Avvocati di Famiglia n. 3 - luglio-settembre 2013

ISSN 2039-6503
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
n. 3 - luglio-settembre 2013
Anno VI - n. 3 - luglio-settembre 2013 - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma
Avvocatidifamiglia
L’emergenza della violenza di genere
La riforma della filiazione
L’autonomia negoziale nel diritto di famiglia
L'atto processuale dell’ascolto
Avvocatidifamiglia
OSSERVATORIO NAZIONALE SUL DIRITTO DI FAMIGLIA
LA PROFESSIONE FORENSE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA IN ITALIA
Avvocati di famiglia
Periodico dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia
Nuova serie, anno VI, n. 3 - luglio-settembre 2013
Autorizzazione del tribunale di Roma n. 98 del 4 marzo 1996
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - DCB Roma
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SOMMARIO
Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
Sommario
Editoriale
L’emergenza della violenza di genere:
i contenuti del decreto legge 13 agosto 2013 2
(Gianfranco Dosi)
Legislazione
La riforma della filiazione 5
(Giulia Albiero)
Giurisprudenza
L’assegnazione della casa in comodato 15
(Cass. civ. sez. III, 17 giugno 2013, n. 15113)
Il punto di vista (Michela Labriola e Arianna
Abbruzzese) 26
Tribunale Minorenni di Palermo,
decreto 11 aprile 2012 31
(Giuseppe Palazzolo)
Studi e ricerche
L’autonomia negoziale nel diritto di famiglia:
l’evoluzione giurisprudenziale 35
(Germana Bertoli)
L'atto processuale dell'ascolto 40
(Cass. civ. Sez. I, 15 maggio 2013, n. 11687)
(Giancarlo Savi)
Il punto sulla giurisprudenza in tema
di reclamabilità dei provvedimenti
temporanei ad urgenti nei procedimenti
per separazione e divorzio 52
(Francesca Ferrandi)
Iniziative
Presentazione Protocollo del Tribunale di Messina
per l’ascolto del minore 58
(Giulia Albiero)
Mediazione penale
L’attività di mediazione nell’ambito della giustizia
penale minorile 63
(Matilde Giammarco)
Lessico di diritto di famiglia
Violazione degli obblighi di assistenza familiare 69
(Gianfranco Dosi)
In libreria
Consenso e dissenso informati
nella prestazione medica 75
(Maria Nefeli Gribaudi)
Famiglia e Successioni Eredità e Donazioni.
Vademecum. 75
(Maria Teresa Pelle)
La famiglia in Italia. Sfide sociali e innovazioni
nei servizi. Volume I - Aspetti demografici, sociali
e legislativi. Volume II - Nuove best practices
nei servizi alle famiglie 76
(A cura di Pierpaolo Donati)
Le garanzie patrimoniali nella famiglia
Corresponsione diretta, sequestro, ipoteca 77
(Gloria Servetti, a cura di Massimo Dogliotti)
Le pratiche per l’extracomunitario 78
(Roberto Giovagnoli, Giulia Di Domenico, Cristina
Durigon, Sofia Leonardi e Pier Paolo Polese, con il
coordinamento di Sara Di Cunzolo)
Manuale pratico per la protezione dell’incapace 78
(Francesca Sassano)
Politiche familiari europee
Convergenze e divergenze 79
(A cura di Riccardo Prandini)
Prove e procedimenti sommari 80
(Antonio Salvati)
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 1
EDITORIALE
L’EMERGENZA DELLA VIOLENZA DI GENERE:
I CONTENUTI DEL DECRETO LEGGE 13 AGOSTO 2013
GIANFRANCO DOSI,
AVVOCATO DEL FORO DI ROMA
distanza di poco
più di quattro
anni dal decreto
legge 23 febbraio
2009, n. 11, convertito nella
legge 23 aprile 2009 n. 38
(misure urgenti in materia
di sicurezza pubblica e di
contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti
persecutori) un altro decreto
legge (13 agosto 2013 n. 93) introduce nuove ulteriori
misure per inasprire e rendere più il sistema di contrasto alla violenza di genere che più si perfeziona e
più sembra alimentare anziché ridurre il numero di
vittime.
Quasi quarantamila denunce in quattro anni. Una
escalation impressionante di vittime: il 30% di tutti
gli omicidi commessi in un anno. Nel 95% dei casi le
vittime conoscevano l’aggressore che nel 70% dei
casi era il compagno separato o rifiutato. Senza contare chi subisce in silenzio.
La violenza è ovunque. Perfino - abbiamo scoperto
increduli - tra noi avvocati che dovremmo combatterla. Il decreto in vigore dallo scorso 17 agosto ci ricorda che si tratta di una emergenza che non possiamo ignorare e da cui dobbiamo ripartire. Evidentemente quello che tutti noi abbiamo fatto non è
stato sufficiente.
A
Il decreto legge contro la violenza:
• Modifica ancora una volta l’art. 572 del codice penale (“maltrattamenti contro familiari e conviventi”che era stato già inasprito dalla legge 1° ottobre 2012, n. 172) portando a 18 anni la soglia di
protezione delle vittime minorenni.
• Introduce - nell’articolo 609-ter del codice penale due ulteriori circostanze aggravanti in caso di violenza sessuale commessa “nei confronti di donna
in stato di gravidanza (n. 5-ter) e “nei confronti di
persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla
stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza.” (n.5-quater).
• Modifica l’art. 612-bis (Atti persecutori) prevedendo l’aumento della pena se il fatto è commesso “anche” dal coniuge separato (non solo allorché è commesso dal coniuge separato, come
era prima) e estende l’aggravante ai casi in cui il
2 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
La definizione di violenza domestica data
dal decreto legge 13 agosto 2013, n. 93
“…si intendono per violenza domestica tutti gli
atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale,
psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare
o tra attuali o precedenti coniugi o persone legate da relazione affettiva in corso o pregressa,
indipendentemente dal fatto che l’autore di
tali atti condivida o abbia condiviso la stessa
residenza con la vittima”.
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fatto è commesso “attraverso strumenti informatici o telematici”.
La querela proposta diventa irrevocabile (nuovo
quarto comma dell’art.612-bis).
Il questore dopo l’ammonimento deve obbligatoriamente adottare i provvedimenti di sequestro
delle armi in possesso del denunciato (nuovo art.8
comma 2 della legge del 2009).
Estende la possibilità di emissione dell’ordine di
allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis
cod.proc. pen.) anche in caso di minacce gravi e di
lesioni. L’ordine di protezione in questione può essere emesso sempre quando il delitto per il quale
la misura viene adottata supera nel massimo i tre
anni di reclusione (art. 380 cod. proc. pen.).
L’estensione alle minacce gravi e alle lesioni si
comprende quindi perché questi due reati sono
puniti con pena massima inferiore.
Le richieste di revoca o di sostituzione degli ordini
di protezione devono a pena di inammissibilità
essere notificate alla persona offesa e al suo difensore ed anche gli eventuali provvedimenti del
giudice devono essere comunicati immediatamente alla persona offesa e al suo difensore nonché ai servizi socio-assistenziali del territori
(nuovo art. 299 cod. proc. pen.) (nuovo art. 299 cod.
proc. pen.).
Diventa obbligatorio (nuovo art. 380, secondo
comma, cod. proc. pen.) l’arresto in flagranza per
il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572) e per quello di “atti persecutori”
(art. 612-bis).
Viene aggiunto al fermo di polizia giudiziaria (art.
384 cod. proc. pen.) il nuovo provvedimento di polizia di “Allontanamento d’urgenza dalla casa fa-
EDITORIALE
miliare” (art. 384-bis cod. proc. pen.) mediante il
quale “Gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria
hanno facoltà di disporre, previa autorizzazione
del pubblico ministero, l’allontanamento urgente
dalla casa familiare con il divieto di avvicinarsi ai
luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti di chi è colto in flagranza dei
delitti di cui all’articolo 282-bis, comma 6 [tutti
quelli per i quali si può disporre l’allontanamento
dalla casa familiare (570, 571, 600-bis, 600-ter, 600quater, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies
e 609-octies) ed ora anche minacce gravi o lesioni]
ove sussistano fondati motivi per ritenere che le
condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica della persona offesa”.
• L’incidente probatorio (nuovo testo dell’art. 398
cod. proc. pen.) potrà svolgersi (oltre che per i delitti di cui agli articoli 600, 600-bis, 600-ter, anche
•
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•
se relativo al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600-quinquies, 601, 602, 609bis, 609-ter, 609-quater, 609-octies e 612-bis) anche per il reato di maltrattamenti (come modificato nel 2012 e con il decreto legge dell’agosto
2013).
Sempre allorché si procede per il reato di maltrattamenti il PM può chiedere una proroga di sei
mesi del temine di chiusura delle indagini preliminari (nuovo testo dell’art. 406, comma 2-ter, cod.
proc. pen.). Uguale notifica il PM dovrà fare con
l’avviso di chiusura delle indagini ex art. 415-bis
cod. proc. pen. Nella stessa ipotesi se il PM ritiene
di dover richiedere l’archiviazione deve obbligatoriamente notificare l’avviso alla persona offesa
che avrà venti giorni di tempo (e non più solo
dieci) per proporre eventuale opposizione all’archiviazione.
L’attuale articolo 498 cod. proc. pen. prevede che
nel corso del processo l’esame del minore vittima
del reato ovvero del maggiorenne infermo di
mente vittima del reato viene effettuato, su richiesta sua o del suo difensore, mediante l’uso di
un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico quando si procede per una serie specifica di reati (600, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600quinquies, 601, 602, 609-bis, 609-ter, 609-quater,
609-octies e 612-bis del codice penale) ai quali
viene ora aggiunto anche il reato di maltrattamenti.
Viene introdotta, sempre a proposito dell’esame
in dibattimento della persona offesa, una norma
a tutela delle vittime maggiorenni particolarmente vulnerabili la quale prevede che “Quando si
procede per i reati sopra indicati, se la persona offesa è maggiorenne il giudice assicura che l’esame
venga condotto anche tenendo conto della particolare vulnerabilità della stessa persona offesa,
desunta anche dal tipo di reato per cui si procede,
e ove ritenuto opportuno, dispone, a richiesta
della persona offesa o del suo difensore, l’adozione di modalità protette”.
Infine si prescrive che nella formazione dei ruoli
di udienza e nella trattazione dei processi è assicurata la priorità assoluta oltre che ai casi già previsti dall’attuale art. 132-bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale anche ai processi per i delitti previsti dagli articoli 572, da 609bis a 609-octies e 612-bis del codice penale.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 3
EDITORIALE
• Dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge del 13 agosto 2013 le
vittime dei reati di cui agli articoli 572 (maltrattamenti), 583-bis (pratiche di mutilazione) e 612-bis
(atti persecutori) del codice penale (oltre a quelle
- già previste -per i delitti di cui agli articoli 609bis, 609-quater e 609-octies, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di cui agli articoli 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602,
609-quinquies e 609-undecies del codice penale)
possono essere ammessa al patrocinio a spese
dello Stato anche in deroga ai limiti di reddito previsti (attualmente reddito non superiore a euro
10.766,33 annui).
• L’art. 3 del decreto legge del 13 agosto 2013 prevede - a titolo di misure di prevenzione - che nei
casi in cui alle forze dell’ordine sia segnalato un
fatto che debba ritenersi riconducibile al reato consumato o tentato nell’ambito della violenza
domestica - di cui all’articolo 582, secondo
comma, del codice penale (quindi i maltrattamenti in danno di un minore di 18 anni, limite
elevato dal decreto stesso), il questore, anche in
assenza di querela [che comunque non sarebbe
necessaria per il reato di maltrattamenti ma che
finisce sempre per essere un elemento di disturbo
nella procedibilità], può procedere, assunte le informazioni necessarie da parte degli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti,
all’ammonimento dell’autore del fatto omettendo
sempre le generalità dell’eventuale segnalante. Il
questore può richiedere al prefetto del luogo di residenza del destinatario dell’ammonimento l’applicazione della misura della sospensione della
patente di guida per un periodo da uno a tre mesi.
Il prefetto dispone la sospensione della patente di
guida salvo che, tenuto conto delle condizioni economiche del nucleo familiare, risulti che le esigenze lavorative dell’interessato non possono essere altrimenti garantite.
• Il Ministero dell’interno viene incaricato di elaborare annualmente un’analisi criminologica della
violenza di genere che costituirà d’ora in avanti
un’autonoma sezione della relazione annuale al
Parlamento.
• Le misure a sostegno delle vittime del reato di atti
persecutori già previste nella legge 23 aprile 2009
n. 38 (obbligo di informazioni sui centri antiviolenza e, se richiesto, di messa in contatto con essi)
vengono estese anche alle vittime del delitto di
maltrattamenti e delle violenze sessuali.
• Sempre il medesimo articolo 3 del decreto offre
anche una interpretazione del concetto di violenza domestica intendendosi riferire con questa
espressione a “tutti gli atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che
si verificano all’interno della famiglia o del nucleo
familiare o tra attuali o precedenti coniugi o per4 | Avvocati di famiglia | aprile-giugno 2013
sone legate da relazione affettiva in corso o pregressa, indipendentemente dal fatto che l’autore
di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.
• A tutela degli stranieri vittime di violenza domestica l’art. 4 del decreto legge del 13 agosto 2013
introduce anche la possibilità di un apposito permesso di soggiorno (nuovo art. 18-bis del testo
Unico 286/98) allorché emerga un concreto ed attuale pericolo per incolumità della vittima, come
conseguenza della scelta di sottrarsi alla medesima violenza o per effetto delle dichiarazioni rese
nel corso delle indagini preliminari o del giudizi.
In questi casi il questore, anche su proposta del
procuratore della Repubblica, o con il parere favorevole della stessa autorità, rilascia un permesso
di soggiorno per consentire alla vittima di sottrarsi alla violenza. Il medesimo permesso di soggiorno può essere rilasciato dal questore quando
le situazioni di violenza o abuso emergano nel
corso di interventi assistenziali dei servizi sociali
specializzati nell’assistenza delle vittime di violenza. In tal caso la sussistenza degli elementi e
delle condizioni è valutata dal questore sulla base
della relazione redatta dai medesimi servizi sociali. Le disposizioni in questione si applicano, in
quanto compatibili, anche ai cittadini di Stati
membri dell’Unione europea e ai loro familiari.”.
• Infine viene avviato un piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere. In
particolare al Ministro per le pari opportunità
viene affidato il compito di elaborare, con il contributo delle amministrazioni interessate, e di
adottare un “Piano d’azione straordinario contro
la violenza sessuale e di genere”. Il Piano persegue la finalità di prevenire il fenomeno della violenza contro le donne attraverso l’informazione e
la sensibilizzazione, di promuovere l’educazione
alla relazione e contro la violenza nell’ambito dei
programmi scolastici al fine di sensibilizzare, informare, formare gli studenti e prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere, anche attraverso un’adeguata valorizzazione della tematica nei libri di testo; di potenziare le forme di assistenza e sostegno alle
donne vittime di violenza e ai loro figli; di garantire la formazione di tutte le professionalità che
entrano in contatto con la violenza di genere e lo
stalking; di accrescere la protezione delle vittime
attraverso un rafforzamento della collaborazione
tra tutte le istituzioni coinvolte; prevedere una
raccolta strutturata dei dati del fenomeno, anche
attraverso il coordinamento delle banche dati già
esistenti; di prevedere specifiche azioni positive;
di definire un sistema strutturato di rete tra tutti
i livelli di governo, che si basi anche sulle diverse
esperienze e sulle buone pratiche già realizzate
nelle reti locali e sul territorio.
LEGISLAZIONE
LA RIFORMA
DELLA FILIAZIONE
AVV. GIULIA ALBIERO
RESPONSABILE SEZIONE MESSINA DELL’OSSERVATORIO
on la L.219/2012 (10.12.2012), pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale n. 293 del
17/12/2012, il legislatore italiano ha definitivamente equiparato il trattamento giuridico dei figli nati fuori dal matrimonio e dei figli
adottivi a quello dei figli legittimi.
È stata sancita dunque l’unicità dello stato giuridico di figlio, sicché d’ora innanzi i figli avranno gli
stessi diritti e gli stessi doveri nei confronti dei loro
genitori, nonché dei parenti del genitore, a prescindere dalla circostanza che la loro nascita sia avvenuta all’interno del matrimonio o fuori di esso.
Si tratta di una riforma storica, a più voci definita
epocale; certamente rappresenta una rivoluzione
culturale, che come è stato osservato, dà finalmente
risposta alle tante attese sia della società civile che
degli operatori del diritto, i quali auspicavano da
molto tempo un intervento normativo che spazzasse finalmente via la dicotomia non solo terminologica tra figli naturali e figli legittimi, ma soprattutto eliminasse le molte discriminazioni tra le allora diverse categorie di figli.
Un processo di modernizzazione del diritto di famiglia, rispondente all’evoluzione della nostra società, che un legislatore moderno e attento non poteva più ignorare: ogni anno in Italia il 23% dei bambini nascono infatti fuori dal matrimonio.
Se consideriamo che i figli naturali nel codice del
1942 venivano definiti “illegittimi”, contrapponendo
la categoria a quella dei figli legittimi, cioè nati all’interno del matrimonio, dopo oltre settanta anni
siamo finalmente giunti all’obiettivo di dare pari dignità e pari diritti a tutti i figli, questione che d’altra
parte rappresentava ormai un punto fermo e acquisito, sia nella giurisprudenza che in dottrina.
Il processo di modernizzazione e di avvio del percorso per giungere alla parificazione dello status
giuridico è stato avviato in Italia nel 1970, con l’introduzione del divorzio nel nostro ordinamento, poi
C
proseguito con la riforma del diritto di famiglia nel
1975 e infine con la legge 54/2006, con la quale com’è noto è stato non solo introdotto l’affidamento
condiviso dei figli, ma inoltre è stato dato un forte
impulso al processo di unificazione delle stato giuridico dei figli, sancendo espressamente con l’art. 4
comma 2, l’applicabilità delle disposizioni ivi contenute anche ai figli naturali, assimilandoli in tal
modo sul piano processuale ai figli legittimi e avvicinando il procedimento di cui all’art. 317bis c.c., al
procedimento di separazione e divorzio, per quanto
riguardava la disciplina relativa alla regolamentazione delle questioni riguardanti i figli.
Mi piace ricordare che l’Avvocatura e in particolare
le Associazioni di avvocati familiaristi tra le quali
l’Osservatorio sul Diritto di Famiglia, hanno anch’esse indubbiamente contribuito a giungere a questa tanto attesa riforma, non solo esprimendo consenso verso il principio di unificazione dello stato
giuridico dei figli, ma inoltre proponendo, come ha
fatto l’Osservatorio, un progetto di riforma per l’attuazione di un giusto processo di famiglia, con l’unificazione e la semplificazione dei riti, e la istituzione
delle sezioni specializzate presso i Tribunali ordinari
che trattassero l’intera materia, compreso il processo
minorile. In tal modo è stata anticipata la riforma
della filiazione di cui oggi parliamo, ed anzi ci si è
spinti oltre, rispetto a quanto non abbia fatto il Legislatore italiano con la novella del 2012.
Con la riforma della filiazione è stato operato infatti un intervento significativo anche sulla distribuzione dell’attività giurisdizionale e quindi sulla
competenza funzionale del Tribunale ordinario e del
Tribunale per i minorenni, intervenendo sull’art. 38
delle disposizioni di attuazione, trasferendo al Tribunale Ordinario, in via esclusiva tutte le vicende
separative, nonché la regolamentazione dei rapporti
personali ed economici tra genitori coniugati e non
coniugati e figli, ma non è stato ancora completata
la riforma ordinamentale che l’Osservatorio da
molti anni chiede, con l’istituzione delle sezioni specializzate per la famiglia e i minori, presso ogni Tribunale ordinario e la conseguente soppressione del
Tribunale per i minorenni.
Ai Tribunali per i minorenni restano invero i procedimenti incidenti sulla potestà genitoriale (tranne
il caso di pendenza di un giudizio di separazione o
divorzio), i giudizi di adottabilità e quelli relativi alle
adozioni.
È stato però affermato il principio di parità assoluta tra figli naturali, figli legittimi e figli adottivi,
dando finalmente attuazione completa alla disposizione di cui all’art. 30 Costituzione, che consacra il
principio di pari responsabilità genitoriale, riferendolo a tutti i figli, sia legittimi che naturali.
La riforma della filiazione, approvata il 27/11/2012
a larga maggioranza e quindi condivisa trasversalmente dalla maggior parte delle forze politiche, enaprile-giugno 2013 | Avvocati di famiglia | 5
LEGISLAZIONE
trata in vigore il 1 gennaio 2013, rappresenta pertanto una decisiva ulteriore tappa del processo di
modernizzazione del diritto di famiglia.
La nuova legge è intervenuta riformando sia disposizioni di legge sostanziale che processuale.
Il mio contributo si limiterà ad un approfondimento che riguarda la disciplina sostanziale e dunque la disamina delle disposizioni del codice civile
modificate o interamente novellate, e dei principi
più rilevanti posti alla base della delega al Governo.
La L. 21972012 consta di sei articoli, che modificano il codice civile, le disposizioni per l’attuazione
del codice civile, le disposizioni transitorie, e le norme
regolamentari in materia di stato civile, interventi
tutti ispirati al principio “tutti i figli hanno lo stesso
stato giuridico” quindi “tutti i figli sono uguali”.
La L.219/2012 contiene inoltre, all’art. 2, un’ampia
delega al Governo (il cui termine di esercizio è stabilito in 12 mesi dall’entrata in vigore della legge e
quindi 1 gennaio 2014) per la modifica e la revisione
di tutte le disposizioni vigenti, al fine di eliminare
ogni residua discriminazione tra figli legittimi naturali e adottivi, in attuazione al principio di unificazione dello stato giuridico, tra questi quello che la
filiazione può essere accertata con ogni mezzo.
Le principali modifiche al codice civile sono contenute nell’art.1 della L.219/2012, che interviene
modificando parzialmente o integralmente le disposizioni del I Libro del codice civile agli artt. 74,
250, 251, 258, 276, 315.
L’art. 1 della nuova legge ha poi introdotto ex
novo l’art. 315bis c.c. e l’art. 448bis c.c.
Ha infine abrogato l’intera sezione II del Capo II
del Titolo VII del Libro I del codice civile, relativa alla
legittimazione dei figli naturali.
In particolare:
• Viene riscritto l’art.315 c.c. e viene affermato il
principio “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”
• Viene introdotto il nuovo art.315 bis c.c. che sostituisce il precedente art.315 c.c. che affianca ai
doveri del figlio verso i genitori (rispettare i genitori e contribuire al mantenimento della famiglia
in relazione al proprio reddito e alle proprie capacità) i diritti: ad essere mantenuto, educato,
istruito ed assistito moralmente dai genitori, nel
rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni
naturali e delle sue aspirazioni, a crescere in famiglia e a mantenere rapporti significativi con i
parenti, ad essere ascoltati in tutte le questioni
che lo riguardano, se ha compiuto 12 anni o anche di età inferiore se capace di discernimento.
• Viene introdotto l’art.448 bis c.c.. I figli vengono
sottratti all’obbligo di prestare gli alimenti nei
confronti del genitore decaduto dalla potestà. La
stessa disposizione inoltre permette ai figli del genitore decaduto dalla potestà di escluderlo dalla
successione.
6 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
• Vengono abrogate le disposizioni sulla legittimazione dei figli naturali.
• Viene interamente novellata la disciplina della parentela con il nuovo art.74 c.c.
• Viene novellato anche l’art.258 c.c. che prevede
che il riconoscimento non si limita a produrre effetti per il genitore che l’ha effettuato, ma estende
la propria efficacia anche sui parenti del genitore;
• Viene modificato l’art.250 c.c. 5° co. introducendo
la possibilità per il giudice di autorizzare l’infrasedicenne a riconoscere il di lui figlio, valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio;
• Viene riformulato l’art.251 c.c.. ampliando la possibilità di riconoscere i figli incestuosi.
• Viene riformulato l’art.276 c.c. relativo alla legittimazione passiva nel giudizio per la dichiarazione di paternità o maternità naturale, introducendo l’ipotesi della morte dei genitori nonché dei
loro eredi, parimenti legittimati passivi rispetto
alla domanda. La nuova disposizione prevede che
il figlio naturale può proporre l’azione nei confronti di un curatore, nominato dal giudice davanti cui il giudizio deve essere promosso.
È tuttavia opportuna una disamina più dettagliata
delle singole disposizioni, oggetto dell’intervento di
riforma.
Art. 74 c.c.
L’art. 74 del codice civile è stato interamente riformulato dal Legislatore del 2012, ed è stata data una
nuova definizione della nozione di parentela, stabilendo espressamente che il vincolo di parentela riguarda le persone discendenti dallo stesso stipite, qualunque provenienza abbia il vincolo di consanguineità
e anche nell’ipotesi in cui il vincolo discenda da un
rapporto giuridico estraneo a un legame di sangue.
La nozione di parentela dunque, non solo prescinde dal legame biologico essendo ormai estesa
non solo ai figli nati fuori dal matrimonio, ma anche a quelli minori di età adottati e dunque anche
alla filiazione adottiva.
La parentela cui si riferisce l’art. 74 c.c. è tanto
quella in linea retta, che in linea collaterale.
Ciò si desume dalla lettura combinata delle disposizioni di cui all’art 74 e del successivo art. 75
c.c., che è rimasto invariato.
I figli nati fuori dal matrimonio e i figli adottivi,
saranno nipoti dei genitori dei propri genitori e nipoti dei fratelli e delle sorelle dei propri genitori,
nonché cugini dei figli degli zii e così via.
Anche per i figli incestuosi, il Legislatore del 2012
compie un passo in avanti nel percorso di eliminazione delle discriminazioni tra le varie categorie di
figli, prevedendo che potranno essere riconosciuti,
previa autorizzazione del Tribunale (Ordinario o per
i minorenni a seconda che siano maggiorenni o minorenni), avuto riguardo al loro interesse e alla necessità di evitare loro qualsiasi pregiudizio.
LEGISLAZIONE
Il Legislatore del 2012, ha raccolto dunque l’esigenza emersa ormai da molti anni, di privilegiare i
valori e i diritti della persona umana, di eliminare
ogni forma di discriminazione tra figli legittimi e figli naturali, con la parificazione di tutte le forme di
filiazione, in attuazione ai principi costituzionali e
alle norme internazionali.
Nonostante esistessero già una serie di disposizioni nel nostro ordinamento che davano espressa
rilevanza alla parentela naturale, quali nel codice civile, l’art. 87 c.c. relativo al divieto di contrarre matrimonio, l’art. 433 c.c. che estendeva l’obbligo alimentare ai figli naturali e adottivi e ai discendenti
naturali, l’art. 468 e 737 c.c. in materia successoria
che prevedevano che la rappresentazione e la collazione riguardano anche i discendenti naturali del de
cuius, l’impostazione prevalente, sia nell’interpretazione della Suprema Corte (cfr. Cass. N. 5747/1979)
che in quella anche più recente della Corte Costituzionale (cfr. Corte Costituz.. 23/11/2000 n. 532 e Corte
Costituz. 18/11/2009 n. 535), era un’impostazione di
tipo tradizionale, secondo cui la parentela andava
riconosciuta limitatamente all’ambito della famiglia
legittima, mentre il riconoscimento del figlio naturale o l’accertamento giudiziale della filiazione naturale, instaurava un rapporto di parentela solo tra
il genitore e il figlio.
Sia il giudice di legittimità che la Corte Costituzionale, hanno affermato che dall’art. 30 della Costituzione non discendeva la parificazione di tutti i
parenti naturali ai parenti legittimi e dunque la pa-
rentela in senso proprio, era solo ed esclusivamente la discendenza scaturente dalla generazione in costanza di matrimonio.
Invero la Corte Costituzionale, adita dal Tribunale
di Bolzano che sollevò la questione di illegittimità
costituzionale dell’art. 276 c.c. comma 1, per contrasto con gli artt. 3,24 e 30 della Costituzione, nella
parte in cui non prevedeva nel caso di morte, sia del
genitore, sia degli eredi di questo, la possibilità per
colui che voleva fare accertare la propria paternità o
maternità naturale, di agire comunque nei confronti
di un curatore speciale nominato dal giudice, oppure nei confronti degli eredi degli eredi del presunto genitore, non aveva ravvisato elementi di illegittimità costituzionale nell’art. 276 c.c.(ordinanza
n. 80 del 20/03/2009 Corte Costituzionale) ed aveva
dichiarato manifestamente infondata la questione
di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale
di Bolzano.
Elemento decisivo, che non consentiva una interpretazione costituzionalmente orientata, era il disposto di cui all’art. 258 c.c., secondo il quale il riconoscimento non produce effetti che riguardo al genitore da cui fu fatto, salvi i casi previsti dalla legge.
Con una serie di interventi giurisprudenziali tra il
2006 e il 2009, la Corte di Cassazione ha poi anticipato i contenuti della riforma del 2012, rilevando
che mancava nel nostro ordinamento una norma
positiva che riconoscesse e si basasse su un unico
status filiationis, e veniva auspicato si pervenisse a
una concezione della parentela, nella quale fosse inluglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 7
LEGISLAZIONE
cluso il rapporto del figlio naturale con la famiglia
del genitore, non ostando in tal senso l’art. 258 c.c.
che escludeva non il rapporto parentale, bensì solo
gli effetti di tale rapporto.
Con la riforma del 2012, si è poi optato per la soluzione di individuare in un curatore speciale, il contraddittore necessario nel giudizio per la dichiarazione di paternità o di maternità naturale.
L’unica esclusione contenuta nell’art. 74 c.c. è
quella che riguarda i casi di adozione di persone
maggiori di età di cui agli artt. 291 c.c. e segg., che
non rientrano nella nuova nozione di parentela.
La ratio di questa esclusione, va ricercata nella natura e nella funzione proprie dell’adozione di persone maggiori di età, che com’è noto è quella di dare
a una persona che ne sia priva, dei discendenti ed
assicurare così la trasmissione del cognome e del
patrimonio.
Inoltre, non va dimenticato che l’art. 300 c.c. prevede espressamente che l’adottato conserva tutti i
diritti e i doveri verso la sua famiglia di origine e
dunque dall’adozione del maggiore di età, non deriva alcun rapporto tra l’adottato e la famiglia dell’adottante e alcun rapporto tra l’adottante e la famiglia dell’adottato.
Art. 250 c.c.
Riconoscimento
La legge di riforma del 2012, ha fortemente inciso sull’istituto del riconoscimento dei figli nati
fuori dal matrimonio, ed infatti ha novellato tre di8 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
sposizioni del codice civile che sono gli artt. 250, 251
e 258 c.c., il primo relativo appunto al riconoscimento dei figli naturali, il secondo relativo al riconoscimento dei figli incestuosi e il terzo relativo agli
effetti del riconoscimento.
La disposizione dell’art. 250 è stata modificata, nel
primo comma eliminando l’aggettivo “naturale” e
sostituendolo con la locuzione “nato fuori dal matrimonio”, poi invertendo l’ordine dei soggetti legittimati al riconoscimento (padre- madre; madre -padre), poi ancora prevedendo l’abbassamento dai sedici ai quattordici anni, quale soglia di età, per l’assenso del figlio al riconoscimento e infine prevedendo che il consenso del genitore che ha effettuato
per primo il riconoscimento, è necessario per il figlio infraquattordicenne.
In buona sostanza, il riconoscimento del minore
infraquattordicenne, non potrà avvenire senza il
consenso dell’altro genitore.
La ratio di questi interventi va ricercata in primo
luogo nell’abbandono di ogni forma di discriminazione, poi nella da presa d’atto da parte del Legislatore, che il processo di maturazione del minore
avviene oggi in modo sicuramente anticipato e da
qui la necessità di un maggiore coinvolgimento
dello stesso nelle decisioni che lo riguardano, anche
alla luce della legislazione sovranazionale che com’è noto attribuisce al minore il diritto ad essere
ascoltato in tutti i procedimenti che lo riguardano
(Convenzione di New York art. 12 sui diritti del fanciullo ratificata in Italia nel 1989 e la Convenzione
LEGISLAZIONE
di Strasburgo del 25/01/1996 ratificata in Italia il
20/03/2003 sull’esercizio dei diritti del fanciullo).
In buona sostanza, viene senza dubbio valorizzata la volontà del figlio minore di età.
Sotto tale ultimo profilo, rimando all’esame del
nuovo art. 315bis c.c. relativo ai diritti e doveri del
figlio, norma nella quale viene per la prima volta generalizzato, il diritto del minore che abbia compiuto
12 anni ed anche infradodicenne purché capace di
discernimento, ad essere ascoltato in tutte le procedure che lo riguardano.
In ordine al comma 4° dell’art. 250 c.c., che è relativo all’opposizione al riconoscimento del figlio da
parte del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento, occorre rilevare che la riforma ha apportato modifiche sostanziali e significative all’iter
procedurale delle quali vi parlerà il prof. Claudio Cecchella; mi limito dunque a rilevare che nel nuovo
procedimento, il Legislatore ha cercato innanzitutto
di rendere più spedito l’iter procedurale ed in secondo luogo ha cercato di agevolare la manifestazione diretta della volontà da parte del minore.
Invero sotto il primo profilo, basti osservare che
oggi il giudizio che segue al rifiuto del genitore è solo
eventuale, mentre prima delle riforma il rifiuto dava
luogo subito a un vero e proprio giudizio tra i due
genitori di natura contenziosa, e in ordine al secondo, non si può non evidenziare l’importanza che
oggi ha assunto nell’istruttoria l’audizione del minore, che è divenuta certamente parte essenziale
del procedimento.
In realtà l’ascolto del minore, nel corso dell’istruttoria del procedimento di riconoscimento, era
già prevista e non rappresenta dunque un novum,
come d’altra parte com’è noto era già prevista nel
nostro ordinamento in diverse disposizioni di legge,
prima fra tutte ricordo l’art. 155sexies c.c., introdotta
dalla L.54/2006 e in diverse disposizioni di legge sovranazionali, nonché infine nelle Linee Guida approvate dal Consiglio d’Europa nel 2010, per una giustizia child-friendly cioè per una giustizia amichevole nei confronti dei minori.
Tuttavia, oggi la rilevanza ed anzi la centralità del
momento dell’ascolto del minore, deriva proprio
dall’importanza che l’audizione del minore ha assunto negli ordinamenti europei ed internazionali
nonché nelle citate Linee Guida, non prevedendo la
disposizione di cui all’art.250 c.c. una formulazione
cogente o vincolante per il giudice, se non nella
stessa misura della disposizione di cui all’art. 155sexies c.c.
L’unica novità in tema di audizione del minore
nella disposizione di cui all’art. 250 c.c., è rappresentata dal riferimento all’età (dodici anni o di età
inferiore purché capace di discernimento), allineandosi in tal modo a quanto già previsto dall’art.
155sexies c.c., dedicato all’audizione del minore da
parte del giudice della separazione.
È evidente dunque la ratio: valorizzare l’opinione
del minore, dare voce al minore in merito alle decisioni destinate a condizionare la vita familiare o la
propria identità nel caso di riconoscimento.
Non è casuale il richiamo alle Linee Guida del
2010 per una giustizia child-friendly nei confronti
dei minori, in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, da parte del Primo Presidente della
Corte di Cassazione, il quale ha sottolineato che
dette Linee Guida, impongono un “…ripensamento
globale dei sistemi normativi civili e penali” e che in ogni
caso devono essere “….utilizzate immediatamente
come strumento ermeneutico fondamentale nella lettura
della disciplina vigente, dando attuazione alle vigenti
“norme vincolanti universali ed europee a tutela e promozione dei diritti dei minori”.
La previsione dell’età di dodici anni nel 4° comma
dell’art. 250 c.c., accorcia dunque l’intervallo temporale tra età in cui è previsto l’ascolto del minore
(dodici anni, 4° comma art. 250 c.c.) e l’età in cui
l’opinione del minore condiziona la possibilità
stessa riconoscimento (quattordici anni 3° comma
art. 250 c.c.).
Tale differente previsione, potrebbe tuttavia comportare possibili disparità di trattamento tra due minori pressoché coetanei; non può sfuggire infatti che
tra due minori, uno tredicenne ma ormai prossimo
al compimento dei quattordici anni, e l’altro quattordicenne, l’opposizione del primo, anche nell’ipotesi di opposizione ferma e decisa non vincolerebbe
il giudice, mentre il diniego del secondo, magari
poco convinto vincolerebbe in ogni caso il giudice.
Nella stessa direzione della valorizzazione dell’autodeterminazione e della maggiore consapevolezza
del minore, va letto poi l’ultimo comma dell’art. 250
c.c. così come novellato, nel quale viene fatta
un’apertura al riconoscimento del genitore infrasedicenne, che prima della riforma non era previsto.
Il divieto infatti non è più assoluto, in quanto
viene prevista la possibilità di ottenere l’autorizzazione al riconoscimento da parte del giudice “valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse
del figlio”.
Sebbene la procreazione in età adolescenziale non
sia molto frequente, il Legislatore del 2012 ha voluto
evidentemente attenuare gli ostacoli all’esercizio
delle genitorialità, ed evitare l’avvio della procedura
di adottabilità e la conseguente incertezza relativa
allo status e alla identità personale del figlio.
Nonostante infatti l’art. 11 della L. 183/1984 preveda la sospensione della procedura di adottabilità
fino al compimento del sedicesimo anno di età da
parte del genitore, la procedura adottiva veniva comunque nel frattempo avviata.
Invece oggi, quando interverrà l’autorizzazione
del giudice al riconoscimento da parte del genitore
infrasedicenne, verrà impedita all’origine la procedura adottiva.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 9
LEGISLAZIONE
È ancora troppo presto tuttavia per valutare gli effetti di questa apertura, che varieranno a seconda
dell’interpretazione più o meno ampia verrà data
alla previsione dell’art. 250 c.c.
Per quanto riguarda il silenzio della norma di cui
all’art. 250 c.c. circa l’individuazione del giudice
competente, dell’atto introduttivo, e del tipo di procedimento che si sviluppa in seguito all’opposizione
al riconoscimento, trattandosi di aspetti processuali,
rimando alla trattazione del prof. Cecchella.
Art. 251 c.c.
Con lo stesso art. 1 sopra citato, il Legislatore del
2012 è intervenuto sull’art. 251 c.c., riformulandolo.
La riformulazione ha prima di tutto interessato la
rubrica di detta disposizione, che non si chiama più
“Riconoscimento dei figli incestuosi” ma semplicemente “Autorizzazione al riconoscimento”.
Scompare quindi del tutto la parola “incestuosi”,
limitandosi il Legislatore a fare riferimento ai figli
nati da persone legate tra loro da vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel
secondo grado, ovvero da un vincolo di affinità in linea retta.
Detta modifica è stata per molto tempo osteggiata
da talune forze parlamentari, le quali hanno presentato una questione pregiudiziale di costituzionalità, assumendo che mediante la modifica dell’art. 251 c.c., si sarebbe di fatto a consentito, nelle
ipotesi in cui oltre all’incesto si fosse verificata anche una violenza sessuale (padre-figlia, suoceronuora, zio-nipote) un ulteriore atto di violenza, consentendo di effettuare il riconoscimento all’abusante, contro il volere della madre-abusata.
È tuttavia prevalsa l’opinione che era necessario
optare per una soluzione che consentisse il più possibile, di cancellare una colpa di cui questi figli non
avevano alcuna responsabilità, e di cui invece fin
dalla nascita ne dovevano portare il peso, si otteneva infatti l’effetto paradossale di trasformarli da
vittime a responsabili di un comportamento contrario al nostro codice morale, non messo in atto da
loro.
La Corte Costituzionale con la pronuncia n. 494
del 28/11/2002, era intervenuta sottolineando l’impossibilità per i figli incestuosi di assumere uno status filiationis, con conseguente violazione degli artt.
2, 3 e 30 della Costituzione.
Veniva anche osservato che paradossalmente il
cd. figlio incestuoso, nell’ipotesi in cui volesse ottenere l’adempimento dei doveri di mantenimento,
istruzione ed educazione nei suoi confronti ex art.
279 c.c., doveva egli stesso proclamare la propria
condizione di discriminato, salvo rinunciare a tali
diritti riconosciuti invece ad ogni figlio.
La sentenza sopra citata aprì la strada alle indagini relative alla paternità e alla maternità, superando il divieto di indagini e aprendo la strada al10 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
l’accertamento giudiziale del rapporto di filiazione,
anche se continuava ad essere vigente il divieto di
riconoscimento.
La novella del 2012 ha dunque eliminato tale disparità di trattamento, consentendo il riconoscimento da parte del genitore incestuoso, seppure
previa autorizzazione del giudice.
Pertanto, la differenza che oggi permane tra figlio
nato fuori dal matrimonio e figlio incestuoso, è che
mentre il primo può essere riconosciuto dal genitore senza dover ottenere alcuna autorizzazione
preventiva da parte del giudice, il riconoscimento
del figlio nato da persone appartenenti alla medesima cerchia familiare, dovrà essere preceduto da
una valutazione da parte del giudice, la quale potrebbe anche essere negativa e comportare dunque
un diniego da parte dell’organo giurisdizionale.
L’intento è quello di preservare l’interesse del minore ed evitargli qualsivoglia tipo di pregiudizio
(“avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di
evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio”); il Legislatore
del 2012, sotto tale profilo lascia dunque inalterata
la previgente disposizione.
La ratio di questa scelta va ricercata nella necessità, nei casi di violenza e di abusi sessuali a danno
della madre, di evitare pregiudizio al figlio, nato da
un rapporto incestuoso caratterizzato da violenza,
e nei cui confronti quindi la madre potrebbe aver
maturato un netto rifiuto.
In questi casi, la valutazione del giudice dovrà essere molto cauta, poiché il riconoscimento potrebbe
essere pregiudizievole per il bambino, non essendo
in tal caso opportuno fare emergere l’esistenza di
quel rapporto di filiazione.
Diversi invece sono i casi in cui la relazione incestuosa, pur essendo di dominio pubblico, non generi
o non abbia generato scandalo, né riprovazione sociale, non essendo in tal caso ravvisabili gli estremi
del reato di incesto, non sussistendo l’elemento del
pubblico scandalo di cui all’art. 564 c.p.
Tale disposizione di legge sanziona il padre incestuoso che sia stato condannato per violenza sessuale, con la decadenza della potestà genitoriale. Si
potrebbe verificare in tal caso che il giudice autorizzi il riconoscimento da parte di un padre che non
può esercitare la potestà genitoriale; va tuttavia sottolineato che il riconoscimento assicurerebbe al figlio il mantenimento a carico del genitore, laddove
detto obbligo non cessa né viene sospeso dalla limitazione della potestà genitoriale.
La competenza per l’autorizzazione al riconoscimento, è stata riservata al Tribunale per i minorenni
dall’ultimo comma dell’art. 251 c.c., per i minori di
età.
Art. 258 c.c.
Le modifiche apportate all’art. 258 c.c. riguardano
solo il primo comma, restando invariati il comma 2
LEGISLAZIONE
e 3 di detta disposizione di legge, dedicata agli effetti del riconoscimento.
Non è passata infatti al Senato la previsione che il
figlio riconosciuto tardivamente dal padre, potesse
solo aggiungere il cognome paterno a quello della
madre ma non potesse sostituirlo ad esso. Ciò
avrebbe infatti vanificato l’obiettivo della riforma
che è quello pervenire ad un unico status filiationis.
Le variazioni apportate dalla riforma sono due: la
prima attiene alla riformulazione della norma che
prima era contraddistinta da una formulazione negativa (“il riconoscimento non produce effetti che
riguardo al genitore da cui fu fatto”) e passa oggi ad
una formulazione positiva, immediata e diretta (“ il
riconoscimento produce effetti riguardo al genitore
da cui fu fatto”).
La seconda modifica riguarda l’estensione degli
effetti del riconoscimento ai parenti del genitore che
lo ha effettuato.
Detta modifica va collegata strettamente alla riformulazione dell’art. 74 c.c., che nel testo novellato,
allarga la parentela agli ascendenti e discendenti del
figlio nato fuori dal matrimonio, eliminando in tal
modo tutte le disparità tra figli legittimi e figli naturali, anche sotto il profilo del vincolo di parentela.
Con il riconoscimento, si stabilirà il medesimo
vincolo di parentela derivante dalla filiazione nell’ambito del matrimonio, con inevitabili riflessi sul
piano delle regole successorie, che registreranno
una devoluzione ereditaria anche ai parenti cd. naturali fino al sesto grado.
In ordine al cognome del figlio riconosciuto, va
rilevato che la novella ha lasciato invariato l’art.
262 c.c. comma 2, con la conseguenza che il figlio
riconosciuto prima dalla madre e poi dal padre, il
cognome paterno potrà essere aggiunto a quello
materno assumendo un cognome doppio, oppure
sostituito ad esso, assumendo il solo cognome del
padre.
Rimangono invariate anche le disposizione di cui
al 3° e ultimo comma dell’art. 262 c.c., le quali rimettono al giudice la decisione circa l’assunzione
del cognome paterno, quando il figlio sia minore di
età.
Il giudice è investito di un potere-dovere di decidere per quale delle possibilità previste dall’art. 262
c.c. comma 2 e 3 optare, con esclusione di qualsivoglia automaticità nell’attribuzione del cognome.
La giurisprudenza di legittimità anche più recente
(cfr. Cass. Sez. I, 15/12/2011 n. 27069 e Cass. Sez. I,
3/2/2011 n. 2644), ha espresso il principio che l’interesse del minore è centrale e non sono configurabili
regole di prevalenza temporale, dovendosi valutare
caso per caso; in alcuni casi infatti potrà essere più
opportuno aggiungere il cognome paterno a quello
materno se il riconoscimento è avvenuto dopo molti
anni dalla nascita del figlio e questi abbia portato
per molti anni il solo cognome materno. Nello stesso
modo il giudice potrebbe valutare più conveniente
per il minore sostituire il cognome paterno a quello
materno qualora, il minore potrebbe trarre vantaggio dal fatto di portare il solo cognome paterno.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 11
LEGISLAZIONE
Art. 276 c.c.
In ordine al giudizio di dichiarazione di paternità
e maternità, disciplinato dagli artt. 269-279 c.c.,
l’unica disposizione sulla quale è intervenuta la riforma del 2012, è quella dell’art. 276 c.c.. la quale
viene integrata, come sopra già rilevato, con una
previsione molto importante, in ordine alla legittimazione passiva nel giudizio di dichiarazione della
paternità o maternità naturale.
La novità consiste nella previsione che, in mancanza di eredi del genitore nei cui confronti la domanda deve essere proposta, essa vada rivolta nei
confronti di un curatore nominato dal giudice, davanti al quale il giudizio deve essere promosso.
In tal modo, il Legislatore ha garantito al minore
l’attuazione del diritto all’accertamento della filiazione, sia nel caso in cui il genitore sia deceduto e
altresì nel caso in cui, premorto il genitore non vi
siano eredi superstiti.
Il Legislatore ha così colmato una lacuna legislativa, recependo le indicazioni della Consulta che si
occupò della questione di incostituzionalità dell’art.
276 c.c., per contrasto con l’art. 3, 24, e 30 della Costituzione (cfr. ordinanza n. 80 del 20/03/2009), nella
parte in cui nel caso di morte del genitore e dei suoi
eredi, non prevedeva la possibilità di agire comunque nei confronti di un curatore speciale nominato
dal giudice, oppure nei confronti degli eredi degli
eredi del presunto genitore, non sussistendo la legittimazione passiva degli eredi degli eredi nel giudizio di accertamento della paternità, non essendo
12 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
questi ultimi contemplati quali contraddittori necessari.
Art. 315 c.c.
La disposizione dell’art. 315 c.c., prima dedicata
ai doveri dei figli verso i genitori, con il comma 7
della legge di riforma, viene riformulata già nella rubrica che ora si chiama “Stato giuridico della filiazione”.
L’art. 315 c.c. sancisce espressamente :” Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”.
È evidente la portata innovatrice di questa disposizione, la quale modifica profondamente il sistema,
introducendo una condizione unitaria di figlio,
senza più alcuna distinzione né nominale né sostanziale tra le varie categorie di figli.
In buona sostanza non esistono più figli legittimi,
naturali e adottivi, essendo stato proclamato il principio di parità assoluta tra figli naturali, legittimi, e
figli adottivi.
L’unificazione dello stato giuridico dei figli, trova
riscontro anche nell’ultimo comma dell’art. 1 della
L.219/2012, il quale dispone che nel codice civile, le
parole “figli legittimi” e “figli naturali” ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti “figli”.
Si può senz’altro affermare che la disposizione
dell’art. 315 c.c., rappresenta il nucleo centrale della
riforma, anticipato in qualche modo dalla L.54/2006
che ha inciso fortemente sul processo di unificazione dello stato giuridico dei figli, con la previsione
che le disposizioni ivi contenute dovessero trovare
LEGISLAZIONE
applicazione anche per i figli di genitori non coniugati. Da qui l’avvicinamento del procedimento di cui
all’art. 317bis c.c. al giudizio di separazione tra i coniugi, e le note diatribe in ordine a tale disposizione,
e cioè se la stessa dovesse ritenersi tacitamente
abrogata o meno a seguito della L.54/2006.
Pertanto il Legislatore del 2012, dopo aver riformato l’art. 315 e aver introdotto il principio della parificazione tra figli naturali, legittimi e adottivi,
avrebbe dovuto coerentemente sancire formalmente l’abrogazione dell’art. 317bis c.c..
Non possiamo comunque dimenticare che il Legislatore del 2012, ha conferito una delega al Governo
per l’adozione di uno o più decreti legislativi, per il
definitivo adeguamento e conseguente modifica delle
disposizioni vigenti in materia di filiazione.
Art. 315bis c.c.
Nella nuova norma di cui all’art. 315bis c.c., rubricato “Diritti e doveri del figlio”, è stato trasfuso
l’intero contenuto del vecchio art. 315 c.c. relativo
prima solo ai doveri del figlio verso i genitori, e inserendo nella nuova disposizione la previsione organica dei diritti del figlio, rappresentando ora la
stessa un vero e proprio statuto dei diritti e doveri
del figlio.
La disposizione dell’art. 315bis c.c. è speculare alla
disposizione di cui all’art. 147 c.c. relativa ai doveri
verso i figli.
La nuova disposizione sancisce al primo comma i
corrispondenti diritti dei figli, tuttavia con una previsione aggiuntiva relativa al diritto del figlio ad essere assistito moralmente dai genitori.
Il diritto all’assistenza morale, era già contemplato nel nostro ordinamento come obbligo coniugale dall’art. 143 c.c.. Si tratta comunque di un obbligo coniugale verso la famiglia e quindi anche
verso i figli, ma la circostanza che il Legislatore del
2012 lo abbia previsto espressamente, inserendolo
nell’elencazione relativa ai diritti del figlio, è molto
importante e significativo, considerato che sono
sempre più frequenti i casi di disinteresse affettivo
e morale dei genitori verso i figli.
Anche sotto tale profilo, la giurisprudenza di merito ha fatto da apri strada all’intervento riformatore
con cui è stata integrata l’elencazione dei diritti dei figli nei confronti dei genitori, riconoscendo in più occasioni il diritto al risarcimento nei confronti dei figli,
che avevano patito il disinteresse dei propri genitori
(cfr. Corte di Appello di Bologna 10/02/2004; Trib. Pordenone 29/07/2009 e Trib. Messina 11/09/2009).
L’assistenza morale viene dunque stata elevata a
rango di diritto del figlio, conferendogli una valenza
corrispondente al soddisfacimento delle esigenze
materiali dei figli.
Nella nuova disposizione di cui all’art. 315bis c.c.
al comma 2, viene inserita la previsione di un altro
diritto del figlio, non riconosciuto finora come di-
ritto vero e proprio, se non nella legge speciale sull’adozione L.183/1984, così come modificata dalla
L.149/2001: il diritto a crescere in famiglia.
Tale diritto, è stato qualificato dalla migliore dottrina come diritto soggettivo assoluto e come tale
tutelabile erga omnes.
Il nostro ordinamento prevede specifiche norme
che sostengono l’interesse del minore alla crescita
nella famiglia di origine che sono la L.n.285/1997
“Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”, la L. n.
328/2000 legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, la
L.53/2000 “Disposizioni per il sostegno della maternità e paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi della città”.
Il Legislatore ha voluto pertanto proclamare solennemente che il distacco del bambino dalla propria famiglia, è giustificabile solo se le carenze del
proprio nucleo familiare siano tali da poter arrecare
pregiudizio al minore, e l’interesse del minore a crescere nella sua famiglia deve essere perseguito anche a costo di impegnare le strutture sociali, con
azioni di sostegno non solo economiche ma anche
di ordine psicologico e pedagogico.
Infine, nell’elencazione dei diritti del figlio compare nel nuovo art. 315bis c.c., il diritto del figlio a
mantenere rapporti significativi con i parenti, già
prevista dall’art. 155 c.c. come modificato dalla
L.54/2006.
Non si può non apprezzare l’intervento del Legislatore del 2012, che ha sentito la necessità di raggruppare ed elencare espressamente tutti i diritti
dei figli, anche quelli già previsti da altre disposizioni, recependo le indicazioni della giurisprudenza
e valorizzando diritti fondamentali del minore, che
tuttavia non avevano ancora avuto il necessario riconoscimento.
Art. 448bis c.c.
Si tratta di una nuova disposizione introdotta dal
comma 9 dell’art. 1 della legge di riforma, rubricato
“Cessazione per decadenza dell’avente diritto dalla
potestà sui figli”.
Con detta norma, il Legislatore ha previsto che il
figlio, anche adottivo, e, in sua mancanza anche i discendenti prossimi, vengono esonerati dall’obbligo a
prestare gli alimenti nei confronti del genitore decaduto dalla potestà.
Prima della riforma, l’art. 448 c.c. prevedeva la sospensione dell’obbligo alimentare, in alcune ipotesi
legate a fatti oggettivi quali il sopravvenuto venir
meno dello stato di bisogno dell’alimentato, la sopravvenuta impossibilità economica dell’obbligato,
nonché infine la morte dell’obbligato.
Con la novella legislativa, a dette ipotesi si aggiunge la previsione di cui all’art. 448bis c.c., che potremmo definire di natura sanzionatoria, che a sua
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 13
LEGISLAZIONE
volta va a collocarsi accanto alla previsione di perdita
del diritto alimentare, quale sanzione accessoria, per
il genitore nei cui confronti sia intervenuta una condanna penale per i delitti previsti dagli artt. 609bis,
609ter, 609quater, 609quinque, 609octies c.p., nonché
l’esclusione dalla successione della persona offesa.
Invero l’art. 609nonies c.p., prevede come pena accessoria per i delitti sopra elencati, oltre alla perdita
della potestà genitoriale, per il genitore autore dei
suddetti delitti, la perdita dal diritto agli alimenti e
l’esclusione dalla successione.
Il Legislatore ha dunque ritenuto, con l’introduzione dell’art. 448bis c.c. di inserire anche nell’ambito del codice civile, le stesse pene accessorie che il
codice penale prevedeva nelle ipotesi di condanna
per i reati di cui agli arrt. 609bis-609quinques c.p.
nonché 609octies.
Cambia evidentemente l’ambito di operatività,
dovendosi ritenere che l’esonero dall’obbligo alimentare potrà essere invocato dal figlio, ogniqualvolta sia stata pronunciata la decadenza dalla potestà a carico del genitore e dunque nelle fattispecie
contemplate dall’art. 330 c.c. di competenza del Tribunale per i minorenni o del Tribunale Ordinario,
nell’ipotesi in cui sia in corso un giudizio di separazione o divorzio.
La pronuncia di decadenza dalla potestà genitoriale non sempre, com’è noto consegue alla commissione di un reato, essendovi molti casi in cui segue all’accertamento di condotte pregiudizievoli,
messe in atto da uno dei genitori nei confronti dei
figli minori e in generale condotte che violano i doveri genitoriali o peggio costituiscono abuso nell’esercizio degli stessi, ed evidenzino una inidoneità
o inadeguatezza genitoriale, tale da procurare pregiudizio alla prole.
La dottrina si interroga già sulla natura del previsto esonero dall’obbligo alimentare e cioè se debba
intendersi avere natura sanzionatoria nei confronti
del genitore, o compensativa nei confronti del figlio
esonerato, che in tal modo riceverebbe una riparazione indiretta per avere a suo tempo subito pregiudizio, a causa della condotta del genitore, poi dichiarato decaduto dalla potestà.
Artt. 280-290 c.c.
In linea con l’obiettivo e il nucleo centrale della riforma del 2012, e cioè l’eliminazione di ogni forma
di differenziazione tra figli legittimi e naturali, l’intera II Sezione del I Libro del codice civile, ovvero la
sezione rubricata “Della legittimazione dei figli naturali” è stata abrogata.
Attraverso la legittimazione, il figlio nato fuori dal
matrimonio, acquisiva la condizione di figlio legittimo, per effetto di susseguente matrimonio o per
provvedimento del giudice. Detto istituto ha tuttavia
trovato scarsa applicazione, a partire dalla riforma
del 1975 in poi, stante i vari interventi legislativi che
14 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
hanno via via eliminato le differenze tra i figli naturali e i figli legittimi.
Art. 2 DELEGA AL GOVERNO
Allo scopo di dare piena attuazione ai principi
della riforma, il Legislatore ha conferito un’ampia
delega al Governo.
I criteri direttivi cui dovrà attenersi il decreto legislativo di attuazione della delega, riguardano in
primo luogo la disciplina delle successioni e donazioni. È noto infatti che una delle differenze più significative di trattamento giuridico tra figli legittimi
e figli naturali, riguarda proprio l’ambito successorio.
L’art. 537 c.c. prevede infatti il cd. potere di commutazione dei figli legittimi, che possono soddisfare
in denaro o in beni immobili la porzione spettante ai
figli naturali.
Anche l’art. 566 c.c. nella successione legittima,
prevede la facoltà di commutazione, come diritto
potestativo, sebbene mitigato, stante la possibilità
di opposizione da parte dei coeredi- fratelli naturali.
Tra i vari principi contenuti nella suddetta delega,
in tema di prova della filiazione, viene introdotto
quello secondo cui, la filiazione fuori dal matrimonio, può essere accertata con qualunque mezzo.
Atro principio che merita menzione è quello del
rimodellamento del concetto di potestà genitoriale,
che viene adeguato al lessico psicologico- giuridico
moderno, delineando il concetto di responsabilità
genitoriale, ponendo l’accento sull’aspetto di cura,
piuttosto che di potere sul minore.
Apprezzabile da parte del legislatore il richiamo
anche nella delega, del diritto del minore ad essere
ascoltato in tutte le procedure che lo riguardano,
nonché la previsione della regolamentazione delle
modalità di ascolto, che viene demandato al presidente del Tribunale o al giudice delegato, ma in ogni
caso al giudice.
La previsione della regolamentazione delle modalità di ascolto è particolarmente significativo, laddove dopo l’introduzione dell’art. 155sexies c.c. che
prevede l’audizione del minore nei procedimenti di
separazione, senza tuttavia indicarne le modalità,
nell’intento condiviso e comune di trovare linee
giuda e uniformare le prassi, sono stati nei vari Fori
stilati e sottoscritti, su iniziativa delle associazioni
forensi di avvocati familiaristi, numerosi protocolli
per l’ascolto del minore, alla cui stesura hanno partecipato sia la magistratura che i servizi sociali.
Concludo osservando, e non certo per autocelebrazione, che il progetto di riforma per un giusto
processo della famiglia, elaborato nel 2011 dall’Osservatorio sul Diritto di Famiglia, più volte citato,
prevedeva che l’ascolto del minore venisse effettuato dal giudice, anche se nei casi più complessi
coadiuvato da un esperto-ausiliare. Sicché dico con
soddisfazione che anche sotto tale profilo, tale progetto ha anticipato la riforma della filiazione.
GIURISPRUDENZA
L’ASSEGNAZIONE
DELLA CASA FAMILIARE
IN COMODATO
Cassazione civile, sez. III,
Sentenza 17 giugno 2013, n. 15113
Presidente Francesco Trifone
Relatore Luigi Alessandro Scarano
Svolgimento del processo
Con sentenza del 20/11/2006 la Corte d’Appello di
Lecce ha respinto, seppure con diversa motivazione,
il gravame interposto dal sig. V.G. in relazione alla
pronunzia del Tribunale di Lecce di rigetto della domanda proposta nei confronti della nuora sig.
Ve.Ma.Lu. di declaratoria di cessazione del comodato precario avente ad oggetto immobile sito in
(OMISSIS), concesso al figlio C. perchè vi abitasse
con la famiglia, successivamente in sede di giudizio
di separazione personale assegnatole quale affidataria del figlio minore P.. Con conseguente condanna
al rilascio del medesimo, nonchè al pagamento di
compenso per il relativo godimento.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il V. propone ora ricorso per cassazione, affidato
a 3 motivi, illustrati da memoria.
L’intimata non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il 1 motivo il ricorrente denunzia violazione e
falsa applicazione degli artt. 1803, 1809 e 1810 c.c.,
art. 155 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3; nonchè “omessa, insufficiente e contraddittoria” motivazione su punto decisivo della
controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma
1, n. 5.
Lamenta che “così come i limiti soggettivi ed oggettivi del provvedimento di assegnazione non possono consentire una compressione dei diritti vantati dal dominus, che non è parte del giudizio nel
quale il provvedimento stesso è emesso, per converso non può configurarsi un ampliamento della
posizione giuridica del coniuge assegnatario, nei
confronti dello stesso proprietario, rispetto a quella
vantata dall’originario comodatario”.
Si duole non essersi dalla corte di merito considerato che “nel dare in comodato l’abitazione sita in
(OMISSIS) al figlio C. ed alla sig.ra Ve. non ha, certamente, inteso concederla perchè vi si costituisse
quel centro di interessi e di relazioni tali da considerarla quale casa familiare, bensì, quale semplice sistemazione temporanea e provvisoria e con riserva
di poterne ritornare in possesso nel caso di necessità per i bisogni della famiglia”, sicchè “il contratto
in essere stipulato tra le odierne parti del presente
giudizio deve qualificarsi come comodato precario e
non come comodato a termine e che, in conseguenza
del recentissimo arresto di codesta Suprema Corte
di Cassazione (decisione n. 3179, del 13 febbraio
2007), ove un bene immobile concesso in comodato
sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minori (o convivente con i figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa),
emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non
modifica nè la natura nè il contenuto del titolo di godimento dell’immobile. Pertanto ove si tratti di comodato senza la fissazione di un termine predeterminato (c.d. precario), il comodatario è tenuto a restituire il bene non appena il comodante lo richieda”.
Con il 2 motivo il ricorrente denunzia violazione e
falsa applicazione degli artt. 1803, 1809 e 1810 c.c.,
art. 147 e 155 c.p.c., art. 42 Cost., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè “omessa, insufficiente e contraddittoria” motivazione su punto
decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360
c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta che “dal quadro globale nel quale il contratto di che trattasi si è perfezionato... appare all’evidenza, come la volontà delle parti, nel momento
in cui l’immobile è stato concesso in godimento,
fosse quella di condizionare la concessione dell’immobile medesimo alla indipendenza economica e
patrimoniale dei coniugi comodatari ovvero alla sopravvenuta necessità, per il comodante, di rientrare
in possesso del bene per soddisfare anche i bisogni
dell’altra figlia e non alla indipendenza economica
degli eventuali nascituri dei coniugi comodatari”.
Con la conseguenza che “detto termine, se esistente,
deve ritenersi comunque ormai maturato atteso che
la sig.ra Ve.Ma.Lu., che in seguito al menzionato
provvedimento presidenziale è succeduta nel rapporto di comodato al marito V.C., è oggi del tutto
economicamente autosufficiente e indipendente. È
risultato, infatti, nel corso dell’istruttoria del giudizio di primo grado, come la resistente sia proprietaria di un immobile, unitamente alla di lei madre, sito
sempre in (OMISSIS); è risultato, ancora, che la
stessa percepisce un reddito proprio in quanto impiegata in una società privata e che ella è beneficiaria dell’assegno di mantenimento (sia per se che per
il figlio) posto dal Presidente del Tribunale di Lecce
a carico dell’ex marito, V.C.”.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 15
GIURISPRUDENZA
Si duole che “tali circostanze” non siano state “per
nulla valutate dalla Corte d’Appello di Lecce la cui
sentenza, nella parte motiva, appare carente ed insufficiente anche per tale aspetto”.
Lamenta che l’”individuazione, all’interno del
contratto di comodato, del termine di scadenza
coincidente con il raggiungimento dell’indipendenza economica dei figli conviventi con l’assegnatario, appare... anche in contrasto con lo spirito dell’art. 147 c.c.”, atteso il rischio “che il coniuge assegnatario della casa coniugale possa ostacolare le inclinazioni ovvero le aspirazioni del figlio al fine di
“conservare quanto più è possibile” la casa concessa
in comodato”.
Con il 3 motivo il ricorrente denunzia violazione e
falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. in riferimento
all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si duole che erroneamente la corte di merito abbia inteso non prendere in considerazione le esigenze degli “altri familiari dell’istante, diversi da
quelli destinatari del godimento del bene in forza
dell’originario contratto di comodato, in quanto
dette esigenze sarebbero state rappresentate in contrasto con le preclusioni proprie del rito”, laddove
“la situazione di urgente ed imprevisto bisogno che
legittimerebbe il sig. V.G. a richiedere il rilascio dell’immobile concesso in comodato, ex art. 1809 c.c., è
stata rappresentata, per la prima volta, innanzi alla
Corte d’Appello di Lecce semplicemente perchè
detta circostanza è sopravvenuta in un momento
storico successivo a quello in cui venne notificata la
domanda introduttiva dell’odierna controversia”.
La questione posta dal ricorrente all’attenzione
della Corte attiene alla sorte del contratto di comodato c.d. precario di immobile concesso dal genitore
al figlio in vista del suo matrimonio, e successivamente assegnato, in sede di giudizio di separazione
personale dei coniugi, alla moglie di quest’ultimo,
affidataria del figlio minore nel frattempo nato.
In particolare, avuto riguardo all’an, al quomodo e
al quando il comodante possa ottenerne la restituzione.
Nel caso in esame, nel confermare la pronunzia
del giudice di prime cure di rigetto della domanda
del comodante, la corte di merito ha peraltro precisato di volersi discostare dall’orientamento seguito
dal giudice di prime cure e già delineato da Cass.,
10/12/1996, n. 10977, intendendo uniformarsi ai
principi viceversa successivamente enunziati da
Cass., Sez. Un., 21/7/2004, n. 13603.
Va al riguardo posto in rilievo come la suindicata
Cass., 10/12/1996, n. 10977 avesse affermato che, in
caso di assegnazione della casa familiare in sede di
procedimento di separazione o divorzio, il titolo del
godimento dell’assegnatario è costituito non più
dall’originario contratto di comodato ma dal provvedimento di assegnazione, in quest’ultimo il diritto dell’assegnatario trovando autonoma e (in
16 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
caso di precedente titolarità del medesimo sul
bene) nuova fonte, sia sotto il profilo del tipo di diritto attribuito, sia sotto il profilo della funzione e
delle modalità di relativa disciplina, ivi ricompreso
l’aspetto della durata.
La scadenza del rapporto e del godimento non è
più pertanto, secondo tale interpretazione, quella
contrattualmente prevista bensì quella rideterminata o determinata (in ipotesi di comodato senza determinazione di termine) con riferimento al momento della venuta meno o esaurimento della destinazione funzionale dell’immobile a casa familiare.
Oltre che dall’art. 2908 c.c. (secondo cui “Nei casi
previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con
effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”: in ordine a tale specifico richiamo v. già Cass., 2/4/1992,
n. 4016), si è al riguardo argomentato essenzialmente dalla ravvisata opponibilità del provvedimento ai terzi, ai sensi dell’art. 1599 c.c., entro il novennio se avente data certa e non trascritto ed oltre
il novennio se trascritto.
Con la successiva pronunzia n. 13603 del 2004 le
S.U. di questa Corte hanno peraltro disatteso il suindicato orientamento, pervenendo ad affermare i seguenti principi di diritto.
• Quando un terzo (nella specie: il genitore di uno
dei coniugi) abbia concesso in comodato un bene
immobile di sua proprietà perchè sia destinato a
casa familiare, il successivo provvedimento - pronunciato nel giudizio di separazione o di divorziodi assegnazione in favore del coniuge (nella specie: la nuora del comodante) affidatario di figli minorenni o convivente con figlio maggiorenni non
autosufficienti senza loro colpa, non modifica nè
la natura nè il contenuto del titolo di godimento
sull’immobile, atteso che l’ordinamento non stabilisce una “funzionalizzazione assoluta” del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti che
hanno radice nella solidarietà coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento
della posizione giuridica del coniuge assegnatario. Infatti, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa, idoneo ad escludere uno dei
coniugi dalla utilizzazione in atto e a “concentrare” il godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario, resta regolato dalla disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano il godimento da parte della comunità domestica nella fase fisiologica della vita matrimoniale.
Di conseguenza, ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a termine indeterminato
(diversamente da quello nel quale sia stato
espressamente ed univocamente stabilito un termine finale), il comodante è tenuto a consentire la
continuazione del godimento per l’uso previsto
nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di
un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi del-
GIURISPRUDENZA
l’art. 1809 c.c., comma 2. - Ove il comodato di un
bene immobile sia stato stipulato senza limiti di
durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore di uno dei coniugi) già formato o
in via di formazione, si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato
dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare. Infatti, in tal
caso, per effetto della concorde volontà delle parti,
si è impresso allo stesso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari (e perciò
non solo e non tanto a titolo personale del comodatario) idoneo a conferire all’uso - cui la cosa
deve essere destinata - il carattere implicito della
durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale
e senza possibilità di far dipendere la cessazione
del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante. Salva la facoltà di quest’ultimo di chiedere la restituzione nell’ipotesi di sopravvenienza di un bisogno, ai sensi dell’art. 1809
c.c., comma 2, segnato dai requisiti della urgenza
e della non previsione.
• In caso di comodato avente ad oggetto un bene
immobile, stipulato senza la determinazione di un
termine finale, l’individuazione del vincolo di destinazione in favore delle esigenze abitative familiari non può essere desunta sulla base della mera
natura immobiliare del bene, concesso in godi-
mento dal comodante, ma implica un accertamento in fatto, di competenza del giudice del merito, che postula una specifica verifica della comune intenzione delle parti, compiuta attraverso
una valutazione globale dell’intero contesto nel
quale il contratto si è perfezionato, della natura
dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa far luce
sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene
allo specifico fine della sua destinazione a casa familiare.
Le S.U. del 2004 hanno, al riguardo, in particolare:
• escluso che il provvedimento giudiziale di assegnazione, pur costituendo “nuovo ed autonomo
titolo” di godimento per l’assegnatario, sia idoneo
a modificare “la natura ed il contenuto del titolo di
godimento sull’immobile”;
• osservato che il diritto del coniuge assegnatario
resta nel suo contenuto modellato dalla disciplina
del titolo negoziale preesistente, con la conseguenza che è alla normativa regolatrice dell’originaria convenzione che occorre fare riferimento al
fine di delineare il complesso dei diritti e dei doveri di detto coniuge nei confronti del proprietario
contraente;
• affermato che l’applicabilità della disciplina relativa al titolo contrattuale preesistente non esclude
e anzi necessariamente comporta che la concesluglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 17
GIURISPRUDENZA
•
•
•
•
•
•
sione in comodato del bene nella specifica prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare assuma decisiva rilevanza, specificamente in
ordine al termine finale, per la determinazione del
quale è alla destinazione della cosa che deve
aversi riguardo;
escluso che il vincolo a casa familiare rimanga
“automaticamente caducato per il sopravvenire
della crisi coniugale”;
sostenuto che, trattandosi di comodato senza determinazione di durata (c.d. precario), così come il
comodante non può esercitare il recesso ad nutum nella fisiologia del rapporto nei confronti del
comodatario del pari non può farlo nei riguardi
dell’assegnatario all’esito dell’emissione del provvedimento in sede di giudizio di separazione personale dei coniugi o di divorzio, la durata del diritto di godimento dell’immobile rimanendo determinata in relazione alla persistenza o meno
della destinazione funzionale dell’immobile a
casa familiare, in ragione delle esigenze da questa tutelate;
ritenuto che il contenuto proprio del comodato risulta determinato ai sensi dell’art. 1809 c.c.,
comma 2, con termine di durata cioè implicitamente fissato in ragione dell’uso cui il bene concesso è destinato, e non già ai sensi dell’art. 1810
c.c., prevedente per il comodatario l’obbligo di restituire la cosa al comodante non appena questi la
richieda; a tale stregua sostanzialmente negandosi che, in presenza di funzionale destinazione
a casa familiare (e solamente in tale caso), la figura stessa del precario sia in effetti configurabile,
giacchè un termine non può non sussistere, rimanendo esso, laddove non convenzionalmente
fissato dalle parti, implicitamente determinato
alla stregua di tale uso, cui il bene è destinato;
disatteso l’orientamento secondo cui la durata del
comodato può desumersi dalla “destinazione abitativa” cui per sua natura un immobile è adibito
(in tal senso v. Cass., 8/10/1997, n. 9775;
Cass., 8/3/1995, n. 2719; Cass., 22/3/1994, n. 2750;
Cass., 18/1/1985, n. 133; Cass., 20/1/1984, n. 491;
Cass., 23/5/1992, n. 6213), e diversamente statuito
che la destinazione dell’immobile a fungere da
casa familiare, essendo non già “genericamente
connessa alla natura immobiliare” bensì profilantesi in termini di “marcata specificità” come finalizzata ad assicurare “che il nucleo familiare già
formato o in via di formazione abbia un proprio
habitat, come stabile punto di riferimento e centro di comuni interessi materiali e spirituali dei
suoi componenti”, realizza un vero e proprio vincolo di destinazione dell’immobile;
affermato, senza invero indicare quando esso
venga a concretamente insorgere, che avendo le
esigenze abitative (e a fortiori quelle di una famiglia) naturale tendenza a durare indefinitamente
18 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
nel tempo il vincolo di destinazione dell’immobile
“alle esigenze abitative familiari” è idoneo a conferire all’uso in qualità di casa familiare il carattere di termine implicito di durata del rapporto;
• correlato, escludendosi che il vincolo a casa familiare rimanga “automaticamente caducato per il
sopravvenire della crisi coniugale”, il termine finale dell’attribuzione al “raggiungimento dell’indipendenza economica dell’ultimo dei figli conviventi con l’assegnatario”;
• riconosciuto al concedente (nell’avvertire che
“un’opzione interpretativa” la quale “privasse in
modo assoluto il comodante proprietario, che ha
già rinunciato ad ogni rendita sul bene in favore
della comunità familiare, della possibilità di disporne fino al momento, peraltro imprevedibile
all’atto della conclusione dell’accordo, del raggiungimento dell’indipendenza economica dell’ultimo dei figli conviventi con l’assegnatario, si
risolverebbe in una sostanziale espropriazione
della facoltà e dei diritti comuni alla sua titolarità
sull’immobile, con evidenti riflessi sulla sfera costituzionale della tutela del risparmio e della sua
funzione previdenziale”) la facoltà di esigere la restituzione del bene esclusivamente nell’ipotesi di
sopravvenienza di un suo urgente ed impreveduto
bisogno, ai sensi dell’art. 1809 c.c.
Intendendo - come detto - fare applicazione dei
suindicati principi, la corte di merito ha nell’impugnata sentenza argomentato dal rilievo:
• che il provvedimento di assegnazione della casa
familiare come nella specie emesso in sede di separazione personale dei coniugi è “inidoneo a governare in maniera difforme rispetto all’originaria pattuizione la durata dell’originario rapporto
di comodato”, laddove come nel caso “instaurato
senza determinazione di durata”;
• che il bene è comunque “vincolato finché permanga la funzione realizzata mediante il provvedimento giudiziale... non potendo ipotizzarsi una
funzionalizzazione assoluta del diritto di proprietà del terzo a tutela d’altrui interessi d’ordine
familiare”;
• che “non è ipotizzabile un ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario rispetto
a quella vantata dall’originario comodatario, sicché il diritto del coniuge assegnatario “resta modellato nel suo contenuto dalla disciplina del titolo negoziale preesistente”, con la conseguenza
che occorre far riferimento all’originaria convenzione al fine di delineare il complesso dei diritti
spettanti al coniuge assegnatario nei confronti del
comodante”;
• che il provvedimento di assegnazione determina
una “concentrazione nella persona dell’assegnatario, in quanto componente del nucleo familiare
in favore del quale il godimento era stato concesso, del titolo originario”;
GIURISPRUDENZA
• che la “concessione del godimento del bene nella
specifica prospettiva della sua utilizzazione quale
casa familiare (desumibile dalla stessa prospettazione contenuta in citazione, che riconnette la
concessione in comodato funzionalmente al matrimonio del figlio, come si desume dall’immediato collegamento temporale con tale evento) assume... decisiva rilevanza ai fini del riscontro della
sussistenza di un termine atto ad escludere la
configurabilità del rapporto come a tempo indeterminato e, di conseguenza, la possibilità di recesso ad nutum”;
• che allorquando come nella specie “si prospetti
una destinazione non genericamente connessa
alla natura immobiliare del bene, ma specificamente diretta ad assicurare uno stabile punto di
riferimento ad un nucleo familiare in formazione,
inteso come centro di riferimento per i suoi componenti”, viene a configurarsi un “vincolo di destinazione” dell’immobile idoneo a “conferire all’uso convenuto dalle parti la natura di termine
implicito di scadenza del contratto, termine individuabile nella cessazione della finalità impressa
al bene”;
• che tale termine coincide con il “compimento”
della “funzione di centro della comunità domestica proprio della casa coniugale, ravvisabile nel
raggiungimento dell’indipendenza economica dei
figli conviventi con l’assegnatario”;
• che il contratto risulta a tale stregua “svincolato”
dalla disciplina del’art. 1810 c.c. e “ricondotto” a
“quella di cui all’art. 1809 c.c.”;
• che la restituzione dell’immobile non può essere
pertanto richiesta dal comodante “in qualsiasì
momento” ma, “al di fuori del compimento del
termine implicito segnato dalla cessazione della
funzione propria del bene, esclusivamente nel
caso in cui sopravvenga un personale ed imprevisto bisogno di riottenere la disponibilità del medesimo”.
Ritenendo nella specie non ancora cessata la funzione propria dell’immobile di habitat del persistente nucleo della famiglia originaria; e avendo
escluso di poter prendere nel caso in considerazione
le “esigenze d’altri familiari dell’istante, diversi da
quelli destinatari del godimento del bene in forza
dell’originario contratto di comodato”, in quanto
tardivamente dedotte “soltanto con le memorie depositate in sede di giudizio di appello”, nell’impugnata sentenza la corte di merito è quindi pervenuta
a confermare, seppure con diversa motivazione, la
pronunzia del giudice di prime cure di rigetto della
domanda del genitore comodante di restituzione
dell’immobile de quo.
Oltre che dalla Corte d’Appello di Lecce nell’impugnata decisione, l’orientamento espresso dalle
S.U. del 2004 è stato conformemente seguito in particolare da Cass., 6/6/2006, n. 13260; Cass., 13/2/2006,
n. 3072; Cass., 18/7/2008, n. 19939; Cass., 11/8/2010, n.
18619; Cass., 28/2/2011, n. 4917; Cass., 21/6/2011, n.
13592; Cass., 14/2/2012, n. 2103; Cass., 2/10/2012, n.
16769.
La pronunzia Cass., 21/6/2011, n. 13592 ha poi
esteso l’applicazione dei suindicati principi altresì
all’abitazione di nucleo familiare di fatto.
Da tale orientamento si è viceversa discostata
Cass., 7/7/2010, n. 15986 che, nel cassare la sentenza
impugnata di rigetto della domanda di restituzione
di un immobile originariamente concesso in comodato dai genitori al figlio e successivamente rimasto nella disponibilità della nuora all’esito della separazione personale (fondata sulla ritenuta necessità che tale pretesa fosse subordinata alla sopravvenienza di un urgente e impreveduto bisogno ai
sensi dell’art. 1809 c.c., comma 2), ha enunziato il
principio secondo cui “Il comodato precario è caratterizzato dalla circostanza che la determinazione
del termine di efficacia del vinculum iuris costituito
tra le parti è rimessa in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla
ad nutum con la semplice richiesta di restituzione
del bene senza che assuma rilievo la circostanza che
l’immobile sia stato adibito a casa familiare e sia
stato assegnato, in sede di separazione tra i coniugi,
all’affidatario dei figli”.
Perplessità sembrano emergere anche in alcune
pronunzie ove si è affermato il principio in base al
quale a norma dell’art. 1810 c.c. il termine finale del
contratto di comodato può risultare dall’uso cui la
cosa è destinata in quanto tale uso abbia in sè connaturata una durata predeterminata nel tempo,
mentre in mancanza di particolari prescrizioni di
durata l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile si configura come indeterminato e continuativo, inidoneo a sorreggere un termine finale, sicchè in tali ipotesi la concessione
deve intendersi a tempo parimenti indeterminato,
e cioè a titolo precario, e dunque revocabile ad nutum da parte del comodante (v. Cass., 9/2/2011, n.
3168; Cass., 11/3/2011, n. 5907).
Principio che, pur se formulato con riferimento a
immobili ad uso diverso da abitazione, sembra invero applicabile anche all’ipotesi in cui si tratti di
immobile destinato a casa familiare.
A meno di non volersi ritenere, come pure adombrato in dottrina all’esito della sentenza delle S.U.
del 2004, che la soluzione prefigurata dalle Sezioni
unite presupponga una distinzione tra beni immobili, a seconda che gli stessi vengano o meno funzionalmente destinati a casa familiare.
Mentre per i beni immobili privi di tale destinazione continua cioè, secondo tale tesi, ad essere possibile la costituzione di un comodato (anche) senza
determinazione di durata (si afferma testualmente
dalle S.U.: “...secondo consolidata giurisprudenza di
questa Suprema Corte non può desumersi la deterluglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 19
GIURISPRUDENZA
minazione della durata del comodato dalla destinazione abitativa cui per sua natura è adibito un immobile, in difetto di espressa convenzione sul punto,
derivando da tale destinazione soltanto la indicazione di un uso indeterminato e continuativo, inidoneo a sorreggere un termine finale...”, orientamento “... certamente condivisibile con riferimento
alle fattispecie in cui si prospetti una destinazione
genericamente connessa alla natura immobiliare
del bene...”), per gli immobili adibiti a casa familiare
il comodato non può invero configurarsi che a termine (osservano al riguardo le S.U. del 2004: “... e tuttavia tale orientamento... non appare utilmente invocabile nei casi in cui la destinazione sia diretta ad
assicurare... che il nucleo familiare già formato o in
via di formazione abbia un proprio habitat, come
stabile punto di riferimento e centro di comuni interessi materiali e spirituali dei suoi componenti”).
Il Collegio condivide le perplessità in argomento
emerse sia in dottrina che in giurisprudenza.
In particolare sotto due profili.
Un primo rilievo riguarda l’assunto, costituente
uno degli snodi fondamentali di distinzione rispetto
al precedente orientamento interpretativo che le
S.U. del 2004 hanno specificamente inteso superare,
secondo cui quando un terzo abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perchè
sia destinato a casa familiare il successivo provve20 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
dimento -pronunciato nel giudizio di separazione o
di divorzio- di assegnazione in favore del coniuge
affidatario di figli minorenni o convivente con figli
maggiorenni senza loro colpa economicamente non
autosufficienti, non modifica nè la natura nè il contenuto del titolo di godimento sull’immobile.
Il provvedimento giudiziale di assegnazione della
casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a “concentrare” il godimento del
bene in favore della persona dell’assegnatario, resta
cioè regolato dalla disciplina del comodato negli
stessi limiti che segnavano il godimento da parte
della comunità domestica nella fase fisiologica della
vita matrimoniale.
Tale assunto viene motivato argomentando dalla
destinazione dell’immobile a fungere da casa familiare.
Si afferma al riguardo che, per effetto della “concorde volontà delle parti”, viene “impresso al comodato un vincolo di destinazione alle esigenze abitative familiari (e perciò non solo e non tanto a titolo
personale del comodatario) idoneo a conferire all’uso -cui la cosa deve essere destinata- il carattere
implicito della durata del rapporto, anche oltre la
eventuale crisi coniugale e senza possibilità di far
dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente
dalla volontà, ad nutum, del comodante” (in tali termini, conformemente alla pronunzia delle S.U. del
GIURISPRUDENZA
2004, v. da ultimo la citata Cass., 2/10/2012, n. 16769).
Osservato che la segnalata finalità di conservazione, di mantenimento della destinazione funzionale in sede di adozione del provvedimento di assegnazione da parte del giudice al momento della crisi
del rapporto coniugale o di convivenza nonchè la
mancata caducazione del vincolo al sopravvenire
della crisi coniugale (v.
Cass., Sez. Un., 21/7/2004, n. 13603) depongono nel
senso che la destinazione funzionale assume in realtà rilievo anche anteriormente a tale momento, e
cioè al tempo del fisiologico svolgimento del rapporto, dovendo escludersi che esso possa considerarsi scaturente solamente all’esito della crisi e che
sia il provvedimento di assegnazione ad imprimerlo
(il giudice di legittimità costituzionale delle leggi ha
in particolare posto in rilievo l’imprescindibile necessità della relativa considerazione, oltre che in
sede di adozione del provvedimento di assegnazione nell’ambito dei procedimenti di separazione
personale dei coniugi e di divorzio, anche in caso di
cessazione del rapporto di stabile convivenza tra
persone non unite in matrimonio, in tutte le dette
ipotesi emergendo l’esigenza che venga “conservata”, “mantenuta” la “destinazione dell’immobile
a residenza familiare”: v. Corte Cost., 27/7/1989, n.
454), risulta invero al riguardo non spiegato:
a) quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare;
b) quale sia il momento di relativa cessazione;
c) quale sia il regime di relativa opponibilità.
Le suindicate questioni evocano altresì la correlativa problematica concernente se e quale tipo di posizione giuridica tutelata possa ravvisarsi in capo al
coniuge e ai figli del titolare del diritto (reale o personale) sull’immobile adibito a casa familiare.
Superata la possibilità di ritenersi dei meri “ospiti
del capofamiglia” (in tal senso v. Cass. 2/10/1974 n.
2555; Cass., 4/12/1962 n. 3264. In giurisprudenza di
merito v. Trib. Salerno, 9/10/1980, in Giur. it., 1981, 1,
2, 266; Pret. Roma, 28/2/1976, in Giur. it., 1977, 1, 2,
141. V. altresì Cass., 22/4/2002, n. 5857), il coniuge e i
figli del titolare sono comunemente qualificati come
“detentori autonomi” della casa familiare, secondo
un orientamento ormai da tempo affermatosi anche in giurisprudenza di legittimità, con conseguente riconoscimento ai medesimi della legittimazione all’esperimento della tutela possessoria ex art.
1168 c.c. (cfr., con riferimento a casa condotta in locazione, Cass., 7/10/1971, n. 2753.
V. anche Cass., 26/1/1982, n. 511. Da ultimo, con riferimento al convivente more uxorio, v. Cass.,
14/6/2012, n. 9786; Cass., 21/3/2013, n. 7214. In giurisprudenza di merito cfr. Trib. Genova, 18/3/1992. Relativamente a casa goduta in comodato v. Cass.,
4/3/1998, n. 2407).
Ove i coniugi non siano titolari della proprietà o di
un diritto reale limitato di godimento sulla casa adi-
bita a residenza familiare, il diritto di abitare la residenza della famiglia deriva normalmente da un
contratto di locazione o di comodato.
Se entrambi i coniugi assumono la veste di parte
(formale e sostanziale) del contratto, essi acquistano
un (autonomo) diritto personale di godimento sull’immobile.
Ove il contratto venga viceversa stipulato da un
coniuge, bisogna distinguere il caso in cui il medesimo ne assuma la veste di parte formale ma entrambi i coniugi (nonchè eventualmente i figli, se
sussistenti) siano parte sostanziale di esso, dalla diversa ipotesi in cui il solo coniuge stipulante sia
parte formale e sostanziale del contratto (come, ad
esempio, nel caso in cui il contratto sia stato stipulato prima del matrimonio, e anche prima che i futuri coniugi si conoscessero, e solo successivamente
alla celebrazione l’immobile che ne costituisce oggetto venga dal titolare adibito a residenza del costituito nucleo familiare).
Nel primo caso, anche il coniuge non stipulante e
i figli sono infatti da qualificarsi come vere e proprie
parti del contratto, a prescindere dalla relativa intestazione formale, assumendo in proprio la titolarità
del rapporto.
Nella seconda ipotesi, il coniuge non stipulante e
i figli, così come il coniuge e i figli del titolare del diritto reale sull’immobile, non possono invece considerarsi quali titolari in proprio del diritto personale
di godimento scaturente dal contratto.
Anche in tal caso non può tuttavia negarsi il relativo diritto al godimento dell’immobile, il cui fondamento riposa nei corrispondenti obblighi di contribuzione e mantenimento di cui agli art. 143 c.c. di
rilevanza costituzionale (art. 29 Cost.), nonchè “nel
valore costituzionale di tutela della filiazione” (art.
30 Cost.), che trova concreta specificazione nelle disposizioni previste dagli art. 261, 147 e 148 c.c. (v.
Corte Cost., 13/5/1998 n. 166; Corte Cost., 21/10/2005,
n. 394. Nella giurisprudenza di merito v. Pret. Genova, 18/3/1992, in Giur. merito, 1993, 1, 1206 ss.).
Emerge allora evidente come assuma fondamentale rilievo l’individuazione del momento di relativa
insorgenza ed opponibilità ai terzi, anche anteriormente al momento della patologia del rapporto di
coniugio sfociante nella separazione o nel divorzio
(come pure della vicenda successoria riguardante
l’immobile).
Emblematica conferma al riguardo si evince ad es.
da una recente decisione di questa Corte che, argomentando dall’art. 756 c.c. (in base al quale l’ipoteca
attribuisce al creditore il diritto di espropriare i beni
su cui essa è iscritta anche se i medesimi pervengono per effetto della successione a soggetto diverso
dall’erede, in quanto oggetto di legato), considerato
applicabile anche quando l’immobile abbia in vita
dell’ereditando ricevuto la destinazione funzionale
a casa familiare, ha concluso per la poziorità del tiluglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 21
GIURISPRUDENZA
tolo vantato dal creditore ipotecario sull’immobile
destinato a casa familiare rispetto al coniuge del debitore, in ragione della relativa anteriorità rispetto
all’acquisto da parte di quest’ultimo del diritto di
abitazione sull’immobile ex art. 540 c.c., comma 2,
sottolineando che il diritto di abitazione del coniuge
può se del caso convertirsi nell’equivalente monetario da farsi valere sull’eventuale residuo all’esito
del processo esecutivo, in corrispondenza dei diritti
rimasti estinti (v. Cass., 13/1/2009, n. 463. V. anche
Cass., 30/7/2004, n. 14594).
Nel ritenere che il diritto sulla casa familiare
venga dal coniuge superstite acquistato solamente
al momento dell’apertura della successione del de
cuius, nella detta pronunzia si muove in realtà dall’assunto dell’irrilevanza, in vita dell’ereditando,
della destinazione funzionale dell’immobile a casa
familiare.
Siffatto assunto, al di là della questione in merito
alla configurabilità in capo al coniuge (e ai figli) del
titolare formale del diritto reale o personale sull’immobile della (con)titolarità sostanziale del rapporto, scaturente dal contratto, si appalesa in ogni
caso da correlare con il principio posto dalle S.U. del
2004 e poi ripreso dalle successive pronunzie delle
sezioni semplici di questa Corte, secondo cui la destinazione dell’immobile a fungere da casa familiare
crea un vero e proprio vincolo di destinazione sull’immobile.
Si è al riguardo recentemente ribadito che l’assegnazione al coniuge affidatario dei figli, in sede di
separazione, del godimento dell’immobile di proprietà esclusiva dell’altro non impedisce al creditore
di quest’ultimo di pignorarlo e di determinarne la
vendita coattiva (v. Cass., 19/7/2012, n. 12466).
Sotto altro profilo, vale sottolineare come non appaia del tutto plausibile la precisazione dalle S.U. del
2004 ulteriormente formulata, seppure in via incidentale, secondo cui il provvedimento giudiziale
“come è noto, non attribuisce un diritto reale di abitazione, ma un diritto personale di godimento, variamente segnato da tratti di atipicità”.
Sostenere che l’assegnatario consegue sempre e
comunque un diritto personale di godimento, anche
quando il provvedimento giudiziale viene ad essere
correlato ad una originaria posizione giuridica (in
capo ad uno od entrambi i coniugi) di natura reale
(proprietà o comproprietà o altro diritto reale limitato di godimento, come ad es. il diritto di abitazione
ex art. 1022 c.c.), e non anche in tal caso un diritto di
godimento viceversa di corrispondente natura reale,
depone infatti per l’ammissione che il provvedimento giudiziale su tale (originaria) posizione in realtà incide, mutandone la natura.
In tal modo si finisce infatti per sostanzialmente
riconoscere al provvedimento giudiziale proprio
quel potere che in via di principio viceversa si intende(va) negargli.
22 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
Ulteriore profilo di perplessità insorge dall’assunto secondo cui ove il comodato sia stato convenzionalmente stabilito a termine indeterminato
(diversamente da quello nel quale sia stato espressamente ed univocamente stabilito un termine finale), il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809
c.c., comma 2.
Non rimane invero a tale stregua spiegato il caso
in cui l’immobile venga concesso ad es. dal genitore
al figlio nell’immediatezza delle nozze senza determinazione di tempo ma concordemente in attesa
che venga dal medesimo trovata altra soluzione o
in attesa del relativo perfezionamento (es., ultimazione di lavori di sistemazione o restauro, liberazione dell’immobile occupato).
Ancora, va posta o quantomeno delineata con
maggiore nettezza la distinzione dall’ipotesi in cui
l’immobile venga concesso in comodato precario al
figlio e questi successivamente si unisca in matrimonio o inizi una convivenza more uxorio e destini
l’immobile a residenza della neo costituita famiglia
(di diritto o di fatto).
Come non si è mancato di osservarsi da alcuni in
dottrina, l’assegnazione giudiziale della casa familiare in comodato al genitore affidatario dei figli minori o convivente con i figli maggiorenni economicamente non autosufficienti non rimane infatti
esclusa (anche) nelle suddette ipotesi, e il provvedimento di assegnazione non sembra potersi ritenere
inopponibile al comodante.
Perplessità genera altresì la considerazione della
durata della funzionalizzazione dell’immobile destinato a casa familiare.
L’intervento delle S.U. del 2004 è stato motivato,
come sopra esposto, dalla ravvisata indifferibile esigenza di evitarsi una “sostanziale espropriazione
delle facoltà e dei diritti connessi alla sua titolarità
sull’immobile, con evidenti riflessi sulla sfera costituzionale della tutela del risparmio e della sua funzione previdenziale”, soluzione dallo stesso Supremo
Collegio definita come “palesemente irragionevole”.
Peraltro, negando al comodante la recedibilità ad
nutum ex art. 1810 c.c., e ponendo la durata dell’attribuzione in diretta e specifica correlazione con la
persistenza o venuta meno della destinazione funzionale dell’immobile a casa familiare, le S.U. paradossalmente pervengono a sostanzialmente determinare proprio quella situazione cui si prefiggevano
viceversa di porre rimedio.
A fondamento dell’esclusione della possibilità di
recedere ad nutum, anche all’esito dell’assegnazione in sede di procedimento di separazione o divorzio, è dal Supremo Collegio evocato il principio
della funzionalizzazione della proprietà sull’immobile destinato a casa familiare.
GIURISPRUDENZA
Al riguardo, esse non distinguono peraltro a seconda che il proprietario concedente sia coniuge o
genitore del beneficiario, ovvero un mero terzo
estraneo.
Poichè, anche in ragione dell’operare della relativa
vicenda successoria, l’attribuzione in questione risulta a priori indeterminabile nella durata, con conseguente incertezza (quantomeno) del quando della
scadenza, una distinzione delle posizioni pure sotto
il profilo considerato appare tuttavia imprescindibile per una disciplina rispettosa del dettato costituzionale.
La compressione del diritto reale del coniuge proprietario h trova infatti il suo fondamento costituzionale nella tutela della famiglia, dei coniugi e dei
figli (artt. 29 - 31 Cost.), e nella funzionalizzazione
della proprietà ex art. 42 Cost., comma 3, a salvaguardia della solidarietà coniugale e postconiugale.
Trattandosi viceversa di terzi, tale tutela non sembra peraltro invocabile. In particolare trattandosi di
un mero estraneo. E anche relativamente al genitore, può farsi invero meramente richiamo all’eccezionale ipotesi di cui all’art. 148 c.c., di concorso negli oneri per l’assolvimento da parte dei figli agli obblighi di cui all’art. 147 c.c. nei confronti della rispettiva prole.
Orbene, pur movendo dall’assunto che l’ordinamento non stabilisce una funzionalizzazione assoluta del diritto di proprietà del terzo a tutela di diritti
trovanti fondamento nella solidarietà coniugale o
postconiugale, con il conseguente ampliamento
della posizione giuridica del coniuge assegnatario,
la soluzione seguita dalle S.U. 2004 di considerare
l’affidamento e l’interesse del figlio quale unico presupposto legittimante il provvedimento di assegnazione e di ritenere il diritto del figlio al mantenimento (e al persistente godimento dell’habitat familiare) fino a quando non raggiunga l’autosufficienza economica (cfr., da ultimo Cass., 15/2/2012,
n. 2171; Cass., 8/2/2012, n. 1773; Cass., 9/5/2013, n.
11020) finisce invero per determinare una situazione
destinata a durare indefinitamente nel tempo, a fortiori in presenza di una pluralità di figli.
Al riguardo, non può d’altro canto trascurarsi il rilievo che la Corte Costituzionale ha ritenuto la disciplina posta dall’art. 155 quater c.c. (introdotto
dalla L. n. 54 del 2006, art. 1, comma 2), in tema di
estinzione del diritto di godimento attribuito con
l’assegnazione (e cioè nell’ipotesi in cui l’assegnatario a) non abiti o b) cessi di abitare stabilmente
nella casa familiare, ovvero c) contragga nuove
nozze o d) instauri una convivenza more uxorio),
quantomeno non sempre consentanea con le esigenze di tutela dell’interesse del minore, e al fine di
recuperare la coerenza e la costituzionalità della
norma ha statuito che l’assegnazione della casa familiare non può considerarsi venire in tali casi
meno di diritto al verificarsi degli eventi in que-
stione, dovendo la decadenza risultare subordinata
alla previa valutazione da parte del giudice della relativa conformità con l’interesse del minore (v.
Corte Cost., 29/7/2008, n.308).
A tale stregua, a fronte dell’affermazione recata
da Cass., 17/12/2007, n. 2657 secondo cui con il formarsi di un nuovo nucleo familiare (di fatto o in
conseguenza di un nuovo matrimonio) da parte del
coniuge assegnatario la previsione legislativa della
cessazione dell’assegnazione è mera conseguenza
dell’avere l’abitazione perduto la sua funzione per
essere venuto conseguentemente meno quell’habitat che si intendeva conservare - finchè possibile - ai
figli, si è successivamente pervenuti a diversamente
affermare che l’instaurazione di una relazione more
uxorio da parte del coniuge affidatario dei figli minorenni non giustifica normalmente la revoca dell’assegnazione della casa familiare, trattandosi di
una circostanza ininfluente sull’interesse della prole
(v. Cass., 16/4/2008, n. 9995).
Nel limitare per il comodante la possibilità di recedere solamente all’ipotesi di urgente ed impreveduto bisogno di cui all’art. 1809 c.c., con esclusione
della recedibilità ad nutum ex art. 1810 c.c., le S.U.
pervengono dunque a sostanzialmente negare la
configurabilità del precario di casa familiare, pur riconoscendolo “strumento frequentemente adottato
da genitori o parenti quale soluzione del problema
abitativo in favore delle giovani coppie che contraggono matrimonio”.
Con la conseguenza che avuto riguardo alla casa
familiare, riverberando la suindicata soluzione in
termini senz’altro penalizzanti per il comodante, il
ricorso alla suindicata figura del comodato rimane
invero quantomeno “scoraggiato”.
Va al riguardo ulteriormente osservato che l’esigenza di garantire la continuità dell’habitat domestico, se da un canto richiede che una tutela non deteriore si riconosca anche allorquando il rapporto di
coniugio del comodatario pervenga ad una fase patologica, non può d’altro canto condurre a ravvisarsi
la costituzione in capo all’assegnatario un diritto
addirittura maggiormente garantito di quello vantato dall’originario titolare in base all’accordo contrattuale, tanto più a scapito di terzi (rispetto al rapporto di coniugio), quale appunto è il comodante.
In tal senso si è (in epoca ormai risalente)
espressa già la giurisprudenza di merito, ponendo
in rilievo come “la situazione di uno dei coniugi che
abbia un titolo di godimento della casa destinato a
cedere di fronte al diritto del terzo, non può mutarsi, con il provvedimento del giudice del divorzio
(o della separazione), in posizione poziore, per il
solo fatto che tale godimento venga trasferito all’altro coniuge come modalità di adempimento dell’obbligo di assistenza gravante sul primo coniuge”
(così Trib. Roma, 20/1/1982, in Giust. civ., 1982, 1,
1931 ss.).
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 23
GIURISPRUDENZA
Deve allora porsi la questione se il contemperamento tra le contrapposte esigenze del comodatario
o dell’assegnatario, da un canto, e del concedente,
da altro canto, possa essere altrimenti e diversamente realizzato.
Ad esempio mediante la concessione al precarista o all’assegnatario della possibilità di rilasciare
l’immobile, all’esito della domanda di restituzione,
entro un termine congruo, giudizialmente determinato in assenza di accordo tra le parti, idoneo a consentirgli di trovare altro alloggio, valutate le circostanze concrete del caso.
Trattasi del resto di principio dalla giurisprudenza
di legittimità già affermato proprio con riferimento
al precario di casa familiare ex art. 1810 c.c.
Come posto al riguardo in rilievo, pur risultando
all’art. 1810 c.c. previsto che il comodatario è tenuto a restituire la cosa “non appena il comodante
la richieda”, non rimane infatti in tal caso esclusa
(non diversamente dall’ipotesi di recesso ad nutum
esercitato dal comodante nella fisiologia del rapporto coniugale del precarista) l’applicabilità della
regola generale (di cui tale norma configura ipotesi
specifica) posta dall’art. 1183 c.c. secondo cui,
quando è necessario per la natura della prestazione ovvero per il modo o il luogo dell’esecuzione,
in mancanza di accordo tra le parti il giudice può
stabilire un termine (congruo) di rilascio della cosa
oggetto di comodato (v. Cass., 17/10/2001, n. 12655;
Cass., 10/8/1988, n. 4921. V. anche Cass., 8/10/1997,
n. 9775; Cass., 22/3/1994, n. 2750, Cass., 26/1/1995, n.
929; Cass., 18/6/1993, n. 6804).
Quanto infine all’opponibilità del vincolo di destinazione a casa familiare, pur non risultando dalle
parti specificamente mossa specifica censura sul
punto in relazione al caso in argomento, va per completezza osservato che l’art. 155 quater c.c. (inserito
dalla L. n. 54 del 2006, art. 1, comma 2) espressamente prevede la trascrivibilità del provvedimento
di assegnazione della casa familiare, come pure del
provvedimento di relativa revoca, ai sensi dell’art.
2643 c.c.
Trattasi di soluzione volta a superare la pregressa
annosa questione interpretativa, che le Sezioni
Unite avevano risolto componendo l’insorto contrasto interpretativo pervenendo ad affermare il
principio secondo cui “Ai sensi della L. 1 dicembre
1970, n. 898, art. 6, comma 6 (nel testo sostituito
dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 11), applicabile anche in tema di separazione personale, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione
data certa, è opponibile, ancorchè non trascritto, al
terzo acquirente in data successiva per nove anni
dalla data dell’assegnazione, ovvero - ma solo ove
il titolo sia stato in precedenza trascritto - anche
oltre i nove anni” (v. Cass., Sez. Un., 26/7/2002, n.
11096).
24 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
Principio successivamente confermato da numerose pronunzie delle sezioni semplici di questa
Corte (Cass., 14/5/2004, n. 9181; Cass., 15/9/2004, n.
18574; Cass., 10/6/2005, n. 12296; Cass., 3/3/2006, n.
4719; Cass., 19/7/2012, n. 12466; Cass., 22/11/2007, n.
24231).
Con l’ulteriore precisazione che è pertanto irrilevante la conoscenza di fatto da parte del terzo dell’avvenuta assegnazione dell’immobile da lui acquistato, l’unica disciplina dell’opponibilità essendo
appunto quella derivante dalla trascrizione e dalla
conoscibilità legale dell’atto da parte del terzo (v.
Cass., 2/4/2003, n. 5067). E che la mancata trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa
familiare, adottato dal Presidente del tribunale nel
giudizio di separazione personale dei coniugi,
esclude l’opponibilità del vincolo, oltre il periodo di
nove anni dall’assegnazione, al terzo che abbia successivamente acquistato l’immobile dal coniuge che
ne era proprietario, senza che assuma alcun rilievo
la circostanza che il titolo di acquisto del terzo contenga l’indicazione specifica dell’esistenza del diritto del coniuge assegnatario.
Per stabilire se ed in quali limiti un determinato
atto o una domanda giudiziale trascritta sia opponibile ai terzi, occorre infatti avere riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, in
quanto le indicazioni nella stessa riportate consentono di individuare senza possibilità di equivoci ed
incertezze gli elementi essenziali del negozio e i
beni ai quali esso si riferisce, od il soggetto al quale
la domanda sia rivolta, senza potersi attingere elementi dai titoli presentati e depositati con la nota
stessa (v. Cass., 18/9/2009, n. 20144).
In dottrina, la querelle interpretativa che il legislatore del 2006 intendeva superare si vuole da alcuni peraltro ancora non conclusa, sostenendosi che
ben può l’art. 155 quater c.c. integrarsi con la L. div.,
art. 6, comma, sicchè l’espresso richiamo da quest’ultimo operato all’art. 1599 c.c. deve considerarsi
di persistente applicazione, con opponibilità del
provvedimento di assegnazione anche in mancanza
di trascrizione, nei limiti del novennio.
Si è al riguardo peraltro diversamente osservato
che alla nuova norma di cui all’art. 155 quater c.c.,
non contemplante riferimento alcuno all’art. 1599
c.c. deve riconoscersi portata abrogativa della L. div.,
art. 6 anche là dove quest’ultima prevedeva l’opponibilità dell’assegnazione ex art. 1599 c.c..
Quanto all’opponibilità (all’altro coniuge e ai terzi)
del vincolo di destinazione dell’immobile a casa familiare anche anteriormente al momento patologico del matrimonio o della convivenza, e cioè a prescindere dal provvedimento giudiziale di assegnazione, avuto in particolare riguardo alla posizione
giuridica tutelata del componente (coniuge o figlio)
della famiglia va osservato che l’art. 2645 ter c.c. (introdotto dal D.L. n. 273 del 2005, art. 39 conv., con
GIURISPRUDENZA
modif., in L. n. 51 del 2006) ha reso ora trascrivibili gli
atti in forma pubblica di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela (art. 1322
c.c.) riferibili a persone con disabilità, a pubbliche
amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche per
un periodo non superiore a 90 anni o per la durata
della vita della persona fisica beneficiaria.
I beni oggetto del detto vincolo possono essere
impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione, e costituire oggetto di esecuzione (salvo
quanto previsto dall’art. 2915 c.c. comma 1) solo per
debiti contratti per tale scopo.
Trattasi di disciplina che si è da alcuni in dottrina
adombrato essere applicabile pure al fine di rendere
opponibile ai terzi la destinazione funzionale a casa
familiare (anche) anteriormente all’apertura della
successione che la riguardi ovvero della crisi che affetti il rapporto di coniugio o di convivenza more
uxorio (per la trascrizione del provvedimento di assegnazione in presenza di figli naturali v. Corte
Cost., 21 ottobre 2005, n. 394).
Atteso che sotto il profilo strutturale, come in
dottrina non si è mancato di sottolinearsi, il vincolo
di destinazione può essere impresso sia con un
contratto che con un negozio unilaterale (così come
titolo idoneo per la trascrizione - rivestendo la
forma pubblica richiesta - non può non ritenersi
(anche) l’accordo omologato di separazione: v.
Cass., 15 maggio 1997, n. 4306; Cass., 30 agosto 1999,
n. 9117. Contra v. peraltro Cass., 8 marzo 1995, n.
2700), va al riguardo ulteriormente posto in rilievo
che, superata ormai la tesi -di matrice essenzialmente amministrativistica - che riconosceva al solo
proprietario il potere di destinazione, con conseguente riconduzione del vincolo che ne scaturisce
alla figura della limitazione del diritto di proprietà,
non sembra invero revocabile in dubbio che la destinazione possa essere realizzata non solo dal titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale
sull’immobile ma anche da parte di chi sul medesimo vanti un mero diritto personale di godimento.
Come è dato evincersi dalla disciplina dettata dalla
L. n. 392 del 1978, art. 80 in tema di locazione di immobili, e dall’art. 246 c.nav, comma 2, per la locazione di nave ordine al potere di creazione del vincolo di destinazione del locatario della nave ex art.
246 c.nav. comma 2.
Orbene, avvertendo l’esigenza di rimeditare
l’orientamento interpretativo delineato da Cass.,
Sez. Un., 21/7/2004, n. 13603, in vista della composizione del determinatosi contrasto interpretativo più
sopra segnalato e comunque del superamento delle
suesposte perplessità in argomento emerse in dottrina e giurisprudenza, il Collegio ritiene opportuno
disporre la trasmissione del ricorso al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale relativa assegnazione
alla Sezioni Unite.
La Corte dispone la trasmissione del ricorso al
Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle
Sezioni Unite.
Così deciso in Roma, il 22 marzo 2013.
Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2013
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 25
GIURISPRUDENZA
IL PUNTO DI VISTA
di AVV. MICHELA LABRIOLA
RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI BARI DELL’OSSERVATORIO
e di ARIANNA ABBRUZZESE
AVVOCATO DEL FORO DI BARI
Con questa Ordinanza Interlocutoria Corte di Cassazione torna ad esprimersi sulla incerta relazione
tra l’istituto del comodato ed il provvedimento del
giudice della separazione relativo alla assegnazione
della casa familiare ponendo, previa puntuale ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali e
dottrinali degli ultimi anni, un argine ai precedenti
giurisprudenziali della medesima Corte con la rimessione della questione alle Sezioni Unite.
Il caso. La fattispecie riguarda il conflitto insorto
tra il proprietario di un immobile - concesso in comodato al figlio perché vi abitasse con la famiglia e la nuora. A seguito della intervenuta separazione
fra i coniugi, la sentenza disponeva l’assegnazione
della casa coniugale alla moglie affidataria del figlio
minorenne.
Il fulcro della questione risiede sulle sorti del contratto di comodato concesso da un terzo ed il successivo provvedimento del giudice di assegnazione
della casa coniugale.
Il comodato (o prestito d’uso) è il contratto essenzialmente a titolo gratuito con cui una parte (c.d. comodante) consegna all’altra parte (c.d. comodatario)
una cosa, mobile o immobile, “affinché se ne serva
26 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta” (art. 1803
c.c.).
Quanto alla natura del provvedimento giudiziale
di assegnazione della casa familiare, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito, questo costituisce a vantaggio del
coniuge assegnatario, un diritto di godimento di natura personale e non reale attesa sia la tassatività e
tipicità dei diritti reali sia l’aticipicità di tale diritto,
la cui durata è del tutto incerta ed il cui contenuto è
mutevole visto che dipende dal titolo in base al
quale i coniugi dispongono della casa coniugale 1.
La ordinanza in commento, tuttavia, sul punto
esprime alcune perplessità discostandosi dall’assunto in base al quale il giudice, in sede di separazione e divorzio, possa sostituire il titolo che sottende all’utilizzo dell’immobile (proprietà, locazione, comodato ecc.), imprimendo all’assegnazione
la natura giuridica di diritto di godimento di natura
personale.
Nel caso di specie, il giudice di prime cure aveva
rigettato la domanda del suocero comodante conformandosi all’orientamento delineato da Cass.
10/12/1996 n. 10977 secondo il quale il provvedimento di assegnazione della casa familiare, in caso
di separazione o divorzio, sostituisce il contratto di
comodato. Infatti il titolo di godimento dell’assegnatario è costituito dal provvedimento del giudice
che ne determina anche la durata (nel caso di con-
GIURISPRUDENZA
tratto di comodato senza determinazione del termine) avendo riguardo all’esaurimento della destinazione funzionale dell’immobile a casa familiare.
Tale interpretazione - si ribadisce non condivisa
dalla successiva giurisprudenza di legittimità - trova
sostegno nell’art. 2908 c.c. il quale sancisce che “nei
casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici,
con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa” e
di conseguenza il provvedimento giudiziale che dispone l’assegnazione della casa familiare può essere
opposto ai terzi ex art. 1599 c.c. entro il novennio se
non trascritto ma avente date certa e, oltre il novennio, se trascritto.
In secondo grado la Corte d’Appello di Lecce, pur
rigettando nuovamente il gravame proposto dal proprietario dell’immobile, si discosta dall’orientamento seguito dal giudice di primo grado dichiarando espressamente di volersi uniformare ai principi enunciati successivamente da Cass., SS. UU.,
21/07/2004 n. 13603.
Le Sezione Unite con questa nota sentenza hanno
tracciato un solco all’interno del quale la pronunce
successive sono andate via via inserendosi, stabilendo che “quando un terzo (nella specie: il genitore di
uno dei coniugi) abbia concesso in comodato un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento - pronunciato nel giudizio di separazione o di divorzio - di assegnazione in favore del coniuge (nella specie: la nuora del comodante) affidatario di figli minorenni o convivente con figlio maggiorenne non autosufficiente senza sua colpa, non modifica né la natura né il contenuto del titolo di godimento
sull’immobile, atteso che l’ordinamento non stabilisce una
“funzionalizzazione assoluta” del diritto di proprietà del
terzo a tutela di diritti che hanno radice nella solidarietà
coniugale o postconiugale, con il conseguente ampliamento della posizione giuridica del coniuge assegnatario.
Infatti, il provvedimento giudiziale di assegnazione della
casa, idoneo ad escludere uno dei coniugi dalla utilizzazione in atto e a “concentrare” il godimento del bene in favore della persona dell’assegnatario, resta regolato dalla
disciplina del comodato negli stessi limiti che segnavano
il godimento da parte della comunità domestica nella fase
fisiologica della vita matrimoniale”.
La Cassazione, quindi, preliminarmente afferma
che il provvedimento di assegnazione della casa familiare non sostituisce l’originario contratto di comodato (contraddicendosi lì dove afferma che il giudice imprime - sostanzialmente modificando il titolo
originario - all’assegnazione la natura giuridica di diritto personale di godimento) ravvisando una successione ex lege del coniuge assegnatario nell’originario rapporto, tuttavia la stessa Corte distingue le
varie fattispecie a seconda del tipo di comodato.
Nel caso di comodato a termine, il proprietario
dell’immobile ha diritto alla restituzione ex art.
1809, I comma, c.c., di converso, qualora il comodato
sia convenzionalmente stabilito a tempo indeterminato “il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809,
comma II, c.c”.
Ciò sta a significare che, nell’ipotesi in cui la stipula del contratto di comodato sia stata fatta senza
indicazione del termine finale ed espressamente finalizzata alla soddisfazione delle esigenze abitative
della famiglia, si imprime allo stesso contratto un
vincolo di destinazione “idoneo a conferire all’uso cui la cosa deve essere destinata - il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà,
“ad nutum”, del comodante”. Di conseguenza, una
volta accertato il vincolo di destinazione dell’immobile, non si verte più nell’ipotesi di cui all’art 1810
cod.civ. (cd. comodato precario che prevede la restituzione immediata della cosa qualora il contratto
non preveda un termine né questo possa essere stabilito dall’uso cui la cosa è destinata), ma in quella
di cui all’art 1809, II comma, cod.civ.
Sul punto, sempre le Sezioni Unite con la su indicata sentenza del 2004 specificano che “in caso di comodato avente ad oggetto un bene immobile, stipulato
senza la determinazione di un termine finale, l’individuazione del vincolo di destinazione in favore delle esigenze abitative familiari non può essere desunta sulla
base della mera natura immobiliare del bene, concesso in
godimento dal comodante, ma implica un accertamento
in fatto, di competenza del giudice del merito, che postula
una specifica verifica della comune intenzione delle parti,
compiuta attraverso una valutazione globale dell’intero
contesto nel quale il contratto si è perfezionato, della natura dei rapporti tra le medesime, degli interessi perseguiti e di ogni altro elemento che possa far luce sulla effettiva intenzione di dare e ricevere il bene allo specifico
fine della sua destinazione a casa familiare”.
Quindi nel caso in cui venga posto in essere un
contratto di comodato verbale da parte di un genitore, senza indicazione del termine finale, sarà compito del giudice di merito accertare se la destinazione dell’immobile sia stata posta a soddisfacimento dei bisogni familiari o in favore del solo figlio.
Nel primo caso, il comodante proprietario non potrebbe recuperare la disponibilità dell’immobile fino
al raggiungimento dell’indipendenza economica dell’ultimo figlio minorenne dei coniugi, salvo il sopravvenire di un suo urgente e impreveduto bisogno
ex art. 1809, II comma, cod.civ.. Ciò con l’ovvia conseguenza di costringere il terzo a dimostrare, in sede
giudiziaria, la sopraggiunta autonomia economica
del figlio convivente col genitore comodatario.
Questa indicazione fornita dagli ermellini nel
2004, applicata anche alla famiglia di fatto2, desta
non poche perplessità, attesa l’evidente compresluglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 27
GIURISPRUDENZA
sione dei diritti del proprietario-comodante. La valutazione nel merito, caso per caso, potrà dare adito
a difformità giurisprudenziali sull’intero territorio
nazionale.
Alcune difficoltà interpretative sorgono anche a
causa del quadro normativo lacunoso e relativo alla
assegnazione della casa familiare. Nel nostro ordinamento manca una disciplina organica volta a disciplinare le possibili incidenze del provvedimento
di assegnazione nei riguardi di tutte le possibili situazioni giuridiche che si possano configurare in relazione alla detenzione dell’immobile, fatta eccezione per la locazione ex art. 6, l. 392/19783.
Sul punto, la ordinanza in commento richiama altri orientamenti della stessa Corte anche in ordine a
fattispecie differenti4.
La citata sentenza delle SS. UU., 21/07/2004 n.
13603 non spiega, per altro: “a) quando e come insorga
il vincolo di destinazione a casa familiare; b) quale sia il
momento di relativa cessazione; c) quale sia il regime di
relativa opponibilità”.
La Corte, al fine di individuare il momento “iniziale” di destinazione dell’immobile a casa familiare, prende in considerazione l’ipotesi in cui “il solo
coniuge stipulante sia parte formale e sostanziale del contratto (come, ad esempio, nel caso in cui il contratto sia
stato stipulato prima del matrimonio, e anche prima che
i futuri coniugi si conoscessero, e solo successivamente
alla celebrazione l’immobile che ne costituisce oggetto
venga dal titolare adibito a residenza del costituito nucleo familiare)”.
In tal caso il coniuge non stipulante e i figli non
possono essere considerati quali “titolari in proprio
del diritto reale di godimento”.
Nell’esigenza di dare rilievo al momento in cui
sorge il vincolo di destinazione a casa familiare, la
ordinanza in commento cita, quale ulteriore esempio, un’altra pronuncia nella quale si sanciva che il
diritto di assegnazione in uso della casa familiare
nasce, nel caso di coniuge superstite, solamente al
momento dell’apertura della successione del de
cuius non avendosi riguardo invece alla destinazione
funzionale dell’immobile a casa familiare durante
la vita dell’ereditando5.
Ciò sta a significare che il vincolo di destinazione
a casa familiare impresso dall’ereditando in vita risulta irrilevante importando, invece, il momento
dell’apertura della successione.
Inoltre di recente, la stessa Corte di Cassazione,
ha ribadito che “l’assegnazione al coniuge affidatario
dei figli, in sede di separazione, del godimento dell’immobile di proprietà esclusiva dell’altro non impedisce al creditore di quest’ultimo di pignorarlo e di determinarne la
vendita coattiva”6. Risultando per ciò inopponibile al
creditore il vincolo di destinazione impresso all’immobile quale casa familiare.
Il quadro giurisprudenziale delineato riconosce al
creditore del coniuge titolare del diritto di proprietà
28 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
maggiori garanzie di quanto spetti al terzo comodante proprietario dell’immobile, che potrebbe attendere moltissimo tempo prima di poter recuperare il pieno possesso del proprio bene.
Sulla scia di tali pronunce, l’estensore della ordinanza in commento è fortemente critico circa la soluzione delineata dalle Sezioni Unite del 2004 che,
pur affermando come postulato, che il provvedimento di assegnazione della casa familiare non sostituisce l’originario contratto di comodato, e che bisogna evitare una “sostanziale espropriazione delle facoltà e dei diritti connessi alla sua titolarità sull’immobile,
con evidenti riflessi sulla sfera costituzionale della tutela
del risparmio e della sua funzione previdenziale”, perviene a soluzioni palesemente in contrasto. “In tal
modo si finisce, infatti, per riconoscere sostanzialmente al
provvedimento giudiziale proprio quel potere che in via di
principio viceversa si intende(va) negargli” soprattutto nell’ipotesi di contratto di comodato a tempo indeterminato”.
Peraltro lacunosamente la nota sentenza delle Sezioni Unite del 2004 non distingue la posizione giuridica del coniuge proprietario, da quella del comodante genitore del beneficiario e da quella del terzo
comodante.
Tale distinzione risulta importantissima proprio
in ossequio del rispetto dei principi costituzionali.
Difatti, se la compressione del diritto reale del coniuge proprietario trova infatti il suo fondamento
costituzionale nella tutela della famiglia, dei coniugi
e dei figli (artt. 29 - 31 Cost.), e nella funzionalizzazione della proprietà ex art. 42 Cost., comma 3, a salvaguardia della solidarietà coniugale e postconiugale, tale copertura costituzionale non può essere
invece invocata nel caso di terzo proprietario dell’immobile. Nel tentativo di individuare una soluzione giuridicamente apprezzabile, infatti, con riferimento al comodante genitore del beneficiario, la
terza sezione suggerisce l’applicapibilità dell’art. 148
c.c. quale concorso negli oneri per l’assolvimento da
parte dei figli agli obblighi di cui all’art. 147 c.c. nei
confronti della rispettiva prole.
Il problema, come egregiamente sostenuto dalla
ordinanza del 2013, è il punto di partenza da cui
muove la decisione del 2004, ovvero quello “di considerare l’affidamento e l’interesse del figlio quale unico
presupposto legittimante il provvedimento di assegnazione e di ritenere il diritto del figlio al mantenimento (e
al persistente godimento dell’habitat familiare) fino a
quando non raggiunga l’autosufficienza economica (cfr.,
da ultimo Cass., 15/2/2012, n. 2171; Cass., 8/2/2012, n.
1773; Cass., 9/5/2013, n. 11020)”. Come già evidenziato, tale interpretazione giurisprudenziale non
tiene conto del fatto che alcune “assegnazioni” corrono il rischio di protrarsi nel tempo in maniera indefinita, anche in ragione dell’attuale fenomeno
della disoccupazione giovanile, ciò a scapito del titolare proprietario dell’immobile che, vede mutilati
e non garanti i propri diritti.
GIURISPRUDENZA
A tal proposito la Corte Costituzionale nella sentenza n. 454 del 1989, aveva chiarito che il giudice
della separazione non crea un titolo di legittimazione ad abitare per uno dei due coniugi ma «conserva» la destinazione dell’immobile, con il suo arredo, nella funzione di residenza familiare. La soluzione prospettata dalla Cassazione nel 2004 - come
ampiamente sottolineato - riconosce in capo all’assegnatario un diritto maggiormente garantito rispetto a quello vantato dall’originario comodante/titolare dell’immobile che è comunque terzo.
Ma questo terzo è comunque estraneo al rapporto
di coniugio ed ai conseguenti doveri di solidarietà
fra coniugi e, a seguito della crisi familiare, è sempre
terzo rispetto alle esigenze garanzia dell’habitat domestico per i figli minorenni.
Pertanto, mossa dall’esigenza di bilanciare e contemperare i vari interessi in gioco, la ordinanza in
commento individua, rinviandone la soluzione alle
sezioni unite, quale possibile ipotesi interpretativa,
“la concessione al precarista o all’assegnatario della
possibilità di rilasciare l’immobile, all’esito della domanda di restituzione, entro un termine congruo, giudizialmente determinato in assenza di accordo tra le
parti, idoneo a consentirgli di trovare altro alloggio,
valutate le circostanze concrete del caso”.
Tale orientamento, peraltro già precedentemente
al 2004, proprio nelle ipotesi di uso precario di casa
familiare ex art 1810 c.c.7, si rifà alla regola generale
delle obbligazioni di cui all’art 1183 c.c. che sanci-
sce che se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il creditore può esigerla immediatamente; qualora tuttavia, in virtù degli usi o per la natura della prestazione ovvero per il
modo o il luogo dell’esecuzione, sia necessario
un termine, questo, in mancanza di accordo delle
parti, è stabilito dal giudice.
Ultimo profilo analizzato dalla sentenza in esame
è il regime della trascrizione del provvedimento di
assegnazione della casa familiare.
La trascrizione del provvedimento di assegnazione è stata introdotta dalla l. 74/1987 che ha novellato l’art 6 l. 898/19708 sancendo che l’assegnazione, in quanto trascritta, è opponibile al terzo acquirente ex art.1559 c.c.9. Successivamente le Sezioni Unite, con la sentenza del 26/7/2002, n. 11096,
hanno stabilito che “ai sensi della L. 1 dicembre 1970,
n. 898, art. 6, comma 6, (nel testo sostituito dalla L. 6
marzo 1987, n. 74, art. 11), applicabile anche in tema di
separazione personale, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario,
avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché
non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per
nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero - ma solo
ove il titolo sia stato in precedenza trascritto - anche oltre
i nove anni”.
Ma, il legislatore nel 2006 con l’introduzione dell’art. 155-quater c.c., ha disposto che il provvedimento di assegnazione e quello di revoca siano trascrivibili ed opponibili ai sensi dell’art. 2643 c.c., taluglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 29
GIURISPRUDENZA
cendo però circa l’operatività dell’art. 6, comma 6, l.
898/1970.
La novella del 2006, che doveva essere risolutiva
in ordine a tale questione, ha comunque creato altri dubbi interpretativi in seno alla dottrina e alla
giurisprudenza.
Posto che, per stabilire il regime dell’opponibilità
ai terzi di un determinato atto o domanda giudiziale, bisogna avere riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione10, un primo orientamento maggioritario, a cui aderisce anche la ordinanza in commento, ritiene che l’art. 155 quater
avrebbe implicitamente abrogato l’art. 6 comma 6
della legge sul divorzio e, di conseguenza, il
provvedimento giudiziale di assegnazione della casa
familiare (sia esso di fonte contenziosa ovvero consensuale) sarebbe opponibile ai terzi acquirenti solo
ove trascritto anteriormente alla trascrizione dell’atto di acquisto da parte del terzo.
Altro orientamento ritiene, invece, che l’art. 155
quater c.c. non avrebbe abrogato l’art. 6, comma 6, l.
898/1970 di modo che permarrebbe il richiamo da
quest’ultimo operato all’art. 1599 c.c. e quindi ciò
comporterebbe l’opponibilità del provvedimento di
assegnazione anche in mancanza di trascrizione,
nei limiti del novennio11.
Evidenziata tale querelle interpretativa, la terza sezione infine richiama l’art. 2645-ter c.c. il quale dispone che “Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la
durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a per-
sone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere
opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente
stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e
possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto
previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti
contratti per tale scopo”.
In particolare, la corte di legittimità, seguendo un
orientamento dottrinario, ritiene tale disposizione
idonea a rendere opponibile ai terzi la destinazione
funzionale a casa familiare prima e anche a prescindere della crisi del rapporto di coniugio atteso
che ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. tale vincolo può essere posto non solo dal proprietario dell’immobile
ma anche da qualsiasi interessato, in questo caso
anche da parte di chi vanti un diritto personale di
godimento ovvero l’altro coniuge e i figli12.
La terza sezione con l’ordinanza in commento, ricostruita così l’impasse legislativo e giurisprudenziale e ricercate alcune soluzioni rimanda la questione al primo Presidente per un’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Ci si auspica che la corte di legittimità ancora una
volta a Sezioni Unite, adotti una soluzione idonea a
distinguere le posizioni del comodante-coniuge da
quella del comodante-terzo al fine di riequilibrare
le esigenze, entrambe tutelabili, dei diritti dei componenti della famiglia e quelli altrettanto meritevoli
di tutela della proprietà.
Note
1
Cfr. Cass. 3/03/2006 n. 4719; Cass. 19/09/2005 n. 18476.
2
Cass., 21/6/2011, n. 13592
3
L’art. 6 l. 392/1978 dispone che: “in caso di separazione giudiziale, di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili
dello stesso, nel contratto di locazione succede al conduttore l’altro coniuge, se il diritto di abitare nella casa familiare sia stato attribuito
dal giudice a quest’ultimo. In caso di separazione consensuale o di nullità matrimoniale al conduttore succede l’altro coniuge se tra i due
si sia così convenuto”. A tal proposito, la Corte Costituzionale con sentenza 7 aprile 1988, n. 404, ha dichiarato: l’illegittimità costituzionale del prima comma nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del
conduttore, il convivente more uxorio; l’illegittimità cost. del terzo comma, nella parte in cui non prevede che il coniuge separato di fatto
succeda al conduttore, se tra i due si sia così convenuto; l’illegittimità dell’art. 6, nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza, a favore del già convivente quando vi sia prole naturale.
4
Cfr. Cass., 7/7/2010, n. 15986.
5
V. Cass., 13/1/2009, n. 463 e Cass., 30/7/2004, n. 14594, nelle quali la Corte ha ritenuto applicabile l’art. 756 c.c. anche nell’ipotesi
di un immobile che, in vita dell’ereditando, ha ricevuto la destinazione funzionale a casa familiare con la conseguenza che si è deciso per
la preferenza del titolo vantato dal creditore ipotecario sull’immobile destinato a casa familiare rispetto al coniuge del debitore, attesa
la relativa anteriorità rispetto all’acquisto da parte di quest’ultimo del diritto di abitazione sull’immobile ex art. 540 c.c., comma. Di converso, il diritto di abitazione del coniuge può al massimo convertirsi nell’equivalente monetario da farsi valere sull’eventuale residuo all’esito del processo esecutivo, in corrispondenza dei diritti rimasti estinti.
6
v. Cass., 19/7/2012, n. 12466.
7
v. Cass., 17/10/2001, n. 12655; Cass., 10/8/1988, n. 4921. V. anche Cass., 8/10/1997, n. 9775; Cass., 22/3/1994, n. 2750, Cass.,
26/1/1995, n. 929; Cass., 18/6/1993, n. 6804
8
Con sentenza del 27/07/1989 n. 454 la Corte Costituzionale ha esteso la trascrizione anche al provvedimento di assegnazione della
casa coniugale adottato nel corso del procedimento di separazione.
9
L’art. 1599 c.c. sancisce che il contratto di locazione è opponibile al terzo acquirente, se ha data certa anteriore all’alienazione della
cosa anche se non trascritto nei limiti di un novennio dall’inizio della locazione.
10
v. Cass., 18/9/2009, n. 20144.
11
Cfr. Cass. 18 settembre 2009, n. 20144).
12
Così come emerge dal combinato disposto dell’art. 80 l. 392/1978, in tema di locazione di immobili, e dall’art. 246 c.n., comma 2,
per la locazione di nave ordine al potere di creazione del vincolo di destinazione del locatario della nave ex art. 246 c.n., comma 2.
30 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
GIURISPRUDENZA
MODIFICA DEL VINCOLO
DI DESTINAZIONE
DEL FONDO PATRIMONALE
PER CESSAZIONE
EX ART. 171 C.C.
IN PRESENZA DI MINORI
E COMPETENZA
DEL TRIBUNALE ORDINARIO
AVV. GIUSEPPE PALAZZOLO
ORDINARIO DIRITTO CIVILE UNIVERSITÀ DI PERUGIA
Tribunale Minorenni di Palermo,
Decreto 11 aprile 2012
Presidente A. Pardo
Giudice Estensore V. Spatafora
Il ricorso proposto al Tribunale per i minorenni ai sensi
dell’art. 171 c.c. da coniugi divorziati, volto ad ottenere
la dichiarazione di cessazione del fondo patrimoniale,
originariamente costituito per i bisogni della famiglia,
col quale, al contempo, si chieda l’autorizzazione alla
mutazione del vincolo di destinazione sui beni ivi conferiti da fondo patrimoniale a trust, non è ricevibile,
specie, quando in ogni caso si accerti che nella famiglia viva uno o più minori, giacchè viola l’art. 38 delle
Disp. att. del Codice civile, appartenendo la fattispecie
così enucleata alla competenza del Tribunale ordinario
che vi provvede secondo la previsione dell’art. 169 c.c.
Istanza di modifica da fondo patrimoniale a trust
proposta ai sensi dell’art. 171 c.c.; cessazione degli
effetti civili del matrimonio tramite divorzio; dichiarata presenza di minori; rigetto per incompetenza funzionale del Tribunale per i minorenni ex
art. 38 Disp. att. Cod. civ., 1942; competenza del Tribunale ordinario ex art. 169 c.c..
Il Decreto del Tribunale per minorenni di Palermo,
che qui brevemente si illustra, nell’affrontare il problema della distribuzione delle competenze col Tribunale ordinario, che come è noto, vengono tuttora
regolate dalla norma indicata all’art. 38 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile, ne segnala un
altro di ben più ampio respiro, provvedendo, con
una interpretazione costituzionalmente orientata a
verificare il potenziale combinato che si crea tra gli
artt. 169 e 171 c.c. quando sia cessato il rapporto matrimoniale tra i costituenti e si intenda definitivamente far cessare la costituzione del fondo patrimoniale1.
L’argomento che dà origine alla questione di competenza, affrontato dal valoroso relatore, nasce,
come detto, dall’interpretazione degli artt. 169 c.c.
in tema di autorizzazione all’alienazione dei beni
del fondo, di rimando a quella necessaria al corretto
inquadramento dell’art. 171 c.c. per l’ipotesi della
cessazione di esso causata dell’ annullamento del
matrimonio, dal suo scioglimento o dal divorzio.
Ciò premesso, è da dire preliminarmente che ogni
ragionamento giuridico concernente le convenzioni
matrimoniali, tra cui va collocata quella relativa al
fondo patrimoniale, deve tenere conto delle nuove
regole introdotte dagli artt. 51 e 53 della legge
151/1975 in occasione della riforma del diritto di famiglia, tanto forti da limitare i rimedi previsti dall’art. 1372 c.c. in argomento di risoluzione consensuale delle dette convenzioni, per la preferenza accordata dal legislatore al prevalente interesse del
minore2 rispetto a quello dei coniugi che vogliano
evadere dal vincolo, quand’anche si trovino nelle
condizioni di legge per attivare i meccanismi di
estinzione del fondo ex art. 171 c.c.
Tale fondamentale modifica legislativa, inerente
l’assetto patrimoniale e successorio della famiglia
istituzionale, ha determinato un vasto panorama di
contrastanti opinioni giurisprudenziali, criticamente
citate nel corpo del provvedimento in esame3, che
intenderebbero distrarre le finalità delle convenzioni
matrimoniali dal solco tracciato dalla legge, ivi evocandosi il movente generale dell’autonomia contrattuale, anche quando sia dovuta l’autorizzazione
del Tribunale per i minorenni, nel caso previsto dall’art. 171 c.c. in presenza di figli minori4.
L’interesse dei minori alla permanenza del vicolo
di destinazione impresso dai coniugi, congiuntamente o separatamente ai beni del fondo patrimoniale, prescinde da ogni diversa pattuizione tra di
loro intercorsa e risulta ben garantito dall’intervento
di un giudice, il quale, sia nel primo caso che nell’altro autorizza o nega l’effetto che essi vogliono
raggiungere riguardo al destino dei beni del fondo
quando, in ogni caso, viva in famiglia uno o più figli
minori.
Per tali motivi la risoluzione convenzionale del
fondo non può assurgere a regola generale, alla stregua di come avviene in argomento di contratti con
l’art. 1372 c.c., stante che ai coniugi non può estendersi la qualifica di semplici contraenti, dovendosi
accertare, volta per volta, se alla causa di cessazione
si accompagni un movente tale da non compromettere l’interesse del minore, protetto dalla legge contro ogni altro diritto concorrente degli stipulanti.
Ed infatti, nell’ipotesi di autorizzazione all’alienazione dei beni del fondo ex art. 169 c.c., da ritenere
senz’altro più impegnativa, sul piano dei possibili e
futuri incombenti negoziali determinati dal controllo giudiziario indotto dall’art. 32 disp. att., rispetto all’altra relativa alla cessazione, per così dire
controllata, ex art. 171 c.c.5, la competenza all’autorizzazione è rimessa al Tribunale Ordinario, che, in
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 31
GIURISPRUDENZA
Camera di consiglio, ammette o nega la richiesta,
previa verifica della necessità e della utilità evidente
dell’alienazione medesima, tenendo sempre presente l’interesse prevalente dei minori.
La fattispecie considerata dall’art. 171 c.c. è di
contro espressamente attribuita alla competenza
del Tribunale per i minorenni, col richiamo testuale
operato dell’art. 38 disp. att., ove, in ogni caso, la presenza del minore determina ex ante il contenuto del
provvedimento che il giudice dovrà adottare.
Trattasi di una disposizione soggetta a stretta interpretazione che, in quanto tale, non ammette alcuna estensione analogica con istituti o strumenti
negoziali confinati col suo contenuto dispositivo, costringendo, a sua volta, l’interprete ad una verifica
segregata della norma sulla distribuzione delle competenze tra il Tribunale Ordinario e quello per i minorenni.
Non è difficile, infatti, per occhi attenti, scorgere
nello sviluppo della fonte legale in esame una evidente ipotesi di ultrattività del fondo in presenza di
minori, tale che la destinazione patrimoniale permane fino al compimento della loro maggiore età,
anche quando i coniugi abbiano ottenuto i titoli elisivi del rapporto matrimoniale.
Del resto, leggendo, l’art. 171 comma 1 c.c., in assenza di figli minori, non avrebbe avuto alcun senso la
competenza del Tribunale per i minorenni, visto che i
coniugi, volontariamente, avrebbero potuto sciogliere
la convenzione matrimoniale che li riguarda, siccome
32 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
correlata all’istituzione del fondo patrimoniale per
esaurimento dello scopo, con ogni mezzo consentito
dall’ordinamento, alla stregua di come accade in argomento di scioglimento della comunione legale secondo il richiamo dell’art. 191, comma 1, c.c. 6.
Ciò posto il problema nasce dal fatto oggettivo,
evinto dal ricorso dalla parte istante, ove, oltre all’allegazione della cessazione del vincolo matrimoniale, ottenuto pel tramite del divorzio, si dava atto
della presenza di minori, sì che l’estinzione del (vecchio) fondo patrimoniale, giustificata col richiamo
dell’art. 171 c.c. in realtà preludeva alla successiva
costituzione di un trust sugli stessi beni che ne costituivano l’oggetto.
La norma dianzi indicata, nel dichiarare l’ultrattività del fondo patrimoniale in presenza di minori
anticipa, in buona sostanza, il respingimento dell’istanza di scioglimento del fondo per cessazione
del vincolo matrimoniale, visto che il giudice, previa richiesta di chi vi abbia interesse, può soltanto
dettare norme per l’amministrazione del fondo.
Ed allora, considerata la natura assorbente dell’art.
171 comma 2 c.c., che destituisce di effetti la chiamata
del primo comma, impedendo lo scioglimento del
fondo in presenza di minori, tutto al più l’istante, premessa la loro presenza, avrebbe potuto chiedere al
giudice del Tribunale per i minorenni una semplice
modifica delle modalità di gestione dei beni destinati
al fondo, secondo il programma in essa norma divisato, tenuto presente il contenuto dell’art. 168 c.c.
GIURISPRUDENZA
Analizzando, invece, il disposto dell’art. 171
comma 3 c.c. è possibile vedere in esso una particolare competenza del Tribunale per i minorenni del
tutto eccezionale e senz’altro più impegnativa delle
competenze autorizzatorie demandate al Tribunale
ordinario ai sensi dell’art. 169 c.c. in volontaria giurisdizione, vale a dire un vero e proprio potere
espropriativo a carico dei genitori costituenti, giustificato, quanto alla sua discrezionalità, dal concreto pericolo che i beni vengano dissipati o distolti
dalla loro destinazione7.
Trattasi, con tutta evidenza, di una singolare attività protettiva che il Tribunale per i minorenni può
adottare in favore dei minori, senza che questi abbiano una qualificata posizione di diritto prima della
espropriazione della quota del fondo, da conferire
loro in proprietà o in godimento, la cui giustificazione
non può che riposare in quella particolare forma di
responsabilità sociale, collegata al principio di solidarietà su cui si fonda l’intero sistema mantenitorio
ed alimentare della famiglia istituzionale.
Quindi, la richiesta di autorizzazione alla cessazione del fondo con il dichiarato intento di costituire
un trust sugli stessi beni che ne costituivano l’oggetto, non è sembrata rientrare nel concetto di amministrazione dei beni del fondo che, di contro, il
giudice invocato, per competenza esclusiva ex art.
38 disp. att., avrebbe potuto agevolmente controllare
nell’interesse del minore, bensì, come correttamente interpretato dal Tribunale adito, essa andava
inserita nell’altro alveo costituito dall’art. 169 c.c.,
stante che ad un vincolo già espressamente garantista dei bisogni del minore, se ne intende sostituire
un altro, sulla cui sorte il Tribunale per i minorenni
non ha alcun potere di verifica con riguardo alla necessità ed all’utilità della sostituzione medesima.
Appare, a questo punto, di palmare evidenza che
l’ampia gamma di attività previste dall’art. 169 c.c.,
ove testualmente si individua la possibilità di sottoposizione dei beni costituenti il fondo ad un altro
vincolo, naturalmente diverso da quello originariamente imposto, in modo concorrente con la possibilità di alienare, ipotecare, dare pegno sui beni del
fondo, esclude l’espediente collegato al richiamo
dell’art. 171 c.c. proposto dinanzi al Tribunale per i
minorenni, la cui competenza a decidere permane
solo nel caso di amministrazione per così dire controllata del fondo patrimoniale fino al conseguimento della maggiore età dei minori cui è destinato,
nonché, per l’espropriazione forzata di una quota
del fondo necessaria ai bisogni del minore ai sensi
dell’art. 171, comma 3 c.c.
Deriva che, dovendo la trasformazione del vincolo
da fondo patrimoniale a trust attraversare fasi volontarie di strutturazione del mutamento, benché si
tratti di istituti egualmente idonei alla tutela degli
interessi familiari loro sottostanti, il Tribunale ordinario, adottando le regole contenute all’art. 169 c.c.
attualizza i suoi poteri di verifica nella susseguente
Camera di consiglio, valutando la necessità e l’utilità
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 33
GIURISPRUDENZA
della chiesta modificazione, forte della competenza
assegnatagli dall’art. 38 delle disposizioni di attua-
zione al Codice civile, procurando agli istanti un
provvedimento autorizzatorio valido ed efficace.
Note
1
Si deve preliminarmente precisare che la questione in esame è possibile solo in quanto la costituzione del fondo provenga dall’atto di
uno o di entrambi i coniugi ai sensi dell’art. 167 comma 1 c.c., escludendosi tutte le ipotesi in cui il fondo patrimoniale sia stato costituito
per atto del terzo inter vivos, considerato che ivi difetta la nozione di convenzione matrimoniale (cfr. in dottrina, G. GABRIELLI, Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, in Enc. del dir., XXXII, Milano, 1982, p. 310 ss.; dubita, addirittura, della natura di convenzione matrimoniale del fondo patrimoniale, nei casi ordinari, F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, in Tratt. di dir civ. e comm., diretto da
A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1979, p. 154 e ss., nella misura in cui tale istituto non trasforma il regime patrimoniale della famiglia, bensì
appone un semplice vincolo di destinazione ai beni che ne fanno parte, assunto, tal ultimo, contrastato da T. AULETTA, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990, p. 63 e ss.): mentre, essa nozione, sembrerebbe perdersi, nel caso in cui il fondo patrimoniale sia stato costituito dal
terzo nel suo testamento, tramite un legato modale, fatto ad un soggetto estraneo ai coniugi, che, nonostante prescinda dall’accettazione,
laddove si tratti di immobili, impone la necessità di trascrivere l’acquisto ai sensi dell’art. 2648, n. 1, c.c. tanto da renderne discutibile l’effetto automatico. In tali casi, l’onerato, dovrà sopportare l’esaurimento del bisogno dei destinatari, e varranno anche per lui le regole previste agli artt. 169 c.c., in argomento di autorizzazione del Tribunale all’alienazione dei beni del fondo in presenza di minori e di rimando
quelle dell’art. 171 c.c., con riferimento alla ultrattività del fondo, che, nonostante, le cause estintive del rapporto matrimoniale ivi indicate, pospone la cessazione del vincolo al compimento del diciottesimo anno d’età dei minori conviventi nella famiglia.
2
A dimostrazione della fragilità dell’argomento che vede un peso all’autonomia negoziale dei coniugi in tema di risoluzione convenzionale del fondo patrimoniale, in presenza di minori, ci basta riportare il recente arresto del Trib. Roma, Sez. I, 17 ottobre 2012 che ha
rigettato l’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicità ex art. 263 c.c. proposto dal genitore nei confronti
della figlia maggiorenne, nonostante il profilo di ordine pubblico dell’invocata tutela. Per tale assunto, il Tribunale mostra di aderire alla
dottrina di A. PALAZZO, La filiazione, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, continuato da L. Mengoni, diretto da P. Schlesinger, Milano, 2007, pp., 205, 211, 241 e 261, che, contro il tradizionalismo delle regole antiche concernenti la verifica della genitura, pone al centro del sistema di filiazione la tutela dei figli non matrimoniali, ancorandola al tema dell’affettività, della solidarietà e dell’amore oblativo. Per confermare la specialità del diritto di famiglia rispetto ai canoni ordinari del diritto civile patrimoniale, bisogna ricordare agli
studiosi il sempre attuale pensiero di A. C. JEMOLO, La famiglia e il diritto, in Annali della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di
Catania, 1948, II, p. 55 e ss., che rimarcando l’essenza metagiuridica della famiglia, cui vengono strette le regole dei contratti ed addirittura il conforto di un’appagante disciplina giuridica, afferma: “La famiglia appare sempre …come un isola che il mare del diritto può
lambire soltanto… è una roccia sull’onda, ed il granito che costituisce la sua base appartiene al mondo degli affetti, agli istinti primi,
alla morale, alla religione, non al mondo del diritto”. Se questi caratteri della famiglia istituzionale, così chiaramente individuati dai
grandi giuristi dianzi citati, rimangono costanti e duraturi nel tempo, le regole dei rapporti tra i membri che la compongono non hanno
bisogno del diritto, il cui accesso è consentito solo quando cessi la circolarità degli affetti e si inneschi quella distruttiva fase patologica
del rapporto familiare, che con molte semplificazioni ideologiche viene maldestramente definita quale “crisi della famiglia tradizionale”.
3
Per dovere di mero riporto si tratta di Trib. Min. Torino, 31 ottobre 2005; Trib. Min. Venezia, 17 novembre 1997, che muta il suo orientamento con il Decreto del 7 febbraio 2001, ritenendo, sufficiente l’atto pubblico per lo scioglimento consensuale del vincolo; Trib. Min.
Modena, 7 dicembre 2000; Trib. Min., Bari 13 febbraio 2007, Trib. Min., dell’Aquila, 17 marzo 2008; Trib. Min. Perugia, 25 gennaio 2003;
rilevando, invece, in bonis, e coerenti col dettato della legge, Trib. Alba, 2 settembre 2001, Trib. Min. Perugia, 20 marzo 2001; Trib. Min.
Bari, 31 ottobre 2007, curando poi, di evidenziare, a completamento del contrastato panorama giurisprudenziale il pronunciamento di
Cass. civ. Sez. I, Ord., 21 settembre 2006, n. 20418, in sede di regolamento di competenza ex art. 38, disp. att., Cod. civ.
4
Cfr. Trib. Roma, 27 giugno 1979, in Riv. Not., 1979, p. 952; Trib. Trapani. 26 maggio 1994, in Vit. Notarile, II, 1994, p. 1559 ss., con
nota adesiva di V. Buttitta, che, seguendo la dottrina prevalente considera valido l’atto costitutivo del fondo patrimoniale sia quando non
preveda il consenso congiunto di entrambi i coniugi, sia quando non consideri la richiesta di autorizzazione del Tribunale, in presenza
di minori ai sensi dell’art. 169 c.c. Ora, dal nostro punto di vista, se si reputa il fondo patrimoniale, come ormai avviene nell’immaginario collettivo, una sorta di interna corporis di cui si dota la famiglia, con funzione elusiva delle pretese dei creditori personali dei coniugi,
tutte le modificazioni di esso sembrerebbero possibili in assenza di crisi coniugale, donde, il problema maggiore riposa nella difficoltà di
trovare un notaio che, di fronte al variegato panorama giurisprudenziale anzidetto, possa ricevere la chiesta modifica o addirittura l’alienazione dei beni destinati, in presenza di figli minori, poichè, accontentando i coniugi richiedenti porrà in essere un atto nullo, incorrendo
nelle sanzioni di cui all’art. 28 della L. 16 febbraio 1913, n. 89. Data, allora, l’incertezza della giurisprudenza, ancora non univoca sulla
dedotta questione, il notaio, nel caso in cui fosse richiesto di adottare un negozio risolutorio, modificativo o estintivo del fondo patrimoniale, col vincolo della forma pubblica per relationem ex art. 2699 c.c., dovrà richiedere agli stipulanti una certificazione degli uffici dello
stato civile, da allegare all’atto richiesto, con la quale si attesti l’assenza di figli minori.
5
Nel caso previsto dall’art. 169 c.c. il provvedimento dal quale è possibile ai coniugi di compiere attività sui beni conferiti nel fondo patrimoniale è quello dell’autorizzazione, la cui funzione cautelare è rivolta a scongiurare il pericolo di una diversa allocazione delle risorse
della famiglia vincolate col fondo patrimoniale, tale da compromettere l’aspettativa di sostentamento dei minori cui è stato destinato. Il
pericolo cessa col raggiungimento della maggiore età dei destinatari, sì che il compito del Tribunale per i minorenni per procedere alla dichiarazione di cessazione ex art. 171 c.c. sembra, solo quello, di autorizzare lo scioglimento del fondo verificando l’assenza di figli minori,
cui dovrà seguire, pleonasticamente, il negozio risolutorio tra gli stipulanti col requisito di forma maggiore ex art. 2699 c.c.
6
Per tutti i profili connessi allo scioglimento della comunione legale, cfr. l’esaustiva trattazione di G. OBERTO, La comunione legale tra
coniugi, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, continuato da L. Mengoni, diretto da P. Schlesinger, Milano, 2010, specie da pag. 272 ss. Va
da sé che la risoluzione convenzionale, sostenibile nell’assenza di minori, in base alla regola generale contenuta all’art. 1372 c.c., debba seguire la forma, per relationem, della costituzione del fondo patrimoniale, con l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio, ex art. 162
c.c. ai fini dell’opponibilità ai terzi, e quindi con l’atto pubblico ex art. 2699 c.c. cui segue l’annotazione dell’estinzione nello stesso atto.
7
Si veda sul punto, Cass. civ. 8 settembre 2004, n. 18065, in Mass. Giur. It., 2004, che, pur passando dall’analisi dell’art. 171 comma
3 c.c., qualifica, erroneamente, il fondo patrimoniale quale atto a titolo gratuito e consente la revocatoria fallimentare ex art. 64 L.F. (cfr.
per una diversa impostazione della natura giuridica del fondo patrimoniale, A. PALAZZO, Atti gratuiti e donazioni, in Tratt. di dir. civ. (I
singoli contratti), 2, diretto da R. Sacco, Torino, 2000, p. 369 ss.). Se, invece, si fosse verificata, nel caso ivi trattato, la condizione prevista dall’art. 171 comma 3 c.c. anche il fallimento avrebbe dovuto cedere di fronte al diritto del minore conseguente dall’assegnazione in
proprietà o in godimento di beni facenti parti del fondo, oseremmo dire col limite del possibile svuotamento, quando i beni ivi conferiti,
la cui destinazione permane fino al conseguimento della maggiore età del minore, possano essere completamente consumati per il fine
del suo sostentamento, specie quando si tratti di beni mobili produttivi di reddito o di titoli di credito (cfr. sul tale ultima questione G.
TRAPANI e F. MAGLIULO, Il conferimento in fondo patrimoniale di titoli dematerializzati, Studio n. 265 - 2012/C, approvato dalla Commissione studi civilistici del Consiglio nazionale del notariato il 20 luglio del 2012).
34 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
STUDI E RICERCHE
L’AUTONOMIA NEGOZIALE
NEL DIRITTO DI FAMIGLIA:
L’EVOLUZIONE
GIURISPRUDENZIALE
AVV. GERMANA BERTOLI
COORDINATORE REGIONE PIEMONTE DELL’OSSERVATORIO
autonomina negoziale nell’ambito dei rapporti tra coniugi è da decenni una tematica di grande interesse seppure, mancandone uno specifico riconoscimento normativo nell’ambito del diritto di famiglia, tutto sia
lasciato in mano ad una giurisprudenza caratterizzata da un’ostinata ritrosia nell’ammettere la validità di quegli accordi aventi ad oggetto la disciplina
degli aspetti patrimoniali della fase patologica del
matrimonio.
Se in passato l’inoperatività dell’autonomia negoziale tra i coniugi era giustificata dal concetto monolitico che si aveva della famiglia (il potere di governo era concentrato nel capo famiglia) con l’introduzione nella Costituzione (artt. 3, 26) del policentrismo familiare, di tale autonomia è innegabile
il riconoscimento implicito, che ritroviamo anche
nella legge di riforma del diritto di famiglia (l.
151/1975) ed in quella sul divorzio (l. 898/1970).
L’evoluzione normativa ha così consentito, come è
ovvio, anche quella giurisprudenziale. Infatti, se inizialmente i giudici ritenevano che la regolamentazione della fase patologica del matrimonio dovesse
avere ad oggetto esclusivamente diritti patrimoniali
strettamente connessi con la separazione (assegno
per il coniuge debole, assegno per i figli, assegnazione
dell’abitazione coniugale), successivamente, si è ritenuto di poter introdurre anche accordi patrimoniali
non legati funzionalmente alla separazione, seppure
subordinandone l’efficacia all’omologazione da parte
dell’Autorità giudiziaria (Cass. n. 1208/1985; Cass. n.
9287/1997). Dunque, un’iniziale, seppure timida, propensione al riconoscimento espresso dell’autonomia
negoziale nell’ambito familiare.
Raffinando il ragionamento si è successivamente
ritenuto che nell’ambito degli accordi di separazione
si dovesse distinguere tra contenuto necessario (ac-
L’
cordi che hanno un collegamento funzionale con la
separazione) e contenuto eventuale (accordi che
sono stati occasionati dalla separazione, ma non ne
sono strettamente dipendenti), considerando l’omologazione del Tribunale indispensabile per l’efficacia esclusivamente del primo e non del secondo.
Con ciò, il venir meno del consenso alla separazione
(e dunque dell’omologazione) porrebbe nel nulla
solo gli accordi relativi al contenuto necessario, ma
non quelli facenti parte del contenuto eventuale che
rimarrebbero al riparo dall’inefficacia (Cass. n.
24321/2007; Cass. n. 4306/1997). Questo in quanto gli
accordi che rientrano nel contenuto eventuale
hanno causa autonoma seppure sempre di diritto
familiare (può accadere che i coniugi abbiano inteso
la specifica pattuizione come la definizione dei rapporti patrimoniali in ragione della presa d’atto della
crisi coniugale e della conseguente interruzione anche solo in via di fatto della convivenza) mentre gli
accordi che rientrano nel contenuto necessario trovano la causa nella separazione (la specifica pattuizione come parte integrante e sostanziale del negozio di separazione consensuale, inscindibilmente legata al perseguimento dello status separationis).
Ci si è resi conto subito, però, come l’ultrattività
degli accordi rientranti nel contenuto eventuale
fosse estremamente pericolosa (si pensi al caso in
cui un coniuge si sia impegnato ad un trasferimento
immobiliare in vista di una separazione consensuale che successivamente non si sia avuta per un
ripensamento dell’altro) tanto che si è cercato di legare funzionalmente alla separazione anche il contenuto eventuale, tentando di ritornare alla precedente impostazione giurisprudenziale che subordinava l’efficacia di qualunque accordo all’omologa
del Tribunale. La tesi utilizzata è stata quella dell’inefficacia degli accordi facenti parte del contenuto
eventuale per difetto di forma. Infatti, si è sostenuto
che gli accordi rientranti nel contenuto eventuale
avrebbero natura di convenzione matrimoniale e
come tali necessitanti per la loro efficacia della
forma pubblica di cui sarebbero privi in caso di loro
mancata omologazione da parte del Tribunale. Tale
soluzione non è, però, stata condivisa dalla giurisprudenza con un ragionamento enunciato in una
sentenza del 1984 (Cass. n. 2887/1984) poi mutuato
da una decisione del 1997 (Cass. 9034/1997) ed infine del 2007 (Cass. 9863/2007). Gli Ermellini, infatti,
hanno sostenuto che gli accordi rientranti nel contenuto eventuale della separazione non possono
considerarsi «convenzioni matrimoniali» ex. art. 162
c.c., in quanto queste ultime richiederebbero il normale svolgimento della convivenza coniugale ed
avrebbero ad oggetto una generalità di beni di acquisizione anche futura. Gli accordi rientranti nel
contenuto eventuale della separazione, quindi, dovranno considerarsi «contratti atipici» soggetti, per
la forma, alla disciplina comune (es.: se relativi a
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 35
STUDI E RICERCHE
beni immobili, validamente stipulabili con scrittura
privata senza necessità di atto pubblico).
In realtà il principio di cui sopra è stato applicato
in maniera generalizzata anche a fasi della crisi familiare differenti rispetto a quella per cui era stato
generato: la pronuncia del 1984 riguardava accordi
intervenuti successivamente all’omologa delle condizioni di separazione; la sentenza del 1997 riguardava accordi raggiunti nell’ambito di una separazione di fatto; la sentenza del 2007 riguardava un ricorso per separazione consensuale depositato, nel
quale erano formalizzati accordi non ancora omologati. È evidente, quindi, come la possibilità di
escludere che si sia in presenza di convenzioni matrimoniali riguarda solo l’ipotesi in cui l’accordo sia
stipulato in una fase successiva all’omologa delle
condizioni di separazione - atto che pone in quiescenza il vicolo di coniugio. Negli altri casi, essendo
intervenuti gli accordi quando il matrimonio era ancora formalmente vivo, l’applicazione letterale dell’art. 162 c.c. (che permette la stipula di convenzioni
in qualunque momento del matrimonio) potrebbe
invece non escludere che si sia in presenza di una
convenzione matrimoniale, nulla per difetto della
forma pubblica in assenza di omologazione.
Altro aspetto dell’autonomia negoziale familiare
riguarda la possibilità che i coniugi possano rinunciare all’assegno di mantenimento e quindi a quei
diritti scaturenti dalla crisi del matrimonio. Il dovere
di mantenimento nella fase separativa non può che
essere considerato la prosecuzione del dovere di
contribuzione di cui all’art. 143 c.c.. Infatti, in fase
di separazione ci troviamo di fronte ad un matrimonio che ancora vive, seppure non più in condizioni di ottima salute. Dunque, a tale dovere di mantenimento non potrà non estendersi l’indisponibilità di cui all’art. 160 c.c.. Sul punto, però, la giurisprudenza risulta essere contraddittoria. Infatti,
seppure abbia riconosciuto la possibilità per il coniuge, cha abbia accettato la corresponsione di un
assegno di misura inferiore rispetto a quella giudizialmente stabilita, di agire per ottenere la differenza, invocando la nullità della rinuncia in quanto
riguardante un diritto indisponibile, ha poi ritenuto
necessario che il coniuge rinunciatario all’assegno
per poterlo ottenere, debba agire ex art. 710 c.p.c. dimostrando il sopravvenire di nuove circostanze rispetto al momento della rinuncia, soluzione questa
contraddittoria rispetto all’indisponibilità del diritto
che dovrebbe essere svincolata dal successivo mutamento delle condizioni. Peraltro, altra incongruenza riguarda il fatto che la giurisprudenza ritenga valida la dichiarazione del coniuge di essere
economicamente indipendente e quindi non legittimato ad ottenere un assegno di mantenimento
senza una verifica della corrispondenza a verità di
tale affermazione. Ciò sta a significare che seppure
la dichiarazione di autosufficienza economica sia
36 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
falsa, ma comunque liberamente voluta (l’errore e
la violenza rendono la dichiarazione nulla) essa non
potrà essere oggetto di impugnazione. Non si comprende pertanto che differenza ci sia tra rinuncia ad
un diritto e dichiarazione falsa dell’inesistenza dei
presupposti di un diritto (per un approfondimento
sul punto si veda G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano).
Ma l’aspetto più controverso, sia in dottrina che
in giurisprudenza, riguarda la validità degli accordi
inseriti nelle condizioni di separazione che abbiano
ad oggetto la predeterminazione delle conseguenze
del divorzio. L’orientamento giurisprudenziale di legittimità sul punto è granitico nel ritenerne la nullità assoluta. Vediamone le ragioni.
Tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 la
giurisprudenza pareva dare segni di apertura riguardo alla possibilità per il coniuge economicamente più debole di rinunciare preventivamente all’assegno divorzile. Ciò, però, solo fintantoché all’assegno divorzile veniva riconosciuta una natura composita: la rinuncia avrebbe potuto riguardare solo ed
esclusivamente la componente risarcitoria e compensativa e non a quella assistenziale (Cass.
1305/1977; Cass 4223/1980). Tale orientamento è stato
subito stroncato dalla stessa Cassazione che, con la
sentenza n. 3777/1981, ha affermato che la rinuncia
all’assegno divorzile (in una qualunque delle sue
componenti allora riconosciute) formulata al di fuori
del giudizio è invalida, in quanto potrebbe celare l’illecita causa della mercificazione dello status. Peraltro, una rinuncia preventiva non sarebbe possibile
come si trarrebbe sia dall’art. 160 c.c., che stabilisce
un’indisponibilità assoluta dell’assegno divorzile, sia
dalla necessità che sulle questioni inerenti le vicende
matrimoniali (e quindi anche l’assegno divorzile) ci
debba essere il parere del pubblico ministero.
La sentenza n. 3777/1981 è così divenuta il leit-motive
delle successive pronunce seppure i pilastri su cui
poggia ormai da tempo abbiano iniziato a creparsi.
Con riguardo al mercimonio dello status non può
non cogliersi come si tratti di una problematica superata dall’introduzione della sentenza parziale di
divorzio, che scongiura il pericolo che uno dei due
coniugi possa ritardare la tanta agognata libertà allungando i tempi processuali con una battaglia (a
volte strumentale) sulle questioni economiche.
Oltre a ciò, l’indisponibilità dell’assegno non può
trarsi neanche dall’art. 160 c.c., la cui collocazione
sistematica nel capo VI del c.c., fa comprendere
come esso riguardi la regolamentazione della fase
fisiologica del matrimonio e non quella patologica
disciplinata dal capo V del c.c..
Peraltro, è giusto interrogarsi sul possibile riconoscimento implicito da parte del legislatore della validità degli accordi patrimoniali di carattere preventivo con l’introduzione del divorzio congiunto. Infatti, i coniugi devo presentarsi davanti al Collegio
STUDI E RICERCHE
avendo già stabilito tra di loro le condizioni patrimoniali e quindi prima che vi sia stata una pronuncia sul loro status. In questo caso nulla può scongiurare che l’intento mercificatore sia stato alla base
di quello che pare essere il loro comune intento.
Ciò nonostante, per salvare un orientamento giurisprudenziale superato, ma a cui è immotivatamente legata, la Cassazione, con un pronuncia in cui
ha fatto sfoggio delle propire doti di azzeccagarbugli ha chiarito che non è ammissibile una pattuizione in merito ad un “divorzio prefigurato” (identificato da un patto pre-divorzile), ma solo in merito
ad un “divorzio già deciso” (identificato con il deposito di un ricorso congiunto) (Cass. 9494/1992). Ma
come acutamente osservato dal dott. Giacomo
Oberto, l’unico modo per evitare il mercimonio dello
status sarebbe impedire la discussione delle questioni economiche se non dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio.
Sulla questione, merita un cenno particolare una
sentenza del 2000 (Cass. 14/06/2000 n. 8109) che pareva avesse determinato un’inversione di tendenza.
In realtà, leggendo la motivazione ci si rende conto
di come la Corte abbia in realtà voluto esplicitamente chiarire che l’orientamento consolidato non
veniva assolutamente messo in dubbio, ma anzi
confermato. La Cassazione, infatti, ha respinto la ri-
chiesta di un marito volta ad ottenere la dichiarazione di invalidità
per illiceità della causa di una disposizione patrimoniale concordata in sede di separazione in
base alla quale questi si sarebbe
impegnato a corrispondere alla
moglie una rendita “vita natural
durante” a tacitazione di ogni pretesa economica di quest’ultima. Il
ricorrente, al fine di vedere accolte
le proprie richieste aveva invocato: la violazione dell’art. 9 della
legge n. 898/70 che ammette la revisione in ogni tempo delle disposizioni concernenti la misura e le
modalità di versamento dell’assegno di divorzio; l’indisponibilità in
via preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio; l’illiceità di
una regolamentazione preventiva
degli aspetti patrimoniali del divorzio, costituendo ciò una sorta
di prezzo del consenso alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. La I Sezione della Suprema
Corte di Cassazione ha rigettato il
ricorso del marito confermando la
validità delle disposizioni patrimoniali oggetto dell’accordo separativo estendendole al divorzio,
ma ciò senza contraddire e smentire l’orientamento
giurisprudenziale ormai consolidato. Infatti, nell’incipit della motivazione la Corte ha ritenuto di fare
immediatamente chiarezza per escludere qualunque tipo di malinteso affermando: «L’orientamento
secondo cui gli accordi con i quali i coniugi fissano
in sede di separazione il regime giuridico del futuro
ed eventualmente divorzio sono nulli per illiceità
della causa, anche nella parte in cui concernono
l’assegno divorzile, che per la sua natura assistenziale è indisponibile, in quanto diretti implicitamente o esplicitamente, a circoscrivere la libertà di
difendersi nel giudizio di divorzio, è pienamente
condiviso e deve essere mantenuto fermo». Detto
ciò, la Corte ha ritenuto che: «Tale orientamento,
nella specie, non può trovare applicazione per due
concorrenti ordini di motivi». In primo luogo l’accordo della cui liceità si discute avrebbe avuto la
funzione di porre fine ad alcune controversie di natura patrimoniale insorte tra i coniugi, senza alcun
riferimento esplicito o implicito al futuro assetto dei
rapporti economici tra i coniugi conseguenti all’eventuale pronuncia di divorzio. In secondo luogo
la Corte sottolinea come il principio richiamato dal
ricorrente in merito all’illiceità delle statuizioni concordate in sede di separazione per regolamentare gli
aspetti patrimoniali del divorzio sia sempre stato
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 37
STUDI E RICERCHE
enunciato in fattispecie nelle quali gli accordi preventivi erano invocati per paralizzare o ridimensionare la domanda diretta ad ottenere l’assegno divorzile, mentre la fattispecie presente posizione rovesciate, in quanto è il coniuge che avrebbe potuto
essere onerato che invoca il principio per ottenere
l’accertamento negativo dell’altrui diritto. Interessante, però, è osservare come la stessa Cassazione
ed addirittura la stessa I Sezione, solo quale mese
prima, con la sentenza 18/02/2000 n. 1810, aveva
detto l’esatto contrario. Si trattava di un caso nel
quale una moglie aveva richiesto l’attuazione di una
statuizione patrimoniale concordata in sede di separazione in base alla quale il marito si era impegnato a trasferirle la proprietà dell’immobile che fu
coniugale già occupato dalla ricorrente a titolo di comodato gratuito se la stessa non si fosse opposta
alla pronuncia di divorzio, mentre il marito, invocando il noto principio aveva chiesto la declaratoria
della illiceità delle statuizioni patrimoniali concordate in sede di separazione che incidessero anche
sul divorzio. La moglie, per contrastare la richiesta
del marito aveva rilevato come l’invalidità degli accordi in vista del futuro divorzio sia prevista solo nel
caso in cui tali accordi violino norme imperative o
principi di ordine pubblico ed in particolare laddove
costituiscano una rinuncia da parte del coniuge più
debole all’assegno di mantenimento e non il contrario. La tesi difensiva della ricorrente, viene respinta: la Cassazione (che si contraddirà quattro
mesi dopo) afferma che: «Il principio dell’indisponi38 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
bilità dei diritti è motivato dalla riflessione che gli
accordi preventivi possono condizionare il comportamento delle parti non solo per i profili economici
pre-concordati ma - anche per quanto attiene alla
volontà stessa di divorziare, venendo così ad incidere su uno status personale ed a limitare la libertà
di difesa nel successivo giudizio di divorzio. Fino alla
pronuncia del divorzio i soggetti sono legati dal vincolo coniugale e non possono pertanto derogare ai
diritti ed ai doveri derivanti dal matrimonio».
Ma se la resistenza al riconoscimento dell’autonomia negoziale tra i coniugi sia rigida in maniera disarmante, lo stesso non accade nell’ambito dell’invalidità del matrimonio. Un orientamento risalente
ai primai anni ’80 (Tribunale di Genova) aveva ritenuto di seguire la linea adottata per gli accordi in vista del divorzio ritenendo che, si riporta testualmente: «il carattere pubblicistico del processo non
consente che un’attività processuale sia presentata
da una delle parti in funzione di corrispettivo per la
promessa dell’altra». Questo leading case è stato poi
superato nel 1993 (Cass. n. 348/1993) da una pronuncia della Cassazione che oggi non risulta essere stata
smentita secondo cui, in prospettiva di una invalidità matrimoniale i coniugi possono preventivamente disciplinare i rapporti patrimoniali. Testualmente in sentenza si legge: «gli accordi fra coniugi
in vista o nell’eventualità di una futura pronuncia di
nullità del matrimonio sono validi non venendo in
gioco una determinazione della parti in ordine allo
scioglimento del vincolo coniugale, con la conse-
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guenza che il principio di autonomia contrattuale
non soffre alcuna compressone per ragioni di ordine
pubblico, dato il carattere inquisitorio del giudizio di
annullamento, che esclude qualsiasi potere di disposizione dello status personale da parte dei coniugi». In realtà a ben riflettere, il condizionamento
dell’esito del giudizio che può operare una parte in
quest’ambito è forse ancor più forte di quello relativo allo scioglimento o alla cessazione degli effetti
civili del matrimonio. Infatti, per la pronuncia di invalidità del matrimonio, il Tribunale ecclesiastico
deve ricostruire comportamenti, volontà e sentimenti che possono essere rappresentati con modalità differenti dalla parti (appunto a seconda delle
conseguenze economiche pattuite). Basti porre
mente ad alcune delle domande che vengono rivolte
ai coniugi per la ricostruzione delle vicende familiari
influenti per la declaratoria di nullità del matrimonio
«Che cosa ha avuto di bello e positivo il vostro fidanzamento?», «L’altra parte rispondeva alla sue
aspettative?», «Era la persona che lei avrebbe voluto
sposare?», «Avevate delle perplessità sulla buona riuscita del matrimonio?», «La fedeltà reciproca era per
voi un valore ed un impegno?», «Desideravate avere
dei figli dal vostro matrimonio?». Non v’è chi non
veda come un lauto compenso potrebbe portare anche a giurare il falso sul Vangelo in merito al desiderio di genitorialità o alla fedeltà come valore.
Forse, però, ci sono speranze di apertura giurisprudenziale anche in ambito di separazione e divorzio, alimentate da un’ordinanza del Tribunale di
Torino del 20/04/2012 emessa nella fase presidenziale di un giudizio di divorzio giudiziale con la
quale si è riconosciuta validità ad un accordo concluso in sede di separazione ed in vista del divorzio
escludendo che esso potesse considerarsi contrario
né all’ordine pubblico, né all’art. 160 c.c.. Le parti,
pochi mesi prima della pronuncia di separazione a
conclusioni congiunte convennero che l’erogazione
dell’importo a titolo di assegno di mantenimento a
carico del marito sarebbe venuta a cessare all’atto
dell’inizio della causa per la pronunzia della cessazione degli effetti civili del matrimonio con impegno della moglie a nulla pretendere dal marito, né a
titolo di una tantum né di mantenimento. Il Presidente della sezione famiglia torinese ha ritenuto di
andare contro al consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità ritenendo che diversi argomenti militino nel senso di consentire di affermare la validità ed il valore vincolante di un impegno di tal fatta, liberamente stipulato dalle parti. Il
Magistrato ha ritenuto che se la Cassazione ha attribuito validità a impegni preventivi in vista della
separazione personale (Cass. 05/07/1984 n. 3940;
Cass. 12/05/1994 n. 4647) ciò non possa accadere anche per il divorzio, ritenendo non rilevante l’obiezione secondo cui vi è una differente natura tra le
due fasi patologiche del matrimonio (la separazione
vede comunque il perdurare il vicolo matrimoniale
cosa che non avviene con il divorzio). Infatti, secondo il Magistrato, «anche la separazione da vita
ad uno status familiare: pertanto, se le intese preventive fossero da considerarsi nulle in quanto dirette a disporre di uno status indisponibile al di fuori
del momento dell’instaurazione della relativa procedura di fronte al giudice, non si comprenderebbe
per quale ragione le obiezioni sollevate contro tali
accordi in contemplation of divorce non dovrebbero poi
valere se riferite alle separazione».
Peraltro, il Magistrato rileva come la preoccupazione sulla mercificazione dello status non dovrebbe
sussistere «qualora le parti si limitino a prevedere
le conseguenze dell’eventuale scioglimento del matrimonio, senza impegnarsi a tenere comportamenti
processuali diretti ad influire sullo status coniugale:
fermo restando che altro è porre a base del sinallagma negoziale l’impegno sullo status (mi obbligo
a divorziare o a non divorziare), e ben altro è prestabilire le mere conseguente economiche dell’eventuale mutamento di status».
Il Magistrato non condivide, altresì, il riferimento
all’art. 160 c.c. da cui viene tratta l’indisponibilità
dell’assegno divorzile facendo riferimento sia alla
sua collocazione sistematica nel capo relativo al regime patrimoniale della famiglia e non in quello
delle conseguenze patrimoniali della crisi della famiglia. Evidenzia anche come «il carattere pienamente disponibile delle attribuzioni patrimoniali
postconiugali inter coniuges emerge poi in modo palese ove si ponga mente alla sostanziale inesistenza
di poteri di intervento sul merito che il Tribunale
(non) possiede in relazione alle procedure d’omologazione degli accordi di separazione e di divorzio su
domanda congiunta, laddove è evidente che, de iure
condito, nessun Giudice potrà mai d’ufficio attribuire
ad un coniuge un solo centesimo a titolo di contributo di mantenimento del coniuge separato o di assegno di divorzio, in assenza di un contenzioso delle
parti e di una specifica domanda sul punto, ben diversamente da quanto accade in relazione agli assegni in favore della prole».
In conclusione, è più che evidente come l’orientamento giurisprudenziale di legittimità non sia più
adeguato rispetto all’evoluzione socio-culurale della
concezione del matrimonio e che la sua accettazione silenziosa ed obbediente non consentirà quel
cambiamento divenuto ormai necessario e non più
prorogabile. È importante, quindi, che gli avvocati
osino ed inizino ad utilizzare lo strumento dell’autonomia negoziale per disciplinare la fase patologica del matrimonio nella speranza che Magistrati
capaci di coglierne in maniera corretta il significato
possano non lasciare isolate pronunce come quella
del Tribunale di Torino che meriterebbe di essere definita nel prossimo futuro come il leit-motive di un
nuovo orientamento giurisprudenziale.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 39
STUDI E RICERCHE
L’ATTO PROCESSUALE
DELL’ASCOLTO…
CORTE di CASSAZIONE
sezione I civ.
Sentenza 15 maggio 2013 n° 11687
Pres. Luccioli - Est. Campanile
P.M. Fucci (concl. diff.) - A. c/o B.
Il giudice ha l’obbligo, a pena di nullità del provvedimento decisorio reso, assorbibile con il giudicato secondo la regola fissata nell’art. 161 c.p.c., di procedere direttamente ovvero con delega specifica ad organi ausiliari, all’atto processuale dell’ascolto del figlio in età minore capace di discernimento, in tutti i
procedimenti che lo riguardino, al fine di raccoglierne
le opinioni, le esigenze, i bisogni e la volontà, in
quanto corrisponde a valore e principio fondamentale
dell’ordinamento, realizzando la presenza nel giudizio dei figli, in quanto parti “sostanziali”, e deve tener conto degli esiti di tale ascolto, salvo che non ricorra l’ipotesi della manifesta contrarietà dell’ascolto
stesso all’interesse preminente del figlio, da motivarsi
congruamente.
[il testo integrale della Sentenza è già stato pubblicato nella Rivista, n° 2/2013, pag. 46 ss.]
L’ATTO PROCESSUALE DELL’ASCOLTO
ED I DIRITTI DEL FIGLIO MINORE
1 - Premessa
Questa pronuncia della Suprema Corte rappresenta l’epilogo di un percorso ermeneutico del dato
normativo inerente la presenza del figlio in età minore nei procedimenti giurisdizionali, la cui datazione risale alla Dichiarazione dei diritti del fanciullo, proclamata a New York nel 1989 e ratificata
con l. 27/5/1991 n° 176, ove il suo interesse assume
una considerazione primaria1; dopo le timide aperture di cui all’art. 4, co. 8, l. div., seguirono la l.
20/3/2003 n° 77 di ratifica della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli2, il Regolamento CE 27/11/2003 n° 2001, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea3, e la disposizione
contenuta nell’art. 155sexies c.c., introdotto dalla l.
8/2/2006 n° 54.
Da evidenziare come, per quanto nel caso deciso
doveva trovare applicazione quest’ultima norma vigente sino al 1°/1/2013, si coglie nettamente l’influenza rafforzativa dei principi affermati dalla novella sulla filiazione, di cui alla l. 10/12/2012 n° 219,
ad iniziare dal gergo, nel momento in cui viene abbandonata l’espressione “audizione” ed assunta
quella di “ascolto”, che evoca profili di vicinanza ed
immedesimazione piuttosto che una mera raccolta
40 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
di dati; infatti, la voce personale del minore, quale
significativa garanzia della sua condizione soggettiva e quale forma del corretto incedere processuale
dei giudizi civili riguardanti i rapporti personali e familiari, trova oggi il suo definitivo riconoscimento
nell’art. 315bis, co. 3, c.c.
Il giudice di legittimità infatti disegna come un bilancio del quadro anteriore e getta il giusto ponte
verso l’applicazione del nuovo “statuto” della condizione filiale, con una motivazione che colpisce per la
sobrietà ed il tono perentorio, certamente inusuale,
e che risuona come un monito alle Corti di merito,
volto a far cessare la diffusa avversione verso questo atto processuale; atto qualificato inderogabile
poiché funzionale alla comprensione dell’interesse
del minore, in tutti i procedimenti che attingono la
sua sfera personale nella crescita verso la maturità
adulta, onde pervenire ad un giudicato quanto più
possibile vicino alle ragioni sostanziali di sua reale e
preminente tutela4. S’impone la precisazione, per
quanto possa apparire ovvia, che il diritto all’ascolto
in questione sorge nei soli procedimenti in cui è
coinvolto lo sviluppo della personalità del figlio minore, nei quali il suo interesse “preminente” è criterio di giudizio sul quale si fonda la giusta decisione,
mentre è estraneo a quelli riguardanti i rapporti giuridici di diritto comune (ad es. quale proprietario di
un fondo, quale contraente, etc.), nei quali sta in giudizio a mezzo del proprio legale rappresentante (genitori, o tutore, o curatore speciale), secondo le regole ordinarie per il soggetto di diritto incapace.
2 - Il decalogo della Corte di Cassazione
La pronuncia dètta una sorta di decalogo essenziale, obiettivamente persuasivo, seppur incompleto e con residui punti critici oggetto di commento, la cui noncuranza costituisce grave insidia
per le statuizioni di merito; schematicamente può
essere così riassunto: a) l’ascolto del figlio minore
è, in via di principio, momento processuale formale
ed imprescindibile di tutti i procedimenti che in
qualunque misura lo riguardino; b) il suo presupposto è costituito dalla sussistenza della capacità
di discernimento, presunta al raggiungimento dell’età di anni dodici5; c) l’obbligatorietà dell’ascolto
corrisponde ad un valore fondamentale dell’ordinamento, in funzione della reale tutela del preminente interesse del figlio minore, nell’ottica del suo
percorso evolutivo6; d) solo la manifesta contrarietà a tale interesse giustifica l’esclusione dell’ascolto, ma del ricorrere di una tale eccezione, il
giudice deve darne puntuale motivazione7; e) l’atto
realizza la presenza personale del figlio minore nel
processo, di norma nel giudizio di primo grado; f)
l’ascolto consiste nell’acquisire la sua volontà (opinioni, esigenze, bisogni, aspirazioni), della quale il
giudice deve tenere adeguato conto, pur non essendone vincolato, con l’onere d’una motivazione
STUDI E RICERCHE
a ciò correlata8; g) la motivazione deve dar conto
del grado del discernimento manifestato dal minore, desumibile dalla sua effettiva consapevolezza, dalla maturità e dalla precisione dell’espressione di volontà nonché delle convinzioni
motive che la sorreggono9; h) l’ascolto del minore
non rientra nel novero degli atti processuali tipicamente probatori ed essendo un adempimento prefigurato dalla legge come necessario, non è soggetto a preventiva valutazione di rilevanza e per
ciò ad alcuna motivazione; i) l’ingiustificata omissione dell’ascolto del figlio minore causa la nullità
del procedimento e della decisione, nullità deducibile nei limiti prefigurati dall’art. 161 c.p.c., ma assorbita dal formarsi del giudicato10; l) le modalità
discrezionali dell’ascolto, pur essendo prevalentemente affidate a protocolli elaborati dalle Corti di
merito11, devono comunque assicurare l’effettivo
esercizio di tale diritto, cioè garantire l’espressione
libera e consapevole della volontà.
La Corte prosegue poi sulle modalità concrete di
espletamento dell’ascolto, in merito alle quali, pur a
fronte dell’evidente lacunosità normativa, purtroppo limita la propria disamina a pochi tratti, in
relazione alla fattispecie sottopostagli.
Così, il giudice deve essere il garante del personale accesso del figlio in età minore alla dinamica
decisoria e quindi procedere al suo ascolto direttamente e personalmente; il canone è sostanzialmente conforme a quanto dispone la norma di delega legislativa contenuta nella novella sulla filiazione, all’art. 2, co. 1, lett. i), per la quale, “ove l’ascolto
sia previsto nell’ambito di procedimenti giurisdizionali,
ad esso provvede il presidente del tribunale o il giudice
delegato”12. Sino a quel momento infatti, il giudice
non conosce il minore ed “ascoltarne” la viva voce
non equivale a recepire le deduzioni delle parti od al
racconto, in forma di relazione, fatto da ausiliari o
addirittura da organi istituzionali di amministrazione attiva, quali i Servizi Sociali, di quanto avvenuto in ambiti privi delle garanzie che legittimano il
giusto processo.
Peraltro, si ammette che in particolari circostanze
(cioè con delimitazione rispetto a quanto largamente praticato dalle Corti di merito), l’ascolto
possa essere delegato ad esperti13, mentre si esclude
in radice che possa essere “surrogato” da altri atti
occasionali, ove risulti che il minore sia stato “in
qualche modo interpellato” su quanto il giudice è chiamato a decidere.
Non di meno, si precisa che l’evenienza dell’ascolto “delegato” debba essere marcata di importanti cautele: in primo luogo, si esige un vero e proprio atto di delega da parte del giudice competente14; ed inoltre, tale atto deve necessariamente
onerare il delegato dell’obbligo di informare15 preventivamente il minore delle istanze e delle scelte
che lo riguardano, in tal modo che egli possa poi li-
beramente e consapevolmente esprimere la propria
volontà.
La condivisibile perentorietà di tali condizioni appare però insufficiente nel momento in cui si pone
giusta correlazione tra il dovere di informazione e
l’espressione di autonoma volontà; infatti, questa
autodeterminazione corrisponde ad un diritto della
persona in età minore, da garantirsi effettivamente
ed in concreto; grava perciò sul delegato, al pari del
giudice, assicurare la libertà di espressione genuina
di quella composita volontà, il che si sostanzia nell’uso di un ambiente di accoglienza adeguato e di
un linguaggio confacente all’età; e poi, nel dare informazioni compiute, cioè non soltanto sulle istanze
e le scelte che lo riguardano, ma anche sulla possibile gamma e natura delle decisioni, sul valore ed il
peso delle sue opinioni (e quindi anche di una soluzione diversa dalla sua volontà); occorre anche garantire la serenità e la riservatezza del confronto
con il minore e comunque un riguardo tale da non
indurre in lui alcun senso di responsabilizzazione o,
per converso, di sottovalutare il suo diritto alla “irresponsabilità”; ed ancora, occorre evitare l’elusione
dell’essenza autentica dell’ascolto, inclinando magari il compito delegato al supino recepimento dei
desiderata del minore, dietro i quali si annida il pericolo di deresponsabilizzazione; e soprattutto nel
porre riparo e cautela verso ogni possibile condizionamento, turbamento o suggestione, che possa attentare alla genuinità della sua espressione, ovvero
di indagare il livello dell’eventuale compulsione di
cui risulti vittima (un es. tra i tanti, quando emerga
ostilità per una figura genitoriale).
Questi in realtà i necessari adempimenti dal cui
fattivo espletamento può farsi derivare il positivo
assolvimento dell’obbligo di ascolto del figlio minore e quindi una valida statuizione decisoria; ma
l’occasione mancata dalla Corte per porre adeguati
rilievi va oltre: per quanto l’atto processuale dell’ascolto è regolato dal principio di libertà della
forma, non è esente dal rispetto dei principi generali
del processo civile, quindi dei canoni del contraddittorio, del diritto di difesa, di terzietà ed imparzialità del giudice. Risultava così opportuna, se non
indispensabile, almeno un’opera di confinamento
della discrezionalità, quanto alle modalità di comparizione del minore16, quanto alla presenza dei genitori17, quanto alla presenza dei difensori18 e
quanto alla documentazione dell’ascolto19.
È ora sopravvenuto lo schema di d. l.vo, in virtù
dell’indicata delega conferita dalla novella sulla filiazione, predisposto dalla Commissione Bianca e già
approvato dal Governo - ma non ancora promulgato
- che, pur evidenziando limiti e criticità, per quanto
qui ci riguarda, conferma larga parte della linea ermeneutica sopra ripercorsa: con il nuovo art. 336bis
c.c., la cui rubrica recita “Ascolto del minore”, si conferma l’imprescindibile esigenza dell’ascolto del filuglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 41
STUDI E RICERCHE
glio da parte del giudice ogni qual volta debbano
adottarsi provvedimenti che lo riguardino, come
pure il suo presupposto costituito dalla capacità di
discernimento; anche l’ipotesi derogatoria si conferma come eccezione, sicché deve essere oggetto
di specifica statuizione, giustificata in sede motiva,
con riferimento all’illustrato contrasto con l’interesse del minore, aggiungendosi, come novità, l’ipotesi in cui è “manifestamente superfluo”; in una tale
previsione si intravede il pericolo di uno “svuotamento” del carattere imperativo della norma, tentazione da allontanare, atteso l’evidente carattere eccezionale anche di questa previsione derogatoria;
confermata nettamente la conduzione dell’ascolto
da parte del giudice, che può in tale compito avvalersi di esperti od ausiliari, senza però, a quanto
sembra, poterlo delegare; la presenza all’ascolto
delle parti (genitori, curatore, pubblico ministero) e
dei difensori vede rilevante regolamentazione, risultando prefigurata una preventiva autorizzazione
del giudice, il che si traduce di norma nell’esclusione di tutti tali soggetti processuali mentre, di
contro, viene codificata la preventiva proposta delle
parti in ordine agli argomenti ed ai temi sui quali
deve cadere il confronto durante l’ascolto, percepito
direttamente dal solo giudice, al più con opportuno
ausilio. Resta deludente a tal proposito la parificazione dei difensori e del pubblico ministero alle
parti, un nodo irrisolto che desta preoccupazione,
trattandosi di funzioni di garanzia costituzionalmente presidiate; invero, la norma impone al giu42 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
dice di esaminare preventivamente l’istanza di autorizzazione a presenziare, formulata dal difensore
o dal pubblico ministero, e l’interpretazione può
porre adeguato riparo, anche attraverso la valida
motivazione che dovrà sorreggere l’eventuale diniego, in specifica attinenza al ruolo ed all’istanza
stessa; da salutare positivamente invece la documentazione dell’ascolto ora imposta, esattamente
in linea con quanto sopra indicato. Significativa la
collocazione della norma ancora nel codice sostanziale piuttosto che in quello di rito, ma deludente il
suo inserimento subito dopo l’art. 336 c.c. nel contesto dei procedimenti de potestate, come si trattasse
dell’integrazione delle scarne norme a presidio di
questi e, soprattutto, la malcelata dissonanza con la
norma statutaria di cui all’art. 315bis c.c. che doveva
invece attuare.
3 - L’evoluzione del dato normativo
La qualificazione dell’ascolto del minore quale
“imprescindibile” esigenza processuale da osservare
a pena di nullità, è il punto di arrivo d’un complesso
percorso che vede in primo luogo coinvolti i canoni
di diritto sostanziale. Il tema s’inserisce infatti nel
capitolo del diritto di famiglia inerente l’esercizio
della potestà genitoriale, segnalando anch’esso
quell’irreversibile passaggio dall’esercizio della “potestà” come diritto/dovere del genitore, in posizione
di supremazia, all’assunzione della “responsabilità
genitoriale” nell’interesse del figlio20, oggi fissato dagli artt. 315 e 315bis c.c.
STUDI E RICERCHE
Infatti, dottrina e giurisprudenza hanno rivolto
viva attenzione alla condizione giuridica dei figli minori, modificando nel tempo le proprie espressioni
su questo tema invero cruciale; lo sviluppo delle loro
analisi ha visto il passaggio da un approccio centrato sui contenuti ed i limiti della potestà genitoriale, in rapporto alla quale il minore ne era l’oggetto, ad una concezione che privilegia la centralità
del minore quale soggetto: questo essenziale riequilibrio dei ruoli ha trasformato il soggetto giuridico in minore età da destinatario delle decisioni genitoriali e comunque altrui, a protagonista della propria sfera soggettiva e titolare di un “interesse preminente” che reclama tutela.
Questa evoluzione - che s’inserisce nel più ampio
contesto di una nuova sensibilità a favore dei “soggetti deboli” - segue la stessa affermazione storica
dei principi giuridici che permeano l’ordinamento
positivo per quanto riguarda il riconoscimento dell’inviolabilità, dell’autonomia e della libertà dei singoli, quali diritti inviolabili dell’uomo (artt. 2 e 3
Cost.), al fine d’assicurare il pieno sviluppo dell’individuo anche nelle formazioni sociali di cui fa parte
ed in primo luogo nella famiglia. In quest’ottica, il
contenuto dei poteri in cui si sostanzia la responsabilità genitoriale, via via che si accresce l’autonomia
del figlio nel suo percorso volto ad acquisire progressivamente l’educazione e quindi l’attitudine alla
vita adulta, subisce una sorta di graduazione: dalla
massima esplicazione nei primi anni di vita, passa
per un’attenuazione del potere di direttiva e controllo, sino a dissolversi elasticamente in prossimità
del traguardo della maggiore età, o a meglio dire,
della sua maturazione soggettiva, presunta in coincidenza con il compimento dell’età in cui consegue
il riconoscimento della capacità di agire (art. 2 c.c.).
Ma ciò che in ogni caso più rileva è l’obbligo in
quanti esercitano la responsabilità genitoriale, di
contemperare l’esercizio dei poteri a essa connaturati con il rispetto della personalità e delle libertà
costituzionali del figlio, imponendosi anche ad essi
l’equazione minore - persona; pertanto, il rispetto
della dignità della persona e dello sviluppo della sua
personalità finisce per coincidere con quel criterio
guida definito “interesse del minore” 21, ma occorre
anche considerare che la comprensione di questo
valore, pur significando che l’esercizio della “potestà” deve attuarsi nel concreto in connessione armonica con la personalità del figlio, non è momento
agevole, implicando valutazioni invero ardue.
Già nel codice civile si rinvenivano tracce significative di un tale principio, pur frammisto al distinto
concetto dell’ “interesse della famiglia”: infatti, l’art.
316, co. 2, c.c., nel prevedere che la potestà è esercitata di “comune accordo” da entrambi i genitori, finisce per mettere in correlazione una tale autonomia con tutti i valori costituzionali inalienabili22,
mentre l’art. 333 c.c., pur prefigurando l’ipotesi della
condotta genitoriale pregiudizievole al figlio, presuppone proprio la nozione della salvaguardia dell’interesse del minore, nel senso di tenerlo indenne
da pregiudizi, sia di natura fisica che psichica; ed
una simile deduzione può discendere anche dall’art.
334 c.c., pur risultando le sfere patrimoniali subalterne rispetto a quelle esistenziali, per effetto della
graduazione disegnata dalla carta costituzionale.
Ben più pregnante l’espressione rinvenibile nell’art. 317bis c.c., introdotto con la riforma del diritto
di famiglia del 1975, ove compare l’espressione “Il
giudice, nell’esclusivo interesse del figlio…”; ma la traccia più significativa si rinviene nel combinato disposto ex artt. 143, 144, 147 e 261 c.c., anch’essi novellati nel 1975, dal quale può derivarsi non solo il
contenuto di cura e protezione, materiale e morale,
ma l’esigenza di tutela proprio dell’adeguata formazione della personalità ancora in fieri del figlio.
La difficoltà di individuare il contenuto obiettivo
ed astratto dell’interesse del minore al fine di guidare validamente l’interprete, ha indotto ad una
metodologia casistica, per cui a seconda delle circostanze concrete viene individuato di volta in volta
il profilo prevalente, con incisivo controllo giudiziale
dell’esercizio della responsabilità genitoriale; così,
tra i tanti possibili esempi di un tale operare, in giurisprudenza è emerso il diritto del minore ad essere
se stesso23 e quello alla propria identità genetica24,
ma ha indotto anche a classificazioni in negativo,
escludendo ad esempio il capriccio, l’arbitrio o la
prevaricazione.
Il minore d’altronde vede il proprio interesse nella
molteplicità delle condizioni connesse ontologicamente alla sua crescita, con tutte quelle variabili esistenziali diverse da individuo a individuo. La capacità di rendersi attore delle scelte che concernono
la promozione della propria sfera giuridica non può
che essere il frutto della capacità di discernimento,
cioè di quella sufficiente maturità di giudizio, presupposto che può giustificare l’autonomia della persona: un’autonomia che non solo limita le determinazioni dei genitori assunte o durante il fisiologico
rapporto relazionale o col controllo del giudice durante le eventuali fasi patologiche, ma modulata secondo le singole età e le sviluppate capacità del minore nel suo percorso educativo. Tale conclusione
investe il tema della capacità di agire, un ambito affatto nuovo poiché l’ordinamento ben conosce ipotesi di capacità d’agire speciale correlate all’età, sia
pure in modo disorganico25.
Nel necessario intersecarsi del profilo sostanziale
appena ripercorso con il profilo processuale, ci si
trova nuovamente di fronte ad uno dei principali interrogativi del processualista: chi può fare cosa,
come e con quali effetti? I procedimenti che riguardano relazioni familiari, più di altri pongono questo
quesito, senza sfuggire al principio universalmente
condiviso per cui funzione di qualsivoglia procediluglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 43
STUDI E RICERCHE
mento giurisdizionale è attuare il diritto dei singoli,
che sono ammessi a parteciparvi per far valere tale
propria posizione, al fine di veder conseguito un corretto giudicato.26
Nella specie, l’ascolto del minore prescinde dall’eventuale suo ruolo processuale di parte in giudizio ed è strumento reputato indispensabile, dal lato
del giudice per “comprendere”, e dal lato filiale per
farsi “capire”, senza che assuma la tipica valenza
d’un mezzo di prova27: sul punto netta è la precisazione della pronuncia in commento, a conferma di
un indirizzo oramai consolidato28; d’altro canto risulta agevole il rilievo per cui l’ascolto non è imposto al giudice in funzione del diritto del figlio minore di “difendersi provando” - il che peraltro si sostanzierebbe soltanto nella sua voce personale29 -,
ovvero in funzione dell’accertamento della verità
dei fatti controversi.
4 - Il ruolo processuale dei figli nei giudizi familiari
Il ruolo assunto dai figli nei giudizi che traggono
origine dalla crisi del rapporto familiare impegna da
tempo le aule giudiziarie e di recente si è profilata
importante casistica inerente la legittimazione del
figlio maggiorenne che versa nelle condizioni ex art.
155quinquies c.c., ad intervenire nei giudizi di separazione e divorzio tra i propri genitori, a tutela del
diritto al proprio mantenimento, soluzione che ha
visto l’avallo dell’organo di legittimità30.
Fino ad ora i figli minori, che per espressa previsione non rivestono la qualità di parte nei giudizi di
separazione, divorzio (comprese modificazioni, revisioni ed altre sedi quale quella di cui all’art. 709ter
c.p.c.), ex art. 316 e del “ridisegnato” art. 317bis c.c.31,
veicolano la loro tutela in tali procedimenti attraverso
le domande e le deduzioni dei genitori, unici legittimati ad agire32, ma anche con le domande e le deduzioni dell’interveniente pubblico ministero ed i poteri officiosi del giudice. In altri procedimenti, la legge
attribuisce loro espressamente o per effetto di attività ermeneutica costituzionalmente orientata, la
qualità di parte, come avviene nei giudizi aventi ad
oggetto lo status filiationis, l’adozione e le controversie
de potestate di cui agli artt. 330 ss. c.c.; il discrimine è
stato lucidamente disegnato dalla Corte delle leggi33.
Questo articolato sistema lasciava aperto il problema di individuare con quali modi prendere in
adeguata considerazione la posizione soggettiva del
figlio minore anche nei procedimenti ove non assume la qualità di parte. Infatti, il figlio è portatore
di interessi soggettivi propri che non coincidono necessariamente con quelli fatti valere dai genitori34,
sicché risulta insufficiente la tutela dei suoi diritti
ed interessi in un contraddittorio dal quale egli è assente, nonostante i poteri officiosi esercitati in tali
sedi dal giudice, che ben può, nell’interesse del minore, prescindere non solo dagli alligata delle parti,
ma anche dai loro petita35.
44 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
È per la determinante influenza delle ricordate
fonti di diritto convenzionale, tra le quali il Regolamento CE n° 2001/2003 che con il suo art. 23 impedisce il riconoscimento delle decisioni giurisdizionali di uno Stato membro, se sono state rese senza
che il minore abbia avuto la possibilità di essere
ascoltato, che è emerso quel vero e proprio diritto
della personalità del figlio a non rimanere estraneo
alla vicenda relazionale in cui si trova coinvolto nel
quotidiano e quindi al procedimento di formazione
dei provvedimenti necessariamente assunti anche
nei suoi riguardi.
Così, adeguandosi a tali indicazioni, la soluzione
data dal nostro legislatore con l’art. 155sexies c.c., ad
individuazione di uno strumento di presenza, anche nel procedimento, consona al diritto della personalità sotteso, è stata quella dell’audizione personale, imponendo tale momento essenziale del processo che lo coinvolge, a pena di nullità36, anche nei
giudizi in cui non è prevista la sua partecipazione
in qualità di parte; senza riconoscere con ciò poteri
processuali formali da esercitarsi dal minore in posizione di parità rispetto alle parti “adulte”; in tale
forma si è individuato non soltanto un atto del processo, ma un “metodo processuale” ineludibile, fatto
evidente dall’onere di puntuale ed adeguata motivazione anche sui risultati dell’audizione.
Ciò riassunto, con il passaggio dall’art. 155sexies
all’art. 315bis c.c., coniato dalla recente novella, appare subito evidente come la nuova disposizione
vada oltre, in quanto non ci si trova più soltanto a
fronte di un momento formale del processo imposto
al giudice (“dispone”), ma ad un vero e proprio diritto
soggettivo ad essere ascoltato, di diretta e personale
pertinenza del figlio.
In questo modo sembra finalmente giunto a conclusione il lungo cammino che è stato necessario ripercorrere; deve così registrarsi che anche il nostro
ordinamento riconosce al minore questo diritto di
natura processuale, quale esplicazione della sua
propria posizione di diritto di persona umana in età
evolutiva, di rango inviolabile.
Questo diritto, ridisegnato dal nuovo “statuto della
posizione filiale”, apre perciò ben diversi scenari e
sembra segnare in qualche modo anche il superamento della dicotomia capacità giuridica/capacità
di agire, confermando una diversa capacità che ne
condiziona la titolarità, quella di discernimento.
Un tale approdo d’altronde già risultava nitido
nelle sedi in cui il minore è parte in giudizio, poiché
ivi si agitano in via principale i propri diritti o lo status, ovvero in quelle in cui gli deve essere nominato
un curatore speciale37, al profilarsi d’un conflitto di
interessi38 con i propri genitori, ove quell’esigenza
di essenziale protezione è ricondotta al più ampio
tema della tutela della persona, costituzionalmente
garantita; e trovava peraltro conforto, nell’ambito
del quadro normativo enumerato, nella peculiare
STUDI E RICERCHE
valenza dell’art. 24, co. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ed in norme quali
l’art. 709ter, co. 2, n° 2, c.p.c., nel momento in cui
consente di individuare a carico del genitore il risarcimento del danno a ristoro del figlio. D’altro
canto, nei giudizi ove il figlio minore non assume le
vesti della parte, il percorso della giurisprudenza
della Suprema Corte39, conforme a qualche arresto
della Corte delle leggi40, aveva finito per qualificarlo
addirittura come una “parte in senso sostanziale”.
5 - Il punto di dissenso dalla Suprema Corte:
l’ipotesi della parte in senso sostanziale e della
violazione del principio del contraddittorio
Tornando al caso annotato, completandone la disamina, i motivi del dissenso s’incentrano in primo
luogo sul mancato riconoscimento esplicito del diritto all’ascolto come diritto inviolabile della persona in età minore, costituzionalmente protetto, che
preesiste al processo e deve ricevere tutela anche in
tale frangente ove è comunque coinvolto; poi, da un
lato, relativamente al riferimento ad un ruolo di
“parte in senso sostanziale” attribuita al figlio in età
minore avente diritto all’ascolto e, dall’altro lato, al
collegamento della nullità che colpisce il procedimento ed il provvedimento reso a sua conclusione,
a causa dalla violazione del medesimo diritto all’ascolto, anche per violazione del “principio del contraddittorio”.
Tali ultime argomentazioni sollevano più d’una
perplessità.
Volendo coglierne il dato saliente, la pronuncia in
commento è preziosa occasione per rivisitarne le fondamenta, anche alla luce dell’art. 315bis, co. 3, c.c.
Attraverso la definizione della capacità di stare in
giudizio da sé, compiendo validamente gli atti processuali (ovvero detta capacità processuale), l’art. 75,
co. 1, c.p.c., enuclea il concetto di parte in giudizio,
cioè di quel soggetto che propone la domanda in
nome proprio - od eccezionalmente in nome altrui
- ed esercita i poteri processuali connessi, o nei cui
confronti è proposta; pur noto e risalente il rilievo
delle concrete difficoltà interpretative di questa lacunosa ma basilare disposizione, pacifico il criterio
secondo cui è parte in giudizio il soggetto che può
porre in essere una tale attività. Con diverse sfumature, la dottrina41 individua anche il generico concetto di “parte in senso sostanziale”, intendendo per
tale il soggetto che, pur non partecipe della dinamica degli atti processuali in quanto non rientrante
nel novero dei soggetti che “fanno” il processo42, risulta tra i destinatari del provvedimento che lo conclude, a cui è riservata una tutela soltanto indiretta
o mediata, per realizzare comunque una posizione
di diritto, nella specie a tutela della persona, quindi
in modo del tutto insoddisfacente.
È interessante notare che questo riferimento al
minore come “parte in senso sostanziale” era frutto di
quell’esigenza, sopra evidenziata, di fare del minore
un punto di riferimento dell’attività giurisdizionale
che comunque incideva i suoi fondamentali interessi.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 45
STUDI E RICERCHE
Un tale sforzo risulta però illusorio, nel momento
in cui la nozione di parte in senso sostanziale di un
processo non riceve positivo avallo e non si enuclea
con sicuro fondamento; certo, permanendo l’esercizio della responsabilità genitoriale e comunque il
vincolo di filiazione, è corretto qualificare il figlio
come parte di un tale rapporto di diritto sostanziale,
ma ai nostri fini è risolutivo il rilievo per cui, anche
a voler qualificare il figlio come una “quasi parte”,
ulteriore rispetto alle “parti processuali”43 del giudizio, è pur sempre pacifico che è un soggetto di diritto obiettivamente privato dei poteri e dei diritti
procedurali44, prefigurati per quel determinato incedere degli atti che conducono alla tutela delle posizioni soggettive.
D’altronde, il tentativo di avvicinare l’audizione al
ruolo della parte in giudizio, pur così mutilata, è anche illogico, dato che l’ascolto del figlio rientra ampiamente nel novero di quanto il genitore è chiamato ineludibilmente ad apprestare nell’assolvimento quotidiano di quella cura e crescita del figlio,
cosicché non può che ricadere anche sull’organo statuale chiamato a proteggerne l’interesse, all’insorgere della crisi del rapporto familiare o parentale in
cui è coinvolto, senza fargli assumere le vesti della
parte in lite. Se è indubbio che l’interesse del minore
prende forma e sostanza anche nel corso del procedimento, ciò non di meno, il salto di qualità che deriva dal suo inserimento tra i soggetti cui riservare
uno spazio rispondente alla logica della parte in giudizio od a quella della garanzia del rispetto dell’integrità del contraddittorio, non è neppure auspicabile, se solo si considera che, da un lato, l’ascolto è
imprescindibile e quindi non è subordinato all’iniziativa delle parti45, e dall’altro lato, appena si affacciano all’orizzonte “conflitti d’interesse” tra il minore
ed i propri genitori, il giudice deve procedere, anche
d’ufficio e secondo i principi generali, alla nomina di
un curatore speciale46; inoltre, la legittimazione della
parte in giudizio, non insorge in correlazione con la
capacità di discernimento del soggetto.
Questa sede non consente di approfondire oltre
tali problematiche di teoria generale del processo;
comunque, più che calare l’attenzione sulle perplessità ed i confini incerti che un tale sforzo di “catalogazione” fa emergere, appare preferibile porre in
risalto l’elemento dirimente ai fini della nostra analisi: tale appare la circostanza secondo cui l’ordinamento positivo impone l’ascolto del minore coinvolto nei giudizi promossi in esito a crisi familiari o
conflitti genitoriali, indistintamente, in tutte le questioni ed in tutti i procedimenti giurisdizionali che
in qualche modo attingono il suo interesse; e cioè,
l’ascolto è atto ineludibile sia nei procedimenti in
cui il medesimo figlio è parte “processuale” (status,
adozione, de potestate, etc.), come in quelli in cui pacificamente non lo è (separazione, divorzio, 316 e
317bis c.c., etc.).
46 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
Con il proprio ascolto, il minore non coglie, neppure parzialmente, le facoltà spettanti alla parte che
sta in giudizio (non formula domande, eccezioni ed
argomentazioni difensive di parte, né si difende provandole), ma in tal modo è personalmente presente,
senza eccezioni, mentre, al contrario, pur essendo
parte, v’è ugualmente questa ulteriore garanzia per
il corretto apprezzamento della sua volontà, manifestata direttamente al giudice.
In estrema sintesi, un peculiare ruolo processuale
che il legislatore ha calibrato per il soggetto di diritto minore, contemperando le molteplici e contrapposte esigenze in vista del conseguimento di
una corretta esplicazione del dovere decisorio demandato al giudice nel singolo caso concreto; esplicazione di funzione statuale cui è affidata la tutela
dell’interesse del minore47, non a caso preminente.
L’originalità di questo percorso non si ferma alla
descritta qualificazione di parte in senso sostanziale
in quanto, secondo la stessa giurisprudenza, l’audizione si risolve anche in uno strumento per attuare
il principio del contraddittorio; in tale ottica, il contraddittorio non si garantisce soltanto, come avviene di regola, attraverso il riconoscimento di tutti
i poteri e le facoltà processuali della parte costituita
in giudizio, magari secondo lo schema paradigmatico della cognizione ordinaria: la norma consente,
sia pure con riguardo al figlio minore, di graduare la
partecipazione alle dinamiche procedimentali anche con lo strumento dell’audizione, che diventa un
mezzo per attuare anche nei confronti di chi non assume la qualità di parte, i canoni del giusto processo48.
Pur fondato su argomenti astrattamente pregevoli, anche questo percorso si profila incongruo; resta infatti dirimente il rilievo per cui il diritto inviolabile della persona in età minore di essere ascoltato personalmente in tutti i procedimenti e le questioni che lo riguardano, non è previsione diretta a
costituire una garanzia del suo diritto al contraddittorio nei medesimi procedimenti: netta la distinzione che corre tra l’ipotesi in cui il minore assume
il ruolo processuale della parte in contraddittorio
(che cioè si fronteggia in reciproca contraddizione
antagonista con altra/e parte/i in esplicazione del
potere d’azione) e le altre ipotesi in cui è soltanto
ascoltato, esprime il proprio parere, il proprio consenso o la propria volontà.
Evocare il principio del contraddittorio49 per l’atto
processuale dell’ascolto risulta proponibile solo in
senso lato ed indiretto; il riferimento è talmente generico che non si individuano i tratti tipici e neppure la misura od il confine di un’equivalenza tra
l’ascolto ed il canone di cui agli artt. 111, co. 2, Cost
e 101 c.p.c.; coerentemente, l’ipotizzata violazione
del canone in parola, che si concreta allora nell’omissione dell’ascolto, non ha le stesse conseguenze che comporta nei confronti di parti del giu-
STUDI E RICERCHE
dizio; già per il fatto che, da un lato, ci troviamo di
fronte ad un singolo atto processuale piuttosto che
ad una giusta presenza nell’arco di celebrazione del
processo e, dall’altro lato, l’omissione dell’ascolto
può essere “giustificata”, con adeguata motivazione
del giudice, ci pone lontani da tale basilare principio del nostro processo civile.
6 - La nullità della sentenza per omissione
dell’ascolto del figlio minore
La menzionata nullità, già individuata dalla Suprema Corte50, secondo cui la mancata audizione
del figlio minore capace di discernimento, ex art.
155sexies c.c., viola anche il principio del contraddittorio siccome parte in senso sostanziale, non ha
neppure motivo di essere così connotata, atteso che
il procedimento ed il provvedimento che lo conclude è comunque inficiato di nullità per effetto
stesso della violazione dell’attività processuale prefigurata dalla legge: l’atto dell’ascolto.
L’incongruità di tale enucleazione emerge dalle
salde considerazioni secondo cui la viva voce personale del figlio minore percepita direttamente dal
giudice nel processo, non si impone come un surrogato del mancato riconoscimento della qualità di
parte, in quanto l’espressione di volontà garantita
attraverso l’ascolto è atto del processo peculiare in
tutti i procedimenti, non cogliendo alcuna delle prerogative della parte costituita in giudizio; e che difetti obiettivamente un’ “equipollenza” (in ambito
processuale del resto l’analogia non è positivamente
invocabile) tra l’assunzione della qualità di parte e
l’ascolto in parola, è fatto evidente dall’individuazione dell’esigenza centrale sottesa: il bene protetto
si individua nella ricerca ed il riguardo personale per
il sentire del figlio a tutela del suo interesse preminente, non per fargli assumere le vesti della parte
antagonista che in contraddittorio coltiva una lite,
ed è su questo che deve cadere l’apprezzamento per
l’equilibrio trovato dal legislatore con tale strumento.
In verità, con la pronuncia in commento, la qualificazione della nullità non sembra correlata anche
alla violazione del canone che garantisce l’integrità
del contraddittorio, in quanto vi si legge testualmente
che: “la nullità della sentenza per la violazione dell’obbligo
di audizione può essere fatta valere nei limiti e secondo le
regole fissate dall’art. 161 c.p.c.”51; ne deriva che la sentenza resa, comunque non incappa nella somma
sanzione secondo il noto brocardo…inutiliter data.
Se la Corte ha affrontato ex professo la questione
evidenziata (la fugacità del cenno motivo induce
qualche perplessità), è plausibile che la questione,
ove per l’appunto la si consideri scissa dal canone di
garanzia dell’integrità del contraddittorio52, sembra
rientrata.
Tirando le somme, ascrivere genericamente l’atto
dell’ “ascolto” al capitolo della “partecipazione atte-
nuata” al giudizio come quasi parte (in senso sostanziale), ovvero a quello dell’ “arricchimento del
contraddittorio”, nel mentre dilata i confini strutturali delle disposizioni generali che nel nostro processo civile regolano le parti e l’esercizio dell’azione,
non apporta utile contributo al fine che qui ci occupa: la ragione essenziale è che ci troviamo di
fronte ad un singolo atto del processo, peculiare ed
atipico, che conduce il minore sempre e soltanto ad
esporre di persona le proprie volontà, la cui illegittima omissione è già ben presidiata da specifica
sanzione di nullità.
7 - La violazione dell’autonomo e peculiare diritto
all’ascolto e la tutela del figlio
Alla luce del nuovo disposto ex art. 315bis, co. 3,
c.c.53, insorgono però ben altre riflessioni.
Abbiamo visto che il diritto all’ascolto appartiene
al figlio come suo proprio diritto inalienabile, siccome esplicazione della generale posizione di diritto
della persona in età minore.
Quid iuris allora nell’ipotesi in cui questo diritto
del figlio risulti “calpestato” ? Illegittimamente s’intende (ove non ricorra cioè una delle ipotesi eccezionali cui si è fatto cenno, che ne giustificano
l’omissione) ed in senso lato, il che significa anche
non prontamente riconosciuto.
Senza dimenticare la funzione dell’ascolto, è verosimile rispondere che il minore, in forza della titolarità di tale peculiare diritto soggettivo, possa per
ciò stesso promuovere ogni relativa azione diretta
al suo positivo riconoscimento; una tale logica risponde esattamente al canone generale sull’esercizio dei diritti: l’affermazione della titolarità di un diritto implica la titolarità dell’azione volta ad ottenerne il rispetto. Se questa premessa è corretta, non
è azzardato dedurre la legittimazione del figlio minore a partecipare al processo in condizioni di parità, e ritenere che possa intervenire54 nelle sedi ove
non è già parte in giudizio; d’altronde, non risulta
sufficiente affidare la sanzione della ridetta nullità
all’iniziativa, anche in sede di esperimento dei gravami, delle sole parti “adulte”.
Tutte da studiare quindi le evenienze, delle quali
qui si può soltanto tratteggiare il disagevole possibile scenario: in ordine alle forme dell’intervento del
minore, in ordine alla possibilità di formulare durante il primo grado il rimedio dell’actio nullitatis, di
proporre appello contro la sentenza che abbia violato quel diritto od addirittura opposizione di terzo.
Assumendo così la qualità di parte del giudizio in
contraddittorio, le stesse problematiche processuali
sopra analizzate ne risulterebbero anch’esse finalmente risolte.
8 - Conclusioni
L’ascolto del figlio minore è atto processuale peculiare corrispondente alla sua generale posizione
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 47
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di diritto; tentare di classificarlo nelle tradizionali
categorie processuali della parte che agisce in giudizio, ovvero dell’integrità del contraddittorio, ovvero del diritto di difesa e quindi del diritto di difendersi provando, non apporta reale utilità, appartenendo lo studio di tali categorie alla logica contenziosa adultocentrica.
L’introduzione di un tale obbligo, imprescindibile
per il giudice, risponde alla diversa logica di reale
tutela dei diritti inalienabili della persona in età evolutiva, imponendo una visione che non ruota soltanto intorno al conflitto individuale tra i genitori o
tra essi e la parte pubblica.
Pur assicurando l’ascolto la presenza personale
del figlio nel giudizio che regola la crisi dei rapporti
familiari in cui è inevitabilmente coinvolto, non appare proponibile il riferimento al ruolo di parte in
senso sostanziale, né appare appropriato il richiamo
del canone che nel processo civile garantisce l’integrità del contraddittorio.
Sufficiente appare la sanzione di nullità dell’atto
e della decisione resa dal giudice a conclusione di
un procedimento che violi il diritto all’ascolto, come
pure legittima risulta l’assunzione della qualità di
parte che agisce in giudizio, anche nelle sedi ove un
tale ruolo è in principio escluso, allorché il figlio si
veda violato tale diritto personale, con il dispiegamento di intervento in lite ed il ricorso ai mezzi di
impugnazione all’uopo prefigurati dall’ordinamento.
Note
1
LONGOBARDO, La convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, in Dir. Fam. Pers., 1991, 386; FOTTRELL, Revisiting children’s
rights: ten years of the un convention on the rights of the child, Bruxelles, 2000.
2
MAGNO, Il minore come soggetto processuale, Milano, 2001; LIUZZI, La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli: prime
osservazioni; in Fam. Dir., 2003, 287; LONG, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, Milano, 2006.
3
La Carta, pubblicata il 14/12/2007 (G.U.U.E. serie C/303), è entrata in vigore, unitamente al Trattato di Lisbona, il 1°/12/2009.
4
Fra i contributi più recenti sul tema dell’ascolto del minore, vedi TOMMASEO, Per una giustizia “a misura del minore”: la cassazione ancora sull’ascolto del minore, in Fam. Dir., 2012, 39; CASABURI, L’ascolto del minore tra criticità processuali ed effettività della
tutela, in Corr. Merito, 2012, 32; PARENTE, L’ascolto del minore: i principi, le assiologie e le fonti, in Rass. Dir. Civ., 2012, 459; VULLO, Procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone, in Comm. del c.p.c. a cura di CHIAROLONI, Bologna, 2011, I, 152; DI MARZIO,
L’audizione del minore nei procedimenti civili, in Dir. Fam. Pers., 2011, 366; CAMPESE, L’ascolto del minore nei giudizi di separazione e divorzio, tra interesse del minore e principi del giusto processo, in Fam. Dir., 2011, 958; CARLEO, Il diritto di ascolto del minore nella crisi
familiare, in Fam. Pers. Succ., 2011, 776; RUO, Tutela dei figli e procedimenti relativi alla crisi della coppia genitoriale nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Dir. Fam. Pers., 2011, 1004; QUERZOLA, Il processo minorile in dimensione europea, Bologna, 2010, sub. cap. 3; DANOVI, L’audizione del minore nei processi di separazione e divorzio tra obbligatorietà e prudente apprezzamento giudiziale, in Riv. Dir. Proc., 2010, 1424; GRAZIOSI, Ebbene sì, il minore ha diritto di essere ascoltato nel processo, in Fam. Dir., 2010,
365; FINOCCHIARO M., Un adempimento ritenuto inderogabile da assolvere con le modalità più convenienti, in Guida Dir., 2009, 48, 44;
CEA, L’audizione del minore nei processi di separazione e divorzio, in Giust. Proc. Civ., 2008, 454; DELL’UTRI, Il minore tra “democrazia
familiare” e capacità di agire, in Giur. It., 2008, 6; CARRATTA, in Le recenti riforme del processo civile, a cura di CHIARLONI, Bologna, 2007,
1469; MAGNO, L’ascolto del minore: il precetto normativo, in Dir. Fam. Pers., 2006, 1273. Giova rimarcare come l’istituto dell’audizione è risultato probabilmente il più disapplicato della novella sull’affidamento condiviso, per le forti resistenze delle Corti,
tendenza che prevale anche nella posizione processuale assunta dai contendenti coniugi/genitori, che di norma non gradiscono, se non temono, vedere i propri figli condotti in Tribunale; evidentemente il sentire massivo delle nostre tradizioni
familiari non è pienamente in linea con un tale strumento o la norma ha fatto un salto in avanti di taglio pedagogico rivolto al futuro, e quel “dispone” è fin troppo significativo; l’esperienza curiale peraltro segnala importante corollario: i genitori posti di fronte ai risultati dell’audizione del proprio figlio, in genere, assumono un nuovo atteggiamento processuale
ispirato a miglior consapevolezza delle responsabilità, con attenuazione dell’antagonismo.
5
Insegnano le scienze mediche e psicologiche, coerentemente, che la capacità di discernimento può ricorrere già intorno
all’età di anni 6/8 (interessanti riflessioni anche in punto, in LONG, Ascolto dei figli contesi e individuazione della giurisdizione nel
caso di trasferimento all’estero dei figli da parte del genitore affidatario, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2010, I, 313), ma non v’è alcuna
certezza, invero neppure dopo i dodici anni; ciò non di meno, il criterio dell’età raggiunta è fondamentale ai fini dell’individuazione di un criterio legale di giudizio, espressamente prefigurato dal legislatore con valenza presuntiva generale siccome corrispondente ad una capacità di discernimento generalmente raggiunta da tempo; all’organo giudicante in realtà
si impone una preliminare e congrua valutazione soggettiva come pure un’adeguata motivazione; incongruo pertanto il precedente di Cass. 16 giugno 2011 n. 13241, in banca dati Leggi d’Italia che, seppur relativo al procedimento di sottrazione internazionale dei minori, reputa sufficiente, per un minore di anni otto, il mero ricorso al notorio.
6
Conformi, Cass. 17 maggio 2012 n. 7773, in banca dati Leggi d’Italia; Cass. 13 aprile 2012 n. 5884, in Fam. Dir., 2012, 653, con
nota di CARBONE; Cass. 11 agosto 2011 n. 17201, in banca dati Platinum Utet; Cass. 19 maggio 2010 n. 12293, in Foro It., 2011, I,
2766; Cass., Sez. Un., 21 ottobre 2009 n. 22238, in Fam. Dir., 2010, 364, con nota di GRAZIOSI, cit.; Cass. 16 aprile 2007 n. 9094,
ivi, 2007, 883.
7
Cfr. ancora i precedenti menzionati in nota precedente; giova aggiungere come l’ipotesi del grave danno in capo al minore, siccome prodotto direttamente dall’atto processuale in questione, deve qualificarsi inevitabile anche con l’adozione
di alternative modalità di ascolto capaci di elidere il pregiudizio.
8
In tutti tali sensi i precedenti di nota 6.
9
Cfr., oltre i precedenti in nota 6, Cass. 27 luglio 2007 n. 16753, in Dir. Fam. Pers., 2008, 60.
10
L’ipotesi non implica che, riscontrata la nullità, il giudice d’appello rimetta la causa al primo giudice ex art. 354 c.p.c.;
conformi i recenti insegnamenti di Cass. 27 gennaio 2012 n. 1251, in Fam. Dir., 2012, 888; e Cass. 14 giugno 2010 n. 14216, in
Dir. Fam. Pers., 2011, 119.
11
Protocolli apprezzati dalla pronuncia in commento pur non costituendo fonte normativa; vedi sul punto la tesi critica
di CASABURI, in Foro It., 2013, I, 1839.
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STUDI E RICERCHE
12
Il riferimento, piuttosto che profilare una indistinta e generale competenza funzionale del magistrato più alto in grado
del circondario giudiziario, sembra riferirsi ai giudizi appartenenti alla competenza di giudice collegiale, con la possibilità,
per il presidente, di delegare un componente dello stesso collegio, secondo incedere processuale ben noto anche in ambito
camerale; la contraria opzione ermeneutica finirebbe per incasellare l’ascolto in parola in una cornice oltremodo rigida; ciò
non di meno, attesa questa netta e composita indicazione al legislatore delegato, non si profila più scontata l’ammissibilità del ricorso all’ausilio di consulenti tecnici ex art. 61 c.p.c., al solo fine di dar corso all’ascolto del minore, che la pronuncia
in commento definisce “ascolto delegato”; mentre a diversa conclusione può giungersi quanto all’ascolto assunto direttamente dal giudice con l’ausilio di un esperto, nominato ai sensi dell’art. 68 c.p.c.; in tal senso il precedente in commento
appare utilmente invocabile anche per le fattispecie ricadenti sotto il nuovo dato normativo.
13
Ma giova sottolineare come il dato normativo rilevante nella fattispecie era quello ante novella sulla filiazione, non
senza osservare che l’esigenza di un tale ascolto “indiretto” meglio si giustifica per i bambini più piccoli.
14
La configurazione di un atto di “delega”, una volta ammessa l’opzione dell’ “ascolto delegato”, risulta appropriata atteso che non ci si trova a fronte della tipica esigenza probatoria di ricorrere all’ausilio di nozioni tecniche secondo lo schema
della consulenza d’ufficio; salvo che non si reputi di considerare tale l’apporto di ausiliare tecnico che, acquisite le espressioni di volontà del minore, proceda ad una loro valutazione; ma un tale onere è riservato al giudice, il quale semmai potrà ricorrere ad esperto per meglio valutare la ricorrenza od il grado della capacità di discernimento o diversi ambiti tecnici, quale ad esempio quello frequente volto alla esatta valutazione dell’effettiva capacità genitoriale; emblematica in
punto la recente Cass. 20 marzo 2013 n. 7041 e la consequenziale App. Brescia 17 maggio 2013, entrambe in Fam. Dir., 2013,
745, con note di TOMMASEO e CASONATO; vicenda che ha posto in evidenza, con clamore mediatico, pur in relazione alla c.d.
“sindrome da alienazione parentale”, quanto possa risultare insidioso il ricorso alla valutazione tecnico-scientifica delle difficoltà relazionali. Comunque, la Corte intuisce come non risulti confacente il paragone con i “quesiti” rivolti all’ausiliare
in sede di c.t.u., secondo l’art. 191 c.p.c.
15
Cass. 27 luglio 2007 n. 16753, cit., fa salva l’ipotesi eccezionale in cui tali informazioni si risolvano, di per sé, in nocumento al suo benessere.
16
Auspicabile che nel disporre la comparizione del figlio minore, il giudice vieti alle parti di mostrargli atti del procedimento, onerandone anche i difensori; ed altresì, ove risulti impossibile che il figlio venga accompagnato personalmente da
entrambi i genitori, predisponga l’incarico ad altro soggetto familiare “rassicurante” o, in ultima ipotesi, alla qualificata attività dei Servizi Sociali di competenza; cfr. invece, Cass. 4 aprile 2007 n. 8481, in banca dati Il Foro Italiano.
17
Pur avendo questi astrattamente diritto a presenziare personalmente, si è reputato legittimo che ne vengano allontanati, interferendo la stessa personale presenza, oggettivamente, con le finalità ed il buon esito dell’ascolto; evidente infatti
la potenziale ricorrenza di una condizione di soggezione del figlio od al contrario, di protagonismo; condivisibile sul punto,
Cass. 26 marzo 2010 n. 7282, in Fam. Dir., 2011, 268, con nota di QUERZOLA.
18
L’esclusione dei difensori delle parti (e quindi compreso il difensore del stesso minore se parte in giudizio), ove il giudice non disponga di appositi locali che permettano la partecipazione sia visiva (attraverso specchi unidirezionali) che audio e la possibilità di rivolgere istanze al giudice (via audio riservata), nel corso dell’ascolto, non sembra trovi giustificazione
nell’indicata discrezionalità; invero, in assenza di una previsione derogatoria, un tale potere finirebbe per attingere pesantemente le garanzie costituzionali della parte costituita; il diritto alla difesa tecnica e la sua funzione non possono certo confondersi con il diritto della parte a presenziare ad ogni udienza; peraltro, è bene sottolineare come sul difensore gravano
anche severi doveri deontologici; al più, si potrebbero prefigurare, in virtù della peculiarità e della funzione dell’atto processuale dell’ascolto, modalità di intervento del difensore orientate alla massima accortezza: esemplificando, inibire al difensore di interloquire direttamente costituisce prudenza compatibile con la garanzia di difesa; anche una documentazione appagante dell’ascolto (come infra) può assumere rilievo sul punto. Merita un cenno anche la preventiva sollecitazione
del difensore, o la fissazione di un “programma” concordato tra le parti ed il giudice, in ordine ai temi che devono caratterizzare l’ascolto; non potendosi preventivare tutte le esigenze difensive che possono emergere mentre si acquisiscono le
effettive espressioni di volontà del figlio, anche tale soluzione preventiva risulta ictu oculi insufficiente. D’altro canto, risulterebbe singolare che l’ascolto del figlio minore, quale precipua forma di tutela dell’interesse di cui è portatore, debba risolversi in pregiudizio del diritto al contraddittorio ed alla difesa delle parti; erronea appare perciò la conclusione di Cass.
26 gennaio 2011 n. 1838, in banca dati Platinum Utet, come, in parte qua, di quella cit. in nota precedente.
19
La soluzione principe è quella di documentare l’ascolto del figlio attraverso una registrazione audio/video; dovendo invece ripiegare sui mezzi ordinari, indispensabile che vengano riportate nel verbale attestante l’atto, le espressioni testuali
del linguaggio piuttosto che una loro sintesi concettuale, ed ogni altro elemento emerso che consenta una globale e peculiare valutazione della sua personalità; quindi, tutti gli altri segni non verbali, quali l’abbigliamento, la cura della persona,
le eventuali posture corporee particolari, gli atteggiamenti in genere, ed in particolare le incertezze, le pause, i silenzi serbati, le espressioni di tristezza, avvilimento od addirittura di pianto, o di leggerezza ed allegria, e simili. Una questione evidenziatasi nella casistica è quella del valore attribuibile alle dichiarazioni del figlio registrate su supporto informatico, prodotto da uno dei genitori, delle quali ovviamente è stato escluso qualsivoglia valore “sostitutivo” dell’ascolto, salva l’eventuale utilizzabilità come prova documentale secondo le ordinarie condizioni; cfr. il rigoroso precedente di Trib. Min. Milano
16/1/2011, in banca dati Platinum Utet.
20
STANZIONE, Minori (condizione giuridica dei), in Enc. Dir. (annali IV), Milano, 2011, 725; RUSCELLO, Potestà dei genitori e rapporti
con i figli, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da FERRANDO, Bologna-Roma, 2007, 3; DOGLIOTTI, La potestà dei genitori e
l’autonomia del minore, in Trattato Dir. Civ. Comm. CICU-MESSINEO-MENGONI, continuato da SCHLESINGER, Milano, 2007, 98 ss; si rinvia inoltre ai richiami più ampi che seguono.
21
PALAZZO, La Filiazione, in Trattato Dir. Civ. Comm. CICU-MESSINEO-MENGONI continuato da SCHLESINGER, Milano, 2013, 532 ss.;
VERCELLONE, in Trattato di diritto di famiglia diretto da ZATTI, Milano, 2012, II, 1231 ss.; MASTRANGELO, La posizione giuridica del minore nelle dinamiche familiari, in Resp. Civ. Prev., 2009, 1521; DOGLIOTTI, Affidamento condiviso e diritto dei minori, Torino, 2008, 25;
BIANCA, Diritto Civile, 2. La famiglia. Le successioni, Milano 2005, 319; FERRANDO, Il matrimonio, in Trattato Dir. Civ. Comm., CICU-MESSINEO-MENGONI, Milano, 2002, 64; PERLINGIERI-PISACANE, Commento alla Costituzione italiana, Napoli, 2001, 191; SESTA, Genitori e figli
tra potestà e responsabilità, in Riv. Dir. Priv., 2000, 219; GIORGIANNI, in Comm. al diritto italiano della famiglia, a cura di CIAN-OPPOTRABUCCHI, IV, Padova, 1992, sub artt. 315-318; RESCIGNO, L’individuo e la comunità familiare, in Persona e Comunità. Saggi di diritto
privato, Padova, 1988, II, 231 ss.; TRABUCCHI, Il “vero interesse” del minore e i diritti di chi ha l’obbligo di educare, in Riv. Dir. Civ., 1988,
I, 717.
22
I rapporti tra famiglia ed istituzioni risultano d’altronde profondamente mutati: il venire in primo piano dei diritti delle
persone che la compongono ha prodotto una sorta di “privatizzazione”, con conseguente “scolorire” degli interessi pubblici
in campo familiare, in quanto lo Stato deve rispettare la vita privata e familiare, ed intervenire soltanto (per quanto qui ri-
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 49
STUDI E RICERCHE
leva) ove risulti pregiudicato il futuro adulto del minore; cfr. in tema, RUSCELLO, Accordi sulla crisi della famiglia e autonomia coniugale, Padova, 2006; BALESTRA, La famiglia di fatto tra autonomia ed etero regolamentazione, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2007, II,
196. Sui limiti dell’autonomia negoziale mi sia consentito rinviare a SAVI, Quali possibili obbligazioni contrattuale tra ex amanti
divenuti genitori ?, in Dir. Fam. Pers., 2012, 236.
23
V., tra altre, Cass. 5 giugno 2013 n. 14232, in Fam. Dir., 2013, 831; Cass. 5 febbraio 2008 n. 2751, in Guida Dir., 2008, 9, 36,
con nota di PADALINO; Cass. 26 maggio 2006 n. 12641, in Dir. Fam. Pers., 2006, 1649, con nota di GAZZONI.
24
Cfr., Cass. 11 gennaio 2006 n. 395, in Foro It., 2006, 2356; e Cass. 16 novembre 2005 n. 23074, in Giust. Civ., 2006, 1212.
25
Un sommario elenco porta a menzionare, quanto al codice di rito, il combinato disposto di cui agli artt. 75 e 79; quanto
al codice civile esistono numerose disposizioni, tra le quali spiccano, l’art. 2, co. 2 (cui inerisce anche il d. l.vo n° 262/2000),
nonché gli artt. 84, 90, 165 e 390; 394 e 395; 244, 250, 252, 264, 273 e 284; l’anteriore art. 315; gli artt. 145, 316 e 317bis, al cui
procedimento è stata peraltro estesa anche l’applicazione dell’art. 155sexies; gli artt. 320, 321 e 324; 371, n° 1; 397 e 425; peculiare valenza assume infine l’art. 1442 in punto al “destino” degli atti negoziali compiuti da persona incapace, che non
sono nulli di diritto ma soltanto annullabili e nel breve termine di prescrizione ivi fissato. Nel c. nav. l’art. 324. Nel c. pen.
spiccano gli artt. 120 e 153. Nelle leggi speciali, emerge l’art. 108 l. dir. autore; l’art. 4 st. lav.; gli artt. 7, 25, 44 e 45 l. adozione;
l’art. 12 l. n° 194 del 1978 sull’interruzione di gravidanza della minorenne; l’art. 4 Dpr n° 156 del 999 sulla libertà d’associazione studentesca; l’art. 1 l. n° 281 del 1986 sulla facoltà dello studente di scuola media superiore di optare l’insegnamento
religioso; l’art. 120 del Dpr n° 309 del 1990 sull’autonomo accesso del minore alle strutture terapeutiche per la cura delle tossicodipendenze; l’art. 4 del d. l.vo n° 211 del 2003 sul trattamento sperimentale di medicinali; la l. n° 38 del 2010 sull’accesso
del minore alle cure palliative ed alle terapie del dolore. Da sottolineare come la giurisprudenza ha riconosciuto al minore
il diritto di stare in giudizio personalmente (cioè senza il filtro dei propri genitori o di altro rappresentante legale), allorché
la sua libertà personale risultava “compressa” dalla decisione genitoriale di sottoporlo a cure mediche in sede psichiatrica,
contro il suo volere; cfr. Trib. Min. Milano 15/2/2010, in Fam. Dir., 2011, 401, con nota di RUSCELLO.
26
Secondo le note garanzie costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 24 e 111 Cost., in quanto un processo è giusto nella misura
in cui sia strutturato in modo da indirizzarsi, nel rispetto delle garanzie, a produrre risultati accurati, ossia provvedimenti
cognitivi corretti, sia quanto alla soluzione delle questioni di fatto che a quelle di diritto; CARRATTA, Prova e convincimento del
giudice nel processo civile, in Riv. Dir. Proc., 2003, 26; COMOGLIO, Etica e tecnica del “giusto processo”, Torino, 2004, 276; BRACCIALINI,
Spunti tardivi sul giusto processo, in Questione Giustizia, 2005, 1208; TARUFFO, Poteri probatori delle parti e del giudice in Europa, in
Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2006, 276; BERTOLINO, Contributo allo studio della relazione tra garanzie processuali e accertamento dei fatti
nel processo civile, Torino, 2010.
27
Sull’argomento, da ultimo, RUSSO, I mezzi di prova e l’audizione del minore, in L’affidamento dei figli nella crisi della famiglia,
a cura di SESTA-ARCERI, Torino, 2012, 814.
28
Rinvenibile in particolare anche nei precedenti di Cass. 10 giugno 2011 n. 12739, in Fam Dir., 2012, 37; Cass. 26 marzo
2010 n. 7282, cit.; Cass., Sez. Un., 21 ottobre 2009 n. 22238, cit..
29
Pur risultando arduo collocare lo strumento dell’ascolto secondo tipiche categorie processual-civilistiche, sembra preferibile diversificarlo tenendo conto dell’evidente specificità e peculiarità di tale atto processuale, rispetto ad ogni altro.
Ciò non di meno, gli esiti dell’ascolto del figlio hanno di fatto una portata allegativa/cognitiva, che onera il giudice della correlata valutazione, da riversarsi nella parte motiva delle statuizioni dettate. Si segnala in punto l’opinione che propende per
una qualche assimilazione all’interrogatorio libero ex art. 117 c.p.c. od alla cosiddetta consulenza percipiente (in tal senso,
presupposta l’obbligatorietà dell’ascolto, DONZELLI, I soggetti nei procedimenti di separazione e divorzio, in Trattato della separazione
e divorzio a cura di LUPOI-BERTI, Maggioli, 2013, II, cap. 4, n. 4), ovvero, l’altra che intravedeva una qualche affinità strutturale
e funzionale tra l’audizione e l’ispezione (CARNELUTTI, Diritto e processo - Tratt. proc. civile, Napoli, 1958, 195); in generale, relativamente all’inquadramento dell’audizione come strumento “difensivo” in contesti processuali camerali, COMOGLIO, Difesa
e contraddittorio nei procedimenti in camera di consiglio, in Riv. Dir. Proc., 1997, 753; v. anche SANTARCANGELO, La volontaria giurisdizione, Milano, 2004, I, 115.
30
Sia consentito rinviare a SAVI, Legittimazione del figlio maggiorenne ad intervenire nel giudizio di separazione coniugale dei genitori, in Giur. It., 2012, 1290, in nota a Cass. 19 marzo 2012 n. 4296, ed all’anteriore, Intervento del figlio maggiorenne nei giudizi
coniugali/genitoriali aventi ad oggetto il proprio mantenimento, in nota a Trib. Macerata 22 ottobre 2009, ivi, 2011, 82.
31
Cioè il giudizio tra genitori dei figli “non matrimoniali”, ai primi assimilato, quale procedimento in genere coincidente
con la crisi della famiglia di fatto, secondo la fondamentale Cass., Sez. Un., 3 aprile 2007 n. 8362, in Fam. Dir., 2007, 446, con
nota di TOMMASEO.
32
Cfr. in particolare l’espresso tenore degli artt. 150 c.c. e 3, co. 1, l. div.; v. per tutti, SCARDULLA, La separazione personale dei
coniugi ed il divorzio, Milano, 2003, 629.
33
Corte Cost. 30 gennaio 2002 n. 1, in Foro It., 2002, I, 3302, con nota di PROTO PISANI, Battute d’arresto nel dibattito sulla riforma
del processo minorile (cfr. dello stesso A., Ancora sul processo e sul giudice minorile, in Foro It., 2003, V, 213, e Garanzia del giusto
processo e tutela degli interessi dei minori, in Questione Giustizia, 2000, 467), e di SERGIO, La tutela civile del minore e le cosiddette prassi
distorsive della giustizia minorile; ed in Fam. Dir., 2002, 229, con nota di TOMMASEO, Giudizi camerali de potestate e giusto processo;
cfr. inoltre, Corte Cost. 9 dicembre 2011 n. 83, ivi, 2011, 545, con nota di TOMMASEO; Corte Cost. 12 giugno 2009 n. 179, ivi, 2009,
869, con nota di ARCERI; e Corte Cost. 14 luglio 1986 n. 185, in Giur. It., 1988, I, 1, 1112, con nota di DI GIULIO.
34
Diffuso il rilievo secondo cui l’apprezzamento del volere e del bene dei figli, da parte del genitore, può risultare offuscato da interpretazioni soggettive.
35
Esemplari in tal senso, Trib. Genova 6 febbraio 2007, in Foro It., 2007, I, 946; e Cass. 3 agosto 2007 n. 17043, in banca dati
Il Foro Italiano.
36
Secondo Cass. 17 maggio 2012 n. 7773, cit.; Cass. 26 marzo 2010 n. 7282; e Cass., Sez. Un., 21 ottobre 2009 n. 22238, cit.,
anche per violazione del principio del contraddittorio, come si trattasse di una sorta di minimale “surrogato” partecipativo
del figlio minore al giudizio. Di contrario avviso Cass. 10 giugno 2011 n. 12739, cit., che esclude espressamente una tale conclusione ermeneutica. Da segnalare la singolare circostanza per cui Corte Cost. 9 dicembre 2011 n. 83, cit, mutua l’erroneo
obiter delle Sezioni Unite n. 22238/2009, cit., relativamente alla presenza del concetto di parte in senso sostanziale espresso
nei precedenti di Corte Cost. n. 1/2002 e n. 179/2009, cit., ove invece non si rinviene affatto.
37
Rappresentanza cui si accomuna il tema della difesa secondo l’antico rilievo per cui “le cause non parlano da sole”; cfr.,
DOSI, L’avvocato del minore nei procedimenti civili e penali, Torino, 2010; TOMMASEO, Rappresentanza e difesa del minore nel processo
civile, in Fam. Dir., 2007, 409; RUO, La volontà del minore: Sua rappresentanza e difesa nel processo civile, in Dir. Fam. Pers., 2006, 1359;
e la garanzia di difesa, secondo la regola generale ex art. 82 c.p.c., è direttamente correlata ai diritti attinti dal singolo procedimento e non alle forme dell’incedere processuale, come insegna la recente, Cass. 7 dicembre 2011 n. 26365, in Riv. Dir.
Proc., 2012, 1686, con mia notazione. Si cfr. anche Cass. 25 settembre 2009 n. 20625, in Fam. Dir., 2010, 1120.
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STUDI E RICERCHE
38
Cfr. Cass. 16 settembre 2002 n. 13507, in banca dati Platinum Utet; Cass. 26 agosto 2001 n. 10822, in banca dati Il Foro Italiano; Cass. 30 gennaio 1990 n. 618, ivi.
39
Cass., Sez. Un., 21 ottobre 2009 n. 22238, cit.; Cass. 26 marzo 2010 n. 7282, cit.; Cass. 17 maggio 2012 n. 7773, cit., ed ora
la pronuncia in commento (le quali ultime due risultano motivate dallo stesso estensore).
40
In particolare Corte Cost. 9 dicembre 2011 n. 83, cit., seppur da tener ben conto del rilievo indicato in nota 36. In questo precedente, per inciso, si sottolinea l’onere di motivazione relativamente agli esiti dell’audizione del figlio.
41
Vedi RUFFINI, Il processo civile di famiglia e le parti: la posizione del minore, in Dir. Fam. Pers., 2006, 1257; COMOGLIO-FERRI-TARUFFO,
Lezioni sul processo civile. Il processo ordinario di cognizione, Bologna, 2005, I, 284.
42
Cfr. MANDRIOLI-CARRATTA, Diritto processuale civile, Torino, 2012, I, 369 ss.; SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 2000,
995; CIPRIANI, I processi di separazione e divorzio, in Riv. Dir. Civ., 1987, II, 503; ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, I, 1979, 371;
GARBAGNATI, La sostituzione processuale, Milano, 1942, 245.
43
Interessante la coincidenza con l’espressione utilizzata nell’emanando nuovo art. 336bis c.c., che ha sentito l’esigenza
di ricomprendere l’ipotesi in cui i genitori sono “parti processuali”.
44
Mutuando la “sgraziata” espressione di cui all’art. 1, co. 2, Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli,
ratificata in Italia nel 2003, che pur così disomogenea rispetto alle nostre categorie interne ha finito per influenzare i tratti
salienti del nostro tema.
45
I genitori non possono disporre dell’ascolto del figlio minore, pur rientrando tale atto tra le questioni su cui legittimamente le parti (coniuge/genitore od il pubblico ministero anche su istanza del ceto parentale) sono ammesse ad esporre,
eccepire e domandare. Invero, l’ascolto in parola non sembra liberamente disponibile da parte dello stesso minore che ne
è il titolare; infatti, già nel vigore dell’art. 155sexies c.c., la soluzione plausibile era apparsa quella dell’eventuale rinuncia all’audizione, ma con l’adeguato supporto di un curatore speciale; in tal senso Trib. Min. Trieste 14 dicembre 2011, in Corr. Merito, 2012, 657. Il diverso tenore testuale dell’art. 315bis, co.3, c.c., rispetto all’anteriore norma imperativa, apporta elementi
di perplessità; tuttavia, l’intrinseca natura di tale diritto induce ad escludere che esso possa rientrare nel novero delle posizioni soggettive obiettivamente disponibili; dovendo ad ogni modo anche in ciò seguirsi il criterio guida sostanziale, costituito dalla salvaguardia dell’interesse preminente del figlio minore, appare legittima una sua espressione d’indisponibilità a sottoporsi all’ascolto (con tutte le variabili, dal rifiuto netto al timido non gradimento), purché una tale volontà sia manifestata consapevolmente al giudice; questo eventuale esito, in realtà, risulta uno dei possibili esiti del diritto all’ascolto
assicurato al minore, del quale si deve sempre tenere adeguato conto; ancora nel quadro anteriore, si riteneva potersi prescindere dall’audizione nell’ipotesi in cui il minore avesse manifestato stragiudizialmente il desiderio di non essere coinvolto nella controversia; in tal senso, App. Milano 21 febbraio 2011, in Corr. Merito, 2012, 32.
46
Peraltro, deve considerarsi che il genitore non può neppure confessare fatti sfavorevoli al figlio minore rappresentato
in giudizio, senza l’autorizzazione del giudice tutelare: cfr., tra le tante, Cass. 14 febbraio 2006 n. 3188, in Fam. Dir., 2007, 49.
47
L’apprezzamento giudiziale non è comunque connotato in senso intrusivo o di ingerenza pubblica: lo stesso dovere di
ascolto di cui è onerato il genitore, a corretta esplicazione della sua responsabilità educativa, insorto il conflitto, è affidato
anche al giudice, ma unicamente in funzione della promozione dei diritti individuali del figlio minore e primo fra tutti proprio il rispetto della sua personalità. Esemplificando, nei giudizi di separazione e divorzio, il controllo giudiziale insito nella
scelta delle soluzioni di miglior cura dell’interesse protetto in questione, non recide l’esercizio della responsabilità genitoriale, siccome a tenore dell’art. 155 ss. c.c., permane, rendendo con ciò ragione della soluzione per cui al minore non è stata
attribuita la qualità di parte; peraltro, vi si coglie anche il profilo per cui la crisi del rapporto affettivo dei coniugi/genitori
non deve intaccare, per quanto possibile, la funzione genitoriale (efficaci in tema le considerazioni di FERRANDO, I diritti dei
minori nella famiglia in difficoltà, in Fam. Dir., 2010, 1174). Allargando l’orizzonte ad altro limite, risultano di grande interesse
gli arresti della Corte E.D.U., in ipotesi di concreta inefficienza nella tutela dell’interesse superiore del figlio minore, tra i quali
si segnalano le Sentenze 13 luglio 2000, in Fam. Dir., 2001, 5; e 29 gennaio 2013, in Guida Dir., 2013, 8, 102.
48
Si profilano riletture che riconoscono al minore un ruolo corrispondente ad uno “spazio partecipativo attenuato”, o di
indispensabile “arricchimento del contraddittorio”; così DONZELLI, I soggetti nei procedimenti di separazione e divorzio, op. cit.; di
vivo interesse il confronto tra tale approccio e l’anteriore segnalazione in ordine al disagevole e confuso quadro processuale;
per tutti, cfr. TOMMASEO, Il diritto processuale speciale della famiglia, in Fam. Dir., 2004, 305.
49
Oltre le citazioni di nota 26, cfr., MONTESANO, La garanzia costituzionale del contraddittorio e i giudizi civili di “terza via”, in Riv.
Dir. Proc., 2000, 929; TROCKER, Il nuovo art. 111 Cost. e il “giusto processo” in materia civile, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2001, 381;
PROTO PISANI, Giusto processo e valore della cognizione piena, in Riv. Dir. Civ., 2002, 265; CHIARLONI, Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della decisione, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ, 2008, 129; CARRATTA, Processo camerale (dir. proc. civ.), in Enc. Dir. (annali
III), Milano, 2010, 928; TRAVI, Gli artt. 24 e 111 Cost., come principi unitari di garanzia, in Foro It., 2011, V, 165; SCARSELLI, Il processo
civile tra tutela di interessi pubblici e diritti delle parti, ivi, 2012, V, 230.
50
Cass., Sez. Un., 21 ottobre 2009 n. 22238, cit., indirizzo confermato da Cass. 17 maggio 2012 n. 7773, cit., ed ora dalla pronuncia in commento.
51
MANDRIOLI-CARRATTA, Diritto processuale civile, cit., I, 569 ss.; e, prima ancora, MANDRIOLI, L’assorbimento dell’azione civile di nullità e l’art. 111 della Costituzione, Milano 1967.
52
Anche per tale via si evidenzia come l’imprescindibilità dell’ascolto non significa certo necessario contraddittorio; cfr.
Cass. 5 ottobre 2012 n. 17035; Cass. 14 aprile 2011 n. 8519; Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2009 n. 3678; Cass. 27 giugno 2007 n.
14820; Cass. 9 marzo 2004 n. 4714, tutte in banca dati Platinum Utet.
53
Norma statutaria di portata generale che estende l’atto processuale dell’ascolto ad ogni procedimento che incida, in
un verso o nell’altro, sulla condizione della prole in età evolutiva; il diritto all’ascolto è difatti prefigurato anche in ordine
ad ogni “questione”; in buona sostanza, confermata la centralità della figura filiale in tutte le sedi processuali, la portata
della nuova norma rende superflua quella anteriore (art. 155sexies c.c.), cosicché, aldilà dell’espressa abrogazione inserita
nell’emanando provvedimento legislativo delegato, la sua abrogazione tacita è una conclusione evidente e tranquillizzante.
54
Invero, il dubbio era ben presente alla nostra giurisprudenza già anteriormente all’introduzione dell’art. 155sexies c.c.:
cfr. l’emblematico precedente di Cass. 10 ottobre 2003 n. 15145, in Foro It., 2004, I, 2167. Il dispiegamento dell’intervento in
lite non potrà ovviamente essere effettuato di persona, neppure dopo la soglia dei dodici anni, per la semplice ragione che
un conto è l’ascolto ed altro conto è l’assunzione della qualità di parte in giudizio, che formula domande ed eccezioni verso
le altre parti - prima fra tutte l’accertamento della violazione del proprio diritto all’ascolto - e sulle quali deve scendere il
dovere decisorio; lo può esercitare quindi attraverso un curatore speciale, secondo il generale disposto di cui all’art. 79 c.p.c.,
la cui nomina può invece domandarsi anche dallo stesso figlio minore personalmente; come si può constatare, anche per
un tale agire, valgono le forme di rappresentanza prefigurate per i procedimenti ove il minore è parte necessaria.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 51
STUDI E RICERCHE
IL PUNTO SULLA
GIURISPRUDENZA IN
TEMA DI RECLAMABILITÀ
DEI PROVVEDIMENTI
TEMPORANEI AD URGENTI
NEI PROCEDIMENTI PER
SEPARAZIONE E DIVORZIO
FRANCESCA FERRANDI
Art. 708 (Tentativo di conciliazione e provvedimenti del Presidente)
All’udienza di comparizione il presidente deve sentire
i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente
tentandone la conciliazione.
Se i coniugi si conciliano, il presidente fa redigere il
processo verbale della conciliazione. Se la conciliazione non riesce, il presidente, anche d’ufficio, sentiti
i coniugi ed i rispettivi difensori, dà con ordinanza i
provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell’interesse della prole e dei coniugi, nomina il
giudice istruttore e fissa udienza di comparizione e
trattazione davanti a questi. Nello stesso modo il presidente provvede, se il coniuge convenuto non compare, sentiti il ricorrente ed il suo difensore.
Contro i provvedimenti di cui al terzo comma si può
proporre reclamo con ricorso alla corte d’appello che si
pronuncia in camera di consiglio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni
dalla notificazione del provvedimento.
1. Introduzione. 2. Il reclamo esperibile avverso l’ordinanza presidenziale: ratio e profili procedimentali.
3. La cognizione del giudice del reclamo. 4. Il difficile
rapporto tra il potere di reclamo ed il potere di modifica e di revoca del giudice istruttore. 5. Sulla discussa reclamabilità dei provvedimenti provvisori
emanati dal giudice istruttore.
1. Introduzione
La delicatezza dei diritti e degli interessi coinvolti
nelle controversie in materia familiare, quale quella
di separazione e di divorzio, necessitano di forme
processuali differenziate rispetto a quelle dell’ordinario processo di cognizione, tali da assicurare un
alto grado di effettività della tutela giurisdizionale.
A tal proposito, gli interventi legislativi susseguitisi negli ultimi anni, recependo antiche sollecitazioni ed istanze, provenienti dalla dottrina e dalla
giurisprudenza, hanno inteso rafforzare il tema
delle impugnazioni avverso l’ordinanza presidenziale: la L. n. 54/2006, recante nuove ”Disposizioni in
materia di separazione dei genitori e affidamento condi52 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
viso dei figli”, colmando una inopportuna lacuna
della previgente disciplina, ha introdotto una apposita forma di reclamo nei confronti dei provvedimenti provvisori emessi nell’interesse dei coniugi e
della prole (art. 708, ult. comma), garantendo così un
controllo processuale ritenuto indispensabile alla
luce delle disposizioni costituzionali proprie del giusto processo, ex art. 111 Cost. Una forma di controllo
che si aggiunge, e non si sostituisce, al preesistente
e generale potere di revoca, e di modifica, assegnato
al giudice istruttore, di cui agli artt. 709, ult. comma
c. p. c, e art. 4, comma 8°, l. div.
Ne deriva, pertanto, un sistema articolato su un duplice tipo di controllo nei confronti dell’ordinanza
presidenziale, basato sulla possibilità di reclamo davanti alla Corte di Appello, e sul tradizionale potere di
revoca e di modifica da parte del giudice istruttore,
nel corso del giudizio di separazione e di divorzio.
La giurisprudenza, in questi sette anni dalla entrata in vigore della norma, si è espressa, in molteplici occasioni, in merito a tale nuova forma di impugnazione, ed in particolare sul punto più critico
della legge, quale il mancato coordinamento del potere di reclamo con quello preesistente di modifica
e revoca generando, sul punto, indirizzi interpretativi divergenti.
2. Il reclamo esperibile avverso l’ordinanza presidenziale: ratio e profili procedimentali.
Il riconoscimento espresso del reclamo, quale
nuovo strumento esperibile nei confronti dell’ ordinanza presidenziale, ha inteso rispondere all’esigenza di assicurare il diritto di impugnazione nei
confronti di un provvedimento giurisdizionale che,
pur emesso a cognizione sommaria e per sua natura
non definitivo (dovendo essere sostituito dalla sentenza di merito), interviene su aspetti personalissimi del conflitto familiare incidendo direttamente
sui diritti e sulle situazioni sostanziali delle parti,
con immediata efficacia, anche esecutiva.
Il particolare contenuto sostanziale e l’indiscussa
importanza dell’ordinanza presidenziale, hanno
portato il legislatore del 2006, come già anticipato,
a configurare uno strumento di riesame, a diposizione di entrambe le parti, rispondendo ad un’esigenza di rispetto del sistema di garanzie costituzionali proprie del “giusto processo”. Nei confronti
di tali provvedimenti, che seppur sommari ed inidonei al passaggio in giudicato, tuttavia incidono
su diritti anche indisponibili delle parti, è stato così
introdotto uno strumento di controllo immediato,
ovvero un rimedio di natura impugnatoria endoprocessuale davanti ad un organo collegiale differente e superiore, quale la Corte di Appello con il rischio, di contro, di comportare un appesantimento
e rallentamento dei procedimenti di cui si tratta,
nei quali invece l’esigenza di speditezza è particolarmente sentita.
STUDI E RICERCHE
La decisione della Corte è presa con decreto non è
ricorribile in Cassazione ex art. 111 Cost., essendo
essa priva del carattere della definitività in senso sostanziale : infatti “ il predetto provvedimento presidenziale, anche dopo la previsione normativa della sua impugnabilità con reclamo in appello, pur se confermato o
modificato in tale sede ex art. 708, comma 4, c. p. c., continua ad avere carattere interinale e provvisorio, essendo
modificabile e revocabile dal giudice istruttore ed essendo
destinato ad essere trasfuso nella sentenza che decide il
processo, impugnabile per ogni profilo di merito e di legittimità.” In particolare, la Corte potrà respingere il
reclamo, oppure potrà accogliere il provvedimento,
ed in tal caso il titolo esecutivo sarà normalmente
rappresentato dal decreto della Corte d’appello,
salva l’ultrattività dell’ordinanza del Presidente
nelle parti non considerate in sede di reclamo.
In considerazione della natura interinale del reclamo, parte della giurisprudenza ha anche affermato che la Corte non debba disporre nulla in merito alle relative spese, le quali saranno poi liquidate
dal Tribunale, in sede di decisione finale.
Il reclamo alla Corte di appello si propone con ricorso, e trattandosi di un mezzo di riesame, dovrà
contenere oltre ai requisiti dell’art. 125 c. p. c., anche le ragioni specifiche, di fatto e di diritto, per cui
tale riforma dovrebbe essere concessa e senza esplicitare il contenuto del provvedimento che si chiede
alla Corte di emanare; tali motivi potranno basarsi
sia su una diversa lettura dei fatti già presentati
dalle parti al Presidente del Tribunale, sia su fatti
nuovi, non potendosi desumere dalla norma la volontà del legislatore di limitare l’esame della Corte ai
soli fatti, o alle medesime argomentazioni, già sottoposte all’esame del Presidente.
Il ricorso va depositato nella cancelleria della
Corte d’appello adita nel termine perentorio di dieci
giorni, termine che decorre dalla notificazione del
provvedimento, sicché, in caso di omissione di tale
adempimento, secondo il Tribunale di Napoli, il reclamo può essere proposto anche a distanza di
tempo superiore a dieci giorni dalla sua comunicazione, e fino all’udienza di comparizione innanzi al
giudice istruttore1.
Dopo il deposito del ricorso, deve essere fissata
l’udienza di discussione davanti al collegio in camera di consiglio. Ricorso e decreto di fissazione
dell’udienza dovranno poi essere notificati dal reclamante alla controparte, entro il termine fissato
dal Presidente della Corte, presso il domicilio eletto
per il procedimento di primo grado. Il resistente potrà difendersi con una memoria scritta, da depositarsi prima o anche direttamente all’udienza, la
quale potrà, eventualmente, contenere la proposizione di reclamo incidentale avverso la medesima
ordinanza presidenziale.
3. La cognizione del giudice del reclamo.
Controversa è la natura del giudizio introdotto dal
reclamo, nonché l’individuazione dei motivi di impugnazione che possono farsi valere con il rimedio
in esame.
Secondo una prima impostazione, supportata
dalla prima giurisprudenza di merito formatasi sul
punto,2 lo strumento del reclamo, sarebbe un mezzo
non pienamente devolutivo, ma a critica limitata,
potendosi dedurre solo vizi estrinseci del provvedimento rilevabili, ictu oculi, sulla base degli atti, senza
che sia consentito, in sede di gravame, introdurre
nuove allegazioni e deduzioni probatorie, e altresì
senza possibilità di approfondimenti istruttori, che
condurrebbero il giudice di appello a sostituirsi al
giudice naturale di primo grado nell’ indagine processuale a lui riservata. La rivisitazione del provvedimento presidenziale, seguendo questa linea interpretativa, dovrà essere condotta alla luce delle
sole emergenze processuali già sottoposta al vaglio
del Presidente del Tribunale, in modo tale da consentire eventuali improprietà nel percorso argomentativo dal medesimo seguito, e la non corretta
applicazione di principi di diritto, rimanendo sempre riservata al giudice istruttore la possibilità di revocare, modificare o integrare le originarie determinazioni interinali al fine di meglio adeguare la regolamentazione, alle risultanze acquisite nella successiva fase a cognizione piena.
Il reclamo, pertanto, secondo tale giurisprudenza,
costituisce quindi una revisio prioris instantiae, volto
solo a consentire un sindacato documentale del
provvedimento emanato dal Presidente, per individuare la sussistenza di eventuali vizi di diritto e di
merito.3
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 53
STUDI E RICERCHE
Questo orientamento, corrisponde, da un lato alla
nuova impostazione della fase presidenziale come
delineata dalla riforma : dato che gli atti introduttivi possono avere un contenuto limitato all’essenziale, e le parti non temono alcuna preclusione, è
evidente che per ottenere la modifica dei provvedimenti presidenziali esse sono tentate di introdurre
di fronte alla Corte d’appello elementi nuovi, non
prospettati al Presidente; e dall’altro lato, si accompagna ad una rigida differenziazione tra reclamo, inteso appunto come censura dei profili di manifesta
erroneità dei provvedimenti presidenziali, e istanza
di modifica\revoca al giudice istruttore, “correlata alla
opportunità di adeguare i provvedimenti, resi all’ esito di
delibazione sommaria, alle risultanze acquisite nel corso
della fase a cognizione piena ”4. Tale giurisprudenza
vuole, dunque, evitare che, il giudizio di reclamo di
competenza della Corte d’appello, si trasformi in
una sorta di anticipazione del giudizio di merito.
In senso contrario, altra parte della giurisprudenza, ritiene che il giudizio di reclamo sia a critica
libera, integralmente sostitutivo, e che, in tale fase,
sarebbero ammesse l’allegazione di nuove circostanze e nuove prove.5
A sostegno di una lettura estensiva della cognizione della Corte, si è osservato che il procedimento
di reclamo, specie dopo la novella del 2005, non costituisce più un giudizio di impugnazione, ma in
una ottica di garanzia, un novum iudicium a critica illimitata, integralmente sostitutivo e aperto a nuove
allegazioni e deduzioni istruttorie (anche quanto
alle sopravvenienze). Tale configurazione riguarda
anche il reclamo di famiglia, in quanto anch’esso
conduce ad un esame integrale di quanto statuito
dal Presidente del Tribunale, assolvendo alla stessa
funzione di regolare in via provvisoria, ma non per
questo in modo meno compiuto, i rapporti familiari.
Da qui, allora, la conclusione per l’attribuzione al
giudice del reclamo degli stessi poteri del giudice
che ha emesso il provvedimento reclamato, fino a
consentirgli, anche nel procedimento ex art. 708, ult.
comma, c. p. c., di assumere informazioni (ex art. 738
c. p. c.) e, dunque, in senso più ampio di acquisire
gli elementi di prova che risultino rilevanti per la decisione, tenendo però sempre in considerazione il
particolare contenuto sostanziale dei provvedimenti
temporanei e urgenti in relazione, quanto meno, ai
due settori fondamentali da essi regolati.
Interessante, poi, l’indirizzo del Tribunale di Catania secondo cui l’estensione dei nova, e del concetto
stesso di sopravvenienze, va inteso in termini molto
ampi, in quanto si riscontrano: “non soltanto laddove
si verifichino fatti nuovi sopravvenuti, ma anche allorquando sopravvengano nuove prove di fatti accaduti in
un momento anteriore che, tuttavia, non erano stati precedentemente né allegati né provati innanzi al Presidente.
Non appare corretto, invero, escludere la possibilità di sottoporre all’esame del giudice istruttore del procedimento
54 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
di separazione in corso fatti preesistenti ma non allegati
e provati innanzi al Presidente, tenuto conto del silenzio
del legislatore sul punto, della rilevanza costituzionale degli interessi che vengono in rilievo nel procedimento di separazione, tanto più ove vi siano minori ”.6
4. Il difficile rapporto tra il potere di reclamo ed il
potere di modifica e di revoca del giudice istruttore
Il punto nevralgico in tema di impugnazioni avverso l’ordinanza presidenziale è rappresentato
dalla necessità di individuare quali siano i rapporti
tra il potere di reclamo e quello di revoca/ modifica,
nonché i reciproci presupposti e le rispettive interferenze.
Non può infatti ipotizzarsi che il legislatore abbia
attribuito ai due distinti strumenti la medesima
funzione di controllo di uno stesso provvedimento
giurisdizionale, senza tenere in considerazione l’esigenza di reperire un coordinamento tra di essi. Pertanto, ai fini dell’ argomento, un elemento rilevante
è costituito dalle ragioni che possono essere poste a
fondamento dell’istanza di revoca/modifica : in altri
termini, le soluzioni giurisprudenziali proposte saranno diverse a seconda che i presupposti e/o gli effetti del provvedimento emesso in sede di reclamo
siano diversi, oppure gli stessi, da quelli del provvedimento emesso dal giudice istruttore a seguito dell’istanza di revoca/modifica.
Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, il
concorso tra i due rimedi astrattamente esperibili
avverso l’ordinanza presidenziale, sarebbe infleunzato da considerazioni di ordine gerarchico, ovvero
di precedenza tra gli stessi, con l’attribuzione, in
particolare, al reclamo di un ruolo prevalente, ed con
l’individuazione nella consumazione della sua proposizione della condizione di esperibilità della richiesta di revoca/modifica.7
In questo modo fino allo scadere del termine per
la proposizione del reclamo stesso,8 ovvero fino all’esito di tale procedimento,9 non potrebbe essere
avanzata al giudice istruttore, l’istanza per la revoca/modifica dell’ordinanza presidenziale, dato
che quest’ultima presupporrebbe la definitiva consumazione del reclamo; ragion per cui, la notifica
dell’ordinanza presidenziale rappresenterebbe, secondo questa chiave di lettura, una condizione di
procedibilità del potere di revoca/modifica, in assenza della quale, quest’ultimo, non potrebbe essere
validamente esercitato.10
Inoltre, da questo punto di vista, una volta scelta
la via del reclamo, non sarebbe più possibile ottenere la modifica o la revoca dei provvedimenti provvisori, se non prospettando mutamenti nelle circostanze di fatto o di diritto sottoposte all’attenzione
della Corte d’ appello.11
Altra parte della giurisprudenza reputa, invece,
che il reclamo contro l’ordinanza presidenziale e la
revoca / modifica della stessa, siano rimedi alterna-
STUDI E RICERCHE
tivi : una volta emessa l’ordinanza presidenziale le
parti possono andare davanti al giudice superiore,
oppure davanti al giudice istruttore della causa, a
seconda delle circostanze proprie del caso di specie,
ma electa una via non datur recursus ad alteram12; cioè
l’alternatività non consente di tornare indietro, per
cui una volta che se ne sia scelto uno, non è più possibile proporre l’altro.13 Pertanto, secondo questo indirizzo, il reclamo proposto successivamente all’istanza di revoca/modifica dell’ordinanza presidenziale dovrà essere dichiarato inammissibile, così
come l’istanza di revoca o modifica presentata al
giudice istruttore dopo la proposizione del reclamo,
laddove entrambe le richieste siano basate su analoghi motivi e circostanze.
Parte della giurisprudenza14, poi, si è spinta fino
al punto di ritenere che l’art. 709, ult. comma, c. p. c.,
nello stabilire che i provvedimenti presidenziali possono essere liberamente revocati e modificati dal
giudice istruttore, è norma da ritenersi tacitamente
abrogata, ad opera della successiva L. n. 54/2006, in
quanto detta una regola incompatibile con l’art. 708,
comma 4°, c. p. c., stante il principio generale sancito dall’art. 177, comma 3°, n. 3, c. p. c., secondo cui
un’ordinanza che è sottoposta dalla legge ad un
mezzo di impugnazione non è più liberamente revocabile o modificabile per mezzo di un’ altra ordinanza. Ed ancora, posizioni più estreme,15 sono arrivate a ritenere consumato il potere di revoca/ modifica del giudice istruttore, salvo il sopravvenire di
fatti nuovi, anche nel caso in cui l’ordinanza presidenziale non sia stata sottoposta a reclamo davanti
alla Corte d’appello nei termini di legge.
Gli orientamenti che escludono l’ammissibilità di
una istanza ex art. 709 c. p. c., in caso di mancata
proposizione del reclamo, sembrano porsi in contrasto con quanto affermato dalla Corte di Cassazione,16 in merito alla modificabilità o revocabilità
dell’ordinanza presidenziale anche se confermata
dopo il reclamo : la Corte, infatti, pur non precisando
se, una volta esperito il reclamo, l’istanza ex art. 709
c. p. c. richieda il sopravvenire di nuove circostanze,
porta a ritenere che la mancata proposizione del reclamo stesso, non produca alcun effetto preclusivo
rispetto ai poteri di riesame del giudice istruttore.
5. Sulla discussa reclamabilità dei provvedimenti
provvisori emanati dal giudice istruttore.
La giurisprudenza si è trovata altresì a prendere
posizione su un altro aspetto della L. n. 54/2006, la
quale nel riformare l’art. 708 c. p. c., ha espressamente assoggettato a reclamo la sola ordinanza presidenziale, trascurando di prevedere lo stesso o analogo strumento di riesame rispetto ai provvedimenti
provvisori ed urgenti emessi, nel prosieguo del giudizio di separazione e di divorzio, dal giudice istruttore. Che si tratti di scelta consapevole o di colpevole dimenticanza, sul piano dei principi costitu-
zionali, un eventuale trattamento differenziato in
materia di reclamo dell’ordinanza presidenziale rispetto ai provvedimenti interinali dell’istruttore non
è facilmente giustificabile, considerato che, dal
punto di vista della funzione, entrambi i provvedimenti non presentano sostanziali differenze, in
quanto entrambi sono destinati a regolare i rapporti
familiari e patrimoniali tra i coniugi in crisi, durante
il tempo del processo, e a sopravvivere all’eventuale
estinzione del giudizio di merito.
Prima della riforma del 2006, anche in questo ambito, si escludeva la proposizione tanto delle impugnazioni ordinarie, quanto del ricorso straordinario
in Cassazione. Con la novella del 2006 le cose si sono
ulteriormente complicate, tanto che oggi diversi
sono gli orientamenti giurisprudenziali che si sono
andati formando.
Anche dopo la novella del 2006, rimane un orientamento giurisprudenziale che esclude nettamente ogni
forma di controllo, ritenendo tale provvedimento unicamente modificabile e revocabile dal giudice istruttore, e rivedibile dal collegio con la sentenza.
In particolare, il Tribunale di Foggia, sottolinea il
dato letterale dell’art. 708, comma IV°, c. p. c., in
quanto ubi lex voluit dixit: ragion per cui il legislatore,
limitando il reclamo ai soli provvedimenti presidenziali, ha manifestato la volontà di non volervi ricomprendere quelli del giudice istruttore; mentre,
secondo altri Tribunali, la specialità del provvedimento presidenziale, emesso nella fase di esordio
del procedimento, giustificherebbe un simile controllo, il quale, invece, non avrebbe alcun senso riconoscere in una fase successiva, data la possibilità
delle parti di sollecitare più ampi approfondimenti
della situazione da parte del giudice istruttore.
Per ovviare al difetto dell’impostazione negativa,
parte della dottrina e della giurisprudenza, si è
quindi interrogata circa la possibile individuazione
di uno strumento di controllo anche avverso le ordinanze istruttorie, dividendosi tra chi ritiene applicabile, anche qui, lo stesso reclamo in camera di
consiglio previsto per l’ordinanza presidenziale, e
quanti, invece, preferiscono fare ricorso, in questo
ambito, al reclamo cautelare disciplinato dall’ art.
669terdecies c. p. c., facendo leva sulla natura cautelare dei provvedimenti in questione.
L’indirizzo giurisprudenziale, che afferma la competenza della Corte d’ appello quale giudice dell’ impugnazione avverso i provvedimenti resi del giudice
istruttore, partendo dalla considerazione che il processo di separazione e di divorzio, debba essere considerato un modello processuale unitario, atto a regolare le diverse ipotesi di crisi familiare, ha il pregio di impedire che prenda corpo un sistema che
configuri la presenza di due diversi organi (la Corte
d’appello ed il Collegio del Tribunale), chiamati a
giudicare in sede di impugnazione su provvedimenti resi nello stesso grado di giudizio.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 55
STUDI E RICERCHE
A questa soluzione, che permette lo sviluppo di
un modello armonico, in cui vi è solo un giudice, la
Corte d’appello, a cui è devoluto il compito di effettuare il controllo sia sui provvedimenti resi dal Presidente, sia su quelli emanati dal giudice istruttore
nel corso del giudizio di primo grado, si può arrivare
o attraverso una interpretazione estensiva dell’ art.
708, comma 4°, c. p. c., o attraverso una applicazione
analogica della stessa norma.
Tra le due strade, quella di più facile percorribilità,
sembra essere la seconda, in quanto nessun dato
consente di affermare, con sufficiente certezza, che
il legislatore prevedendo la reclamabilità dei provvedimenti presidenziali di fronte alla Corte d’appello, abbia, implicitamente, anche voluto sancire la
reclamabilità sempre di fronte alla solita Corte, dei
provvedimenti del giudice istruttore.
Di conseguenza stante l’utilizzabilità dello strumento dell’analogia, nulla osterebbe alla reclamabilità dei provvedimenti de quibus del giudice istruttore di fronte alla Corte d’appello.
Da ultimo, un terzo orientamento, maggioritario
in giurisprudenza, ritiene applicabile in questo contesto il reclamo cautelare al collegio del Tribunale ex
art. 669terdecies c. p. c. adducendo, a sostegno di ciò,
che la disciplina prevista dall’art. 708, comma IV°, c.
p. c., essendo stata prevista limitatamente alla sola
ordinanza presidenziale, debba considerarsi di natura eccezionale, rispetto al principio generale che i
provvedimenti revocabili e modificabili non sono
impugnabili in corso di causa, e quindi non applicabile attraverso lo strumento dell’analogia, ciò anche
in considerazione del principio di tassatività dei
mezzi di impugnazione.
Preso atto delle incertezze giurisprudenziali e
dottrinali, circa la reclamabilità dei provvedimenti
istruttori, ci si aspettava una possibile pronuncia
chiarificatrice da parte della Consulta o un intervento della Corte di Cassazione in funzione nomofilattica, in alternativa ad un nuovo intervento
del legislatore. La spinosa questione invece non ha
trovato, purtroppo, risposta in un recente intervento in materia da parte della Corte Costituzionale. Quest’ultima ha ritenuto manifestamente
inammissibile la questione di legittimità costitu-
zionale delle norme della separazione, laddove
non prevedono un reclamo avverso i provvedimenti del giudice istruttore, in quanto i giudici rimettenti avrebbero omesso “di sperimentare la possibilità di pervenire ad una doverosa interpretazione costituzionalmente conforme della norma che consenta di
colmare la dedotta carenza di tutela”. Nella motivazione della propria ordinanza, peraltro, la Corte
rammenta, infatti, che quella prospettata dai rimettenti, ovvero integrazione del testo normativo,
in modo da prevenire espressamente la possibilità
di reclamo dei provvedimenti interinali, non sarebbe neppure l’unica costituzionalmente obbligata, atteso che “in un contesto, quale quello della
conformazione degli istituti processuali, il legislatore
gode di ampia discrezionalità”, la quale sembra
escludere l’incostituzionalità delle norme, qui in
esame, laddove non ammettano (anche in via interpretativa) la possibilità di un reclamo avverso
le ordinanze del giudice istruttore.
Pertanto, dalla mancata presa di posizione da
parte del giudice delle leggi, non emergono argomenti a favore o contro la tesi della assimilabilità
dei provvedimenti provvisori ed urgenti emessi dal
Presidente o dal giudice istruttore nel corso dei procedimenti per separazione o divorzio, ai provvedimenti cautelari in generale; la Corte si è limitata a
dichiarare l’inammissibilità manifesta della questione così come prospettatale, non essendo consentito al giudice di merito rimettere alla Corte Costituzionale questioni interpretative risolvibili senza
necessità di intervenire su norme che si limitano a
tacere, senza negare esplicitamente. Senza risposta
rimane pure l’interrogativo circa la possibilità di
estendere in via analogica, alle ordinanze del giudice istruttore, il reclamo ex art. 708, comma 4°, c. p.
c., oppure quello ex art. 669terdecies c. p. c.
Questa pronuncia dunque, per concludere, è una
mancata occasione per dirimere, una volta per tutte,
i tanti dubbi che la disciplina, dettata in materia,
dalla l. n. 54/2006 continua a generare sia in dottrina
che in giurisprudenza, portando a risultati tra loro
totalmente differenti, non utili alla certezza del diritto e all’esigenza del giusto processo, specie nella
materia familiare.
Note
1
Appello Napoli, ord., 26 giugno, 2007, in Foro It., 2007.
2
Cass., 26 gennaio 2011 n. 1841 in www.affidamentocondiviso.it; sul punto in senso conforme anche Cass. 21 maggio 2009,
n. 11831.in www.affidamentocondiviso.it. secondo cui : “Tali provvedimenti, anche se emessi o confermati dalla Corte d’appello a seguito di reclamo contro l’ordinanza presidenziale, non sono suscettibili di ricorso per cassazione, non trattandosi
di provvedimenti definitivi, perché diretti ad apprestare un regolamento essenziale ed immediato della famiglia nella prospettiva della separazione o del divorzio, con funzione solo anticipatoria rispetto alle statuizioni definitive, regolando provvisoriamente i rapporti tra le parti nei limiti temporali della pendenza della causa tra loro, senza interferire sulle statuizioni
definitive, che li sostituiscono con la pronuncia della sentenza di separazione o divorzio “; ID. Cass. 21 ottobre 2009 n. 22238
e 6 novembre 2008 n. 26631, ivi.
3
App. Trento, ord. 24 agosto 2006, in www.minoriefamiglia.it; contra, App. Milano, 6 luglio 2006, in Foro It., 2006; App. Genova, 7 aprile 2008, in Foro It., 2008.
56 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
STUDI E RICERCHE
4
App. Bologna 8 maggio 2006, in Fam. e dir., 2007, 617, con nota critica di F. TOMMASEO, Provvedimenti presidenziali e motivi di reclamo alla Corte d’appello; App. Bologna 13 novembre 2006, in Fam. e dir. 2007, 2,80; App. Lecce, 12 gennaio 2007,
in Fam. min., 2007, 54; App. Firenze, 10 luglio 2008, in Foro it. 2009, secondo cui “la decisione della corte sul reclamo si giustifica solo in quanto, precedendo l’udienza di comparizione e trattazione delle parti innanzi al giudice istruttore, abbia un
apprezzabile margine temporale di applicazione, al fin di esplicare al pieno la sua efficacia cautelare”; App. Firenze, 9 aprile
2010, in Foro It., 2010.
5
App. Bologna, 17 maggio 2006, in www.affidamentocondiviso.it, osserva che una tale lettura impedisce ogni sovrapposizione
tra i due rimedi. Mentre infatti il reclamo vale a correggere errori evidenti, con la revoca\modifica si possono “adeguare i provvedimenti resi all’esito di deliberazione sommaria alle risultanze acquisite nel corso della fase a cognizione piena”.
6
App. Bologna, 17 maggio 2006, (cit).
7
App. Milano, 30 marzo 2007, in Foro It. 2007; App. Napoli, 13 luglio 2007, in Foro It. 2007.
8
Trib. Catania, 31 marzo 2009, in www.affidamentocondiviso.it.
9
Trib. Modena, ord. 5 ottobre 2006, con nota ampia di F.DANOVI, Separazione e divorzio : i rapporti tra il “nuovo” reclamo
avverso l’ordinanza presidenziale e la revoca/modifica da parte dell’istruttore, in Fam., Pers., Succ.,2007, 3, 221; Trib. Napoli,
9 novembre 2006, in Foro It., 2007, I, 302; Trib. Messina, ord. 16 novembre 2006, in www.minoriefamiglia.it
10
Trib. Napoli, 9 novembre 2006 (cit.)
11
Trib. Messina, ord. 16 novembre 2006 (cit.)
12
Così Trib. Modena, ord. 5 ottobre 2006 (cit.)
13
Trib. Pisa, ord. 14 febbraio 2007, in Dir. fam., 2007, 1228; Trib. Padova, ord. 2 aprile 2007, in Foro It., 2007,1,1916.
14
App. Milano, decr. 30 marzo 2007, in Dir. fam., 2007, 1187.; Trib. Reggio Calabria, ord. 2 aprile 2008, in Fam. e min., 2009, 1, 74.
15
La natura alternativa dei rimedi è presente anche nel sistema cautelare, nel quale però, ex art.669terdecies, comma 1°
c. p c., è precluso al giudice istruttore del merito, ogni valutazione in pendenza di reclamo.
16
Così Trib. Pisa, 3 marzo, 2010, in Foro It., 2010, 1, 2199; ID. Trib. Pistoia, 7 gennaio 2010, ivi.
17
Trib. Mantova, 23 maggio 2007, in Foro It., 2007.
18
Cass., 26 gennaio 2011, n. 1814.
19
Trib. Milano, ord. 25 gennaio 2011, in Fam. e min., 2011; Trib. Bari 15 dicembre 2009, in Giurisprudenza barese 2010; Trib.
Udine, ord. 21 aprile 2009, e Trib. Napoli, ord. 13 ottobre 2009, in Fam. e dir., 2010, 6, 579; Trib. Foggia, 4 marzo 2008, in Foro
It., 2008; Trib. Lucera, 31 gennaio 2007, in Giur. merito, 2008; Trib. Trani, 26 aprile 2006, in Foro It., 2006.
20
Trib. Foggia, 4 marzo 2008,(cit)., secondo cui : “ove il legislatore avesse ritenuto la reclamabilità anche dell’ordinanza
emessa dal giudice istruttore…oltre che di quella presidenziale, lo avrebbe senz’altro esplicitato secondo il noto brocardo
ubi lex voluit ibi dixit; ubi lex noluit, ibi tacuit […] il legislatore nel caso in esame, ha taciuto in ordine alla reclamabilità delle
ordinanze anzidette, evidentemente ritenendo che le ragioni di tutela delle parti siano comunque ampiamente soddisfatte
dalla pur sempre consentita modificabilità e revocabilità delle ordinanze emesse dal giudice istruttore nel corso del processo, lì dove le stesse possano essere riviste anche in base ad una semplice e diversa rivalutazione dei medesimi elementi
di fatto o di diritto già oggetto di valutazione (ad es., evidenziando circostanze di fatto od elementi di diritto preesistenti al
provvedimento impugnato ma ignorati dall’istruttore), indipendentemente dalla sopravvenienza di mutamenti nelle circostanze, espressamente richiesti per l’operatività del meccanismo di cui all’art. 669decies c. p. c.”
21
In tale senso anche il Trib. Ivrea, ord. 12 maggio 2011, n. 617, in Fam. e min., 2011, secondo cui appunto nell’ambito del procedimento di separazione è inammissibile il reclamo esperito dal coniuge avverso l’ordinanza del giudice istruttore in virtù
del fatto che la disciplina della l. n. 54/2006 ha inteso limitare il rimedio del reclamo ai soli provvedimenti ex art. 708 c. p. c.
22
App. Cagliari, 18 luglio 2006, in Foro It., 2006, 1, 3243; App. Roma, 10 luglio 2006 e App. Milano, 6 luglio 2006, ivi.
23
Trib. Reggio Emilia, 6 novembre 2006, in Foro It., 2007, 1, 973; Trib. Roma, 7 luglio 2006, in Dir. e fam., 2007, 2, 21; Trib. Genova, ord. 2 maggio 2006, in Giur. it., 2006, 1, 2213.
24
L’interpretazione estensiva costituisce il risultato di una operazione logica volta ad individuare il reale significato e la
portata effettiva di una disposizione di legge, al fine di determinare l’ambito di operatività della stessa, anche oltre il limite
apparente della sua formulazione letterale.
25
Partendo sempre dal presupposto che tra i provvedimenti in esame esiste una piena affinità, data dal fatto che essi svolgono la medesima funzione di individuare, in via provvisoria e antecedentemente alla pronuncia della sentenza di merito,
il regime di separazione riguardante i rapporti tra i coniugi e tra i genitori e la prole, al fine di evitare che nell’attesa della
conclusione del processo, tali soggetti possano vedere pregiudicati i propri interessi.
26
Peraltro nella fase terminale dei lavori preparatori della legge in questione, è stato rigettato un emendamento volto proprio ad introdurre un rimedio contro le ordinanze istruttorie da esperirsi innanzi al tribunale in camera di consiglio entro
il termine previsto dall’ art. 739, comma 2°, c. p. c.
27
App. Brescia, decr. 20 maggio 2011, in Fam. e min., 2011; App. Catania, ord. 27 gennaio 2009, in Fam. e min., 2009, 4, 66;
Trib. Firenze, ord. 22 novembre 2006, in Fam., Pers., Succ., 2007, 12, 274; Trib. Firenze, ord. 4 maggio 2006, in Foro tosc., 2007,
pag. 191; Trib. Vicenza, 13 agosto 2007, in Fam. e dir., 2008, pag. 372; Trib. Foggia, 2 maggio 2006, in Foro It., 2006, I, 2213; App.
Catania, ord. 14 novembre 2007, in www.famigliaeminori.it; Trib. Vicenza, 13 agosto 2007, in Fam. e dir., 2008, pag. 372; App.
Napoli, ord. 5 marzo 2007, in Foro It., 2007, 1, 1916; Trib. Genova, ord. 6 febbraio 2007, ivi, 946; App. Firenze, ord. 11 luglio 2006,
in Fam. e min., 2007, 5, 71; Trib. Firenze, ord. 30 novembre 2006, in Foro it., 2007, 1, 973; Trib. Genova, ord. 6 febbraio 2007, ivi,
946.
28
Consentito ora anche in relazione ai provvedimenti non idonei al passaggio in giudicato ai sensi del riformato art. 363
c. p. c.
29
Corte cost., ord. 11 novembre 2010, n. 322, in Foro It. 2011. Nel caso di specie oggetto dei dubbi dei due giudici di merito
che avevano investito la Corte erano rappresentati dagli artt. 709 e 709ter c. p. c., norme che secondo i rimettenti si ponevano in contrasto con gli artt. 3, 24, e 111 Cost. I giudici di merito avevano ritenuto con ordinanze adottate in un breve lasso
di tempo, che : 1) i provvedimenti adottati dal giudice istruttore nel corso della causa di separazione, ai sensi dell’art. 709,
comma 4°, c. p. c., non sarebbero reclamabili di fronte ad alcuna autorità giudiziaria, stante il silenzio della norma citata,
ma dovendosene altresì escludere, dato il tenore letterale dell’art. 708, comma 3°, c. p. c, la reclamabilità ai sensi di tale
norma, disciplinante la sola ordinanza pronunciata dal Presidente del tribunale nella prima fase del giudizio di separazione, ed altresì la reclamabilità ai sensi dell’art. 669terdecies c. p. c., non potendo attribuire a detti provvedimenti natura
cautelare; 2) che analoghi dubbi possono sollevarsi con riferimento all’ art. 709ter c. p. c., che attribuisce al giudice procedente il potere di modificare i provvedimenti temporanei ed urgenti emessi in precedenza. Secondo l’ordinanza di rimessione, nei confronti dei predetti provvedimenti non sarebbe esperibile il reclamo ai sensi dell’art. 708, comma 3°, c. p. c, in
quanto riservato dal legislatore al solo provvedimento presidenziale, né altri mezzi di impugnazione.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 57
INIZIATIVE
PRESENTAZIONE
PROTOCOLLO PER
L’ASCOLTO DEL MINORE
AVV. GIULIA ALBIERO
RESPONSABILE SEZIONE MESSINA DELL’OSSERVATORIO
el febbraio 2010, la Sezione di Messina
dell’Osservatorio Nazionale sul Diritto di
Famiglia, si fatta promotrice nell’ambito
del Foro di Messina, dell’avvio di un protocollo per l’individuazione di regole comportamentali e prassi organizzative, in tema di ascolto del
minore.
L’introduzione infatti dell’art.155 sexies c.c., con
la L.54/2006, che prevede testualmente che “Il giudice dispone l’audizione del minore che abbia compiuto i dodici anni e anche di età inferiore ove capace
di discernimento”, ha elevato com’è noto a regola
l’audizione del minore nei procedimenti di separazione, divorzio, nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.
La L.54/2006, ha avuto indubitabilmente il merito
non solo di aver uniformato le disposizioni in tema
di ascolto del minore, adeguando e conformando la
normativa nazionale a quella internazionale e più
specificamente alle Convenzioni Internazionali di
New York del 1989 e di Strasburgo del 1996, recepite
dallo Stato Italiano rispettivamente con la L.
176/1991 e con la L.77/2003 ed infine al Regolamento
Ce n. 22201/2003, ed alle “Linee Guida del Consiglio
d’Europa per una giustizia a misura di bambino”,
adottate da l Consiglio dei Ministri il 17 novembre
2010, ma inoltre ha introdotto nel nostro ordinamento il principio generale dell’ascolto delle opinioni del minore, in tutti i procedimenti giudiziari
che lo riguardano.
Tuttavia non ha previsto le modalità con le quali
espletare detto ascolto.
Ciò ha posto la questione della piena applicazione
del principio sopra citato, non esistendo nella disciplina processuale, regole generali che disciplinano
la partecipazione del minore ai giudizi che coinvolgono i suoi interessi.
L’istituto dell’audizione del minore, era già presente nel quadro legislativo italiano, nella quasi to-
N
58 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
talità dei procedimenti che interessano l’infradiciottenne, e del tutto esemplificativamente possiamo citare alcune norme del codice civile quali
l’art.145 c.c. (disaccordo tra i coniugi-intervento del
giudice relativamente all’indirizzo della vita familiare) art.316 5 co. c.c. (controversie sull’esercizio
della potestà genitoriale) art.348 c.c. (nomina di un
tutore al minore) art.371 c.c. (decisione sul luogo ove
il minore deve essere allevato, compiere gli studi,
esercitare un’arte mestiere o professione).
Addirittura non si può non rilevare che un numero certamente non esiguo di norme in tema di filiazione e legittimazione, non si limita a prevedere
l’obbligo di dare voce al minore, ma giunge ad attribuire un valore decisivo e vincolante alle opinioni
da questi espresse.
Ed ancora per completezza, va citata la norma
dell’art.147 c.c. che è particolarmente significativa,
nell’ambito del tema dell’ascolto del minore. Tale disposizione impone infatti ai genitori, l’obbligo di
mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo tuttavia conto delle capacità, dell’inclinazione naturale
e delle aspirazioni dei figli.
Detta norma contrappone quindi al diritto dei genitori a svolgere la funzione educativa, un vero e
proprio diritto del minore alla autodeterminazione.
Pertanto, concludendo tale breve premessa, il
principio affermato dalla Convenzione di New York
del 1989, secondo cui deve essere data al fanciullo la
possibilità di essere ascoltato, coordinato con le varie norme esistenti nel nostro ordinamento in tema
di ascolto del minore, dalle quali il detto principio
risulta rafforzato, porta a concludere nel senso di ritenere che sia enucleabile nel nostro ordinamento
un vero e proprio “diritto soggettivo del minore, in
grado di autodeterminarsi, ad essere ascoltato e ad
esprimere le proprie aspirazioni”.
La questione, circa la piena applicazione del principio generale dell’ascolto delle opinioni del minore
in tutti i procedimenti che lo riguardano, ci ha fatto
comprendere, che era necessario, per l’elaborazione
del protocollo, chiedere il contributo di tutti i soggetti coinvolti nel processo della famiglia e minorile,
e quindi di tutti gli operatori (avvocati delle associazioni forensi che si occupano di famiglia e minori,
il libero Foro e quindi l’Ordine degli Avvocati, i magistrati del Tribunale Ordinario e del Tribunale per i
Minorenni e della Corte d’Appello-Sezione Minori, i
Servizi Sociali e il Servizio di Neuropsichiatria Infantile) e ciò al fine di una corretta ed equilibrata,
oltre che costituzionalmente orientata, interpretazione e applicazione della L.54/2006.
La stesura del protocollo, ci doveva infatti consentire, sia di individuare norme di comportamento di cui alcune già di fatto seguite da molti avvocati e magistrati, sia prassi organizzative che
consentissero di indicare criteri interpretativi in
tema di ascolto del minore, a garanzia della indivi-
INIZIATIVE
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 59
INIZIATIVE
duazione di modalità adeguate e rispettose della
sensibilità del minore, e che potessero assicurare
al minore stesso, un’effettiva opportunità di esprimere i propri bisogni, le proprie aspirazioni e i propri desideri.
Inoltre, ci siamo subito resi conto che, poiché le
norme comportamentali e le prassi organizzative
che sarebbero state individuate non sono vincolanti,
potevano davvero risultare efficaci, solo se effettivamente condivise da tutti gli operatori; abbiamo
dunque chiesto alla presidente della I Sezione del
Tribunale Civile, che si occupa della materia della
famiglia, dott.ssa Marina Moleti, di avviare una serie di incontri per la discussione di una bozza di protocollo redatta dalla Sezione di Messina dell’Osservatorio Nazionale sul Diritto di Famiglia, in collaborazione con la Prima Sezione del Tribunale, sulla
scorta di altri protocolli in tema di audizione del minore, sottoscritti in altri fori, al fine di determinare
un utile scambio di idee e di confronto tra le varie
professionalità che si misurano quotidianamente
con il conflitto familiare (avvocati, magistrati, operatori socio-sanitari).
La prima riunione per la discussione del protocollo si è svolta il 26 febbraio del 2010, ed oggi finalmente si procederà alla sottoscrizione.
Devo inoltre precisare che il primo incontro per la
discussione del protocollo era stato esteso ai magistrati dell’intero distretto della nostra Corte d’Appello, successivamente è stata costituita una commissione paritetica più ristretta, con le sole rappresentanze di ciascuna componente del tavolo di elaborazione del protocollo.
Forse a causa del lungo lasso di tempo intercorso
da quella prima riunione, la componente della magistratura si è ridotta al solo Tribunale Ordinario e
per i Minorenni di Messina.
Devo anche rilevare che il protocollo è stato inizialmente elaborato al solo scopo di effettuare una
corretta applicazione della L.54/2006.
Successivamente però, si è ravvisata la necessità
di fissare i criteri interpretativi di base e le indicazioni per l’ascolto del minore, in tutte le procedura
civili che lo riguardano.
Sicché, il protocollo originariamente nato per l’applicazione della L.54/2006, è diventato il protocollo
per l’ascolto del minore.
È costituito da 7 articoli, preceduti da un “preambolo” distinto in due parti di cui una premessa vera
e propria, ed un parte destinata invece ad una serie
di considerazioni relative a principi, interpretazioni,
valutazioni ormai direi pacifiche e consolidate in
dottrina e giurisprudenza sul tema dell’ascolto del
minore.
I principi enunciati nella premessa, sono innanzitutto quello della estensione della previsione dell’art.155 sexies c.c. operata dall’art. 4 della stessa
legge ai procedimenti non solo di separazione ma
60 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
anche di scioglimento, di cessazione degli effetti civili, di nullità del matrimonio, ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, e a tutti i procedimenti civili finalizzati alla emissione di provvedimenti relativi all’affidamento ai genitori e alla potestà parentale e comunque a tutti i procedimenti
che incidono sullo status del minore ivi compresi i
procedimenti di tutela.
Il secondo principio, è quello che l’audizione del
minore deve rappresentare per lo stesso una effettiva opportunità di espressione delle proprie opinioni e dei bisogni, dei desideri, delle aspettative,
delle incertezze e dei dubbi del minore stesso; segue il principio che le modalità dell’ascolto devono
essere adeguate e rispettose della sensibilità del
minore e devono essere improntate al rispetto del
principio della minima offensività; vi è ancora il
principio che l’audizione non può costituire un
mezzo di strumentalizzazione del minore né da
parte dei genitori, né da parte dei loro difensori e va
dunque protetta da qualsivoglia condizionamento,
interferenza o turbamento; vi è ancora il principio
fondamentale che il minore deve essere informato
del suo diritto ad essere ascoltato nelle procedure
che lo riguardano, ed infine il principio che sulla
scorta di quanto previsto dall’art.155 2° comma c.c.,
disposizione che privilegia espressamente l’accordo
dei coniugi, se non contrario all’interesse dei figli, la
non obbligatorietà dell’audizione nelle separazioni
consensuali e nei divorzi congiunti, sebbene si sia
tenuto conto dell’orientamento espresso dalla Suprema a Sezioni Unite, con la nota sentenza 22238
del 21.10.2009 in tema di audizione, che ha stabilito
che la mancata audizione del minore senza una giustificazione plausibile, determina nei procedimenti
di separazione o di revisione delle condizioni di separazione, un difetto di contraddittorio, cui consegue la nullità della decisione.
Le considerazioni che seguono alla premessa vera
e propria, sono che l’ascolto del minore è uno strumento per consentire al giudice di formarsi un’opinione più completa, ma non costituisce un mezzo
di prova, che il mancato ascolto nei procedimenti
contenziosi dovrà essere adeguatamente motivato
dal giudice e che inoltre per l’audizione del minore
infradodicenne il giudice si avvarrà preferibilmente della competenza di un ausiliario ex art.68
c.p.c. esperto in scienze psicologiche, pedagogiche
e umane, anche al fine di valutare la capacità di discernimento del minore, e in casi eccezionali, anche
su richiesta delle parti, il giudice potrà disporre una
consulenza tecnica d’ufficio con applicazioni degli
artt.191 e segg. c.p.c..
Passando all’esame più dettagliato dei singoli articoli, va subito rilevato che si è deciso di regolamentare le questioni più dibattute e che apparivano
più importanti e significative, ed in ordine alle quali
non vi era alcuna previsione normativa.
INIZIATIVE
L’art.1 è dedicato ai tempi e al luogo dell’ascolto
giudiziario, nonché alla verbalizzazione, l’art.2 relativo alla modalità di ascolto, l’art.3 relativo più specificamente alla verbalizzazione dell’ascolto del minore; l’art.4 dedicato alla questione spinosa della
presenza delle parti e dei difensori all’ascolto del
minore, l’art.5 che regolamenta l’importante questione della preventiva informazione del minore,
prima di procedere all’ascolto, l’art.6 relativo ai doveri di astensione dell’avvocato e alle informazioni
delle parti sull’ascolto stesso, ed infine l’art.7 relativo all’ascolto del minore in sede di consulenza tecnica d’ufficio.
Va evidenziato che all’art. 1, è stato previsto che
l’ascolto debba avvenire in orario non coincidente
almeno preferibilmente con quello scolastico, e ciò
al fine innanzitutto di non alterare gli equilibri del
minore e le sue regole di vita, ed inoltre perché portare un bambino in Tribunale, laddove non esiste
un’aula come quella che potremo utilizzare noi, negli orari di udienza può rappresentare per lo stesso
un vero e proprio trauma. Si è previsto pure che
l’ascolto debba avvenire comunque in ambiente
adeguato e a porte chiuse. È stata affrontata pure la
questione dell’accesso del minore, nei locali del Palazzo di Giustizia, prevedendo che il decreto di comparizione delle parti, contenga anche l’autorizzazione dell’accesso del minore.
Infine il terzo comma del citato art. 1, prevede il
caso in cui il minore non sia comparso, ed essendo
giunti alla conclusione che non si può prevedere un
obbligo a comparire del minore, il giudice in questo
caso fisserà una nuova udienza ed assumerà, se riterrà opportuno, informazioni con il Servizio Sociale, circa i motivi dell’assenza del minore.
L’art. 2, relativo alle modalità dell’ascolto, prevede
che potrà essere diretto o indiretto e verrà disposto
dopo che il giudice avrà acquisito conoscenza del
minore e del nucleo familiare, attraverso gli atti del
procedimento.
È stato inoltre previsto che il minore sarà consultato dal giudice sulle modalità dell’audizione, e cioè
il giudice, prima di procedere all’ascolto, cercherà di
capire se il minore ha esigenze particolari o problematiche particolari.
Il terzo comma dello stesso articolo 2, contiene la
previsione che anche nel caso in cui il giudice proceda personalmente ad ascoltare il minore, potrà
avvalersi di un ausiliario e potrà disporre che a procedere all’ascolto sia un esperto.
L’art. 3 è relativo alla verbalizzazione.
È stata prevista la formazione del processo verbale in forma riassuntiva, sotto la direzione del giudice, avendo tuttavia cura che la verbalizzazione riproduca, per quanto possibile, le parole e le espressioni dette dal minore.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 61
INIZIATIVE
Un’altra significativa previsione è quella che riguarda la descrizione del contegno del minore, di
cui si dovrà dare atto nella verbalizzazione.
È stato inoltre previsto che, quando esistono dotazioni tecniche che lo consentono, l’ascolto potrà
essere registrato e la registrazione verrà poi messa
a disposizione delle parti.
L’art.4 è stato rubricato “Presenza delle parti e dei
difensori”.
Si tratta di una questione molto dibattuta, e per
la quale le nostre riunioni hanno subito un rallentamento, a causa delle diverse impostazioni e posizioni dei soggetti coinvolti ed inoltre perché l’orientamento del Tribunale per i minorenni, risultava inconciliabile con la posizione dell’Avvocatura.
Si è giunti poi ad una soluzione di compromesso,
per quanto riguarda la presenza dei difensori, con
riguardo ai procedimenti innanzi al Tribunale per i
minorenni, e si è infatti diversificato tra procedimenti ex art. 317bis, e quelli de potestate.
Punti fermi e condivisi sono invece stati la non
presenza delle parti all’ascolto, tranne in casi particolari, la non possibilità dei difensori di interloquire
con il minore, che potranno sottoporre domande e
quesiti sulle quali ritengono utile che il minore sia
sentito.
L’art. 5 è relativo alla questione molto importante
della informazione del minore, prima che si proceda
all’ascolto.
Abbiamo previsto che l’obbligo dell’informazione,
non riguarda solo il giudice ma anche il difensore e
62 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
l’operatore del servizio sociale, nell’ambito delle rispettive competenze.
L’informazione del minore riguarda anche gli esiti
dell’ascolto, che potranno non essere conformi alle
preferenze e alle richieste da lui espresse.
L’art. 6 contiene anch’esso una previsione molto
importante, riferendosi ai doveri di astensione dell’avvocato ed alle informazioni delle parti.
Il primo comma si riferisce ai difensori dei genitori del minore, che deve essere ascoltato, i quali dovranno adoperarsi affinché la spontaneità del minore non sia in alcun modo compromessa, ma dovranno anche invitare le parti da loro assistite, ad
assumere un comportamento responsabile nei confronti del minore, evitando forme di suggestione o di
induzione della volontà del minore.
Detta previsione è apparsa subito a tutti necessaria ed importante anche alla luce della sentenza
della Suprema Corte la n.2223/2009.
Inoltre si è rilevato che è abbastanza diffuso il
comportamento dei legali, che ricevono presso i loro
studi i minori, figli dei loro assistiti, che vengono
sentiti dagli avvocati, senza che in tal senso sia stato
informato l’altro genitore e che questi abbia dato il
suo consenso.
L’art 7 infine prevede che l’ascolto, anche se in
casi eccezionali, possa avvenire tramite un consulente tecnico d’ufficio, con le prescrizioni dell’art. 3
relative alla verbalizzazione e con la previsione inoltre della partecipazione dei consulenti eventualmente nominati dalle parti, con modalità di ascolto
protette in considerazione della complessità del
caso.
È inutile nascondere che abbiamo trovato numerose difficoltà nell’elaborazione del protocollo, principalmente riconducibili alle diverse impostazioni
di ciascun partecipante e ai rispettivi ruoli e funzioni, ma le abbiamo superate grazie alla volontà di
tutti di raggiungere l’obiettivo di dare vita finalmente al protocollo, grazie anche alla sensibilità dimostrata sia dagli avvocati che dai magistrati partecipanti al tavolo, che si sono confrontati ed hanno
collaborato in piena armonia. Questo protocollo non
ha la pretesa di essere esaustivo, è solo un primo
passo, sicuramente perfezionabile, affinché, attraverso il continuo confronto e dialogo tra tutti i protagonisti del processo della famiglia, si possa giungere ad offrire un concreto contributo al miglioramento di questo settore della giustizia che più di
tutti gli altri coinvolge i sentimenti e le emozioni di
tutti i soggetti che ne fanno parte.
Oggi, con grande soddisfazione, la nostra iniziativa viene completata dalla contemporanea inaugurazione dell’aula per l’ascolto protetto dei minori,
allestita a cura e spese del Soroptimist International Club di Messina e del Kiwanis Club Messina, da
sempre impegnati nel sociale ed a favore dell’infanzia.
MEDIAZIONE PENALE
L’ATTIVITÀ
DI MEDIAZIONE
NELL’AMBITO
DELLA GIUSTIZIA
PENALE MINORILE
AVV. MATILDE GIAMMARCO
RESPONSABILE DELLA SEZIONE DI CHIETI DELL’OSSERVATORIO
n campo penale, ed in particolare nel campo
penale minorile, la mediazione viene intesa
come attività volta a ricomporre un conflitto
insorto tra le parti a causa del “fatto-reato”, inteso come “evento relazionale che primariamente
provoca la rottura di aspettative sociali condivise”1,
attraverso la riparazione del danno alla vittima o la
riconciliazione fra vittima e autore del reato contribuendo, così, anche al reinserimento sociale del minore responsabile del commesso illecito.
La mediazione fra autore e vittima è, dunque, innanzitutto un processo relazionale in cui dapprima
attraverso “il linguaggio” ossia la parola “scambiata”
e “indirizzata” e, successivamente, anche attraverso
una condotta riparatrice, si riattiva la comunicazione sociale fra l’autore e la vittima di un reato” 2
Il contesto è, quindi, quello relativo ad una giustizia riparativa che riconosce alle parti un ruolo attivo
nella risoluzione del conflitto, anziché esercitare
una mera potestà punitiva.
In questo quadro l’attività di mediazione si configura come una attività svolta da un terzo equidistante tra le parti e finalizzata a ristabilire una comunicazione tra esse, come tale non è sostitutiva
del processo, ma può costituire una importante risorsa operativa utilizzabile all’interno del processo
medesimo.
Il mediatore è un mero facilitatore della comunicazione, il quale non deve sostituirsi alle parti ma
deve aiutarle a trovare un modo diverso di comunicare e una visione del conflitto e del “fatto - reato”
che includa anche la visione e le motivazioni dell’altro: cosicchè è “l’incontro l’elemento che caratterizza principalmente la mediazione penale”. 3
Attraverso tale processo si cerca di dare ai reati
commessi dai minori una risposta diversa passando
I
da un’ottica “retributiva - repressiva” ad un’ottica
“riparativa e conciliativa”.
Per questo si può dire che il processo mediativo è
concluso solo quando entrambe le parti hanno sviluppato una visione nuova del “fatto-reato”, supportata dalla conoscenza emotiva dell’altro, quale
condizione necessaria per la ricerca di un accordo
che superi il conflitto.
Nel rispetto di tale prospettiva, per il minore il
processo mediativo potrebbe rappresentare un momento di presa di coscienza e di responsabilizzazione circa il “fatto reato”, in un percorso cognitivo
e rielaborativo del fatto stesso, nel mentre per la vittima, la mediazione potrebbe rappresentare il terreno per arrivare ad una soddisfacente conciliazione, anche in termini riparativi, in un percorso
svolto con maggiore vicinanza rispetto alla sua posizione, accolta con tutte le sue particolarità ed i
suoi bisogni.
Si tratta, quindi, di un paradigma di giustizia autonoma e alternativo al modello di giustizia penale
che individua i suoi obiettivi “…. innanzitutto nel riconoscimento della vittima, perché la giustizia ripartiva ha come obiettivo la presa in carico dei bisogni della vittima che solitamente rivestono una
posizione marginale all’interno del processo penale
e specificatamente all’interno del processo penale
minorile,4 e nella riparazione dell’offesa nella sua
dimensione globale sia economica che emotiva; in
secondo luogo nell’autoresponsabilizzazione del reo
il quale viene portato a rielaborare il conflitto ed i
motivi che lo hanno causato, dovendo riconoscere
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 63
MEDIAZIONE PENALE
la propria responsabilità ed avvertire la necessità
della riparazione; in terzo luogo nel coinvolgimento
della comunità nel processo di riparazione nel senso
che la comunità dovrebbe svolgere il duplice ruolo
di destinatario delle politiche di riparazione ma anche quello di incoraggiare il percorso di pace; da ultimo nel rafforzamento degli standard morali, in
senso preventivo generale attraverso l’acquisizione
di concrete indicazioni di comportamento per i consociati e nel contenimento dell’allarme sociale proprio attraverso la restituzione alla comunità della
gestione di determinati accadimenti che hanno un
significativo impatto sulla percezione della dimensione sicurezza”.5
Pur non avendo nel nostro ordinamento giuridico
una definizione e previsione della mediazione penale, se non nell’ambito del procedimento dinanzi
al Giudice di Pace (D. Lgs. 274/00),6 certamente non
si può non rilevare come nel modello di giustizia penale minorile, disciplinato nel D.P.R. 448/88, tutta la
normativa processuale è applicata “in modo adeguato alla personalità ed alle esigenze educative del
minore al fine di favorire il suo recupero ed il reinserimento sociale. Infatti sin dall’art. 1 del Dpr
448/88 si prevede che “il giudice illustra all’imputato
il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico sociali delle decisioni”.
Tale principio fondante, che determina un sostanziale spostamento di attenzione dal fatto alla
personalità dell’autore, proprio nell’intento di approntare una disciplina diretta a garantire piena tutela dei soggetti minori ed, in particolare, al loro diritto costituzionalmente garantito ad un pieno e
completo sviluppo della personalità, atto a comprendere il reale significato dell’atto compiuto e
conseguentemente calibrare le modalità dell’intervento penale che, nell’intento di perseguire i richiamati obiettivi, facilmente potrà includere il “confronto tra l’autore di reato e la vittima”, ossia una
attività mediativa, che in tal senso potrà essere inserita in qualsiasi fase del procedimento.
Il primo passaggio utile è determinato dall’ art. 9
del richiamato decreto che impone di effettuare accertamenti sulla personalità del minore prevedendo
che sia il Pubblico Ministero che il giudice acquisiscano elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne,
al fine di accertarne l’imputabilità, il grado di responsabilità e valutare la rilevanza sociale del fatto,
nonché dispone le adeguate misure penali e adotta
gli eventuali provvedimenti civili.
La conoscenza dell’imputato attraverso la consultazione di esperti ed in tal senso anche di mediatori,
offre un utile base di partenza per l’applicazione di
strumenti di giustizia ripartiva volti non solo al giudizio di colpevolezza ma quale supporto ad una serie di scelte che vanno dalla decisione di merito alla
64 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
rilevanza sociale del fatto, dalla definizione delle
prescrizioni per la sospensione del processo con
messa alla prova alla scelta delle soluzioni sostitutive.7
L’applicazione di tale norma fin dai primi momenti dell’indagine preliminare dà la possibilità a
chè la mediazione eventualmente intrapresa possa
dare i migliori risultati.
Il punto critico dell’applicazione di tale disposizione risiede nel fatto che in difetto di una esplicita
previsione che ricolleghi specifici effetti processuali
al tentativo di mediazione, non potrà essere inibita
l’iniziativa del Pubblico Ministero ex art. 112 Cost. al
pari di quanto accade per il giudice al quale, nel definire il processo, non è data la possibilità di fare rinvio automaticamente agli esiti della mediazione, ma
ferma la possibilità di rimessione della querela, il
giudicante potrà adottare i provvedimenti più opportuni come il non luogo a procedere ex art. 27 del
D.p.r. 448/88,8 se risulta la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento o (...) quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze
educative del minore, il perdono giudiziale ex art.
169 c.p. oppure, da ultimo, l’applicazione di sanzioni
sostitutive. In tali ipotesi la mediazione potrebbe
rappresentare, nel rispetto della norma, uno strumento per gestire situazioni residuali relative al
conflitto sottostante oltre e dopo i richiamati provvedimenti.
Ed ancora più specificatamente è l’ art. 28 del
D.P.R. 448/88 ad introdurre un paradigma riparativo
in senso stretto: “Il giudice può disporre con ordinanza, sentite le parti, la sospensione del processo
quando ritiene di dover valutare la personalità del
minore (...) con il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le
conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa dal reato”. 9
La norma distingue chiaramente i due possibili
profili: l’attività di conciliazione con la vittima
espressione dell’intento mediativo vero e proprio e
la riparazione del danno arrecato come modalità
con la quale la conciliazione potrebbe essere favorita.
Con la sospensione del processo e la messa alla
prova il legislatore ha per la prima volta valorizzato
il ruolo che la riconciliazione con la vittima assume
nel processo di responsabilizzazione dell’autore del
reato.
Ugualmente la conciliazione potrà essere effettuata durante l’applicazione delle sanzioni sostitutive previste dall’art. 32 del D.P.R. 448/88 o in fase di
esecuzione penale, anche se in tali ipotesi, essendo
intervenuta già una pronuncia di condanna, la mediazione assume una valenza diversa di quella che
si potrebbe avere nelle fasi antecedenti.10
Viceversa la comunità internazionale si è da sempre rivelata più sensibile alle tematiche relative alla
MEDIAZIONE PENALE
giustizia ripartiva in campo penale adottando provvedimenti in tal senso significativi.
Tra gli atti internazionali che costituiscono fonti
di indirizzo primario dobbiamo ricordare l’art. 40
della Convenzione di diritti del fanciullo 11 nonché le
Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile (O.N.U. 29.11.1985) nelle quali si evidenzia che “dovrebbe essere considerata l’opportunità, ove possibile, di trattare i casi di giovani che
delinquono senza ricorre al processo formale da
parte dell’autorità competente che complicano l’affidamento a servizi della comunità o ad altri.”12.
Ugualmente la raccomandazione 20 del 1987 sulle
risposte sociali alla delinquenza minorile (Consiglio
d’Europa Strasburgo 17.09.1987) nella quale si prevede per i minorenni l’opportunità di uscita dal circuito giudiziario e la ricomposizione del conflitto attraverso forme di “diversion” e di “mediation”, ed
inoltre si raccomanda l’utilizzo di misure che comportino la riparazione del danno causato.13
Particolare importanza riveste la raccomandazione 19 del 1999 del Consiglio d’Europa adottata dal
Comitato dei Ministri in data 15.09.99, nella quale si
sottolinea come la mediazione potrebbe aumentare
la consapevolezza del ruolo importante del singolo
e della comunità nella prevenzione e nel trattamento della criminalità e risolvere i conflitti associati attraverso l’incoraggiamento del senso di responsabilità dell’autore del reato.14
La Raccomandazione ipotizza un programma di
giustizia ripartiva fruibile ed utilizzabile in ogni
stato e grado del processo con un mediatore terzo
imparziale con formazione specifica di base e continuo training di aggiornamento.
Nella dimensione nazionale, in linea con quanto
elaborato in sede internazionale, si colloca il documento “L’attività di mediazione nell’ambito della
giustizia penale minorile. Linee di indirizzo.” elaborato dalla Commissione nazionale consultiva di coordinamento per i rapporti tra il Ministero della Giustizia, le regioni, gli enti locali ed il volontariato ed
approvato in sede politica il 30 novembre 1999, modificato nel 2008, esplicita e definisce le diverse aree:
la mediazione viene considerata come “un’attività
che può essere utilmente considerata dal sistema
penale, in quanto mette a confronto diretto reo e vittima e favorisce la comprensione delle reciproche
posizioni: il reo è aiutato a comprendere gli effetti
prodotti dal reato sulla vittima, la vittima trova un
contesto che accoglie le sue emozioni e che le consente di interagire con il reo.
Il documento cerca di rispondere all’esigenza di
promuovere l’attività di mediazione penale e di fornire orientamenti condivisi ed unitari in merito alle
modalità di attuazione.
Il modello di attuazione prevalente è normalmente costituito da un “ufficio” o “centro di mediazione penale” con sede autonoma rispetto al Tribunale per i minorenni, con il quale collaborano operatori dei servizi minorili della giustizia e dei servizi
sociali esperti.
La mediazione, seguendo le linee di indirizzo richiamate, si svolge attraverso delle autonome fasi
anche se in via preliminare vanno evidenziati due
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 65
MEDIAZIONE PENALE
aspetti fondamentali: innanzitutto l’asimmetria
delle parti rispetto al conflitto in quanto la posizione
di vittima e di autore del reato stabilisce una diversità che deve essere riconosciuta, in secondo luogo
la particolarità del conflitto che si configura come
reato e quindi richiede un intervento giudiziario, garantito dall’obbligatorietà dell’azione penale e presuppone necessariamente che il mediatore operi in
raccordo con i soggetti istituzionali che assicurano
interventi nei confronti del minore.
L’ invio può venire dal magistrato 15, dalla polizia
giudiziaria, dai servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia e del territorio (art. 6 DPR.
448/88), dalla vittima e dal reo.
Condizione dell’invio è la manifestazione del consenso che deve essere “informato” nel senso che il
minore autore di reato e la vittima devono essere informati delle finalità generali della mediazione, dei
contenuti e dei significati che vengono attivati sottolineando il valore di “opportunità positiva”. L’invio avviene previa ammissione di responsabilità da
parte dell’autore di reato, un’ammissione intesa non
in senso tecnico.
Nel primo incontro le parti vengono ascoltate separatamente, in un clima di accoglienza e di ascolto,
per dare spazio alla possibilità di raccontare il proprio conflitto. In questa fase vengono sentiti ed in66 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
formati anche i genitori del minore ed il difensore.
La parte finale dell’incontro con ciascuna parte è
dedicata ad una definizione delle possibilità e delle
condizioni di sviluppo del processo mediativo.
È in questa fase che verranno chiariti i caratteri
del processo: confidenzialità, segretezza, inutilizzabilità in sede processuale di quanto detto durante il
procedimento di mediazione.
Negli incontri congiunti che seguiranno l’autore
del reato e la vittima avranno la possibilità di ascoltarsi e di ricostruire una versione condivisa dei fatti
e potranno andare verso la definizione dell’accordo
che può arrivare a ricomprendere un progetto di riparazione del danno, svolto dal reo in favore della
vittima.
L’esito della mediazione dovrà essere comunicato
alla Magistratura e al Servizio che segue il caso.
Nel rispetto dei principi propri della mediazione
non verranno comunicati i contenuti ma solo l’esito
positivo o negativo della stessa ed in caso di esito
positivo si potrà comunicare anche l’eventuale accordo di riparazione definito tra le parti.
Una mediazione si può dire riuscita solo quando
vi è la percezione da parte del mediatore che le parti
hanno avuto effettivamente la possibilità di esprimere i propri sentimenti ed in tal modo siano venute ad un reciproco riconoscimento che li ha con-
MEDIAZIONE PENALE
dotti ad una diversa comunicazione ed ad una diversa reciproca considerazione.
Ogni procedimento di mediazione necessita di
una fase di follow up come momento di valutazione
da parte dell’Ufficio di mediazione dove osservare
la conformità della condotta ripartiva rispetto all’accordo siglato dalle parti e la verifica attraverso
interviste e schede di valutazione del livello di soddisfazione delle parti.
Le esperienze di mediazione penale minorile in
Italia sono ancora in fase sperimentale 16e, dallo studio condotto dal Dipartimento della giustizia minorile, emerge che la maggior parte dei centri di mediazione penale minorile, hanno stipulato degli accordi formali, con il Centro di giustizia minorile.
La tipologia degli accordi utilizzati è sostanzialmente di due tipi: nella maggior parte dei casi è
stato utilizzato il Protocollo d’intesa, e solamente in
due casi è stato usato l’Accordo di programma. Tutti
gli accordi stipulati hanno alla base una collaborazione tra gli enti locali (regioni, province e comuni),
i servizi della giustizia minorile, e in alcuni casi, vi è
un’intensa collaborazione con la magistratura minorile.
Generalmente, la maggior parte dei centri di mediazione ha come modello teorico di riferimento
quello francese del “Centre de Mediation e de formation à la mediation” di J. Morineau e questo anche dal punto di vista della formazione dei mediatori.
Nonostante, però, il tempo trascorso dalla prima
esperienza, è ancora forte l’esigenza di sviluppare
una più convinta cultura giuridica e sociale sui temi
della risoluzione alternativa del conflitto in ambito
penale, per far sì che l’intera comunità sociale possa
da un lato sciogliere l’ avvertita incertezza circa la rilevanza giuridica dello strumento mediativo e la sua
collocazione tecnica in ambito processuale, e dall’altro superare la percezione, ancora molto sentita,
che solo la punizione rappresenta un efficace e garante strumento di difesa sociale.
In questo senso dobbiamo impegnarci a perseguire tale obiettivo perché concludendo con le parole di Jaquelin Morineau : se la mediazione “diventa
un progetto di società, può essere una forma di legame sociale in grado di aiutarci a passare dall’ordine antico, pensato come un rapporto di sottomissione del cittadino alle istanze superiori, al nuovo
ordine, basato sulla partecipazione reale e attiva alla
gestione della vita di tutti i giorni”17.
Bibliografia
Ceretti - Di Ciò - Mannozzi, Giusitizia ripartiva e
mediazione penale e pratiche a confronto, in Scaparro (a cura di) - Il coraggio di mediare, Milano,
2001.
Cosi G. - Giustizia senza giudizio. Limiti del diritto
e tecniche di mediazione, in Molinari - Amoroso (a
cura di), Criminalità minorile e mediazione, Milano,
1998.
Mannozzi G. - La giustizia senza spada - Milano,
2003.
Morineau J. - Lo spirito della mediazione - Milano,
2000.
Occhiogrosso - La mediazione tra imputato minorenne e vittima del reato: la prospettiva giuridica,
Picotti (a cura di) La mediaizone nel sistema penale
minorile - Padova, 1998.
Note
1
A. Ceretti - Il coraggio di mediare - a cura di F- Scaparro - Guerini Editore - 2002
2
L. Mattucci - La mediazione penale nel sistema minorile - Rivista dell’AIMS nn. ¾ 3
J. Morineau - Lo spirito della mediazione - Franco Angeli - Cromlech - Modelli di mediazione penale minorile - Ministero della Giustizia - Dipartimento giustizia minorile - 2004
4
Nel processo penale minorile il ruolo della parte offesa è del tutto marginale stante l’inammissibilità ex art. 10 dpr 488/88, a parte
quanto previsto all’art 31, 5 del richiamato dpr che dispone la possibilità per la parte offesa di partecipare all’udienza preliminare con
i diritti e le facoltà dell’art. 90 c.p.p..
5
Il coraggio di mediare a cura di F. Scaparro
6
Art. 29, c. 4 del D.lgs 28 agosto 2000 n. 274 “il giudice, quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti.
In tal caso, qualora sia utile favorire la conciliazione, il giudice può rinviare l’udienza per un periodo non superiore ai due mesi e, ove occorra, può avvalersi dell’attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio”.
7
cfr. Art. 9. Accertamenti sulla personalità del minorenne 1. Il pubblico ministero e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni
e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili. 2. Agli stessi
fini il pubblico ministero e il giudice possono sempre assumere informazioni da persone che abbiano avuto rapporti con il minorenne e
sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità.
8
cfr. Art. 27-Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto
e la occasionalità del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto
quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne. Sulla richiesta il giudice provvede in camera
di consiglio sentiti il minorenne e l’esercente la potestà dei genitori, nonchè la persona offesa dal reato. Quando non accoglie la richiesta
il giudice dispone con ordinanza la restituzione degli atti al pubblico ministero. Contro la sentenza possono proporre appello il minorenne
e il procuratore generale presso la corte di appello. La corte di appello decide con le forme previste dall’articolo 127 del codice di procedura penale e, se non conferma la sentenza, dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero. Nell’udienza preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato, il giudice pronuncia di ufficio sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, se ricorrono le condizioni previste dal comma 1.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 67
MEDIAZIONE PENALE
9
cfr Art. 28. Sospensione del processo e messa alla prova. 1. Il giudice, sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del
processo quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova disposta a norma del comma 2. Il processo
è sospeso per un periodo non superiore a tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; negli altri casi, per un periodo non superiore a un anno. Durante tale periodo è sospeso il
corso della prescrizione 2. Con l’ordinanza di sospensione il giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con
il medesimo provvedimento il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato.3. Contro l’ordinanza possono ricorrere per cassazione il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore.4. La sospensione non può essere disposta se l’imputato chiede il giudizio abbreviato o il giudizio immediato 5.
La sospensione è revocata in caso di ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni imposte.
10
cfr. Art. 32. Provvedimenti.1. Nell’udienza preliminare, prima dell’inizio della discussione, il giudice chiede all’imputato se consente
alla definizione del processo in quella stessa fase, salvo che il consenso sia stato validamente prestato in precedenza. Se il consenso è
prestato, il giudice, al termine della discussione, pronuncia sentenza di non luogo a procedere nei casi previsti dall’articolo 425 del codice di procedura penale o per concessione del perdono giudiziale o per irrilevanza del fatto 2. Il giudice, se vi è richiesta del pubblico
ministero, pronuncia sentenza di condanna quando ritiene applicabile una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva. In tale caso la
pena può essere diminuita fino alla metà rispetto al minimo edittale. 3. Contro la sentenza prevista dal comma 2 l’imputato e il difensore
munito di procura speciale possono proporre opposizione, con atto depositato nella cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza,
entro cinque giorni dalla pronuncia o, quando l’imputato non è comparso, dalla notificazione dell’estratto. La sentenza è irrevocabile
quando è inutilmente decorso il termine per proporre opposizione o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile. 3bis. L’esecuzione della sentenza di condanna pronunciata a carico di più minorenni imputati dello stesso reato rimane sospesa nei confronti di coloro che non hanno proposto opposizione fino a quando il giudizio conseguente all’opposizione non sia definito con pronuncia irrevocabile. 4. In caso di urgente necessità, il giudice, con separato decreto, può adottare provvedimenti civili temporanei a protezione del minorenne. Tali provvedimenti sono immediatamente esecutivi e cessano di avere effetto entro trenta giorni dalla loro emissione.
11
cfr Articolo 40 Convenzione dei diritti del fanciullo di New York.1. Gli Stati parti riconoscono ad ogni fanciullo sospettato accusato
o riconosciuto colpevole di reatopenale di diritto ad un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore personale,che
rafforzi il suo rispetto per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e che tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare
il suo riinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest’ultima.2. A tal fine, e tenendo conto delle disposizioni pertinenti degli strumenti internazionali, gli Stati parti vigilano in particolare:
a) affinché nessun fanciullo sia sospettato, accusato o riconosciuto di reato penale a causa di azioni o di omissioni che non erano vietate dalla legislazione nazionale o internazionale nel momento in cui furono commesse;
b) affinché ogni fanciullo sospettato o accusato di reato penale abbia almeno diritto alle seguenti garanzie: i) di essere ritenuto innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente stabilita; ii) di essere informato il prima possibile e direttamente, oppure, se del caso, tramite i suoi genitori o rappresentanti legali, delle accuse portate contro di lui, e di beneficiare di un’assistenza legale
o di ogni altra assistenza appropriata per la preparazione e la presentazione della sua difesa; iii) che il suo caso sia giudicato senza indugio da un’autorità o istanza giudiziaria competenti, ndipendenti ed imparziali per mezzo di un procedimento equo ai sensi di legge in
presenza del suo legale o di altra assistenza appropriata, nonché in presenza dei suoi genitori o rappresentanti legali a meno che ciò non
sia ritenuto contrario all’interesse preminente del fanciullo a causa in particolare della sua età o della sua situazione; iv) di non essere
costretto a rendere testimonianza o dichiararsi colpevole; di interrogare o far interrogare i testimoni a carico e di ottenere la comparsa e
l’interrogatorio dei testimoni a suo discarico a condizioni di parità; v) qualora venga riconosciuto che ha commesso reato penale, poter
ricorrere contro questa decisione ed ogni altra misura decisa di conseguenza dinanzi una autorità o istanza giudiziaria superiore competente, indipendente ed imparziale, in conformità con la legge; vi) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o
non parla la lingua utilizzata; vii) che la sua vita privata sia pienamente rispettata in tutte le fasi della procedura. 3. Gli Stati parti si
sforzano di promuovere l’adozione di leggi, di procedure, la costituzione di autorità e di istituzioni destinate specificamente ai fanciulli
sospettati, accusati o riconosciuti colpevoli di aver commesso reato, ed in particolar modo: a) di stabilire un’età minima al di sotto della
quale si presume che i fanciulli non abbiano la capacità di commettere reato; b) di adottare provvedimenti ogni qualvolta ciò sia possibile ed auspicabile per trattare questi fanciulli senza ricorrere a procedure giudiziarie rimanendo tuttavia inteso che i diritti dell’uomo
e le garanzie legali debbono essere integralmente rispettate.4. Sarà prevista tutta una gamma di disposizioni concernenti in particolar
modo le cure, l’orientamento, la supervisione, i consigli, la libertà condizionata, il collocamento in famiglia, i programmi di formazione
generale e professionale, nonché soluzioni alternative all’assistenza istituzionale, in vista di assicurare ai fanciulli un trattamento conforme al loro benessere e proporzionato sia alla loro situazione che al reato.
12
art. 11 Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile, ONU New York 29.11.1985 11. (Ricorso a misure extra-giudiziarie). - Dovrebbe essere considerata l’opportunità, ove possibile, di trattare i casi dei giovani che delinquono senza ricorrere al processo formale da parte dell’autorità competente prevista dall’art. 14, I comma. La polizia, la procura o gli altri servizi che hanno in carico i casi di delinquenza giovanile, avranno il potere di decidere tali casi a loro discrezione, senza ricorrere ai procedimenti formali, in
conformità ai criteri fissati a questo scopo nei rispettivi sistemi giuridici, e anche ai princìpi contenuti in queste regole. Il ricorso a misure extra-giudiziarie che implicano l’affidamento a servizi della comunità o ad altri, richiede il consenso del giovane o dei suoi genitori o tutore restando inteso che tale decisione di affidamento può essere soggetta a revisione da parte dell’autorità competente qualora ne sia fatta domanda. Al fine di facilitare la soluzione discrezionale dei casi di giovani che delinquono, saranno compiuti sforzi per
organizzare programmi comunitari, di sorveglianza e di orientamento per assicurare la restituzione dei beni e il risarcimento delle vittime.
13
cfr. p. 7. Converrà continuare a sviluppare la gamma delle misure alternative alle consuete sanzioni giudiziarie. Tali misure dovranno
applicarsi mediante una procedura regolare rispettare il principio di proporzionalità, essere prese nell’interesse superiore del minore, e
in linea di principio, non applicarsi se non nei casi in cui la responsabilità sia spontaneamente riconosciuta
14
La raccomandazione relativa alla Mediazione in materia penale (Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa n. R(99)19 adottata
il 15/09/1999) invita gli Stati membri a tenere presente - nello sviluppo di iniziative nel campo della mediazione penale - i Principi contenuti nell’appendice. Detto allegato definisce puntualmente: i principi generali in tema di mediazione, le regole che devono disciplinare
l’attività degli organi della giustizia penale in relazione alla mediazione, agli standards da rispettare per l’attività dei servizi di mediazione, alle indicazioni sulla qualifica dei mediatori e sulla loro formazione, al trattamento dei casi individuali agli esiti della mediazione,
alle attività di ricerca e valutazione che gli Stati membri dovrebbero promuovere sulla materia.
15
Il pm visti gli art- 9 del dpr 448/88 e 555 c-p-p-, il gip visti gli artt. 9 e 27 del richiamato decreto, il gup ex artt. 9, 27 e 28 del dpr
448/88 e 169 c-p- e il giudice del dibattimento ex artt- 9 e 28 dpr e 169 c.p.
16
La prima iniziativa è stata avviata nel 1995 a Torino, poi sono state interessate altre sedi quali Milano, Bari, Trento e Cagliari.
17
J. Morineau - Lo spirito della mediazione - Franco Angeli.
68 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
LESSICO DI DIRITTO DI FAMIGLIA
Dal nuovo Lessico di diritto di famiglia, 2013 riproduciamo la voce
VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI
DI ASSISTENZA FAMILIARE
GIANFRANCO DOSI
I. QUALE È LA NUOVA INTERPRETAZIONE DELL’ARTICOLO 570 DEL CODICE PENALE PROPOSTA DALLE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE?
Le Sezioni Unite della Cassazione - occupandosi delle conseguenze penali dell’omesso pagamento dell’assegno di separazione e di divorzio - hanno abbandonato la tradizionale interpretazione delle norme penali ed hanno affermato che le violazioni di natura economica sono punibili ai sensi del primo comma dell’articolo 570 del codice penale e non del secondo comma (Cass. pen. Sez. Unite, 31 gennaio 2013, n. 23866).
Per comprendere la rivoluzione che questa sentenza ha operato occorre previamente riflettere sulla norma
penale del codice.
L’art. 570 del codice penale (“violazione degli obblighi di assistenza familiare”) dispone che “chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale
delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori o alla qualità di coniuge
è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 103 ad euro 1.032”. “Le dette pene - avverte
il secondo comma - si applicano congiuntamente a chi: 1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del
pupillo o del coniuge; 2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa”. “Il delitto - chiarisce
il terzo comma - è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il
reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2 del precedente comma”. Infine l’ultimo comma prescrive che le disposizioni della norma in questione non si applicano se il fatto è preveduto come più grave
reato da un’altra disposizione di legge.
Il linguaggio dell’articolo 570 del codice penale tradisce tutta l’età della norma che meriterebbe - come
molte altre del codice penale del 1930 - di essere completamente riformulata.
L’opinione prevalente in passato era sempre stata quella di considerare giuridicamente l’articolo 570 del
codice penale come una norma unitaria che prevede due commi in progressione criminosa tra loro: un
primo comma (violazione di assistenza in genere) come ipotesi base e un secondo comma (violazione di
assistenza materiale) come ipotesi aggravata. Questa concezione cosiddetta “unitaria” dell’art. 570 è ben
sintetizzata in Cass. pen. Sez. VI, 21 novembre 1991, n. 479 dove si è ribadito che le diverse ipotesi previste dall’art. 570 cod. pen. non configurano una pluralità di reati distinti, ma si riferiscono ad un unico
reato, avente come contenuto fondamentale tipico l’inosservanza cosciente e volontaria dei vari obblighi
di assistenza familiare scaturenti dal vincolo matrimoniale e dal rapporto di parentela cosicché in base
alla formulazione complessiva dell’articolo di legge in questione, l’unico comportamento penalmente rilevante del coniuge obbligato al versamento di un assegno di mantenimento in favore dell’altro coniuge
dal quale viva separato, o dei figli minori a questi affidati, si realizza allorché il versamento dell’assegno
venga del tutto omesso, o ne sia ridotto l’importo in misura tale da non garantire i mezzi di sussistenza
ai beneficiari dell’assegno.
Sennonché alcune decisioni più recenti hanno messo in discussione questa interpretazione unitaria dell’art. 570 codice penale sostenendo che il primo e il secondo comma hanno ad oggetto fatti del tutto eterogenei nella loro storicità e considerazione sociale (Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2011, n. 3016; Cass. pen.
Sez. VI, 20 ottobre 2011, n. 3881; Cass. pen. Sez. VI, 13 marzo 2012, n. 12307) e quindi integrano due reati
autonomi. La condotta di sottrazione agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà genitoriale nei confronti dei figli minori e quella di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, previste, rispettivamente, nel
primo e secondo comma dell’articolo 570 del codice penale - hanno precisato queste sentenze - non sono
in rapporto di continenza o di progressione criminosa, ma hanno ad oggetto fatti del tutto eterogenei. Il
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primo comma si occupa delle violazioni di carattere morale. Il secondo comma delle violazioni di carattere
economico.
La questione è così giunta davanti alle Sezioni Unite (Cass. pen. Sez. Unite, 31 gennaio 2013, n. 23866)
chiamate ad occuparsi - come meglio si dirà tra breve - della interpretazione dell’articolo 12-sexies della
legge sul divorzio e dell’art.3 della legge sull’affidamento condiviso dei figli che entrambe implicano l’interpretazione dell’articolo 570 del codice penale.
Proprio nell’ambito di questa decisione le Sezioni Unite hanno definitivamente abbandonato l’interpretazione unitaria del passato sull’articolo 570, aderendo alla tesi dell’autonomia dei due commi, ma hanno
riprecisato del tutto il significato del reato previsto nel primo comma e di quello previsto nel secondo
comma.
Affermano le Sezioni Unite che l’assunto della giurisprudenza dominante, secondo cui il primo comma sanzionerebbe la violazione degli obblighi di assistenza morale, mentre il secondo punirebbe la violazione di quelli
di assistenza materiale connessi alla condizione di coniuge o di genitore non può condividersi. Infatti negli obblighi di assistenza inerenti alla qualità di coniuge (art. 143 codice civile) rientrano anche quelli di assistenza
materiale concernenti il rispetto e l’appagamento delle esigenze economicamente valutabili dell’altro coniuge
e la corresponsione dei mezzi economici necessari per condurre il tenore di vita della famiglia. Obblighi che
permangono anche in caso di separazione personale dei coniugi e anche in caso di divorzio, ove sia previsto
l’assegno divorzile la cui natura assistenziale è ribadita costantemente dalla giurisprudenza civile.
Come concordemente evidenziano la dottrina e la consolidata giurisprudenza in materia civile, l’obbligo
di assistere l’altro coniuge e i figli ha un contenuto materiale che va ben al di là dell’obbligo di non far mancare al coniuge e ai figli i mezzi di sussistenza, ossia ciò che è indispensabile per farli vivere.
Concludono quindi le Sezioni Unite che “deve pertanto affermarsi che rientra nella tutela penale apprestata dall’art. 570 codice penale, primo comma, la violazione dei doveri di assistenza materiale di coniuge e
di genitore, previsti dalle norme del codice civile.
L’art. 570 c.p., comma 2, n. 2, viceversa punisce con la pena congiunta chi “fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro... o al coniuge al quale non sia stata addebitata
la separazione). Questo secondo comma tutela, quindi, i più elementari vincoli di solidarietà nascenti dal rapporto di coniugio o di filiazione. L’omessa corresponsione dell’assegno deve avere l’effetto di far mancare i
mezzi di sussistenza, che non si identifica né con gli alimenti né con l’assegno di mantenimento (si propone,
così, una interessante tripartizione delle obbligazioni di natura economica verso i congiunti: mantenimento
alimenti, mezzi di sussistenza) intendendo però per “mezzi di sussistenza” - come ha ben precisato Cass.
pen. Sez. VI, 21 novembre 2012, n. 49755 - “non più solo i mezzi per la sopravvivenza vitale (quali il vitto e
l’alloggio), ma anche gli strumenti che consentano, in rapporto alle reali capacità economiche e al regime
di vita personale del soggetto obbligato, un sia pur contenuto soddisfacimento di altre complementari esigenze della vita quotidiana (quali, ad es., abbigliamento, libri di istruzione per i figli minori, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione)”.
L’obbligo di mantenimento ha una portata ben più ampia, giacché comprende tutto quanto sia richiesto
per un tenore di vita adeguato alla posizione economico-sociale dei coniugi e dei figli e prescinde dallo stato
di bisogno. La nozione di alimenti si pone a metà strada tra le altre due e comprende, oltre a ciò che è indispensabile per le primarie esigenze di vita, anche ciò che è soltanto utile o che è conforme alle condizioni
dell’alimentando e proporzionale alle sostanze dell’obbligato.
In definitiva le Sezioni Unite aderiscono alla tesi della autonomia del primo e del secondo comma dell’articolo 570 del codice penale - fatta propria dalla più recente giurisprudenza - ma rimodellano il primo
comma individuandone come contenuto la violazione dei doveri non solo di assistenza morale ma anche
di assistenza materiale e confermandone l’autonomia dal secondo comma che invece sanziona i comportamenti di privazione di mezzi di sussistenza.
II. COME È PUNITA LA VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI CORRISPONDERE L’ASSEGNO DI SEPARAZIONE E DI
DIVORZIO?
L’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 sul divorzio come modificato dall’art. 21 delle legge 6
marzo 1987, n. 74, stabilisce che al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto
ai sensi degli articoli 5 (assegno divorzile) e 6 (contributo di mantenimento per i figli) della medesima legge
si applicano le pene previste dall’articolo 570 del codice penale.
Un rinvio al medesimo art. 12-sexies è anche contenuto nella legge 8 febbraio 2006, n. 54 in materia di separazione, divorzio e affidamento condiviso dei figli dove all’art. 3 si stabilisce che “in caso di violazione degli obblighi di natura economica si applica l’articolo 12-sexies della legge 1° dicembre 1970 n. 898”.
Resta fuori dalle previsioni normative il mantenimento coniugale in sede di separazione ma si vedrà come
la questione trova ugualmente facile soluzione.
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LESSICO DI DIRITTO DI FAMIGLIA
È pacifico in ogni caso che si tratta di un rinvio quoad poenam all’art. 570, e ci si chiede, però, a quale comma
dell’articolo 570 del codice penale fa rinvio la normativa sul divorzio e sulla separazione. Al primo o al secondo? Le pene previste dal primo e dal secondo comma sono diverse e quindi la soluzione a questo problema non è di scarsa rilevanza.
Come si è sopra visto l’opinione interpretativa prevalente sull’articolo 570 del codice penale era, in passato, quella di considerare giuridicamente l’articolo 570 del codice penale come una norma unitaria che
prevede due commi in progressione criminosa tra loro: un primo comma (violazione di assistenza in genere) come ipotesi base e un secondo comma (violazione di assistenza materiale) come ipotesi aggravata
(Cass. pen. Sez. VI, 21 novembre 1991, n. 479).
Pertanto era piuttosto scontato interpretare il rinvio contenuto nella normativa sul divorzio e sulla separazione come un rinvio al secondo comma, cioè alla disposizione che era considerata specificamente la violazione agli obblighi di assistenza materiale ed economica. Ed infatti la giurisprudenza riteneva pacificamente che il rinvio operato dall’art. 12-sexies all’art. 570 del codice penale si dovesse considerare effettuato
al secondo comma della disposizione codicistica “trattandosi di violazione di obbligo di natura economica
e non di assistenza morale” (Cass. pen. Sez. VI, 24 giugno 2009, n. 28557; Cass. pen. Sez. VI, 7 dicembre
2006, n. 18450; Cass. pen. Sez. VI, 31 ottobre 1996, n. 1071). Solo una decisione si era discostata ritenendo
che il rinvio dovesse intendersi all’intero regime sanzionatorio, ivi comprese le regole in tema di procedibilità (Cass. pen. Sez. VI, 2 marzo 2004, n. 21673).
Tuttavia, effettivamente, l’art. 12-sexies della legge sul divorzio, nello stabilire che, nei casi in essa contemplati, “si applicano le pene previste dall’art. 570 codice penale, non indica a quale dei due diversi modelli
sanzionatori è fatto riferimento: quello del comma 1 (reclusione alternativa alla multa) o quello del comma
2 (reclusione congiunta alla multa).
Ciò aveva indotto anche alcuni giudici a sollevare una questione di legittimità costituzionale in riferimento all’articolo 25 della costituzione. La Corte costituzionale rigettò la questione evidenziando che “essendo due soltanto, e ben nettamente contrapposte, le possibilità interpretative cui da luogo il rinvio”, non
di indeterminatezza si trattava, bensì di “normale dubbio interpretativo”, di modo che “scegliere la soluzione preferibile alla stregua del sistema era compito specifico dell’interprete” (Corte cost., 31 luglio 1989,
n. 472).
La questione si impose all’attenzione con forza allorché alcune decisioni - come sopra riferito - misero in
discussione l’ interpretazione unitaria dell’art. 570 codice penale, ritenendo che il primo e il secondo comma
hanno ad oggetto fatti del tutto eterogenei nella loro storicità e considerazione sociale (Cass. pen. Sez. VI,
17 gennaio 2011, n. 3016; Cass. pen. Sez. VI, 20 ottobre 2011, n. 3881; Cass. pen. Sez. VI, 13 marzo 2012,
n. 12307) e pertanto integrano due reati autonomi.
E quindi il problema dell’individuazione esatta del comma dell’art. 570 a cui considerare effettuato il rinvio divenne ineludibile.
L’occasione della verifica fu offerta da una sentenza con cui la Corte d’appello di Torino confermò una decisione con cui un uomo era stato condannato dal tribunale alla reclusione e alla multa congiuntamente (facendo quindi applicazione del secondo comma dell’art. 570) per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza
alla moglie, non corrispondendole l’assegno divorzile di 516 euro mensili. L’uomo presentò ricorso per cassazione e la sesta sezione, con ordinanza del 27 settembre 2012, rimetteva la questione interpretativa alle
Sezioni Unite.
La sentenza delle Sezioni Unite è stata già sopra esaminata (Cass. pen. Sez. Unite, 31 gennaio 2013, n.
23866). Con essa è stata definitivamente abbandonata la tradizionale interpretazione unitaria sull’articolo 570, e si è aderito alla tesi dell’autonomia dei due commi, considerato che negli obblighi di assistenza
inerenti alla qualità di coniuge (art. 143 codice civile) rientrano anche quelli di assistenza materiale concernenti il rispetto e l’appagamento delle esigenze economicamente valutabili dell’altro coniuge e la corresponsione dei mezzi economici necessari per condurre il tenore di vita della famiglia. Obblighi che permangono anche in caso di separazione personale dei coniugi e anche in caso di divorzio, ove sia previsto
l’assegno divorzile, la cui natura assistenziale è ribadita costantemente dalla giurisprudenza civile. Si è
concluso quindi che “rientra nella tutela penale apprestata dall’art. 570 codice penale, primo comma, la
violazione dei doveri di assistenza materiale di coniuge e di genitore, previsti dalle norme del codice civile.
Se si rilegge con attenzione l’art. 570 del codice penale - alla luce di queste considerazioni - si può notare
come il testo della disposizione conduce facilmente a questa conclusione se i due commi si interpretano effettivamente non come un unico reato (ipotesi base e aggravante) ma come due reati autonomi: il primo
comma punisce con pene alternative le violazioni ai doveri assistenziali in genere (ivi comprese quelle di natura economica) mentre il secondo comma punisce con pene congiunte il comportamento più grave di chi
lascia i propri familiari senza mezzi di sussistenza.
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LESSICO DI DIRITTO DI FAMIGLIA
Il principio di diritto affermato è quindi che: “il generico rinvio, quoad poenam, all’art. 570 codice penale, effettuato dall’articolo 12-sexies della legge sul divorzio - e dall’articolo 3 della legge sull’affidamento condiviso
- deve intendersi riferito alle pene alternative previste dal comma primo della disposizione codicistica”.
Pertanto il delitto previsto dall’art. 12-sexies della legge sul divorzio si configura per la semplice omissione
di corrispondere all’ex-coniuge l’assegno nella misura disposta dal giudice, prescindendo dalla prova dello
stato di bisogno dell’avente diritto e senza necessità che tale inadempimento civilistico comporti anche il
venir meno dei mezzi di sussistenza per il beneficiario dell’assegno. Il giudice graduerà la sanzione a seconda
della gravità. Ove invece il comportamento omissivo comporti anche la privazione dei mezzi di sussistenza
troverà applicazione il secondo comma dell’art. 570 del codice penale. Tra il reato di cui all’art. 12-sexies della
legge sul divorzio e l’art. 570 del codice penale vi è, quindi, totale e piena autonomia (Cass. pen. Sez. VI, 16
aprile 2013, n. 20274).
Le stesse considerazioni (primo comma dell’art. 570 codice penale in caso di omissione del contributo di
mantenimento e secondo comma in caso di privazione di mezzi di sussistenza) valgono per l’omessa corresponsione dell’assegno di separazione. Sia quello per i figli (in relazione all’art. 3 della legge 54/2006 che
rinvia all’art. 12-sexies) sia quello per il coniuge (in relazione ai principi generali sopra richiamati).
III. IL REATO DI OMESSO PAGAMENTO DELL’ASSEGNO DI SEPARAZIONE E DI DIVORZIO È PROCEDIBILE
D’UFFICIO O A QUERELA?
L’art. 570 del codice penale prevede la procedibilità a querela salvo il caso in cui il reato di cui al secondo
comma (malversazione o privazione dei mezzi di sussistenza) sia commesso in danno di minori.
Ora occorre considerare che l’art. 12-sexies della legge sul divorzio, nel richiamare quoad poenam l’art. 570
del codice penale, non fa alcun riferimento al problema della procedibilità. La corte costituzionale dichiarò
inammissibili alcune questioni sul punto rilevando, però, che l’interprete avrebbe potuto superare le disarmonie del testo normativo (Corte cost. 17 luglio 1995, n. 325; Corte cost. 4 novembre 1999, n. 423)
La giurisprudenza maggioritaria ha ritenuto che il reato di omessa corresponsione dell’assegno divorziale
debba considerarsi procedibile d’ufficio proprio perché manca un espresso riferimento alla procedibilità a
querela (Cass. pen. Sez. VI, 25 settembre 2009, n. 39938; Cass. pen. Sez. VI, 3 ottobre 2007, n. 39392).
Cosicché mentre la violazione degli obblighi di assistenza familiare è punibile a querela della persona offesa quando concerne il coniuge anche separato, viceversa la mancata corresponsione dell’assegno al coniuge in caso di divorzio e ai figli sia in separazione che in divorzio (ex art. 3 legge 54/2006 che rinvia all’art.
12-sexies della legge sul divorzio) è perseguibile d’ufficio.
Pertanto per il delitto previsto dall’art. 12-sexies della legge sul divorzio, si procede d’ufficio, in quanto il
rinvio che ha voluto il legislatore si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio e non anche al
terzo comma dell’art. 570 del codice penale il quale, in deroga al principio generale, prevede la procedibilità
“a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti di minori, dal n. 2 del precedente comma”.
GIURISPRUDENZA
Cass. pen. Sez. VI, 16 aprile 2013, n. 20274
Va affermata la completa autonomia tra il reato di cui all’art. 570, comma 2, c.p. ed il reato di cui all’art.
12-sexies, legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Divorzio) che, pur possedendo quale caratteristica comune l’inadempimento all’obbligazione fissata dal giudice civile, divergono quanto agli ulteriori elementi costitutivi,
richiedendo il primo l’ulteriore condizione dello stato di bisogno del creditore, insussistente nel secondo
caso, il cui elemento specializzante è costituito dalla presenza della sentenza di divorzio e di un assegno determinato in sede giudiziaria.
Cass. pen. Sez. Unite, 31 gennaio 2013, n. 23866
Rientra nella tutela penale apprestata dall’art. 570 codice penale, comma 1, la violazione dei doveri di assistenza materiale di coniuge e di genitore, previsti dalle norme del codice civile.
Nel reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile previsto dall’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898, come modificato dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987, n. 74, il generico rinvio, “quoad
poenam”, all’art. 570 codice penale deve intendersi riferito alle pene alternative previste dal comma primo
di quest’ultima disposizione.
La condotta sanzionata dall’art. 570, comma secondo, cod. pen. presuppone uno stato di bisogno, nel senso
che l’omessa assistenza deve avere l’effetto di far mancare i mezzi di sussistenza, che comprendono quanto
è necessario per la sopravvivenza, situazione che non si identifica né con l’obbligo di mantenimento né con
quello alimentare, aventi una portata più ampia.
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LESSICO DI DIRITTO DI FAMIGLIA
Il reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile è procedibile d’ufficio e non a querela della persona offesa, in quanto il rinvio contenuto nell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 all’art. 570
cod. pen. si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di violazione degli
obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità.
Cass. pen. Sez. VI, 21 novembre 2012, n. 49755
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, nella nozione penalistica di “mezzi di sussistenza” debbono ritenersi compresi non più solo i mezzi per la sopravvivenza vitale (quali il vitto e l’alloggio), ma anche gli strumenti che consentano, in rapporto alle reali capacità economiche e al regime di vita
personale del soggetto obbligato, un sia pur contenuto soddisfacimento di altre complementari esigenze
della vita quotidiana (quali, ad es., abbigliamento, libri di istruzione per i figli minori, mezzi di trasporto,
mezzi di comunicazione).
Cass. pen. Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12516
Il primo comma dell’art. 570 c.p. punisce unicamente le condotte che violano gli obblighi di “assistenza morale”, che si concretizzano nella violazione ingiustificata dell’obbligo di coabitazione ovvero in comportamenti, attivi od omissivi, comunque riconducibili alla nozione di “ordine morale famigliare”. La fattispecie
dell’aver fatto mancare i mezzi di sussistenza non richiede, per la sua configurabilità, la previa esistenza di
un provvedimento giurisdizionale. Tuttavia, dalla struttura complessiva della norma, si ricava che non è penalmente rilevante una condotta di omessa “assistenza materiale” che non si risolva nel far venire meno i
mezzi di sussistenza.
Cass. pen. Sez. VI, 13 marzo 2012, n. 12307
Le fattispecie prevista dai ai commi primo e secondo dell’art. 570 cod. pen. configurano due reati autonomi
e non una progressione criminosa che possa far ritenere assorbita la contestazione del comma primo nella
seconda disposizione.
Cass. pen. Sez. VI, 20 ottobre 2011, n. 3881
La condotta di sottrazione agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà genitoriale nei confronti dei figli minori e quella di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, previste, rispettivamente, nel primo e secondo comma dell’art. 570 cod. pen. non sono in rapporto di continenza o di progressione criminosa, ma
hanno ad oggetto fatti del tutto eterogenei nella loro storicità e considerazione sociale.
Cass. pen. Sez. VI, 17 gennaio 2011, n. 3016
La fattispecie di abbandono del domicilio domestico e quella di omessa prestazione dei mezzi di sussistenza, previsti, rispettivamente, nel primo e secondo comma dell’art. 570 cod. pen., non sono in rapporto
di continenza o di progressione criminosa, ma hanno ad oggetto fatti del tutto eterogenei nella loro storicità.
Cass. pen. Sez. VI, 25 settembre 2009, n. 39938
Il reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile è procedibile d’ufficio e non a querela della persona offesa, atteso che il rinvio operato dall’art. 12 sexies della legge. n. 898 del 1970 all’art. 570 cod. pen. deve
intendersi riferito esclusivamente al trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità.
Cass. pen. Sez. VI, 24 giugno 2009, n. 28557
Il rinvio all’art. 570 del codice penale operato dall’art. 12-sexies legge n. 898 del 1970 e succ. modif. che punisce l’inadempimento del coniuge all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile, deve intendersi alla
disposizione del comma secondo, con applicazione quindi della pena congiunta della reclusione sino ad un
anno e della multa da Euro 103,00 a Euro 1032,00.
Cass. pen. Sez. VI, 3 ottobre 2007, n. 39392
Il reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile (art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n.
898) è procedibile d’ufficio.
Cass. pen. Sez. VI, 7 dicembre 2006, n. 18450
Il generico rinvio, “quoad poenam”, all’art. 570 codice penale dell’art. 12-sexies legge 1° dicembre 1970 n.
898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come modificato dall’art. 21 legge 6 marzo 1987 n.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 73
LESSICO DI DIRITTO DI FAMIGLIA
74, deve intendersi riferito alle pene previste dal comma secondo e non a quelle indicate nel primo comma
della disposizione codicistica, avendo ad oggetto il citato art. 12-sexies la violazione di obbligo di natura
economica e non di assistenza morale.
Cass. pen. Sez. VI, 2 marzo 2004, n. 21673
In tema di reati contro la famiglia, l’art. 12-sexies Legge 1 dicembre 1970, n. 898, nello stabilire che, in caso
di scioglimento del matrimonio, al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile si applicano le pene previste dall’art. 570 codice penale, opera un rinvio all’intero regime sanzionatorio
fissato in detta disposizione, ivi comprese le regole in tema di procedibilità previste dal suo terzo comma.
Ne consegue che anche la violazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno compiuta dal coniuge divorziato è punibile a querela della persona offesa, fatti salvi i casi in cui la perseguibilità d’ufficio è prevista
dallo stesso art. 570 codice penale.
Corte cost., 4 novembre 1999, n. 423
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale. dell’art. 12-sexies della legge
1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), aggiunto dall’art. 21 legge 6
marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), sollevata in riferimento agli art. 3 e 29 della Costituzione.
Cass. pen. Sez. VI, 31 ottobre 1996, n. 1071
Il rinvio dell’art. 12 sexies l. 1 dicembre 1970, n. 898 (disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio),
come modificato dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987, n. 74, deve intendersi fatto alle pene previste dal
comma 2 dell’art. 570 c.p., trattandosi di violazione di obbligo di natura economica e non di assistenza morale. Ne consegue l’obbligo di irrogare anche la pena pecuniaria prevista congiuntamente a quella detentiva.
Corte cost., 17 luglio 1995, n. 325
È inammissibile la questione di costituzionalità, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898 introdotto dalla legge 6 marzo 1987, n. 74, nella parte in cui prevede
la perseguibilità d’ufficio, anziché a querela di parte, del reato di sottrazione all’obbligo di corrispondere
l’assegno dovuto, a seguito dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, quale contributo per il mantenimento dei figli, anche maggiorenni, in relazione all’art. 570 del codice penale, che stabilisce l’azionabilità su querela in caso di mancata assistenza ai figli, dato che, pur essendo comune il fondamento delle prestazioni di mantenimento da parte dei genitori, le segnalate disarmonie possono essere
superate dal legislatore secondo una ponderata valutazione dei diversi interessi, mentre l’intervento richiesto alla Corte costituzionale inciderebbe su un solo elemento concorrente al denunciato squilibrio.
Cass. pen. Sez. VI, 21 novembre 1991, n. 479
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, le diverse ipotesi previste dall’art. 570 c. p. non
configurano una pluralità di reati distinti, ma pur nella varietà dei fatti incriminabili, si riferiscono ad un unico
titolo di reato, avente come contenuto fondamentale tipico l’inosservanza cosciente e volontaria dei vari obblighi di assistenza familiare scaturenti dal vincolo matrimoniale e dal rapporto di parentela; da ciò consegue
che è erroneo voler far rientrare nella previsione di cui al 1° comma, del suddetto art. 570 c. p. il comportamento
di colui che corrisponda al coniuge separato l’assegno di mantenimento per il figlio minore a questi affidato
in una misura leggermente inferiore a quella fissata all’atto della separazione e comunque sufficiente a garantire al predetto minore i mezzi di sussistenza in quanto, in base alla formulazione complessiva dell’articolo
di legge in questione, l’unico comportamento penalmente rilevante del coniuge obbligato al versamento di un
assegno di mantenimento in favore dell’altro coniuge dal quale viva separato, o dei figli minori od inabili a questi affidati, si realizza allorché il versamento dell’assegno venga del tutto omesso, o ne sia ridotto l’importo in
misura tale da non garantire i mezzi di sussistenza ai beneficiari dell’assegno.
Corte cost., 31 luglio 1989, n. 472
La questione di legittimità costituzionale sollevata denunciando l’indeterminatezza della pena prevista per
il reato di omessa corresponsione dell’assegno di divorzio all’ex coniuge, va dichiarata inammissibile in
quanto nella specie non di indeterminatezza si tratta, ma di un normale dubbio interpretativo (inerente all’applicazione delle pene di cui al primo ovvero di cui al secondo comma dell’art. 570 cod. pen.), il cui scioglimento, anche se non agevole, è compito specifico del giudice ordinario. (Inammissibilità della questione
relativa all’art. 12-sexies della legge 1 dicembre 1970 n. 898 - aggiunto dall’art. 21 della legge 6 marzo 1987
n. 74 - in riferimento al principio di legalità in materia penale ex art. 25, comma secondo, costituzione.
74 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
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suoi limiti, dei requisiti di validità del consenso al trattamento
sanitario e delle conseguenze anche di rilevanza penale in mancanza degli stessi. Ogni trattamento sanitario deve essere
validamente e consapevolmente
acconsentito dal paziente ad eccezione del caso dell’esistenza di
una disposizione di legge posta a
presidio di un interesse generale
(vaccinazione obbligatoria e TSO)
e sempre che il trattamento sanitario in tali ipotesi sia effettuato
nel rispetto della dignità personale del singolo e sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, ed
ad eccezione del ricorrere dei presupposti della scriminante dello
stato di necessità e dell’espresso
ed informato dissenso inequivoco
ed attuale.
La conoscenza di tale argomento
giuridico di ampio interesse inizia
con una serie di considerazioni
generali a proposito della normativa costituzionale, europea, internazionale, interna e deontologica di riferimento per proseguire
in maniera più approfondita ed
organica con una spiegazione dettagliata delle peculiarità del diritto del consenso e dissenso informati e delle modalità con le
quali il diritto deve esplicarsi. In
particolare sussistono precisi obblighi informativi in capo al medico che, in quanto soggetto qualificato deve garantire al paziente
una corretta e comprensibile informazione in ordine alla diagnosi, al trattamento terapeutico
ed alle terapie alternative, alla sua
natura, alla modalità ed ai rischi
connessi anche quelli cosiddetti
“ridotti” e “specifici”, ai tempi di
degenza e sulle cure e terapie successive al trattamento, così da
consentirgli una scelta consapevole. Ove la condotta del medico
non rispetti le prescrizioni esistenti al riguardo, le conseguenze
pregiudizievoli derivanti dalla lesione del diritto alla libera autodeterminazione che possono essere di carattere patrimoniali e
non, dovranno essere da lui risarcite. Legittimazione attiva e passiva, competenza, onere della
prova, danni risarcibili sono
aspetti tutti quanti opportunamente trattati dall’Autrice anche
con riferimento alla responsabilità penale del medico per trattamento sanitario arbitrario (in
mancanza di un valido consenso)
diversamente inquadrata - fino ad
un intervento chiarificatore delle
Sezioni Unite - nel succedersi del
tempo dalla dottrina e giurisprudenza a volte come reato di lesioni personali ed altre come
reato di violenza privata.
Ulteriormente e particolarmente
interessante risulta l’esposizione
circa l’atteggiarsi del consenso al
trattamento sanitario e del rifiuto
dello stesso nelle ipotesi particolari della minore età del paziente,
dell’interdizione, dell’ amministrazione di sostegno nonché
nelle tecniche di procreazione
medicalmente assistita.
Le questioni affrontate come le
soluzioni e gli orientamenti relativi trovano facile comprensione
in questa pubblicazione arricchita
anche di opportuni ed efficaci
schemi esemplificativi e riassuntivi.
MARIA TERESA PELLE
Famiglia e Successioni Eredità e
Donazioni. Vademecum.
Giuffrè Editore, 2013
Il testo offre una panoramica
operativa sulle modalità di disposizione del proprio patrimonio sia per causa di morte che
per atti tra vivi. L’Autrice accompagna il lettore attraverso i vari
passaggi legati all’apertura della
successione, nelle successive fasi
di qualificazione della successione (testamentaria o intestata)
nonché nell’individuazione dei
soggetti chiamati e/o legittimati
a succedere al de cuius. Particolarmente interessante tutta la
prima parte legata anche all’analisi della capacità di succedere ed
all’istituto della rappresentazione. Svolte tali premesse l’Autrice indica ed analizza le modalità per l’accettazione dell’eredità ed, in pari tempo, si sofluglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 75
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ferma nell’illustrazione degli
adempimenti conseguenti all’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario per poi approfondire le tematiche legate alla
rinuncia di eredità. Il testo prosegue con una analisi puntuale
dei soggetti chiamati ad ereditare e le possibilità previste dalla
Legge per il riconoscimento della
qualità di erede così come sono
analizzate le riserve esistenti in
favore dei soggetti legittimari e/o
legittimati. All’esito delle verifiche predette circa le qualità dei
soggetti chiamati all’eredità e
della correttezza delle attribuzioni rispetto alle quote riservate
si potrà poi procedere alla divisione ereditaria in modo da permettere agli eredi di beneficiare
di quanto ereditato. A tale proposito appare illuminante la
parte relativa al patto di famiglia
in caso di successione in quote
societarie. Da ultimo sono analizzati gli aspetti fiscali legati alla
successione. Di minore estensione ancorché molto efficace
nell’esposizione l’ultima parte
relativa alla donazione ed all’analisi della casistica di revocazione della donazione laddove si
rinviene una puntuale elencazione dei casi previsti dalla Legge
per tale rimedio.
A cura di PIERPAOLO DONATI
LA FAMIGLIA IN ITALIA. Sfide
sociali e innovazioni nei servizi
Volume I - Aspetti demografici,
sociali e legislativi
Volume II - Nuove best practices
nei servizi alle famiglie
Carocci Editore, 2012
Nella collana dell’Osservatorio
nazionale sulla famiglia, il contributo del suo direttore scientifico Pierpaolo Donati, professore
alla cattedra di Sociologia dei
processi culturali e comunicativi
presso l’Università di Bologna, è
particolarmente interessante in
quanto fornisce indicazioni di
carattere sociale, economico e
demografico utili a comprendere
76 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
la condizione familiare in Italia e
nello stesso tempo a suggerire linee di intervento per le politiche
sociali da attuare. L’opera approfondisce ed analizza il Rapporto
biennale 2011-2012 sulla condizione familiare in Italia, presentato dall’Osservatorio nazionale
sulla famiglia, e si divide in due
volumi.
Il primo volume, che raccoglie gli
studi e le riflessioni di diversi autori, fotografa la situazione familiare italiana attuale, illustrando
i mutamenti intervenuti, e si
apre con una attenta analisi
della “morfogenesi della famiglia” ovvero la tendenza della famiglia ad ampliare la varietà
delle sue forme, generando
nuove relazioni e nuovi assetti,
dunque, nuove strutture familiari che in parte sono fisiologiche, perché producono beni relazionali, ed in parte patologiche
in quanto producono mali relazionali. I dati statistici, infatti,
mostrano che l’Italia, rispetto ai
maggiori paesi europei, è penultima per livello di vita, livelli di
disuguaglianze e tasso di povertà
e che la famiglia è il fattore che
maggiormente incide su questi
indicatori. Dunque, aspetto
estremamente interessante è
che il problema della povertà in
Italia coincide con quello delle
nuove generazioni ovvero, sono i
figli che rendono povere le famiglie a causa del modo in cui il sistema societario, e principal-
mente quello fiscale, distribuisce
le risorse. Si assiste, quindi, ad
un processo di nuclearizzazione,
con conseguente riduzione delle
forme familiari estese e plurinucleari, fino alla scomparsa del
nucleo stesso, quando si sceglie
o ci si trova a vivere da soli, e di
polverizzazione, ovvero di aumento della quantità di famiglie
e di contemporanea riduzione
del numero medio di componenti, dovuta soprattutto a un
incremento di coppie senza figli.
Una particolare attenzione è
data ai problemi della povertà e
delle famiglie immigrate quali
appunto le famiglie ricongiunte,
le famiglie transnazionali e le famiglie caratterizzate dalla presenza di coniugi di diversa origine etnico-culturale (le cosiddette coppie miste). I cambiamenti rapidi e strutturali che
stanno caratterizzando la famiglia italiana, tenendo conto anche del nuovo assetto federalistico del paese, non sono sufficientemente sostenuti da efficaci
politiche familiari dello Stato. A
questa esigenza risponde il Piano
nazionale delle politiche per la famiglia elaborato dal Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio, il cui testo integrale è riportato in appendice al primo volume. Il Piano si ispira a diversi
principi quali la cittadinanza sociale della famiglia, politiche
esplicite sul nucleo familiare, politiche dirette sul nucleo fami-
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liare, equità sociale verso la famiglia, sussidiarietà, solidarietà,
welfare familiare sostenibile e
abilitante, alleanze locali per la
famiglia, monitoraggio dei provvedimenti legislativi, valutazione
di impatto familiare della legislazione e sintetizza il programma dei concreti interventi
per la realizzazione delle più moderne ed efficaci politiche familiari.
Il secondo volume propone, sulla
scorta dei risultati delle ricerche
compiute da diversi esperti, le misure e gli interventi sociali attuabili dagli organi di governo.
Particolarmente interessanti appaiono le riflessioni riportate in
merito alle esperienze ed interventi attuati in varie parti d’Italia
che costituiscono uno spunto di
notevole rilievo per fornire risposte concrete ai bisogni delle famiglie. Anche questo secondo volume raccoglie i risultati e le riflessioni sulle ricerche eseguite
sul campo da diversi autori. In
particolare, l’analisi si concentra
sulle buone pratiche (best practices) e sui nuovi strumenti utili a
conciliare la relazione famiglia lavoro quali ad esempio il welfare
aziendale, i distretti familiari e gli
audit famiglia - lavoro. Ma anche
l’uso dei congedi genitoriali, gli
aiuti alle famiglie che si prendono
cura degli anziani non autosufficienti, i sostegni alle famiglie fragili - con minori in tutela o a rischio di allontanamento, in cui i
genitori sono separati o divorziati,
famiglie migranti - e, per finire, la
governance delle politiche familiari a livello locale che prende
spunto dal caso pesarese. Notevoli risultano, altresì, gli approfondimenti di alcuni autori sulle
buone pratiche di welfare aziendale in Lombardia, Piemonte,
Friuli Venezia Giulia, Marche,
Emilia Romagna e Veneto. Si
tratta, dunque, di misure proposte come interventi sociali da attuare per e con le famiglie lungo il
ciclo di vita per la realizzazione
del welfare familiare ovvero del
benessere.
GLORIA SERVETTI
(a cura di Massimo Dogliotti)
Le garanzie patrimoniali nella
famiglia. Corresponsione diretta,
sequestro, ipoteca (Aggiornato alla
L. 10 dicembre 2012, n. 219)
Giuffrè Editore, 2013
La crisi del matrimonio dà generalmente vita ad una disputa tra
la coppia in relazione alla divisione del patrimonio ed all’assistenza reddituale che il coniuge
economicamente più forte è chiamato a prestare nei confronti di
quello più debole, salvo il diritto
al mantenimento dei figli.
Aggiornato alla Legge 10 dicembre 2012, n. 219, questo testo è
molto semplice nella sua esposizione ed agevole nella lettura
ma estremamente concreto nell’analisi delle problematiche sottese ai diritti e doveri nascenti in
capo ai coniugi, tra di loro, all’esito delle nozze nonché dei
coniugi verso i figli nei termini
del mantenerli, istruirli ed educarli. Sin dalle prime pagine
l’Autrice prospetta ed analizza
casi pratici di comportamenti
scorretti assunti da uno dei due
coniugi e dei possibili rimedi. Infatti appare evidente come l’impostazione adottata sia tesa a
fornire soluzioni a problemi
reali: se uno dei due coniugi si
allontana dalla casa coniugale
non provvedendo a lasciare sufficienti provviste economiche,
come dovrà comportarsi l’altro
coniuge? A tale domanda segue
immediatamente il rimedio previsto dall’Ordinamento in modo
puntuale e dettagliato. Invero si
trova indicazione dello strumento processuale da applicare,
l’iter procedimentale e la sua definizione nonché l’ulteriore descrizione dell’eventuale strumento di impugnazione ovvero
delle modalità di esecuzione del
provvedimento ottenuto e dei limiti del medesimo proprio nella
sede del procedimento esecutivo. Così nel caso di sequestro
dei beni del coniuge che si è allontanato in modo non giustificato dalla casa coniugale sono
descritte le modalità di introduzione del giudizio ad opera del
coniuge “abbandonato”, il procedimento e la sua definizione
nonché il reclamo avverso il
provvedimento autorizzativo ottenuto ossia le modalità per procedere all’esecuzione forzata del
medesimo. Parimenti è analizzato e descritto il procedimento
per ingiunzione di pagamento
(ed eventuale opposizione) in
caso di inadempimento degli obblighi di mantenimento dei figli
quale strumento più rapido per
ottenere le somme non corrisposte dall’obbligato con attenzione
anche alla figura del figlio maggiorenne relativamente alla sua
legittimazione all’azione di richiesta di pagamento diretto.
Interessante è poi la riflessione
relativa alle modalità di istituzione di garanzia da parte del
Giudice ai sensi dell’art. 156,
comma IV, Cod. civ. per il quale
«Il giudice che pronunzia la separazione può imporre al coniuge di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli
possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi previsti dai precedenti
commi e dall’articolo 155» ponendosi l’Autrice il problema se tale
imposizione possa essere adottata autonomamente ovvero se
necessiti di specifica istanza
della parte che ne debba beneficiare mentre sono riportate, al riluglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 77
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guardo, le tre principali posizioni
adottate dalla dottrina e giurisprudenza - tra di loro in parte
contrastanti - e per le quali rimane unico comune denominatore l’esistenza di un periculum in
mora.
Il testo conclude con un esame
approfondito della possibilità di
iscrizione di ipoteca giudiziale nei
casi di separazione e divorzio.
ROBERTO GIOVAGNOLI,
GIULIA DI DOMENICO,
CRISTINA DURIGON,
SOFIA LEONARDI, PIER PAOLO
POLESE (con il coordinamento
di Sara Di Cunzolo)
Le pratiche
per l’extracomunitario
Giuffrè Editore, 2013
Il Professionista è oggi chiamato
a confrontarsi con una realtà
sempre più globalizzata e multietnica per la quale può essere
investito ad affrontare richieste di
assistenza provenienti da cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea e tese all’ottenimento dei titoli autorizzatori per
l’ingresso ed il regolare soggiorno
nel territorio dello Stato Italiano.
Il fascicolo in esame si colloca in
quest’area di interesse e si propone di fornire una panoramica
operativa sui procedimenti amministrativi e giurisdizionali da
seguire nel rapportarsi con le
Amministrazioni coinvolte nel
78 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
rilascio del visto d’ingresso nonché del successivo permesso di
soggiorno. Sono analizzati i vari
procedimenti amministrativi e
le modalità di introduzione delle
domande con continui riferimenti alle norme ed alle relative
interpretazioni giurisprudenziali
anche ricorrendo ad esemplificazioni mediante l’esposizione
di casi concreti e relativa soluzione. Utile appare tanto l’esame
puntuale del procedimento amministrativo legato al rilascio
della cittadinanza allo straniero
legalmente residente in Italia
quanto, di particolar interesse, è
l’analisi svolta relativamente
alla richiesta del cittadino straniero di rilascio della cittadinanza Italiana a seguito di matrimonio contratto con il cittadino Italiano.
A fronte di tale dissertazione relativa al legittimo permanere
dello straniero sul territorio nazionale, si contrappone la seconda parte dell’elaborato focalizzata sulle espulsioni amministrative, i presupposti, le cause
ostative, le modalità esecutive e
la tutela giurisdizionale. Passando
attraverso una valutazione circa
la natura del decreto di espulsione del Prefetto, il testo si sofferma nell’esaminare le modalità
di esecuzione del predetto provvedimento tanto nelle forme dell’accompagnamento dello straniero alla Frontiera da parte delle
Autorità di Pubblica Sicurezza,
quanto nelle forme dell’intimazione a lasciare il Territorio Nazionale entro quindici giorni. Anche in questo caso ogni capitolo è
completato da riquadri esplicativi
riportanti il testo delle disposizioni normative richiamate nonché dalla giurisprudenza rilevante.
All’esito di tale approfondita trattazione il lettore troverà un’analisi degli strumenti processuali attraverso i quali è possibile fornire
la tutela giurisdizionale in favore
dello Straniero illegittimamente
allontanato dal Territorio Nazionale.
FRANCESCA SASSANO
Manuale pratico per la
protezione dell’incapace
Maggioli Editore, 2013
La storia della “follia” ha origini
nel medioevo e per secoli ha assunto varie e diverse concezioni.
Confinata nell’ambito dell’ignoto
e del mistero, istituzionalizzata
come patologia di ordine morale,
tale concetto, fino alla legge attuale, è stato per lunghissimo
tempo legato anche eticamente
ad una condizione negativa di
svantaggio e di disagio della persona in una data cultura e società. Solo negli ultimi anni le
istanze delle persone con disabilità sono state inquadrate sempre
più nell’ambito della rivendicazione dei diritti umani in una ottica di tutela assistenziale e di integrazione sociale a partire dalla
famiglia quando la disabilità
viene rapportata con i diritti costituzionali alla vita di relazione,
alla paternità, alla maternità, alla
sessualità, alla separazione.
Sin dalla prefazione è evidente la
necessità dell’autrice di scrivere
un libro quale itinerario guidato
all’interno delle opportunità legislative e di ogni strumento giuridico a sostegno della disabilità
nell’auspico del superamento di
istituti anacronistici dell’interdizione e dell’inabilitazione a favore dell’amministrazione di sostegno, quest’ultima comunque
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da migliorare per la completa realizzazione delle necessità del singolo senza alcuna discriminazione sulla sua condizione di soggetto sano o malato.
Così sono posti a confronto - partendo dalle nozioni della capacità
naturale e di agire - gli istituti civilistici per la protezione degli incapaci nei presupposti sostanziali, nel procedimento e nelle rispettive funzioni e finalità. È affrontata il tema della responsabilità civile (e dei suoi limiti) dell’incapace anche sotto il profilo
penale della “non imputabilità” del
soggetto incapace che abbia commesso un reato e della sua tutela
anche risarcitoria ove di tale reato
sia stata vittima.
Il testo è corredato di quesiti risolti dalle novità legislative e
dalla giurisprudenza più recente
che ne esemplificano per il fruitore la lettura e comprensione
nonché da un utile formulario e
dalla legislazione richiamata.
A cura di RICCARDO PRANDINI
Politiche familiari europee
Convergenze e divergenze
Carocci Editore, 2012
Anche questa opera è parte della
Collana dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia e raccoglie i
saggi di diversi autori che analizzano e approfondiscono i risultati
del convegno europeo Family Policy in Europe: Best Practices. Par-
tnership and Governance tenutosi a
Bologna il 27 e 28 settembre 2010.
Il convegno e questo libro, appunto, evidenziano l’organizzazione e le tendenze degli stati europei più vicini e comparabili all’Italia per la realizzazione delle
politiche familiari.
La prima parte offre una interessante proiezione delle famiglie
dei paesi OECD fino al 2030 analizzando i mutamenti dei fattori
determinanti, quali le tendenze
demografiche (fertilità, aspettative di vita, immigrazione e urbanizzazione), società e tendenze
sociali (matrimonio e divorzio,
istruzione, potenziale e partecipazione al mercato del lavoro, beneficiari e prestatori di assistenza
agli anziani), tecnologia. La proiezione mostra che per il 2030
l’orizzonte delle famiglie dei
paesi OECD sembra essere destinato a un mutamento significativo che prevede, in assenza di
brusche ed impreviste inversioni
di tendenza, l’invecchiamento
della popolazione, l’urbanizzazione, l’aspettativa di vita, la formazione e la dissoluzione delle
coppie come fenomeni certi e abbastanza lenti. Le migrazioni, gli
sviluppi tecnologici e le variabili
occupazionali sono, invece, caratterizzati da un livello di maggiore
incertezza. Viene, dunque, fornita
una panoramica riguardante le
strutture interne all’iniziativa Partnership locali per la famiglia, seguita da un’analisi relativa alla
forma modernizzata di sussidiarietà. Infine sono elaborati i fattori di successo per l’attuazione
dell’iniziativa al fine di ricavare
conclusioni per un eventuale progetto europeo.
Nella seconda parte del testo
sono analizzate le risposte nazionali di politica familiare con particolare attenzione ai principi, ai
programmi, agli attori e modelli
di governance. In primis viene esaminata la politica familiare francese che non può essere ricondotta ai soli aiuti monetari nei
confronti della famiglia e che
contribuisce, più che in ogni altro
paese, allo sviluppo del diritto civile della famiglia e al diritto del
lavoro. La sua governance, inoltre,
è caratterizzata in buona parte da
uno stile democratico basata sul
ruolo assegnato alle organizzazioni sociali e alle associazioni familiari. Il dato di maggior rilievo
è dato dal fatto che dalla loro
prima istituzionalizzazione, le politiche familiari francesi si sono
evolute in modo radicale. Gli
obiettivi di policy e le diverse priorità sono notevolmente cambiate,
insieme con il diritto di famiglia e
le abitudini familiari, da un lato, e
con l’assetto politico - istituzionale complessivo, dall’altro. Vengono poi esaminate le politiche
per la famiglia in Spagna con
un’attenzione particolare ai fattori della cittadinanza e dello sviluppo sociale in Catalogna. Particolare risalto è dato ai principali
tratti delle politiche per la famiglia, la loro genesi ed evoluzione
negli ultimi decenni. Ad emergere
è che le politiche familiari in Spagna sono state tra quelle maggiormente ignorate. L’analisi è imperniata sulle riforme legislative
e sulle nuove misure politiche per
la famiglia approvate dagli inizi
del XXI secolo, tenendo conto che
la Spagna, nell’ultimo decennio,
ha vissuto trasformazioni drammatiche nella struttura familiare.
La speranza è che le informazioni
e i dati forniti possano apportare
elementi di riflessione su come
orientare al meglio le politiche
per la famiglia in Europa. Infine,
viene analizzata la politica della
famiglia in Germania che è una
politica a lungo termine nel senso
di politica del corso di vita. La Costituzione della Repubblica federale tedesca, infatti, pone il sostegno della coppia e della famiglia
sotto la particolare tutela della
Stato, sottolineando contemporaneamente che è diritto e obbligo
dei genitori favorire lo sviluppo
dei propri figli mediante l’educazione. In altre parole, una politica
della famiglia è, prima di tutto, un
compito statale volto alla tutela e
all’incentivazione delle famiglie.
luglio-settembre 2013 | Avvocati di famiglia | 79
IN LIBRERIA
La terza ed ultima parte analizza
il ruolo dell’Italia nella costruzione di una politica per la famiglia. In particolare, si evidenziano
le tendenze, i problemi e le sfide
fondamentali delle politiche familiari europee ponendo l’attenzione sulla proposta italiana del
family mainstreaming. Il testo si
conclude affrontando la questione dell’Europa sociale, con
l’esame e l’approfondimento
sullo scenario europeo, e dunque
la difficoltà dell’Unione Europea
ad elaborare un vero e proprio
campo di politiche familiari. Accanto al mercato, alla moneta
unica e ad un sempre più esteso
elenco di materie trattate comunitariamente, si auspica il rilancio dell’integrazione dell’Unione
attraverso politiche sociali capaci
di riconoscere la forma- famiglia.
ANTONIO SALVATI
Prove e procedimenti sommari
Giuffrè Editore, 2013
Nell’attuale periodo di grave crisi
economica, sempre più di frequente, al Professionista è richiesto di attivarsi al fine di ottenere
una rapida tutela del diritto ovvero un celere recupero del credito anche attraverso i nuovi strumenti giuridici introdotti con gli
ultimi interventi di ammodernamento dell’impianto dei procedimenti sommari.
Antonio
Salvati,
Magistrato
presso il Tribunale di Palmi e docente di Procedura Civile presso
80 | Avvocati di famiglia | luglio-settembre 2013
la Scuola di Specializzazione per
le professioni legali - Università
Mediterranea di Reggio di Calabria, si propone di fornire una panoramica teorico/operativa sul ricorso alla sommarietà come rimedio
tendenziale alla crisi della Giustizia
Civile in ragione della sempre crescente necessità di riduzione dei
tempi di definizione del giudizio.
L’opera raccoglie riferimenti normativi, pareri espressi dalla dottrina e rielabora il tutto anche alla
luce della giurisprudenza. Ogni
capitolo è completato da riquadri
esplicativi riportanti il testo delle
disposizioni normative richiamate e la giurisprudenza rilevante. Di particolare utilità risultano i riquadri esplicativi “a parere di” all’interno dei quali si trovano validi riferimenti per eventuali approfondimenti da parte
del professionista. Sicuramente
interessante altresì, il modello di
proposizione dei quesiti che si
rinviene nella lettura dell’opera e
che l’agevola così permettendo di
avere conoscenza di quale siano
stati i percorsi logici seguiti dai
Giudici nell’applicazione dei procedimenti in esame e della sommarietà.
E proprio prendendo le mosse dal
concetto di sommarietà l’Autore
inizia la disamina dei procedimenti a cognizione sommaria domandandosi se, alle peculiari caratteristiche proprie della sommarietà corrispondano anche peculiarità sul piano istruttorio così
portando il lettore a comprendere
quali siano le vere funzionalità
dei singoli istituti nonché la loro
operatività. Così l’Autore pone
una serie di quesiti ai quali fornisce risposte puntuali e ben argomentate offrendo al lettore il
modo di approfondire il dibattito
giurisprudenziale (esistente a
proposito dei procedimenti con
struttura sommaria) circa la discrezionalità del Giudice e la deformalizzazione
dell’attività
istruttoria rispetto all’accertamento del fatto ed alla configurabilità dei poteri istruttori d’ufficio
nei procedimenti camerali. All’esito di tale approfondita trattazione il lettore troverà un’analisi
degli strumenti processuali attraverso i quali è possibile introdurre
domanda in corso di giudizio al
fine di ottenere un’ordinanza anticipatoria di condanna e/o della
sentenza.