D. Dissertation, University of London, 1975, pp. 18-23; Perry, Saint Mark’s Trophies…, cit. [cfr. nota 78], pp. 28-33; G. Perocco, I cavalli di S. Marco a Venezia, in I cavalli di S. Marco, catalogo della mostra (Venezia, 19771978), Venezia 1977, pp. 69-82; Herzner, Die Baugeschichte…, cit. [cfr. nota 77], pp. 55-56; Jacoff, The Horses of San Marco…, cit. [cfr. nota 79], pp. 102-103, che propone un’interpretazione differente dei documenti, a mio parere comunque compatibile con la lettura politica della facciata; P. Fortini Brown, Venice and Antiquity. The Venetian Sense of the Past, New Haven-London 1996, pp. 19-20; M. Belozerskaya, K. Lapatin, Antiquity Consumed. Transformation at San Marco, Venice, in Payne, Kuttner, Smick (a cura di), Antiquity…, cit. [cfr. nota 20], pp. 83-95. Cfr. anche L. De Lachenal, Spolia. Uso e reimpiego dell’antico dal III al XIV secolo, Milano 1995, p. 320, dove si sostiene che dalla loggia dei cavalli si affacciasse il doge dopo la sua elezione, ma vedi G. Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, in A. Pertusi (a cura di), Venezia e il Levante fino al secolo XV, Firenze 1973, I, pp. 261-93. 81. Sulla derivazione di San Marco dalla chiesa dei Dodici Apostoli a Costantinopoli, e sulla consapevolezza del modello anche nel XV secolo, cfr. da ultimo E. Concina, San Marco, Costantinopoli e il primo Rinascimento veneziano: “traditio magnificentiae”, in Storia dell’arte marciana: l’architettura, cit. [cfr. nota 73], pp. 23-28; Id., San Marco “triumphante”: pietà e magnificenza, in E. Vio, Lo splendore di San Marco, Venezia 2001, pp. 88105. È probabile che Alberti conoscesse i due testi principali che tramandano la storia della chiesa costantinopolitana e la sua descrizione: il De vita Constantini di Eusebio di Cesarea e il De aedificiis di Procopio. Quanto al primo, sappiamo – cfr. P. Eleuteri, in Bessarione e l’Umanesimo, catalogo della mostra (Venezia, 1994), a cura di G. Fiaccadori, Napoli 1994, scheda 103, p. 490 – che intorno al 1468, la biblioteca romana del cardinal Bessarione si arricchì di un codice contenente diverse opere di Eusebio di Cesarea, fra le quali il De vita Constantini (PG, XX, coll. 1210-1212) che fornisce una descrizione dell’Apostoleion costantiniano come mausoleo imperiale. Negli anni Sessanta Leon Battista faceva parte della cerchia del cardinale (G. Pugliese Carratelli, L’immagine della ‘Bessarionis Academia’ in un inedito scritto di Andrea Contrario, in “Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Rendiconti”, VII, 1996, p. 806), e può avere avuto accesso all’opera. È possibile, tuttavia, che l’abbia maneggiata anche in precedenza, dal momento che inventari di biblioteche medicee e della biblioteca di Federico da Montefeltro segnalano la presenza di codici dell’opera di Eusebio, pur senza nominare la Vita, cfr. in proposito H. Saalman, Filippo Brunelleschi. The Buildings, University Park 1993, p. 140, con l’ipotesi che il programma della Sagrestia Vecchia dipenda dalla descrizione dell’Apostoleion. Per quel che riguarda il De aedificiis, diversi codici di varia datazione fanno pensare a una diffusione precoce del testo, e anche in questo caso possiamo ritenere che Alberti lo conoscesse (cfr. C. Occhipinti, Sulla fortuna di Procopio da Cesarea nel XV secolo: il Giustiniano di Costantinopoli e i primi monumenti equestri di età umanistica, in “Rinascimento”, s. II, XLII, 2002, pp. 355-357 e 363364). Si deve considerare anche un’altra possibilità di incontro con Procopio, tramite Ciriaco d’Ancona, personaggio ben noto a Leon Battista (sui contatti fra i due vedi oltre). Di pugno di Ciriaco, infatti, ci è pervenuta la trascrizione di un frammento del libro, che, pur non contenendo la parte relativa alla chiesa 33 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org degli Apostoli, testimonia di un preciso interesse da parte sua, cfr. F. Di Benedetto, Un codice epigrafico di Ciriaco ritrovato, in Ciriaco d’Ancona e la cultura antiquaria dell’Umanesimo, atti del convegno (Ancona, 1992), a cura di G. Paci e S. Sconocchia, Reggio Emilia 1998, p. 164, nota 27. Il passo di Procopio (II, 24) dedicato al secondo Apostoleion, quello giustinianeo, descrive una chiesa cruciforme con cinque cupole, una sulla crociera e le altre su ciascun braccio della croce. Cosicché Alberti è in grado di riscontrare con il testo antico la tradizione veneziana che fa derivare San Marco dalla chiesa costantinopolitana, ma può anche ricostruire per sommi capi la storia di quest’ultima. 82. Il trionfo celebrato dagli archi di San Marco è trionfo di Cristo e della croce. Sulla facciata si dispiega un programma cristologico, che culmina proprio al di sotto dell’arcone centrale con l’immagine dell’Adventus Domini, visibile nel telero di Gentile Bellini. Si tratta del secondo adventus – che prelude al Giudizio – del Redentore, attorniato dagli angeli che reggono gli attributi della passione, riferimento diretto alle reliquie custodite nel tesoro della basilica, fra le quali si trova, anche a Venezia, un’ampolla del sangue di Cristo, cfr. Demus, The Mosaics…, cit. [cfr. nota 77], II, pp. 198199. Sulle reliquie, cfr. D. Pincus, Christian Relics and the Body Politic: A Thirteenth-Century Relief Plaque in the Church of San Marco, in D. Rosand (a cura di), Interpretazioni veneziane. Studi di Storia dell’Arte in onore di Michelangelo Muraro, Venezia 1984, pp. 39-57; M. Donega, I reliquiari del Sangue di Cristo del Tesoro di San Marco, in “Arte documento”, XI, 1997, pp. 65-71. Vedi anche Concina, San Marco, Costantinopoli…, cit. [cfr. nota 81], p. 22. Anche a San Marco si conserva qualche stilla del sangue di Cristo, che, tuttavia, dopo aver avuto grande rilevanza politica e religiosa nel XIII secolo, nel Quattrocento sembra essere dimenticato, perlomeno fuori Venezia: il francescano Giacomo della Marca nel De sanguine Christi, scritto negli anni Sessanta in occasione della disputa teologica sul sangue, elenca 15 casi di reliquie connesse alla passione, fra questi sono presenti le reliquie mantovane, ma non quelle marciane, cfr. Iacobus de Marchia, De sanguine Christi, ed. a cura di D. Lasić, Falconara M. 1976, pp. 138-139. 83. Cfr. R. Krautheimer, The Carolingian Revival of Early Christian Architecture, in “The Art Bulletin”, XXIV, 1942, pp. 138, trad. it. in R. Krautheimer, Architettura sacra paleocristiana e medievale e altri saggi su Rinascimento e Barocco, Torino 1993, pp. 204-207; Pinelli, Feste e trionfi…, cit. [cfr. nota 79], p. 285. 84. Cfr. Concina, San Marco “triumphante”…, cit. [cfr. nota 81], p. 101. In un recente saggio sugli affreschi di Benedetto Bonfigli nella cappella dei Priori a Perugia (dal 1454), è stata avanzata l’ipotesi che la scena su cui campeggia l’arco di Costantino alluda alla situazione determinatasi dopo la caduta di Costantinopoli e alla necessità della crociata. È interessante per noi che l’edificio sul fondo, che si intravede attraverso il fornice dell’arco – fra una lacuna e l’altra – venga identificato con San Marco a Venezia. In tal modo, pittore ed estensore del programma avrebbero istituito una relazione diretta fra basilica marciana ed edificio antico, alludendo al possibile ruolo dei veneziani in una guerra contro il turco; cfr. S. Miccolis, L’arco di Costantino e i Turchi nella pittura italiana del Quattrocento, in “Belfagor”, LIII, 3, 1998, pp. 277-296. Mi pare però che l’argomento necessiti almeno di un supplemento di indagine, a partire dalla identificazione della facciata di chiesa sul fondo, che è difficile ritenere qualcosa di più di un’allusione a un edificio di tradizione veneziana, come in L. Sensi, Benedetto Bonfigli e l’antico, in Un pittore e la sua città, catalogo della mostra (Perugia, 1996-97), a cura di V. Garibaldi, Milano 1996, p. 90. 85. È in quel momento, probabilmente, che si precisa il progetto del marchese di prendere possesso della chiesa, e che si mette a punto un primo progetto per il rifacimento dell’edificio, cfr. Chambers, Sant’Andrea at Mantua…, cit. [cfr. nota 8], pp. 99-109. Cfr. anche I. Bini, Mantova sede papale durante la dieta convocata da Pio II, in “Civiltà mantovana”, n.s., III, 1984, pp. 7-22; Calzona, Mantova in attesa…, cit. [cfr. nota 5], pp. 529-578 (con bibliografia precedente). Sulla situazione politica è ancora fondamentale G.B. Picotti, La dieta di Mantova e la politica de’ Veneziani [Venezia 1912], a cura di G. M. Varanini, Trento 1996. 86. Da notare che Ludovico fece coniare alla zecca mantovana monete con il motto in hoc signo vinces, chiaro riferimento a Costantino, interpretato come proclamazione di una discendenza, anche spirituale, ed espressione di zelo crociato, cfr. Lawson, The Palace at Revere…, cit. [cfr. nota 38], p. 249. Sulle monete, cfr. Corpus nummorum italicorum, cit. [cfr. nota 38], pp. 233-234; Monete e medaglie…, cit. [cfr. nota 38], p. 108. Fra gli argomenti di discussione fra Alberti e il marchese, a proposito della scelta di San Marco come modello, possiamo immaginare ben presente la derivazione della chiesa veneziana dall’edificio greco. Al carattere imperiale della serie – ma forse a Ludovico non sarà dispiaciuto che per la sua basilica ci si rifacesse alla cappella palatina del doge – si aggiungeva un ulteriore elemento di interesse: la presenza nell’Apostoleion della tomba di sant’Andrea, segnalata da Procopio (De aedificiis, II, 24) e dalla patristica (cfr. F. Dvornik, The Idea of Apostolicity in Byzantium and the Legend of the Apostle Andrew, Cambridge [Mass.] 1958, pp. 138-180). Alberti avrà certamente ricordato lo spettacolare arrivo a Roma – otto anni prima del progetto per Sant’Andrea – della reliquia della testa dell’apostolo, e le esplicite implicazioni politiche della cerimonia utilizzata da Pio II a sostegno della campagna per la crociata antiottomana. In proposito cfr. R. Olitsky Rubinstein, Pius II’s Piazza S. Pietro and St. Andrew’s Head, in D. Fraser, H. Hibbard, M.J. Levine (a cura di), Essays in the History of Architecture presented to Rudolf Wittkower, London 1967, pp. 22-33, che ipotizza un coinvolgimento di Alberti nella sistemazione, realizzata in quell’occasione, della piazza antistante San Pietro. 87. Cfr. Grafton, Leon Battista Alberti…, cit. [cfr. nota 30], pp. 79-83. Per una lettura più generale del tema, vedi L. Barkan, The Heritage of Zeuxis: Painting, Rhetoric, and History, in Payne, Kuttner, Smick (a cura di), Antiquity…, cit. [cfr. nota 20], pp. 99-109. 88. Cfr. M. Horster, Brunelleschi und Alberti in ihrer Stellung zur römischen Antike, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, XVII, 1, 1973, pp. 59-60. 89. Rudolf Wittkower individua negli archi a un unico fornice, di Tito a Roma e di Traiano ad Ancona, le fonti di Alberti, rilevando anche che la presenza di tabelle laterali, all’altezza dei capitelli di imposta dell’arco, potrebbe aver suggerito la soluzione della trabeazione che sembra insinuarsi sotto l’ordine maggiore sulla facciata mantovana, cfr. Wittkower, Architectural Principles…, cit. [cfr. nota 32], p. 55, anche se, in proposito, l’esempio antico più pertinente è l’arco di Costantino. Arco da cui Howard Burns fa derivare il motivo degli oculi all’interno di Sant’Andrea, cfr. Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 155. Per la cappella, di cui abbiamo notizia dal 1230, e l’arco di Costantino, cfr. Krautheimer, The Carolingian Revival…, cit. [cfr. nota 83], p. 206. Anche ammettendo che la cappella in questione non abbia nulla a che vedere con gli ambienti dentro l’attico, va rilevato che la presenza del vano voltato superiore all’interno degli archi di Costantino e Settimio Severo costituisce un precedente per l’avancorpo di Sant’Andrea, al pari delle stanze nel nartece di San Marco e nel corpo intermedio del Pantheon. 90. Cfr. S. De Maria, Gli archi onorari di Roma e dell’Italia romana, Roma 1988, pp. 303-305. Per l’identificazione dell’arco nei rilievi, cfr. anche F. Coarelli, Il Foro Boario dalle origini alla fine della repubblica, Roma 1992, pp. 363-414. Un altro esempio di arco trionfale con sovrapposizione dell’arco alla trabeazione è rappresentato in un frammento conservato al Museo Nazionale Romano, inv. 8640, cfr. De Maria, Gli archi onorari…, cit., p. 30, non visibile nel Quattrocento. 91. Su Ciriaco al Certame, cfr. De vera amicitia. I testi del primo Certame coronario, ed. L. Bertolini, Modena 1993, pp. 335339. Nel 1442, Leon Battista e Ciriaco sono, di nuovo, entrambi a Firenze: F. Babinger, Notes on Cyriac of Ancona and some of his Friends, in “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, XXV, 34, 1962, p. 321; Boschetto, Leon Battista Alberti…, cit. [cfr. nota 53], p. 122. Sui rapporti fra Ciriaco con gli artisti fiorentini e in particolare con Donatello – grande amico di Alberti – a Firenze e a Padova, cfr. M. Bergstein, Donatello’s Gattamelata and its Humanist Audience, in “Renaissance Quarterly”, LV, 2002, pp. 845-862, che si sofferma sul ruolo di tramite per la conoscenza dell’arte greca. Su Ciriaco e Venezia, cfr. Fortini Brown, Venice and Antiquity…, cit. [cfr. nota 80], pp. 81-91. 92. Cfr. E.W. Bodnar, Ciriaco’s Cycladic Diary, in Ciriaco d’Ancona…, cit. [cfr. nota 81], pp. 57-59; cfr. anche P.W. Lehmann, Cyriacus of Ancona’s Visit to Samothrace, in P.W. Lehmann, K. Leh- mann, Samothracian Reflections: Aspects of the Revival of Antique, Princeton 1973, pp. 19-22. Per connessioni riminesi di Ciriaco, cfr. A. Campana, L’elefante malatestiano e Ciriaco d’Ancona, in Ciriaco d’Ancona…, cit., pp. 198-200; Id., Ciriaco d’Ancona e Lorenzo Valla sull’iscrizione greca del tempio dei Dioscuri a Napoli, in “Archeologia classica”, XXV-XXVI, 1973-74, pp. 90-92. Cfr. anche Turchini, Il Tempio Malatestiano…, cit. [cfr. nota 10], pp. 372-373. 93. Cfr. E.W. Bodnar, Cyriacus of Ancona and Athens, Bruxelles-Berchem 1960; Id., Athens in April 1436, in “Archeology”, XXIII-XXIV, 1970-71, pp. 96-105 e 188199. Sui viaggi di Ciriaco, cfr. Lehmann, Cyriacus of Ancona’s Visit…, cit. [cfr. nota 92]; Id., Cyriacus of Ancona’s Egyptian Visit and its Reflections in Gentile Bellini and Hieronymus Bosch, Locust Valley 1977; E.W. Bodnar, C. Mitchell (a cura di), Cyriacus of Ancona’s Journeys in the Propontis and the North Aegean 1444-1445, Philadelphia 1976; F. Scalamonti, Vita viri clarissimi et famosissimi Kyriaci anconitani, ed. C. Mitchell, E.W. Bodnar, Philadelphia 1996. 94. Cfr. Bodnar, Cyriacus of Ancona…, cit. [cfr. nota 93], p. 39; Id., Athens…, cit. [cfr. nota 93], p. 195; L. Beschi, I disegni ateniesi di Ciriaco: analisi di una tradizione, in Ciriaco d’Ancona…, cit. [cfr. nota 81], p. 91. 95. Cfr. Bodnar, Cyriacus of Ancona…, cit. [cfr. nota 93], pp. 39 e 128-129; Id., Athens…, cit. [cfr. nota 93], p. 196; Beschi, I disegni ateniesi…, cit. [cfr. nota 94], pp. 88-89. Sui disegni ateniesi, cfr. anche Il libro di Giuliano da Sangallo. Codice Vaticano Barberiniano Latino 4424, ed. a cura di C. Hülsen, Lipsia 1910, pp. 36-43, ff. 2-29v; C. Mitchell, Ciriaco d’Ancona: Fifteenth-Century Drawings and Descriptions of the Parthenon, in V. Bruno (a cura di), The Parthenon, New York 1974, pp. 111-123; B.L. Brown, D.E.E. Kleiner, Giuliano da Sangallo’s Drawings after Ciriaco d’Ancona: Transformations of Greek and Roman Antiquities in Athens, in “Journal of the Society of Architectural Historians”, XLII, 4, 1983, pp. 321-335; C.R. Chiarlo, “Gli fragmenti dilla sancta antiquitate”: studi antiquari e produzione delle immagini da Ciriaco d’Ancona a Francesco Colonna, in S. Settis (a cura di), Memoria dell’antico nell’arte italiana, I, L’uso dei classici, Torino 1984, pp. 272280; S. Borsi, Giuliano da Sangallo. I disegni di architettura e dell’antico, Roma 1985, pp. 149-57; B. Degenhart, A. Schmitt, Jacopo Bellini und die Antike, in Corpus der Italienischen Zeichnungen. 1300-1450, II, Venedig, 5, Jacopo Bellini. Text, Berlin 1990, pp. 192-228; A. Schmitt, Antikenkopien und künstlerische Selbstverwirklichung in der Frührenaissance. Jacopo Bellini auf der Spuren römischer Epitaphien, in Antikenzeichnung und Antikenstudium in Renaissance und Frühbarock, atti del convegno (Coburg, 1986), a cura di R. Harprath, R. Wrede, Mainz am Rhein 1989, pp. 1-20; L. Vandi, Ciriaco d’Ancona: lo stile all’antica nella scrittura e nell’immagine, in “Prospettiva”, 95-96, 1999, pp. 122-130. 96. Cfr. Mancini, Vita di Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 6], pp. 86-87, dove si indicano alcuni dei passi del trattato 34 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org con riferimenti nordici. Cfr. anche R. Krautheimer, T. Krautheimer-Hess, Lorenzo Ghiberti, Princeton 1990, IV ed., pp. 317-318 e nota 12. 97. Cfr. in proposito ivi, p. 317; C. Grayson, The Composition of L. B. Alberti’s “Decem libri de re aedificatoria”, in “Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst”, s. 3, IX, 1960, pp. 152-161, ora in Id., Studi su Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 10], p. 186. 98. Oltre alla letteratura citata in precedenza, cfr. in proposito P.W. Lehmann, Alberty and Antiquity: Additional Observations, in “The Art Bulletin”, LXX, 3, 1988, pp. 397-399. 99. Leon Battista Alberti, I libri della famiglia, in Id., Opere volgari, cit. [cfr. nota 5], I, p. 85. 100. Sul tema in generale, con un’ampia casistica, cfr. V. Lassalle, L’influence antique dans l’art roman provençal, Paris 1970; cfr. anche A. Erlande-Brandenburg, A.B. Mérel-Brandenburg, Histoire de l’architecture française. Du Moyen Âge à la Renaissance (IVe siècle-début XVIe siècle), Paris 1995, pp. 224-225. 101. Su Notre-Dame de Nazareth e Saint-Gabriel, cfr. J.-M. Rouquette, Notes sur 49 églises romanes, e Les Alpilles, in Provence romane, 1, La Provence Rhodanienne, Yonne 1974, pp. 29-30 e 241-249; É. Vergnolle, L’art roman en France. Architecture-Sculpture-Peinture, Paris 1994, pp. 324-325. Su Saint-Siffrein, cfr. L.-H. Labande, Notices diverses, in Congrès archéologique de France, I (Avignon, 1909), Paris-Caen 1910, pp. 288-293, che pubblica una foto di inizio secolo nella quale la trabeazione è visibile, contrariamente a quanto accade sul posto. 102. Sulla soluzione dell’interposizione di una membratura fra capitelli e arco nel portale di Saint Gabriel esistono opinioni differenti: chi considera la soluzione derivante dall’antico (Lassalle, L’influence antique…, cit. [cfr. nota 100], p. 87), chi un ripiego (A. Borg, Architectural Sculpture in romanescque Provence, Oxford 1972, pp. 104-105). Quanto agli archi antichi, sopravvissuti e non, cfr. J. Formigé, Les arcs de la Narbonnaise, in Congrès archéologique de France, cit., II, pp. 56-97. 103. Su Notre-Dame des Doms, cfr. L.H. Labande, L’église Notre-Dame-desDoms d’Avignon des origines au XIIIe siècle, in “Bulletin archéologique du Comité des Travaux historiques et scientifiques”, 1906, pp. 282-365; Id., Cathédrale de Notre-Dame-des-Doms, in Congrès Archéologique de France, I, cit. [cfr. nota 101], pp. 7-16; J.-M. Rouquette, W. Witters, Notre-Dame-des-Doms en Avignon, in Provence romane…, cit. [cfr. nota 101], pp. 205-218. La ripresa della tecnica antica di realizzazione del capitello in due parti – del tutto inusuale nel Medioevo – è stata notata da L. de Lasterye, L’architecture religieuse en France à l’epoque romane, Paris 1929, p. 418. Da notare anche l’uso di apici rovesci nelle scanalature, presente in edifici antichi francesi fino a Susa. Per inciso, l’unico esempio che conosco di questo motivo nel Quattrocento italiano si trova nelle paraste dell’edificio rap- presentato nel Miracolo della mula di Donatello. 104. A quanto pare lo stesso effetto viene ricercato nel portale della chiesa di Saint-Restitut, a nord di Avignone. 105. Sulla torre occidentale di Avignone, cfr. G. Démians d’Archimbaud, Y. Esquieu, M. Fixot, A. Hartmann-Virnich, Espaces d’accueil et pôles occidentaux dans l’architecture religieuse préromane et romane de Provence, in Avant-nefs et espaces d’accueil dans l’église entre le IVe et le XIIe siècle, atti del convegno (Auxerre, 1999), a cura di C. Sapin, Paris 2002, pp. 198-199. Per una rassegna recente di alcuni casi italiani, cfr. S. Lomartire, L’organisation des avantcorps occidentaux. À propos de quelques exemples de l’Italie du nord au moyen âge, ivi, pp. 351-371. 106. Sulla filologia come strumento di studio del passato in Lorenzo Valla, cfr. S. Camporeale, Il problema della imitatio nel primo Quattrocento. Differenze e controversia tra Bracciolini e Valla, in “Annali di architettura”, IX, 1997, pp. 149-154, da cui vale la pena citare un passo sulla prevalenza del grammaticus sul philosophus, che ha direttamente a che fare con l’approccio di Alberti: “Il ‘filosofo’, classico ed ellenistico, platonico o aristotelico, era impegnato nella ricerca delle dimensioni ontologiche delle realtà contingenti e trascendenti, attraverso la definizione (socratica) del ‘concetto’ di quelle medesime realtà; il ‘grammatico’, invece, esercitava il proprio compito sulla realtà storica in genere, e sull’operare umano del passato in particolare, nei modi e nei limiti in cui quella realtà e quell’operare potevano essere appresi e indotti dall’analisi filologica delle scritture ebraiche, greche e latine” (p. 153). Cfr. anche Id., Lorenzo Valla. ‘Repastinatio, liber primus’: Retorica e Linguaggio, in O. Besomi e M. Regoliosi (a cura di), Lorenzo Valla e l’Umanesimo Italiano, Padova 1986, pp. 217239. Su Valla e Alberti, cfr. Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr. nota 27], pp. 58-59. 107. De re aedificatoria, IX, 10, cit. [cfr. nota 10], pp. 854-855. 108. Ivi, pp. 854-857: “Caeterum sic gerat velim sese, uti in studiis litterarum faciunt. Nemo enim se satis dedisse operam litteris putabit, ni auctores omnes etiam non bonos legerit atque cognorit, qui quidem in ea facultate aliquid scripserint, quam sectentur. Sic istic, quotquot ubique aderunt opinione et consensu hominum probata opera, perquam diligentissime spectabit, mandabit lineis, notabit numeris, volet apud se diducta esse modulis atque exemplaribus; cognoscet repetet ordinem locos genera numerosque rerum singularium, quibus illi quidem usi sunt praesertim, qui maxima et dignissima effecerint, quos fuisse viros egregios coniectura est, quandoquidem tantarum impensarum moderatores fuerint”. 109. Su Alberti lettore, cfr. Grafton, Leon Battista Alberti…, cit. [cfr. nota 30], pp. 53-92. 110. Cfr. Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 121. 111. Per la lettera, cfr. nota 41. Sull’etru- scum sacrum mi limito a citare il contributo di R. Krautheimer, Alberti’s Templum Etruscum, in Id., Studies in Early Christian, Medieval, and Renaissance Art, New York 1969, pp. 333-344, l’unico veramente importante in una pletora di studi sull’argomento. Sull’intera questione mi ripropongo di tornare in un prossimo contributo. 112. Cfr. Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr. nota 27], pp. 9-10, 59. 113. Cfr. Burns, Leon Battista Alberti, cit. [cfr. nota 5], p. 122. Sulla struttura del trattato, cfr. R. Krautheimer, Alberti and Vitruvius, in The Renaissance and Mannerism, cit. [cfr. nota 19], pp. 42-52; Choay, La Règle…, cit. [cfr. nota 26], pp. 93-180; Ead., Le De re aedificatoria…, cit. [cfr. nota 26], pp. 83-90; H. Biermann, Die Aufbauprinzipien von L.B. Albertis De re aedificatoria, in “Zeitschrift für Kunstgeschichte”, 4, 1990, pp. 443-485; C. van Eck, The Structure of De re aedificatoria Reconsidered, in “Journal of the Society of Architectural Historians”, LVII, 3, 1998, pp. 280-297. 114. Lettera trascritta in G. Zippel, Un umanista in villa, in Storia e cultura del Rinascimento italiano, Padova 1979, p. 285-287. 115. Di recente, Maria Beltramini ha richiamato l’attenzione su un passo del trattato di Filarete, nel quale Ludovico Gonzaga parla di Alberti a Francesco Sforza, presentandolo – senza nominarlo – come un cortigiano molto intendente nel costruire “al modo anticho”, che aveva realizzato per lui “alchuno modello di legname di cotali miei edificetti che voglio fare per mia devozione”. Sono d’accordo che il personaggio in questione non possa che essere Leon Battista – non essendo Luca Fancelli e Antonio Manetti candidati credibili – e di lui Ludovico, rispondendo a una richiesta di chiarimento da parte di Francesco Sforza, dice: “La Signoria vostra gli parlò bene, ma perché forse lui era una persona non con troppe parole, e none in parole mostra il suo sapere, per questo non forse così vi ricorda” (Antonio Averlino detto il Filarete, Trattato d’Architettura, ed. a cura di A.M. Finoli e L. Grassi, I, Milano 1972, pp. 380-381 [codice Magliabechiano, c. 100r]; Beltramini, Le illustrazioni…, cit. [cfr. nota 62], pp. 39 e 50 note 153, 154). Come si vede, questa seconda testimonianza sulla propensione a conversare di architettura da parte di Alberti è di segno esattamente opposto alla prima. Non possiamo certo sapere se, a poco più di dieci anni dalla lettera di Gaspare da Verona (entro il 1464), l’indole di Leon Battista fosse così radicalmente cambiata. È opportuno, comunque, tener conto del genere cui il trattato appartiene, una finzione narrativa che impone una maschera a ogni personaggio, come ricorda Beltramini. Maschera che, nel caso di Leon Battista, sembra tratteggiata con ironia, presente del resto anche nel passo della lettera. 117. Su De re aedificatoria, VI, 3, cfr. nota 72. Naturalmente è necessario tener conto della differenza fra l’Alberti che scrive di Firenze, da patrizio fiorentino, e l’Alberti cortigiano che vive a contatto con i signori che governano gran parte dell’Italia del tempo, cfr. Boschetto, Incrociare le fonti…, cit. [cfr. nota 53] Non c’è dubbio, però, che le pagine del De iciarchia, l’elogio della sobrietà, della moderazione, e dei costumi aviti, abbia un preciso significato politico nella Firenze degli anni Sessanta (Id., Nota sul “De iciarchia” di Leon Battista Alberti, in “Rinascimento”, s. II, XXXI, 1991, pp. 195-202) e mostri una divaricazione, che riguarda proprio la concezione dell’architettura e l’uso delle forme architettoniche, con il comportamento di Alberti architetto. Quanto agli autori antichi, vedi, ad esempio, Seneca, Epistulae, 86, e 90.19, in cui risuonano temi analoghi a quelli dell’opera albertiana. Da ricordare anche l’elogio del cristianesimo primitivo, di tono ben diverso da quello dei passi sull’ornamento dell’architettura sacra, vedi De re aedificatoria, VII, 13, cit. [cfr. nota 10], pp. 626-629. Cfr. in proposito, Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr, nota 27], pp. 52-53. 118. Cfr. De re aedificatoria, VI, 2, cit. [cfr. nota 10], pp. 444-451. È l’architettura di Leon Battista, comunque, la fonte principale che ci testimonia della sua passione per l’ornamento, inteso come immagine dell’edificio. 116. Cfr. da ultimo Rinaldi, “Melancholia christiana”…, cit. [cfr. nota 30], pp. 111188 (con bibiografia precedente). Vedi Tafuri, Ricerca del Rinascimento…, cit. [cfr. nota 27], pp. 50-62. 35 15|2003 Annali di architettura Rivista del Centro internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza www.cisapalladio.org