l`anima e la legge: lo psicologo e l`avvocato in

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NOTA INFORMATIVA: Il presente articolo è la sintesi della conferenza tenuta all'Università della Terza Età di Torino
nell'ambito del Corso di Psicologia B-D, 12 febbraio 2002.
Published in www.anthropos-web.it 2007.
Published in www.anthropos1987.org 2009.
L’ANIMA E LA LEGGE:
LO PSICOLOGO E L'AVVOCATO
IN COLLABORAZIONE
Luciano Peirone
Valeria Giordano
Psicologia e giurisprudenza: un confronto, un incontro
Queste due discipline scientifiche, solitamente lontane, talvolta – nella pratica quotidiana –
convergono.
Esistono in effetti degli “interfaccia” tra psicologia (la scienza della mente e dell’anima) e
giurisprudenza (la scienza del diritto e della legge).
A ben vedere, se da un lato la giurisprudenza si interessa di ciò che è “giusto” (dandosi
pertanto una veste etica e deontica), e lo fa in un’ottica oggettiva-sociale-interpersonale,
dall’altro lato la psicologia si occupa anch’essa (a modo suo) di ciò che è “giusto”, intendendolo
in un’ottica soggettiva-interpersonale-sociale.
D’altra parte, il soggetto della psicologia “sente”, prova emozioni ed affetti in modo caldo: non
si limita a “pensare”, come invece fa (freddamente) il soggetto della giurisprudenza. Quindi, se
per certi versi lo psicologo e l’avvocato (o anche il giudice ed il notaio) possono agire nella
medesima direzione, per altri versi possono perseguire scopi differenti.
Vediamo ora alcune tematiche nelle quali le due discipline si affiancano, alcune tematiche nelle
quali i due professionisti possono interagire collaborativamente.
Danno biologico
Per tutta l’epoca romana e tutto il medioevo valse il principio sintetizzato da Gaio per cui:
”liberum corpus nulla recepit aestimationem”, per cui se il danno alla persona non è stimabile,
non è neppure risarcibile.
In Italia si cominciò a risarcire il danno morale solo nel secolo XIX, ma il parametro rimase
ancorato ad una visione strettamente patrimonialistica, come emerge chiaramente dalla c.d.
“regola del calzolaio” coniata da Melchiorre Gioia secondo la quale: ”un calzolaio, per esempio,
eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più
che a fare una scarpa; voi gli dovete il valore di una fattura di una scarpa e un quarto
moltiplicato pel numero de’ giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi”.
Pertanto il criterio della liquidazione del danno alla persona rimase per lungo tempo ancorato
ad una visione strettamente patrimonialistica.
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Il quantum veniva quindi individuato ed era strettamente correlato con la capacità lavorativa
del soggetto, rendendo difficile una ipotesi di risarcimento nel caso di lesioni micropermanenti o
anche di lesioni gravi, ma in soggetti anziani o nei bambini. Una visione quindi ristretta del
concetto “valore uomo”.
Il c.d. “danno biologico” fu recepito per la prima volta nel 1974 dal Tribunale di Genova.
Dopo alterne vicende gli anni settanta si chiusero con un contributo della Corte costituzionale
che configurò il diritto alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione come: “diritto primario
ed assoluto, pienamente operante anche tra i privati” sostenendo quindi la piena risarcibilità di
tutti “gli effetti della lesione al diritto, considerato come posizione soggettiva autonoma,
indipendentemente da ogni altra circostanza o conseguenza”.
Un ulteriore intervento della Corte Costituzionale nel 1986 individuò tre categorie distinte: il
danno biologico, il danno patrimoniale e il danno morale. Il danno biologico divenne quindi il
punto di riferimento per tutte le ripercussioni diverse da quelle patrimoniali: e in questa voce
furono ricondotte le varie categorie di danno non reddituale tra le quali: danno estetico, alla
vita di relazione, alla vita sessuale ecc.
Agli inizi degli anni novanta il concetto allarga ancora di più i suoi orizzonti e si inizia a trattare
della risarcibilità del danno psichico.
Terza età e tutela giuridica
Mentre teoricamente non vi è alcuna differenza nella tutela dei diritti per quanto concerne la
terza età, in pratica, l’avanzare degli anni, con la conseguente diminuzione delle principali
facoltà fisiche, rende di fatto un po’ più difficoltosa la tutela dei propri diritti, ciò sia dal punto
di vista passivo (la persona è maggiormente a rischio e subisce la microcriminalità con effetti
negativi non solo dal punto di vista materiale, ma anche e soprattutto da un punto di vista
psicologico), sia dal punto di vista attivo: a fianco della persona anziana – seppur valida - è
auspicabile vi siano persone che interagiscono tra il soggetto e il mondo esterno divenuto ormai
sempre più frenetico, tecnologico e automatizzato, persone attraverso le quali esercitare diritti
anche personalissimi (operazioni bancarie sul proprio patrimonio etc., collegamenti con le
infrastrutture etc.).
Qualche differenza (non si può parlare di vantaggio) è rilevabile nel diritto penale, nel quale il
superamento di determinati limiti di età porta a sostanziali differenze per ciò che concerne la
possibilità di detenzione in carcere.
Eredità
Non sempre in tema di eredità si hanno le idee chiare.
Sono invece da tener presenti alcuni principi fondamentali: in primo luogo la differenza tra
l'eredità a seguito di testamento e l’eredità senza testamento.
L’eredità senza testamento è regolata dal codice civile e ad esso ci si deve attenere.
L’eredità con testamento – anch’essa regolata dal codice civile - lascia più libertà al testatore
circa la destinazione dei suoi beni.
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Alcuni degli eredi indicati come legittimi dal codice civile, nel caso di eredità senza testamento,
sono eredi cosiddetti “necessari” anche in caso di disposizione testamentaria.
Il testatore, quindi, non può dimenticare un erede “necessario” al quale per legge è riservata
una certa quota percentuale dei beni del testatore.
Quest’ultimo, pertanto, non può disporre interamente e discrezionalmente di tutti i suoi beni
poiché non deve dimenticare gli eredi necessari; in tale evenienza i beni assegnati all’erede e ai
legatari debbono essere diminuiti pro quota onde far salva la quota spettante all’erede
necessario.
La legge riserva una parte dell’eredità al coniuge, ai figli legittimi (ai quali sono equiparati i
legittimati e gli adottivi), ai figli naturali, nonché agli ascendenti legittimi, peraltro in assenza di
figli. Essi costituiscono la categoria dei “legittimari”.
La legge fissa anche la quota da destinare a tali soggetti, non avendo essi diritto alla stessa
quota e si preoccupa di definire le quote in caso di concorso tra più legittimari.
Esempio: se il genitore lascia un figlio, a questi è riservata la metà del patrimonio, se i figli
sono più, è loro riservata la quota di due terzi, da dividersi in parti uguali tra tutti i figli.
Se non vi sono figli ma ascendenti legittimi, a favore di questi è riservato un terzo del
patrimonio.
A favore del coniuge è riservata la metà del patrimonio e a suo favore, anche in caso di
concorso, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa e di uso sui mobili che la corredano.
Infine l’art. 548 del c.c. si occupa di regolare la successione del coniuge separato statuendo che
il coniuge separato, a cui non sia stata addebitata la separazione, ha gli stessi diritti successori
del coniuge non separato. Mentre se vi è stato addebito, al coniuge spetta soltanto un assegno
vitalizio, se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del
coniuge deceduto.
Tra le varie forme di testamento, quello che offre maggiori garanzie di sicurezza è il testamento
notarile.
Vi è anche il testamento olografo, cioè scritto e datato di pugno dal testatore.
In ordine a quest’ultima forma bisogna tener presente che l’intero testamento deve essere
redatto di pugno dal testatore poiché un testamento scritto a macchina, anche se sottoscritto,
è nullo.
Giudice di Pace
A partire dal 1° maggio 1995 è stato istituito l’Ufficio del Giudice di Pace che viene a sostituire
la figura del Giudice Conciliatore.
Nel sistema precedente, riguardo al Conciliatore, il potere di decidere secondo equità stava in
relazione anche a talune caratteristiche strutturali proprie del conciliatore, che era un giudice
onorario e che molte volte specie nei piccoli centri non era neppure un tecnico del diritto. Era
insomma concepito come una persona saggia, di buon senso, di assoluta rettitudine, stimato e
rispettato nell’ambiente nel quale operava, da un alto decidendo secondo equità le controversie
di modesto valore attribuite alla sua competenza e dall’altro assolvendo alla particolare
funzione di conciliazione che le parti gli potevano chiedere anche al di fuori della propria
competenza.
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Queste ultime funzioni “non contenziose” sono rimaste anche in capo al Giudice di Pace, la cui
fisionomia è peraltro mutata rispetto a quella del conciliatore poiché è dotato delle cognizioni
che gli derivano da una laurea in giurisprudenza oltre che di una certa esperienza professionale
in senso ampio.
La funzione non contenziosa è prevista nell’art. 322 del codice di procedura civile e può essere
proposta anche verbalmente, senza l’ausilio di un legale, avanti il Giudice di Pace; il processo
verbale di conciliazione costituisce titolo esecutivo, se la controversia rientra nella competenza
del giudice di pace, negli altri casi ha valore di scrittura privata riconosciuta in giudizio.
Per ciò che riguarda la competenza, il giudice di Pace è competente per le cause relative a beni
mobili di valore non superiore ai 5 milioni di lire (se per legge non sono attribuite ad altro
Giudice), per le cause relative al risarcimento dei danni prodotti da circolazione di veicoli e
natanti entro i 30 milioni di lire, ed è competente qualunque sia il valore, per le cause relative
ad apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o
dagli usi riguardo al piantamento degli alberi e delle siepi; per le cause relative alla misura e
alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case; per le cause in materia di immissioni di
fumo, calore, esalazioni, rumori, scuotimenti etc.; ed infine per le cause di opposizione alle
sanzioni amministrative.
Consulenza per la vita di coppia (conflitti, separazioni, divorzi)
Separazione personale dei coniugi.
L’istituto della separazione personale dei coniugi, così come disciplinato ora, entra in vigore con
la legge n. 151 del 19 maggio 1975. Dopo un faticoso e laborioso iter parlamentare la novella
viene approvata. La grossa novità è che viene abbandonata la figura della c.d. “separazione per
colpa”, rigorosamente collegata ad un nucleo tassativo di comportamenti di un coniuge che
potevano essere invocati dall’altro per sottrarsi legittimamente alla prosecuzione del
“consortium vitae”. Viene così introdotta “la separazione giudiziale”, la quale ha come
presupposto l’esistenza di fatti che rendano intollerabile ai coniugi la prosecuzione della
convivenza, o arrechino grave pregiudizio all’educazione della prole, anche se tali fatti non
siano soggettivamente imputabili ad alcuno dei coniugi; circostanze, queste, che prima della
riforma non avrebbero consentito ai coniugi di separarsi. Nonostante ciò, la nuova normativa
conserva comunque la possibilità di sanzionare i casi di responsabilità esclusiva di uno dei due
coniugi nel creare e rendere irreversibile la crisi coniugale. Tale “addebito” ha conseguenze però
solo patrimoniali. Il comma 2 dell’art. 151 del codice civile prevede che il Giudice, pronunciando
la separazione, possa dichiarare a quale dei coniugi sia addebitabile, in considerazione di un
eventuale comportamento contrario ai doveri derivanti dal matrimonio. E’ stato però
abbandonato il sistema chiuso, di ipotesi tassativamente previste di colpa, per lasciare spazio
ad un richiamo di ampio respiro; oltre quindi ai doveri di fedeltà, coabitazione, assistenza
morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e contribuzione ai suoi bisogni,
dovrà trovare spazio anche la considerazione del comportamento di entrambi i coniugi e
valutarsi l’oggettiva gravità dei fatti che vengono imputati e la loro effettiva e determinante
rilevanza.
Uno dei problemi più delicati è senz’altro la sorte dei figli della coppia che si sta separando.
Vige il principio generale per il quale tutti i provvedimenti relativi alla prole vanno adottati con
esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della stessa. Di norma l’esercizio della
potestà spetta al coniuge a cui vengono affidati, ma in alcuni casi il giudice può anche decidere
che tale esercizio rimanga congiunto. Il coniuge a cui non sono affidati i figli mantiene
comunque il diritto di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può rivolgersi al Giudice
quando ritenga che siano state prese decisioni non conformi all’interesse dei figli. Per ciò che
concerne il diritto al mantenimento, mentre durante la convivenza i rapporti patrimoniali sono
improntati al reciproco dovere di contribuire ai bisogni della famiglia, una volta intervenuta la
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separazione, la prospettiva muta, non dovendosi più considerare le esigenze del nucleo
famigliare nel suo complesso, ma quelle dei singoli componenti. Ed è proprio dalla
comparazione e valutazione dei bisogni individuali di ciascuno dei coniugi che può sorgere il
diritto dell’uno di ricevere dall’altro quanto è necessario al proprio mantenimento.
Naturalmente, accanto alle condizioni economiche del coniuge che invoca il mantenimento,
vanno valutate quelle del potenziale obbligato il quale diverrà tale solo se, da una valutazione
comparativa delle situazioni economiche di entrambi, emerga una sostanziale disparità. E’ però
escluso dal diritto al mantenimento il coniuge cui sia addebitabile la separazione, il quale potrà
beneficiare solo del diritto agli alimenti. Diritto dalla portata assai più limitata di quello al
mantenimento.
Conclusioni
Dura lex… mentre l’anima è morbida e fragile…
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