LucaniArt, Quaderno 1

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Mariano Lizzadro
sguardi e ascolti dal mondo
appunti musicali di Mariano Lizzadro
LucaniArt
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QUADERNO 3
SGUARDI E ASCOLTI DAL MONDO
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Appunti musicali
Associazione Culturale LucaniArt Onlus
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I QUADERNI DI LUCANIART
(numero 3)
a cura dell’Associazione Culturale LucaniArt ONLUS
via Mezzana Salice, 278
85030 San Severino Lucano (PZ)
C.F. 91007300766
[email protected]
http://lucaniart.wordpress.com/
Foto interne e di copertina, artisti vari dal web
© Copyright 2016 LucaniArtTutti i diritti riservati – Printed in Italy
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La musica è l’arte per un mondo migliore. La musica è l'esempio unico di ciò che si
sarebbe potuto dire, se non ci fosse stata l'invenzione del linguaggio, la formazione
delle parole, l'analisi delle idee, la comunicazione delle anime.
(Marcel Proust)
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Maria Pia De Vito
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Nota introduttiva
A che cosa faccia appello la musica in noi è difficile sapere; è certo però che
tocca una zona così profonda che la follia stessa non riesce a penetrarvi. (E.M
Cioran)
Queste piccole note di Mariano Lizzadro sulla musica, mi hanno
sempre richiamato alla mente la strada. La strada come luogo di
passaggio e di incontro.
E lungo questa strada ho immaginato il viaggio dell’uomo che non sta
fermo, ma si muove, cammina, conosce, si contamina e si porta a casa
cose nuove e inesplorate.
Il viaggio di Mariano Lizzadro nel mondo della musica è tutto questo.
Passione, voglia di conoscere e di conoscersi, ma soprattutto necessità
di condividere. Ecco perché nel 2007 è nata questa rubrica, che ospita
ad oggi circa 40 note o attraversamenti musicali, in cui l’autore e
collaboratore di LucaniArt, ci fa dono delle sue scoperte e dei suoi
gusti musicali.
E lo fa ascoltando senza pregiudizi musica più locale (come i lucani
Pietro Basentini, Valerio Zito e Marco Ielpo), musica regionale (penso
alla napoletana Maria Pia De Vito) e internazionale, che varca i confini
dell’Italia per raggiungere le sonorità europee, americane, brasiliane.
Senza mai dare nulla per scontato, senza allinearsi alle mode e ai
tempi; spesso scavando ai margini, spesso inerpicandosi in luoghi
inesplorati del panorama musicale, portando alla luce cantanti e
musicisti bravi e di talento, talvolta ancora semisconosciuti al grande
pubblico, ma che meritano ascolto e attenzione.
Per scelta dell’autore, l’antologia si divide in due parti, la prima
raccoglie gli articoli con riferimento agli ascolti italiani, la seconda con
riferimento agli ascolti del mondo.
Concludo augurando una buona lettura a musicisti, appassionati di
musica, lettori curiosi, perché questo libro è per tutti, un viaggio
coinvolgente e appassionato alla scoperta di parole, suoni, ritmi
musicali “altri e diversi”. Senza mode, senza pose, senza pregiudizi.
Maria Pina Ciancio
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Ecco in ordine di pubblicazione gli autori recensiti presenti
nell’antologia.
Ascolti italiani:
Le luci della centrale elettrica
Dente
Alessio Lega
Ettore Giuradei
Germano Bonaveri
Ardecore
Alessandro Mannarino
Bobo Rondelli
Gatti Mèzzi
Roma Amor
Elia Biloni
Pan del Diavolo
Eva Mon Amour
Barnetti Bros Band
Gastone Pietrucci e La Macina
Massimo Bubola
Sulutumana
Valerio Zito
Pietro Basentini
Calcutta
Maldestro
Marco Ielpo
Gabriele Russillo
Andrea Giannoni
Ascolti dal mondo:
Bill Evans
Lennie Tristano
“Kind of Blues” di Miles Davis
Thelonious Monk
Le origini della musica popolare Brasiliana: lo Choro
Moondog
Diamanda Galás
Meredith Monk
Jiri Stivin
“Mare Nostrum” di Richard Galliano, Paolo Fresu e Jan Lundgren
Le parole e la musica di Canio Loguercio
“O Pata Pata” di Maria Pia De Vito
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Questo piccolo libro raccoglie tutti gli articoli di musica che ho scritto
a partire dal 2007 per la rubrica “Sguardi e ascolti dal mondo” per il
Magazine LucaniArt. Nella prima parte sono articoli di musica italiana
inerenti soprattutto quella nuova generazione di musicisti e di gruppi
musicali nata in Italia durante gli anni ’70 e gli anni ’80 e non solo.
C’è poi una seconda parte, dedicata per lo più a figure storiche del jazz
ed altre cose. Un piccolo diario, su cui in questi ultimi dieci anni ho
appuntato una parte di quello che mi ha colpito, che mi è piaciuto a
livello musicale, senza nessuna pretesa.
Mariano Lizzadro
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ASCOLTI ITALIANI
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CANZONI DA SPIAGGIA DETURPATA
Le luci della centrale elettrica è il nome del progetto musicale del
cantautore ferrarese Vasco Brondi che esordisce nel 2007 con un demo
autoprodotto dal titolo omonimo, fortemente influenzato dai lavori di
Rino Gaetano e dei CCCP Fedeli alla linea. Nel maggio 2008 ha poi
pubblicato il suo album d'esordio album “Canzoni da spiaggia
deturpata”, prodotto da Giorgio Canali, che riprende alcune canzoni
del precedente lavoro. Il disco ha ricevuto un ottimo riscontro di
pubblico e critica, vincendo anche la Targa Tenco 2008 come Miglior
Opera Prima per nuovi cantautori. Le Luci Della Centrale Elettrica,
cioè Vasco Brondi da Ferrara, nemmeno venticinque anni è uno in
grado di urlarci in faccia il tempo devastato in cui viviamo, con quella
rabbia e dolcezza che solo chi viene dal basso, dalla provincia ed ha un
talento smisurato si può permettere. La sua uscita pubblica era molto
attesa, infatti questo progetto è un qualcosa che lo si aspettava da
tempo, da troppo tempo, ripiegati su noi stessi a sentir canzoncine
senza spina dorsale, senza intensità senza rabbia. Impegnati a guardarci
allo specchio, impregnati e pieni di noi stessi quasi dimentichi che
esiste ancora un mondo intorno, fuori vicino e distante al contempo.
Una sorpresa per tutti, come se qualcuno avesse preso l'Italiano e
l'avesse reinventato dall'inizio alla fine per rendercelo più attuale e
vivo: il modo di scrivere di “Le Luci della centrale elettrica” è vivido
e nuovo. Ci racconta il quotidiano con la lingua dell'oggi, cioè "parla
come mangi e se non mangi è perché il frigorifero è eternamente
vuoto, perché nemmeno uno straccio di lavoro precario sottopagato ti
permette una vita che sia al di sopra del livello della sopravvivenza,
allora o stai zitto o parlerai ed urlerai così”. E questo "Canzoni da
spiaggia deturpata" diventa così una personale raccolta di inni, una
“sorta” di leit motiv da scandire quotidianamente quasi come a voler
esorcizzare questo nuovo ma sempiterno male di vivere, perché
comunque la bellezza si nasconde anche dove non l'aspetti, perché
“l'amore respira nelle stanze di appartamenti subaffittati e ha gli occhi
chiari e ha capelli che sono come fili scoperti”, parafrasando lo stesso
Brondi. E' bellissimo e straziante e commovente questo disco. E' forse
ancora più bello perché dopo tanta attesa non solo conferma le
aspettative ma le supera. Infatti dopo un demo ruvido e urlato e quasi
inascoltabile per la maggior parte delle persone "normali", finalmente
quelle stesse canzoni trovano forma e compimento nella produzione
perfetta di Giorgio Canali che ne affila gli spigoli e ne pulisce
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l'irruenza, il rumore di fondo ma lasciandone intatto l'ardore ne
amplifica la forza d'urto. Il risultato è dirompente: un disco
immaginifico e potentissimo. Dieci canzoni come dieci bombe
Molotov lanciate contro la melassa annichilente di un Paese disastrato,
contro la noia e la morte del vivere quotidiano in una società sconfitta
dal dio denaro e dalla brama di potere. Immagini e metafore come se
piovessero. Poesia urbana. Un bacio ad occhi aperti in mezzo ai
lacrimogeni. Una dichiarazione d'amore sul letto di morte alla Canzone
Italiana. Questo disco non è roba facile e non è nemmeno rivoluzione:
però è un ottimo disco d'esordio, un buon punto di partenza. I testi che
gridano urgenza, verità ed onestà. Un’urgenza che, senza mezzi
termini, fa male e lascia annichiliti, questi testi cantati con una voce
capace di toccare le corde più nascoste dell’anima e che mettono sotto
i riflettori tematiche a cui non si vuole pensare, di cui non si vorrebbe
sapere. Parole che in alcuni momenti sembrano un flusso di coscienza,
ma che in altri sono assolutamente prive di significato, ma che
riescono sempre a colpire nel segno, tra giochi di parole e parole
gridate al vento. Come nella splendida “Sere Feriali”: “… Perché non
ci siamo mai rincorsi come nei film melodrammatici di merda invece
dei dormitori per tossici, delle sere feriali a verniciare treni infermi
sotto gli alberi stempiati lungo i viali trafficati per sorprenderti …” o
come quando si invidiano le ciminiere in “Per Combattere L’Acne”,
“perché hanno sempre da fumare”. I testi delle canzoni e lo stile del
canto sono influenzati da Rino Gaetano, che viene citato
esplicitamente nella conclusiva “Nei Garage A Milano Nord”, e
Giovanni Lindo Ferretti, che viene citato con i suoi CCCP ne “La
gigantesca scritta COOP”. Le musiche sono basate principalmente su
semplici accordi di chitarra acustica inframmezzati da riff semplici con
poche concessioni a ritornelli orecchiabili. La copertina è opera del
fumettista Gipi. Questo disco è molto bello. Ed ecco la formazione
musicale, questo terzetto delle meraviglie: Vasco Brondi: voce,
chitarra ed effetti; Giorgio Canali: chitarra elettrica e basso acustico ed
infine Max Stirner: organo in “Per Combattere L’Acne” e “Sere
Feriali”.
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LE ALCHIMIE MUSICALI E POETICHE DI DENTE
Ti ti ti ri ti ti ti ci ri ci ri pa pa pa la la la fi fi fi ci ri ci ri pa na na na la
la la la la la. Le canzoni di Dente sono come piccoli scrigni, una volta
aperti fanno sfoggio del loro prezioso contenuto: storie ed immagini
che trasportano l'ascoltatore nel mondo di un artista stravagante,
piccolo alchimista compositore di melodie e poesie. La sua musica è
uno stile acustico che col suono di una chitarra sposato talvolta a
percussioni ed elementi elettronici da voce alla vita di tutti i giorni, in
maniera del tutto irregolare però ai noti e consolidati modi di far
musica oggi in Italia. Le canzoni di Dente sono intrise di una poesia
malinconica ed intimista, sono melodie orecchiabili e belle. "Non c'è
due senza te" è un disco da ascoltare in silenzio per poterne assaporare
a pieno il valore artistico. Si rimane con gli occhi larghi di stupore e il
cuore leggero di gioia e pieni di incredulità, quasi come a ricordarsi
all'improvviso che dopotutto ci sono ancora tanti pezzi stupendi da
scrivere e ascoltare, canzoni semplici e sincere, limpide armonie
costruite solo con voce e chitarra. Dente miscela magicamente testi
evocativi e ironici, con un carattere musicale che pur essendo
assolutamente originale e caratteristico è quello che si potrebbe
tranquillamente definire, sempre per quello che valgono le
classificazioni o le etichette, come una naturale continuazione della
canzone tradizionale italiana. Alcune canzoni ricordano il suono di una
chitarra in una giornata di pioggia. Dente racconta storie di viaggi in
macchina, di lunghi baci. La dimensione del ricordo che ritorna spesso
nelle sue canzoni avvolge molte melodie e si confonde con l'afa e
l'amaro in bocca di un doloroso tradimento forse ancora non superato.
"Io per lei ho fatto finta di non capire come mi abbia spezzato le
costole quando mi ha abbracciato a metà, mi dico "vedi?" cambiano in
fretta le regole, i tempi, gli sguardi e l'umore. Ma io per lei ho fatto un
trapianto di cuore". La voce delicata di Dente che a volte sembra il
bisbiglio di una persona rassegnata ma con dignità pare esprimere frasi
amare, ferite ancora aperte e squarci nel cuore che questo musicista
esorcizza col suono della sua chitarra. Come un auto cura, Dente,
rimargina le ferite e asciuga le lacrime con melodie che sono dei
balsami profumati. E la malinconia e il bruciore del ricordo
apparentemente sembrano mutare. Insomma un piccolo alchimista, una
“sorta” di mago, un distillatore di poesia in musica. Ed è così che le
canzoni che raccontano di tradimenti dell'amata sono paradossalmente
le più allegre e riuscirebbero a strappare un sorriso a chiunque. Merito
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anche dei testi fatti di una semplicità violenta e disarmante e densi di
ironia. Con crudele delicatezza e disillusione, le canzoni di Dente sono
come le sorprese ben riuscite, quelle che sgrani gli occhi e fai un
sospiro grosso così. “Sono come i baci che un giorno sovra pensiero ti
ho dato e non mi sono ancora ripreso, sono come gli abbracci lasciati
lì a metà, tra lo stare e l'andare, che non si capisce, quando sei tra il
ridere e il piangere, e forse stai per fare tutte e due le cose insieme o
forse no”. Dente vola e scivola sulla vita senza attrito, sorprendendosi
e sorprendendoci con un tocco, una cadenza ed un passo che forse solo
gli individui irregolari e geniali possono avere. “L’amore non è bello”
l’ultimo lavoro di Dente uscito proprio nel giorno di San Valentino del
2009 è una tavolozza dai colori tenui, primaverili canzoni semplici,
motivi orecchiabili. Si sente forte l’ombra di un moderno cantastorie
che parla di amore e di quotidianità col tocco leggero e di un angelo.
E’ un disco che a tratti strizza l’occhio a certi ritmi sudamericani, ad
esempio la Bossanova, ma che si apre anche ad altre sonorità .Questo
disco con uno stile semplice, esprime un sacco di piccole verità, che
appartengono al viver quotidiano. Le mie dita seguono il ritmo di
questo disco e per una volta mi sento un piccolo compositore anch’io!
Mancano però i ci ri ci ri pi ri pi ri di “Non c’è due senza te”, ma
questo credo sia una scelta, una evoluzione stilistica. Ecco però
d’improvviso, musica e testo, piombare giù nel suo stile, quello che
conosco e riconosco, parlando di baci dati al pavimento. Ma sta
parlando di se stesso oppure di qualcun altro? Comunque il gioco
regge lo stesso e poi credo che la Sua musica non abbia pretese
intellettuali, nel senso di musica impegnata. D’altronde cos’è la musica
se non anche trasmettere emozioni e sensazioni? Questo disco mi pare
un piccolo omaggio alla poetica di Battisti filtrata da una straordinaria
sensibilità, che approda ad altri lidi. Autoironico e surreale, Dente
riesce a dipingere emozioni quotidiane grazie a testi originali e per
nulla scontati, con questa raccolta di canzoni autobiografiche in cui c’è
“la gioia dell'amore e la perdita di questa gioia e la perdita della
fiducia stessa nell'amore, vista come una sorta di liberazione”,
parafrasando lo stesso Dente. Un disco in apparenza naif, fischiettato e
fischiettabile così quasi senza che uno se ne accorga, con la svagatezza
romantica che solo i poeti e i sognatori riescono a trasmettere. Dente
inanella con disarmante facilità d’ascolto tredici perle di inebriante
malinconia, ineffabili schegge di genialità e follia, musicando l’amore.
Piccoli frammenti, suoni e parole, in grado di evocare fotografie
relative alla perdita di un amore, del proprio amore con giochi di
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parole per nulla banali. Insomma un disco che si svela e si rivela non
fin dal primo ascolto, ma le cui canzoni appunto fioriscono un po’ alla
volta come gemme in primavera. “L’Amore non è bello” è un album
che ha la sua forza nella semplicità, senza per questo essere banale.
Bello, lento, dolce, gradevole, flebile: ecco gli aggettivi che di primo
acchitto mi vengono in mente ascoltandolo. E già, perché ascoltandolo
e riascoltandolo, ci si accorge che questo disco non è per nulla
scontato, ma è un'opera precisa e recisa, che intende sottolineare in
maniera esplicita la presa di distanze dalla solita retorica cuore/amore,
trattando i temi amorosi in modo tutt'altro che mieloso, analizzando
rapporti esauriti e narrando dell'amore soprattutto gli aspetti meno
prosaici e forse per questo più autentici. Con uno spirito giocoso ma
mai troppo autoreferenziale con dei testi dotati del pregio di non
prendersi troppo sul serio, Dente dimostra di sapersi destreggiare con
abilità nella scrittura di canzoni melodiche ed impreziosite da un ricco
impianto strumentale, pianoforte chitarra e tutta una sezione di fiati. E’
un album estremamente curato fatto di canzoni d’amore al contrario e
narrazioni divertite dall’aria malinconica ma mai seriosa, composte da
una persona innamorata. Un disco sull’amore da masticare e digerire
fin dall’ebbrezza e la devozione dell’inizio, la rabbia e la delusione
della fine e tutte le sfumature possibili nel mezzo. Il tutto fatto con una
serietà impressionante, affilata e tagliente. Una meta riflessione
sull’amore e su tutto ciò che genera a partire dalla illusione per arrivare
fino alla delusione passando attraverso quasi tutte le sfumature
intermedie.
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CANTI E CONTROCANTI DI ALESSIO LEGA
Tempo fa ebbi modo di ascoltare una canzone che mi colpì molto:
“Vigliacca!” di Alessio Lega. Allora mi sono informato su chi fosse,
poi ho iniziato ad ascoltare dapprima “Resistenza e amore” il suo
primo disco e poi pian piano tutti gli altri suoi lavori. Alessio Lega è
un cantautore che gira lontano dal mercato, preferisce esibirsi nei
centri sociali, in piccoli circoli culturali, nei palchi e sui soppalchi
coniugando canzoni della tradizione musicale - teatrale con venature
esistenziali, toccando a volte il tema dell’amore ma esprimendo
soprattutto temi sociali. La sua musica, le sue canzoni hanno la forza
tipica della canzone impegnata d’autore: fondono personale e politico,
umore e passione nella poesia cantata. Le canzoni di Alessio Lega
sono un percorso personale nella piccola storia d’ogni giorno, una
strada con dei lampioni per illuminare il buio dei rapporti con se stessi
e con l’amore, fino a parlare di donne libere come oasi nel deserto che
scelgono la propria vita a dispetto di ogni morale. Ma se i temi sono
noti la sua novità è nell’impasto fra suoni e parole, libero dagli
stereotipi musicali. Parole e musica di Alessio Lega si fondono in una
totale libertà espressiva che può andare da alcune ouverture ariose ad
altre canzoni quasi da cabaret. Riff elettronici e semplici accordi di
chitarra classica si alternano e si fondono dando come risultato una
voce che esce quasi dagli schemi del tempo e dello spazio. Una musica
che può ricordare qualcosa di atavico e passato. O di interiore e
rivoluzionario, dato che “l’amore è una forma di rivolta, e che la
rivolta è una forma d’amore”, citando lo stesso Lega. Un artista che
considera la parola musica e che considera la canzone come un genere
più teatrale che discografico, la cui vera creazione non è né la scrittura
né l’incisione, ma l’esecuzione. Oppure sempre citando lo stesso Lega:
"Le poesie non sono solo belle, sono ri-belle. La magia della musica
interna alle parole, che è il nodo cruciale della poesia, è una vera
arma per cambiare il mondo. La poesia – e l’umanesimo in genere - è
la più grande nemica della nostra società divistica e spettacolare. Si
dice che la poesia è difficile perché nel nostro mondo si ha più paura
dell’irrazionale che del tecnologico, dell’amore più che del sesso,
della rivoluzione più che della guerra. Si dice che la poesia è un
prodotto fallimentare, nel senso che non è commercializzabile. In
compenso tutti scrivono poesia: a me questa pare una vittoria
grandiosa, sogno un mondo in cui non ci siano artisti e pubblico, ma
solamente uomini, ognuno con le proprie cose da dire. La poesia è
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l’arte che più di ogni altra si avvicina già ora a questo”. Alessio Lega
è nato a Lecce il 26 settembre del 1972 Ha iniziato a scrivere canzoni
fin dal 1985. Fumettista, anarchico e poeta ha pubblicato anche alcuni
libri oltre che dischi. Ho ascoltato quattro suoi dischi: “Resistenza ed
amore”, “Sotto il pavè la pioggia”, “E ti chiamaron matta” ed infine
“Compagnia cantante”. Diversi l’uno dall’altro, ma belli e densi di
poesia, di uno sguardo che va oltre, anarchia musica e parole fuse in
questi suoi canti controcanti!
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FRA REALTA’ SURREALTA’ ED ONIRICITA’: LE CANZONI
DI ETTORE GIURADEI
“In questi anni ho avuto la fortuna di conoscere persone coraggiose e
veramente libere senza le quali probabilmente non sarei riuscito a fare
niente.” Ettore Giuradei
Mi ha colpito molto un disco che ho ascoltato recentemente: “Era che
così” di Ettore Giuradei. Dopo gli ottimi riscontri, specialmente da
parte della critica, ottenuti dal suo album d’esordio “Panciastorie”,
questo giovanissimo cantautore le cui canzoni fra folk e rock,
miscelano elettricità ed acustico, poesia ed ironia, ha pubblicato
recentemente un disco che mi ha colpito molto e che trovo davvero
molto bello, appunto “Era che così” . Cantastorie in chiave musicale e
teatrale, surreale ed onirico: Ettore Giuradei pare dar vita al suo
universo, un immaginario istintivo e straripante, tra filastrocche e
poesie, che ricordano un Vinicio Capossela che scherza con Paolo
Rossi e ballate al piano, nelle quale rock, folk e canzone d’autore si
fondono con parole paradossali, ma agganciate alla realtà. Canzoni che
appaiono come sospese, poesie oniriche, contrappuntate dal suono di
un violino e stralunate in cui pare di ascoltare una “sorta” di Tom
Waits che canta un valzer! Questo disco, mezz’ora o poco più di
fotografie sbiadite, in grado di evocare amori osservati con la lente
obliqua dell’ironia o canzoni dai contenuti sociali o vere e proprie
poesie, ed a questo riguardo come non commuoversi dinanzi alla
poesia musicata di “Pasolini”? Autore dalla vena surreale, nella quale
teatro e letteratura scompaginano e si amalgamano alla meglio per un
viaggio onirico tra dolci ballate, rumori violenti, fiabe cantate, in cui
emerge un linguaggio continuamente spiazzante. Ettore Giuradei canta
di cantine e di sbronze ma anche di fiorellini di stelle e di mucche, di
culi sudati sulla lavatrice, mentre fa le boccacce a chi lo riprende,
salutando chi viene e chi va, staccando le luci della corrente per
ammantarsi di oscurità e nell’oblio. Le sue canzoni sono degli intrecci
di parole e musica in grado di creare situazioni sospese, intime ma
sempre legate ad una realtà che non viene mai tralasciata. Racconti che
si snodano attraverso un linguaggio originale, un calderone di
emozioni che trascina, lunare magico clownesco, in altre realtà,
mediante dei testi che, per stessa ammissione dell’autore, “risultano
volutamente criptici e surreali”, quasi l’autore stesso volesse prendere
le distanze, con gli strumenti della metafora e della trasfigurazione
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immaginifica, da situazioni non sempre piacevoli forse vissute in
prima persona. Ettore Giuradei è nato il 30 marzo 1981 a Brescia, nel
1998 inizia a scrivere canzoni. Dal 2001 lavora come attore per la
compagnia “Teatro Distratto” con la quale mette in scena diversi
spettacoli di Teatro Comico. Nel 2004 inizia a lavorare, con il fratello
Marco Giuradei, grosso talento al piano, sugli arrangiamenti delle
canzoni che finiranno nel primo disco "Panciastorie" che è uscito nel
2006. Mentre è del 2008 il meraviglioso “Era che così”.
Ettore Giuradei
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GLI SCHIAFFI IN FACCIA DI GERMANO BONAVERI
Un po’ di tempo fa, nei miei vagabondaggi musicali, mi sono
imbattuto credo in una raccolta di Germano Bonaveri e i Resto
Mancha. La ascoltai, mi colpì molto e la lasciai, metaforicamente a
fermentare pensando che come il mosto avrei dovuto aspettare che
diventasse buon vino. Ho aperto la cantina, l’ho assaggiato e quella
che era stata solo un’impressione si è trasformata in una certezza. Dal
mosto è fuoriuscito dell’ottimo vino! Ma dopo aver degustato,
passiamo ad un’analisi un po’ più approfondita del sapore, del gusto,
del contenuto di questo vino, onde evitare che poi alla fine ci si
ubriachi di solo odore! Leader del gruppo "Resto Mancha", Germano
Bonaveri, emiliano doc esordisce nel 2007 come solista con un album
dalle forte tematiche sociali “Magnifico”, tra brani dal sapore etno folk molto ritmati e venature jazz con virate dal tocco cantautoriale che
si alzano potenti e forti in versi come: "Sarà che un telegiornale/non
può convincermi fino in fondo/e ormai ci sembra normale/qualunque
guerra di questo mondo/", oppure "Sarà che un' altra umanità/altrove
ha fame davvero/e noi facciamo la guerra/per un fottuto barile di oro
nero". Le canzoni di Bonaveri parlano di influenza della televisione e
della politica sulle nostre vite, invitandoci a rompere gli schemi, da un
lato cercando di riconoscere le diversità o le differenze, da un altro lato
invitandoci alla partecipazione. Canzoni di resistenza dunque, perché
esprimono una volontà di non adeguarsi ai parametri comuni di un
vivere veloce. leggero ed alla moda (fast, easy, trendy!) e che si
ergono contro i filosofi all'acqua di rose, contro gli opinionisti
presenzialisti, contro gli psicologi pressappochisti, contro appunto quel
pensiero comune che ha bisogno di capri espiatori su cui puntare il dito
per alleggerire la propria coscienza, per sentirsi amati ed amabili,
rispettati e rispettabili. Canzoni nate per comunicare, per inviare
messaggi diretti e precisi. “E' un album di indignazione, mi sono
ispirato al quotidiano ma anche alla lettura e alla poesia, una
denuncia dell'uso della comunicazione da parte del potere in modo
distorto, dedicato all'informazione e da come ci viene dipinto un
mondo che in realtà non esiste, in cui non cerco di dare delle risposte
ma voglio invece sollevare delle domande, soprattutto in un mondo
dove la piazza ha smesso di esistere, e al suo posto adesso c'è
Internet”, come afferma lo stesso Bonaveri. “Magnifico” è un album
che cavalca la lirica e l'invettiva, che getta uno sguardo anarchico su
sentimenti e disagio sociale. Con l'accortezza di non offrire mai
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risposte, come se uno ti spegnesse in faccia una sigaretta accesa per
poi lasciarti ad elaborare il dolore che nasce dalla coscienza di aver
ascoltato queste canzoni, poesia e musica, che suonano come sonori
ceffoni in faccia”. Stringendo l’occhio a Gaber, Fossati e a De Andrè,
Bonaveri spazia sul senso meraviglioso della vita che è tale comunque
si viva ma scagliandosi in modo diretto contro le ingiustizie e i disagi.
Infatti afferma lo stesso autore: "questo disco è un'invettiva contro
l'uso/abuso dell'informazione da parte del potere, con la complicità di
una certa categoria di intellettuali sempre ben disposti a giustificare o
condannare secondo le convenienze e le mode del momento ma anche
un’opera magnifica come una musica improvvisata, come una foto
nata sfocata, come una lirica leopardiana, come la vita che è proprio
puttana”. Magnifico” è il titolo del disco che segna il debutto solista di
Germano Bonaveri nel 2007, leader dei Resto Mancha con i quali ha
pubblicato nel 2005 l’album “Scivola via”. Le canzoni di Germano
Bonaveri suonano come sonori schiaffi in faccia!
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L’INNOVATIVO RECUPERO DEGLI ARDECORE
Gli Ardecore attingono alla melma del Tevere, alle paludi fangose,
canzoni che parlano di morti strazianti, di coltelli, di malattie e
annegamenti, ma anche di carcere e di amore. In effetti si tratta di un
progetto trans culturale: ripescare la tradizione degli stornelli
Romaneschi, storie d'amore e di coltelli, di popolane sanguigne e figli
di buona donna, per ridare voce metaforicamente a quel patrimonio
senza tradirne lo spirito, ma attualizzandolo con arrangiamenti
moderni. Dietro questo progetto musicale c’è l'idea di un'operazione di
archeologia ed etnologia musicale: riportare alla luce brani, ballate di
vita e di morte, che tratteggiano una Roma a tinte fosche, vicina
all'immaginario Pasoliniano dei "Ragazzi di vita", che parla il gergo
universale delle vite al margine, del loro carico di miseria e
disperazione. Il progetto Ardecore nasce dall'incontro artistico tra la
band degli Zu, il cantautore blues Giampaolo Felici ed il chitarrista
americano Geoff Farina, dei Karate. L'idea della collaborazione nasce
nel 2002 durante il tour europeo che i Karate fecero appunto con Zu e
Blind Loving Power ossia il gruppo di Gianpaolo Felici. Ogni concerto
veniva aperto e chiuso con vecchi stornelli romani. L'intento iniziale
del gruppo musicale era quello di rielaborare in chiave moderna le
canzoni appartenenti alla tradizione popolare romanesca, rispettandone
l'ossatura e le particolarità stilistiche. Da qui' la nascita del primo
album omonimo "Ardecore" pubblicato nel 2005. Il filo conduttore
delle nove canzoni che compongono l'album è l'ispirazione al lato più
oscuro e drammatico della tradizione popolare romana. Le tematiche
principali sono l'amore, nel suo aspetto più tragico cioè morte e
tradimento, le insidie del Tevere ed il carcere. In particolare questo
disco è diviso in tre parti, come nella tradizione dei cantastorie o come
un trittico pittorico. Nella prima l'ambientazione è quella delle carceri e
del malaffare, del dramma, della vendetta e di una religiosità a sfondo
pagano. La seconda è dominata dalla morte, che scorre sulle acque del
Tevere. La terza parte è dedicata all’amore e in particolare alla
"serenata", nucleo melodico della canzone romana. Sonorità folk blues pervadono l'iniziale "Come te posso ama' ", lamento di un
prigioniero politico per l'amata e per la libertà perduta. "Madonna
dell'Unione" e "Madonna dell'Angeli" sono due invocazioni dell'aiuto
divino. La prima tratteggia una scenata di gelosia e di tradimenti. La
seconda è la parabola straziante di un uomo che perde la sua bella e il
figlio e supplica il cielo di restituirglieli: una magnifica folk-song di
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oltre sette minuti, tra stacchi di fiati, contrappunti di fisarmonica e una
coda free. Nel secondo capitolo entra in scena il Tevere, divinità
pagana e altare di vite a perdere, come quella del "Lupo de fiume" che
segue il destino del "… pupo verso la corente un tonfo, in fonno e poi
nulla più …" o del classicissimo "Barcarolo Romano", qui suonato in
una “sorta” di blues balcanico. E pare quasi di vedere una Madonna
pasoliniana nell'eroica "Popolana" che salva i pupi dalle acque del
fiume. A chiudere l'album, tre serenate ed un sonetto: "L'eco der
core", Il "Fiore de gioventù" un vecchio tango che sboccia in un folk blues al rallentatore, la “Serenata de paradiso" ed infine appunto un
sonetto del XIII secolo. Nel 2007 è uscito il loro secondo disco,
“Chimera” composto di canzoni originali, oltre a nuove
reinterpretazioni di vecchi brani della tradizione musicale italiana. Il
progetto diventa in questo secondo disco più ampio nelle
collaborazioni, dando spazio, oltre che ai componenti presenti nel
primo album, a musicisti e strumenti "nuovi" che rendono questo
secondo lavoro molto più versatile e ricco nei contenuti e nelle
sonorità. Il carattere acustico del primo disco è ampliato da sonorità
elettriche che non allontanano il gruppo da quei temi che avevano in
precedenza acceso una forte attenzione sulla loro musica. La presenza
in molti brani di sezioni di fiati ed archi allarga ulteriormente gli
orizzonti sonori di questo nuovo album. “Chimera” è composto da
dieci canzoni che partendo dal folk nostrano e attraversando una vasta
serie di generi contemporanei che vanno dal blues al jazz dei primordi,
arrivano a toccare sonorità che precorrono i tempi, con un gusto del
tutto originale e personale.
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“AL BAR DELLA RABBIA”: LA MUSICA E LE STORIE DI
ALESSANDRO MANNARINO
Alessandro Mannarino con la sua chitarra, da moderno cantastorie,
canta il suo strampalato mondo in questo suo primo disco: “Al bar
della rabbia”, palcoscenico di una Roma massacrata i cui protagonisti
sono immigrati che dondolano su impalcature barboni e pagliacci,
Mannarino da voce a tutta quest’umanità indigente. E’ la stessa gente
raccontata in alcuni film di Pasolini o di Fellini. Un mondo sommerso
e dimenticato dalla gente per bene. Un universo ai limiti della
cosiddetta società civile: pagliacci ubriachi e folli che cantano amore,
immigrati che abitano baraccopoli incrostate di fumo, barboni che
trovano città immaginarie in fondo al mare e girovaghi che cercano la
propria identità. Ed allora tutta questa ciurma di reietti e di ribelli
indigenti ecco che, magia dell’arte, trova finalmente voce e spazio in
questo Bar della rabbia, luogo immaginario e reale al contempo, grazie
a Mannarino funambolo di parole ed artista di strada. Il Bar della
rabbia, terra di confine tra quotidianità e fantasia, diviene così un luogo
metaforico ma reale in cui questi esiliati ritrovano la loro voce e la loro
profonda umanità. Alessandro Mannarino è nato a Roma nel 1979 ed
ha iniziato la sua attività artistica nel 2001, quando si è esibito in strane
session a cavallo tra il djing e i live acustici. Lasciandosi alle spalle
queste esperienze di “dj con la chitarra”, nel 2006 da vita alla
“Kampina” una band formata da 5 elementi con cui si esibisce nei
maggiori club e locali della capitale. Nei suoi testi surreali convivono
storie oniriche e tragicomiche di pagliacci, ubriachi e zingari
innamorati. Partendo dalle sonorità e dai ritmi della musica popolare
italiana Mannarino condisce il proprio mondo con elementi di musica
balcanica e gitana, citazioni Felliniane e evoluzioni circensi, dando
voce a tutte le sue storie a tutta la sua rabbia diventando portavoce di
quest’universo sommerso e dimenticato: un mondo di persone reiette
in terre di confine.
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“PER AMOR DEL CIELO”: LA POESIA SINCERA E
DISARMANTE DI BOBO RONDELLI
“Per amor del cielo” di Bobo Rondelli è un disco straordinario,
un’opera d’arte, musica e poesia incastonate alla perfezione e
ottimamente amalgamate. “Viaggio ad autunno” apre il disco, note dal
pianoforte, lasciano immediatamente spazio alla voce che ci rende
partecipi di un senso di nostalgia per un passato che non torna più.
Toccante è “Per amor del cielo” che da il titolo al disco, il secondo
brano che alterna suoni acustici ad un assolo elettrico di chitarra, note e
parole per descrivere una situazione di amore disperato. “Soffio
d’angelo” è una specie di ninna nanna tragica e straziante al contempo
che narra di morte. “Marmellata”, introdotta dal fischio dello stesso
Rondelli è ancora una volta uno sguardo sereno all’indietro, alla
giovinezza in cui l’effetto della musica è quello di regalare un bel
momento all’ascoltatore, con la musica arricchita da diversi strumenti.
“Madame Sitrì” tocca il tema eterno della guerra, facendolo però
attraverso gli occhi di Madame Sitrì maitresse di un bordello di
Livorno attraverso cui passano, si fermano diversi soldati, con un
finale estremamente toccante col suono di un violino e del sassofono.
“Mia dolce anima” invece è un viaggio dentro all’anima con versi
misurati ed ermetici. suonata con grande discrezione, costruita ed
intessuta intorno al suono di un vibrafono. Segue una poesia di Gianni
Rodari intitolata “Il cielo è di tutti”, musicata per l’occasione da Bobo
Rondelli, che è una riflessione sull’eterna stupidità dell’uomo e che si
conclude dando in un certo senso sfogo ad una specie di rabbia. In
“Licantropi” subito dopo vien fuori tutta la vena romantica di Bobo
Rondelli, in questa canzone d’amore strappa lacrime, con parole che
qualunque persona amerebbe sentirsi dire almeno una volta nella vita.
Nella conclusiva “Niente più di questo, l’amore”, musica e parole
hanno il dono di saper essere un miracolo, ancor più dolce e
commovente della precedente canzone, solo voce e pianoforte. Questa
canzone è un inno, un ringraziamento, un’estasi nei confronti delle
proprie creature e di colei che le ha generate senza, però tralasciare un
ironico spiraglio finale in cui forse riemerge l’altro Bobo Rondelli,
quello dei lavori precedenti insieme al gruppo Ottavo Padiglione, ma
tutto sommato questo disco è poetico, tenero e dotato di una sincerità
disarmante tali che personalmente me ne innamoro sempre di più,
ascolto dopo ascolto.
Bobo Rondelli è nato il 18 marzo 1963 a Livorno, città che farà da
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musa ispiratrice a tutta la sua carriera artistica, dal 1992 suona in varie
cover band, per poi formare un gruppo proprio con cui suonare pezzi
inediti e dare spazio a quell’esuberante creatività che costituirà la cifra
stilistica di tutto il suo lavoro. Gli Ottavo Padiglione (reparto di
psichiatria dell'ospedale civile di Livorno) è il nome della band: da
subito riscuotono un discreto successo anche fuori dalla Toscana,
soprattutto grazie ai testi di Bobo, introspettivi e ironici, folkloristici
ma concretamente legati all’oggi che racchiudono i tanti spaccati di
quella cultura toscana un po’ cinica ma altrettanto spassionata. Il
risultato è il singolo intitolato “Ho Picchiato La Testa” che vende
30.000 copie. La vita artistica degli Ottavo Padiglione prosegue con
altri due dischi pubblicati fino al 1999-2000, quando la band si scioglie
e Bobo inizia la sua carriera solista. Nel 2001 esce “Figli Del Nulla”,
seguito un anno dopo da “Disperati, Intellettuali, Ubriaconi”, prodotto
da Stefano Bollani. Per la critica si tratta di un autentico capolavoro.
La stampa ne parla con toni lodevoli accompagnando Stefano Bollani
alla vittoria, nel 2001, del Premio Ciampi per il miglior arrangiamento.
Negli anni successivi esce una raccolta degli Ottavo Padiglione e Bobo
si dà alle colonne sonore di film quali “Sud Side Story”, di cui è il
protagonista, e “Andata E Ritorno” di Alessandro Paci. Dopo un lungo
periodo di silenzio, quest’anno è uscito “Per amor del cielo”. Ed ecco i
musicisti che hanno contribuito alla creazione di questo disco, musica
e poesia sincere e disarmanti: Bobo Rondelli: voce, chitarra acustica,
chitarra ottava, sinth; Fabio Marchiori: pianoforte, farfisa, piano
elettrico; Simone Padovani: cajon, batteria e percussioni; Filippo Gatti:
chitarra acustica, basso elettrico; Dimitri Espinosa: sassofono e
strumenti a fiato; Steve Lunardi: violino; Francesco Gatti: chitarra
elettrica e Cristiano De Fabritiis: vibrafono.
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I GATTI MEZZI
I Gatti Mèzzi sono un duo pisano, formato da: Francesco Bottai:
chitarra, voce e kazoo e Tommaso Novi: pianoforte, voce e fischio a
cui si aggiungono Matteo Anelli al contrabbasso e Matteo Consani alla
batteria. Letteralmente in dialetto pisano l’aggettivo “mèzzi” vuol dire:
fradici. “Gatti mézzi”, deriva da un modo di dire pisano, “Roba da gatti
mézzi”, che sta per: la cosa peggiore che possa capitare o anche la
scabrosità e la bassezza di una situazione al limite del dignitoso. La
peggior cosa che infatti possa capitare ad un paio di gatti è un diluvio
nel vicolo o una piena d'un fiume in città. L'acqua uccide i gatti che,
nonostante le loro sette vite, non possono nulla contro il cimurro.
L'immagine evocativa di due gatti infradiciati scorrazzanti in un vicolo
notturno alla ricerca di una lisca o di una compagna in calore è l'idea
che credo stia alla base di questo progetto artistico strampalato e
divertente. L’idea che la realtà urbana sia cittadina che anche
provinciale italiana, globalizzata e tecnologica stia dimenticandosi dei
propri vicoli bui e puzzolenti, dei suoni e dei rumori nascosti che in
questi luoghi è ancora possibile ascoltare, del frastuono dei suoi
abitanti secchi e spelacchiati che in questi luoghi fanno di un gran
trambusto la loro esistenza fra un miagolio d'amore e un altro di
disperazione e della loro lingua d’elezione: il dialetto. I Gatti Mézzi
nascono da questa idea, un'idea che diventa progetto e poi si realizza
uscendo dal buio dei vicoli per venire alla luce della piazza al ritmo di
swing. Dunque gatti fradici che cantano in vernacolo toscano e che
strizzano l’occhio al jazz ed in particolare allo swing. Hanno esordito
nel 2005 e l’anno dopo hanno pubblicato il loro primo disco, auto
producendoselo ed intitolato: “Anco alle pulce ni viene la tosse”, poi
nel 2007 è stata la volta di: “Amori e Fortori” anche questo auto
prodotto ed infine quest’anno è uscito il bellissimo: “Struscioni”.
Nella musica dei Gatti Mèzzi la passione per un tipo di composizione
ironica, sperimentale, colta e irriverente, le melodie che spaziano dal
jazz allo swing unite alle sonorità della musica popolare si unisce,
rileggendola, alla tradizione cantautoriale italiana. La parola
“Struscioni”, indica coloro che si dedicavano ai balli lenti in passato,
balli che imponevano un contatto fisico tra le due persone che
danzavano insieme, ed è preso “a prestito” come simbolo, emblema di
un modo di vita meno frenetico e più umano, dove la comunicazione
avveniva in modi autentici, anche attraverso il corpo, il respiro, gli
sguardi ravvicinati, gli odori, i profumi. Da “Portami a pescare”, in
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cui si ironizza su chi abbandona il mare per recarsi in montagna, a
“Morandi” ritratto di un vagabondo alcolizzato e della sua tragica fine,
da “Fra l'arioporto e la stazione”, con la descrizione della frenesia
della gente che corre e si ammassa, a “Sor Tentenna”, apologo ed
incarnazione dell'indecisione, da “Avanzi di balera”, alla surreale
“Se”, fino alla stupenda “Caciucco Blues” si respira in tutto il disco
l’umorismo, l’ironia tipica di quello stile cantautoriale, che a me ha
fatto subito saltare all’orecchio ad esempio Giorgio Gaber oppure
Paolo Conte. “Struscioni” è anche una “sorta” di viaggio nelle vite, nei
vizi e nelle virtù dei personaggi raccontati e cantati da questi musicisti
toscani, il tutto condito con ironia e buona musica.
I Gatti Mezzi
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FRA TRADIZIONE FOLK E CABARET: LA MUSICA DEI
ROMA AMOR
Dopo il bell’esordio di “Roma Amor” disco del 2008, poco più di
mezz’ora in bilico fra fisarmonica, chitarra, strumenti a percussione,
con testi in inglese ed in dialetto, l’anno scorso è uscito “Femmina” il
secondo disco dei Roma Amor. Il nome di questa band, essenzialmente
un duo di origine romagnola formato da una voce femminile ed un
polistrumentista che si fanno chiamare Candela ed Euski, dal punto di
vista letterale grammaticale è un palindromo, ossia un nome che può
esser letto dall’inizio o dalla fine. Quindi questa scelta del nome mi ha
subito evocato un progetto musicale, un andirivieni fra passato e
presente: musica che trae origine dal passato per arrivare nel presente e
ritornare nuovamente indietro. I Roma Amor, infatti fanno un folk
cabaret, che prende spunto dalla tradizione cabarettistica del nord
Europa riletto in chiave mediterranea. Musica al confine col liscio
italiano ma con solide radici nella tradizione folk italiana e con una
strizzatina d’occhio alla musica da cabaret nordica. “Femmina” è un
disco di dieci canzoni, nove ritratti di donne ed una cover di una
vecchia canzone dei Japan di David Sylvian. Si inizia con “La
Guerriera” che racconta di una donna che è in guerra per amore. Poi si
prosegue con “La Belda” che parla di una “tusa”, termine che significa
appunto ragazza in molte regioni del nord. Con “La Zirinelda” eccoci
immersi in una vicenda di carne e macelli, in cui la protagonista pare
abitare proprio vicino o nei pressi di una macelleria. “La Borda” narra
le vicende di un’altra donna, forse una mamma che accudisce i figli,
mentre racconta loro questa ninna nanna: La Borda. “Lo lo lo”, invece
pare proprio uno scioglilingua con questi tre monosillabi, appunto lo lo
lo, ripetuti in maniera ossessiva da questa donna protagonista di questa
canzone come in una “sorta” di rito apotropaico. “Settimane
Spagnole”, il cui ritmo e la presenza delle nacchere mi evocano
vicende di donne spagnole, di giornate calde, fra un flamenco e la
sensualità di terra di Spagna. “Azzurrina” credo sia la storia dell’anima
vagante di una donna in cerca di amore rinchiusa in un castello. “Ela
Vera” è la storia al femminile di una guerra, infatti racconta la guerra
vista cogli occhi di una donna. “Femmina” il brano che da il titolo
all’album è una ballata di una donna insonne che non mente, non osa
più niente forse a causa di tutti i suoi guai. Conclude l’album
“Nighporter” la cover del vecchio pezzo dei Japan riletto in chiave
folk ed attraverso gli occhiali dei Roma Amor, lenti che filtrano suoni
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mediterranei mischiandoli con la tradizione cabarettistica nordica, ma
mantenendo ben salde le radici nella tradizione italiana. Il folk, il
riferimento al cabaret e la scelta del dialetto per raccontare storie
antiche e popolari di donne, fanno di questo “Femmina” un’opera
meta musicale, quasi una ricerca antropologica e sociale, espressa in
dieci canzoni di rara bellezza.
Roma amor
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L’OPERA SURREALE E GROTTESCA DI ELIA BILONI
ALIAS DINO FUMARETTO
“La vita è breve e spesso rimane sotto” di Elia Biloni è un’opera
musicale teatrale su testi di Dino Fumaretto. E’ un disco divertente,
cabarettistico a tratti strizza l’occhio all’avanguardia, fatto di voce e
pianoforte, di armonica, kazoo ed harmonium. Una nuova formula
musicale, surreale ed onirica, che strizza l’occhio alla tradizione ma
che pare superarla. Volendo ab-usare di un termine si potrebbe dire:
teatro canzone introspettivo, ironico e tagliente. Ma chi sono questi
due nuovi menestrelli della canzone d’autore italiana? Uno è Dino
Fumaretto definito “cantautore timido” e l’altro è Elia Billoni attore
solitario. Il loro esordio discografico risale al 2006 con un mini disco:
“Buchi”, una manciata di tracce di quell'album si ritrovano oggi in "La
vita è breve e spesso rimane sotto". Una sequenza pressoché
ininterrotta di pezzi pensati, concepiti e realizzati sostanzialmente per
voce e piano. Un piano dalle venature cabarettistiche e martellanti in
grado di scavare sotto la superficie degli apparenti testi non sense o
insensati. Mi colpisce molto la nascita di questo progetto nato
dall’incontro di un poeta in musica e parole ed un attore, in realtà
credo si tratti di una situazione Kafkiana o meglio Pirandelliana per cui
Dino Fumaretto forse potrebbe essere un personaggio immaginario
frutto della mente dello stesso Elia Biloni. Dino Fumaretto è un
personaggio, un nome d’arte, un alter ego, che incarna tutte le psicosi e
debolezze umane, creato dallo stesso Elia Billoni, che però si definisce
solo l’interprete ufficiale di queste canzoni quasi rinnegandone la
paternità ed attribuendola al suo “autore immaginario”. Ma al di là ed
oltre queste quisquiglie questo disco è forte: i testi parlano di nevrosi
quotidiane, storie minime di blocchi psicologici, disillusioni post
adolescenziali, disagi ed omicidi presunti o reali che siano, ma il tutto
sempre interpretato in modo anticonvenzionale per cui aleggia in quasi
tutto il disco lo stridore fra testi ed interpretazione sarcastico grottesca.
Un’urgenza espressiva di fondo per una narrazione che diventa
sdoppiamento al limite quasi della dissimulazione, che permette a
Biloni - Fumaretto di dire il vero mediante la finzione. Lo spettacolo di
Elia Billoni è una performances musicale teatrale che parte dagli scritti
di Dino Fumaretto, ma che va oltre, andando a piazzarsi di diritto
al’interno di quel filone di parole e musica in grado di andare oltre il
proprio tempo.
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FRA FOLK, ROCK E BLUES: LA MUSICA DE IL PAN DEL
DIAVOLO
Il Pan del Diavolo sono in due, Pietro Alessandro Aloisi: voce solista,
autore dei pezzi, chitarra e grancassa, e Gianluca Bartolo alla chitarra.
Percuotono le loro chitarre e la gran cassa come menestrelli d’altri
tempi, con in testa folk, rock e blues. Pietro Alessandro Alosi e
Gianluca Bartolo, coadiuvati da: Ufo al basso acustico, Karim alla
batteria minimale, Andrea Appino alla chitarra elettrica sotto il nome
appunto di Il Pan del Diavolo. Ascoltai l’anno scorso il loro disco
d’esordio, dal titolo omonimo: “Il Pan del Diavolo”. Quattro canzoni
tra folk, rock e blues, con una voce graffiante che per assonanza mi
evocò quella di Fella dei Jumbo, anni 70. Bene, vecchi ricordi del
progressive italiano che per assonanza facevano una danza in questa
mente bacata, pensai. E misi da parte come si fa col buon mosto in
attesa che diventi poi buon vino. A gennaio di quest’anno è uscito il
loro secondo lavoro: “Sono all’osso”, il loro primo long playng come
si sarebbe detto durante gli anni 70. L’ho ascoltato. Sono dodici
canzoni, fra folk rock e blues con la voce che urla quasi psicotica
sospesa fra passato e presente. Una dinamite. Come un cazzotto in
faccia o nello stomaco. Chitarre e grancassa a sonagli che portano il
tempo, una voce graffiante che urla e si dimena come una ossessa.
Musica affamata che digerisce e vomita tutto il rock italiano anni 70.
Per la precisione folk rock blues che esala quasi di nitroglicerina. Una
musica, questa de Il Pan del Diavolo, quasi scarnificata ridotta all’osso,
forse per questo rigenerata. I testi dissacranti, diretti, fra tic e nevrosi,
guaiti e ossessioni parlano in maniera anticonvenzionale e ruvida della
realtà che ci circonda. Dunque grande abilità compositiva di questa
band palermitana sanguigna e verace che nell’ultima canzone di
questo: “Sono all’osso”, si lascia un po’ andare sciogliendosi in un
ballo lento ma solo musicalmente. Fra folk, rock e blues la musica de Il
Pan del Diavolo è come sale sulla ferita sui nervi scoperti di
quest’epoca e di chi l’ascolta che all’inizio brucia e fa male ma che
poi, potere curativo della buona musica, risana essa stessa tutte le
ferite.
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I SALISCENDI EMOZIONALI NELLA MUSICA DEGLI EVA
MON AMOUR
Gli Eva Mon Amour sono un trio: Emanuele Colandrea: voce, chitarra
elettrica e chitarra acustica, Fabrizio Colella: batteria e cori, Corrado
Maria De Santis: chitarra elettrica, voce, organo, banjo e diamonica ed
appartengono a quella schiera di artisti che formano la cosiddetta
nuova scena indie rock italiana. La band nata a Roma inizia a proporsi
con il nome di Cappello A Cilindro, ma ben presto acquista il nome di
Eva Mon Amour. Nel febbraio 2009 esce il disco che segna anche il
loro debutto “Senza niente addosso”. splendido esempio di rock
melodico e graffiante, ma dopo pochi mesi il tastierista lascia il
gruppo. Rimasti un trio, gli Eva Mon Amour realizzano: “La doccia
non è gratis. E’ un disco ruvido, a tratti spigoloso e vagamente anche
destabilizzante, i cui testi parlano di situazioni e stati d’animo di
disagio che nascono dalla quotidianità, ripetitiva e poco stimolante
come quella di una città ma si potrebbe tranquillamente dire lo stesso
anche di altre realtà non urbane. Questo disco mi ha fatto subito
pensare a “Le luci della centrale elettrica” di Vasco Brondi. Le canzoni
degli Eva Mon Amour colpiscono molto, mettono a nudo l’ascoltatore,
poiché musica e parole esprimono a pieno il disagio di questi tempi in
modo sincero e spontaneo. Un disco senza compromessi, crudo,
viscerale una “sorta” di saliscendi emozionale che riesce a coinvolgere
l’ascoltatore ed a trascinarlo in questi spaccati esistenziali letti però
anche con la lente dell’ironia, mediante un linguaggio a tratti
paradossale ed assurdo. Undici canzoni che corrono e scorrono
velocemente non lasciando mai spazio alla banalità, ma descrivendo a
pieno, o all’osso parafrasando la figura del cane presente in molte
canzoni, l’essenza di questi tempi.
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IL VIAGGIO MUSICALE, FRA FRONTIERE E BANDITI, NEL
“CHUPADERO!” DELLA BARNETTI BROS BAND
Massimo Bubola, Andrea Parodi, Massimiliano Larocca e Jono
Manson, in arte “Barnetti Bros Band”, hanno fatto un disco, uscito a
Gennaio del 2010 ed intitolato “Chupadero!”. Questi quattro musicisti
coadiuvati da Terry Allen, Tom Russell, Gurf Morlix e Chris Barron si
sono incontrati in un luogo sacro, appunto Chupadero, nel New
Mexico, a 2700 metri di altezza tra pietre e polvere, magari vicino
qualche vecchio sentiero Apache o Navajo ed hanno creato questo
disco fatto di storie e ritratti di banditi e briganti, insomma un
affresco di fuorilegge, sia della storia e della tradizione nord
americana quanto di quella italiana. Un disco, un viaggio sonoro fra
tradizioni e frontiere, che raccoglie atmosfere, sonorità e storie di
Indiani d’America e di briganti italiani. Undici ritratti che come
piccole cartoline d’epoca e provenienti da zone al confine si
amalgamano benissimo fra loro, col risultato di musiche e canzoni che
sono anche avventura e storia. Dunque anche un confronto su due
tradizioni popolari diverse ma al contempo simili: il tema dei banditi o
dei fuorilegge con lo scopo di creare un ponte, un legame fra due
culture e due tradizioni usando appunto la musica. Il nome, “Barnetti
Bros Band” prende spunto dalla vicenda dei quattro fratelli Barnetti,
quattro fratelli di sangue uniti dall’amore per le chitarre, le pistole e la
tequila. Un disco questo “Chupadero!” che unisce suoni, strumenti e
lingue diversi. Nelle undici canzoni ci imbattiamo in luoghi e storie
diverse che partono dal West e al West ritornano, attraversando però
anche l’epoca Vittoriana inglese, il Risorgimento italiano, la New York
degli anni ’50, gli anni di piombo. Si passa con leggerezza da “Cops &
Mosquitos”, una ballata in stile tex mex sul generale Garibaldi al
classico rivisitato di Townes Van Zandt “Pancho & Lefty”, da “Dove
corrono i cavalli” una “sorta” di ri - evocazione della leggenda di Billy
the Kid alla leggenda padana del brigante di strada che assale i
malcapitati di “Son Passator cortese”. Dal “Brigante Tiburzi” storia
del brigante toscano Domenico Tiburzi vissuto a fine ‘800 a “Red Dirt
Road” una canzone che descrive la fuga di un uomo nel deserto rosso
del New Mexico. Dalla storia di “Hannah Snell” , il primo marinaio
donna nell’Inghilterra di fine settecento a “Angelo del bronx” che
narra le vicende di un cantante che con il suo quartetto vocale sfornava
hit nel bronx degli anni ’50 prima di perdersi in storie di droga e
religione. Da “Camelia” che musica le vicende di un bandito violinista
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che ama le donne nell’Italia degli anni ’70 a “Sante Y Girardengo”
rilettura in chiave flamenca di un De Gregori mischiato ad un Luigi
Grechi. E come per magia il disco si chiude ritornando al punto di
partenza con “Città di frontiera” che ci riporta in quelle città dove
suoni, profumi e facce si mischiano continuamente e si
sovrappongono, esattamente come in questo gran bel disco in cui storie
e momenti storici tra loro diversi sono uniti a creare un grande quadro
di umanità dai confini linguistici e musicali attraversati continuamente.
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LA STRUGGENTE POESIA E LA TRADIZIONE NE: “AEDO
MALINCONICO ED ARDENTE, FUOCO ED ACQUE DI
CANTO” DI GASTONE PIETRUCCI E LA MACINA
Dopo i primi ascolti di questo primo volume dell’ “Aedo malinconico
ed ardente, fuoco ed acque di canto” di Gastone Pietrucci e La
Macina e dopo la recente scoperta dell’esistenza degli altri due volumi,
di cui l’ultimo uscito recentemente, a marzo del 2010, avevo pensato:
“ci sono dei dischi talmente belli di fronte a cui le parole, qualsiasi
parola pare inadeguata ed io non ho parole, mi si sono bloccate in gola,
fermate sull’uscio dell’ugola di fronte a questa meraviglia, a tanta
poesia, a tanta buona musica di questo primo volume dell’ “Aedo
malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto” di Gastone
Pietrucci e La Macina, uscito nel 2002. La Macina è un ensemble
marchigiano di ricerca di musica popolare, attivo da più di trent’anni e
Gastone Pietrucci è un poeta cantante attivo anche lui da tantissimi
anni. Questo disco inizia con degli arpeggi di chitarra, percussioni
dolci, fisarmonica e dopo qualche giro ecco la voce di Gastone
Pietrucci in questa splendida canzone d’amore: “Bella sei nada
femmina” che racconta una storia di una bella giardiniera a cui il
soggetto della canzone dedica questa meravigliosa canzone d’amore,
che a me ha evocato, ricordi di chiacchierate con anziani, la serenata
che in tempi antichi si portava sotto al balcone della propria amata.
Subito dopo eccoci con: “Se io fossi una formica / Monaca a forza”
struggente e malinconica canzone, che narra le vicende di una ragazza
che viene rinchiusa in monastero forse per un amore osteggiato dalla
propria famiglia. Poi con: “Ramo de fiori, rose d’amor”, storia di una
ragazzina che piange per il proprio amore partito per la guerra con la
voce rauca di Pietrucci, accordi di pianoforte, arpeggi di chitarra e tutti
i brividi che mi fa venire questa gemma di canzone. “La guerriera”
con la sola voce di Pietrucci che si staglia nel cielo seguita da chitarra
e flauto invece narra le vicende di un soldato morto e del rimpianto
dell’amata e della mamma, per la perdita di questo giovane. Con: “Io
me ne vojo andà pel mondo sperso” si cambia registro e si affonda
nella tradizione folk ancestrale con questa bella tarantella che racconta
le avventure di questo personaggio che appunto vuole andare da solo
per le strade del mondo. Insomma una bella boccata di ossigeno in
questo mondo in cui pare che l’avventura e l’imprevisto non esistano
più e che l’obbiettivo di quasi tutti sia diventato il posto di lavoro fisso.
“Benediciamo a Cristoforo Colombo” è la storia dell’epopea del
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grande viaggiatore genovese che scoprì l’America. Dopo con: “Io
vorrei che sulla luna / Tutti ce dice a spasso a spasso / E è lle cinque
‘lle sei se scioglie / , E mamma mia porta l’argè’ e la catena / Mentre
che io pesacavo tra Napoli e Messina / O mamma mia vojò mmarido /
Il mare è torbido l’acqua è turchina / Senti ‘l mio caro Adolfo / O
mamma mamma preparami le fasce / Cattivo custode / Io vorrei che
sulla luna” questa meravigliosa canzone collage tratto dai canti del
repertorio minore della filanda di Jesi, nove minuti e mezzo in cui
rimango davvero senza fiato e senza parole. Poi con “Cecilia”, storia
d’amore di questa donna, Cecilia, “morta d’amore” a seguito alla
morte del suo amato. Poi con “Il marito tosado”, storia di un uomo che
diventa confessore di tutte le donne e di tutti i loro “peccati” sessuali
col ritmo allegro e popolare di una tipica tarantella. “Mentre che
rastrellava / La ballata del brigante Pietro Masi detto Bellente” inizia
con la voce della grandissima Giovanna Marini e continua con questa
storia di questo brigante rubacuori dell’Appennino centrale che alla
fine muore con tutte le donne che l’hanno amato che piangono al suo
funerale. “Sotto la croce, Maria” è la storia della morte di un Cristo
popolare e di sua madre, Maria, che lo piange. “Dormi core mia” è una
ninna nanna al suono dolce dedicato al proprio cuore, stanco di
vagabondare con una strepitosa voce femminile che pare proprio quella
di Rossana Casale. “Bovi bovi” è una meravigliosa e dolcissima
descrizione della vestizione del corpo di Cristo morto con la Madonna
che canta questa meravigliosa nenia al povero figlio, morto crocifisso.
Chiude il disco un’altra meraviglia: “Stanotte mi sognai ‘na bella
fata”, epica, superlativa chiosa, per un disco sospeso fra tradizione e
poesia, fra folk e musica d’autore, un semplice gioiello di rara bellezza
che Gastone Pietrucci e La Macina, ci hanno donato come un regalo
che oltrepassa il tempo e si colloca nell’Olimpo atemporale dei grandi
capolavori della Storia dell’arte di tutti i tempi
“Gastone Pietrucci e i suoi compagni di viaggio de La Macina:
Adriano Taborro: chitarra, mandolino, violino e voce, Marco Gigli:
chitarra, cembalo e voce, Michele Lelli e Riccardo Andrenacci:
batteria, percussioni e voce, Roberto Picchio: fisarmonica, organetto e
voce e Giorgio Cellinese: coordinatore, sono un ensemble aperto e
minimale, con la splendida e scura voce di Gastone Pietrucci. La voce
di Gastone è tutt’uno con lui. i suoni che escono dalla gola di Gastone,
i graffi della sua emissione scavano solchi nelle parole come granelli
di una sabbia antica sollevata da un vento caldo, come i suoni delle
sirene che tentarono Ulisse, ammaliano, attirano fino a farci
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LucaniArt
confondere le nostri voci con la sua. La Macina splendida creatura
che lavora sulla tradizione nelle Marche: un lavoro, Aedo malinconico
ed ardente, fuoco ed acque di canto che, crediamo abbia un posto
riservato e speciale nella discoteca dell’anima delle cose che non si
dimenticano. Un gruppo di ricerca e riproposta della musica di
tradizione orale marchigiana. La voce rauca e ombrosa di Gastone
Pietrucci, che con la stessa confidenza e lo stesso amore canta i
documenti della tradizione marchigiana e i capolavori dei più grandi
cantautori italiani. “Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di
canto”: i canti della cultura orale marchigiana, ma ci sono anche echi
di Moni Ovadia, di Dodi Moscati, di Giovanna Marini, dei Gang.
Pietrucci completa una sua trilogia con il presente album, per così
dire antologico di tante e varie esperienze, per cui anche qui troviamo
brani anonimi e altri d’autore, e che autori: Franco Scataglini,
Virgilio Savona, Piero Ciampi, Pier Paolo Pasolini, Vangelis. Per non
parlare degli ospiti: la Banda Osiris, Ambrogio Sparagna. Anche
stavolta, il repertorio contempla i due estremi della tradizione orale e
della poesia scritta, così come quelle fasce intermedie: un canto
narrativo da cantastorie, una serenata eseguita con un’orchestra
classica. La Macina ha cancellato confini, ha abbattuto frontiere come
dovrebbe essere ovunque per qualsiasi genere di frontiere”.
Tratto dalle note di Enrico de Angelis, dalla prefazione al disco: Gastone Pietrucci La Macina, Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto, Vol. III, 2010
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LucaniArt
LE BALLATE DI MASSIMO BUBOLA
Massimo Bubola è un cantautore raffinato e relativamente poco
conosciuto a fronte del suo enorme talento musicale e poetico. Un
poeta, un musicista sensibile ed estremamente colto, che spesso
preferisce starsene in disparte. Lontano dal clamore e dal frastuono
dello show business, continua a scrivere da più di trent’anni le sue
canzoni, le sue poesie in forma di ballate. A regalarci le sue perle, a
scrivere e musicare storie popolari ma anche storie di emarginati e
deboli. Insomma un grande cantautore, silenzioso e laborioso.
Massimo Bubola nasce a Terrazzo di Legnago in provincia di Verona
il 15 marzo 1954. “Nastro giallo” del 1976 è il suo esordio, un disco
zeppo di intuizioni e di un modo di scrivere canzoni unico e singolare
ed accomunabile forse soltanto ai primi dischi di Francesco De
Gregori. Piccole gemme di sfavillante bellezza, che non sfuggono ad
una delle figure più importanti ed influenti della scena musicale del
nostro paese, Fabrizio De Andrè. E' il disco che ascolta Fabrizio De
André, rimanendone fortemente impressionato. Secondo le cronache,
arriva alle tre di un pomeriggio del 1977 la telefonata di De Andrè che
vuole Massimo Bubola con lui per collaborare al suo album “Rimini”.
Tra sorpresa e incredulità Massimo Bubola si trasferisce in Sardegna,
nella casa in campagna di Fabrizio De Andrè in Gallura. Incomincia
una collaborazione musicale che andrà avanti nel tempo. A quell’epoca
Massimo Bubola ha poco più di vent’anni. Per De Andrè incomincia
un nuovo capitolo musicale e Massimo Bubola sarà il trait d’union fra
la formula classica e la nuova avventura verso il rock dell’ultima parte
della Sua carriera. Del disco “Rimini” del 1978, il giovane Bubola
infatti ne è il coautore di testi e musiche. Nel 1979 esce “Marabel” il
secondo lavoro solista di Massimo Bubola. che contiene già gran parte
della sua personale poetica musicale: le ballate a ritmo rock, ma anche
ballate fatte da suoni e sonorità disparate, dal folk irlandese ai ritmi
sudamericani. Nel 1980 esce un 45 giri con Chi ruberà - Bar dei Cuori
infranti. “Chi ruberà” è una ballata semiacustica, con mandolino e
“Bar dei cuori infranti” è invece una ballata country con il pianoforte.
Nel 1981 ritorna in sala d’incisione con De André per incidere il 45
giri “Una storia sbagliata”, una canzone ispirata alla tragica morte
dello scrittore poeta regista Pier Paolo Pasolini. Sempre del 1981 sono
sia l’album omonimo “Fabrizio De Andrè” universalmente noto come:
“L’indiano” di cui Massimo Bubola ne è un’altra volta coautore che
“Tre rose”. Nel 1982 scrive e musica l’omonimo disco “Massimo
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LucaniArt
Bubola”. Dopo sette anni di silenzio nel 1989 esce “Vita, morte e
miracoli”. “Doppio lungo addio” è del 1994, mentre l’anno successivo
è la volta di “Amore e guerra”. Nel 1997 è la volta di “Mon tresor”.
Nel 1999 esce “Diavoli & Farfalle” che contiene fra l’altro alcune
meravigliose ballate fra cui: “Se questo è un uomo” dedicato al
romanzo di Primo Levi e “Tina” dedicata a Tina Modotti, fotografa e
pasionaria friulana immigrata in America e poi in Messico ai primi del
‘900, questo disco ripropone la figura di Massimo Bubola
all’attenzione generale. Nel 2001, dopo venticinque anni di attività e
più di duecento canzoni pubblicate esce il primo doppio album live “Il
cavaliere elettrico – vol. I & II”, mentre nel 2002 è la volta del terzo e
quarto capitolo di questa saga live: “Il cavaliere elettrico – vol. III &
vol. IV”. Nel 2004 esce “Segreti Trasparenti”, una “sorta” di summa
Buboliana che racchiude splendide ballate tradizionali come: “La
sposa del diavolo” ed altre ballate come: “Stai con me” e “Niente passa
invano” oltre alla meravigliosa “Jetta a luna” brano che amo
particolarmente e che mi ha sempre emozionato tantissimo. Nel 2005 è
la volta di "Quel lungo treno", un album tematico sulla Prima Guerra
mondiale in cui Bubola si riappropria della tradizione folk veneta. Nel
2006 ha pubblicato un libro di poesie e lettere musicate dal titolo
"Neve sugli Aranci". Nel 2008 ha pubblicato: “Ballate di terra e di
acqua” ed infine quest’anno è uscito lo splendido “Chupadero!”. La
musica di Massimo Bubola è una specie di sintesi tra la canzone
d’autore italiana e il rock. Atipico e lontano dai carrozzoni rumorosi
della musica commerciale o di consumo, piuttosto un artigiano di
liriche e melodie di primordine, Massimo Bubola ha un modo di far
musica in rottura con gli schemi tradizionali di un certo cantautorato. Il
suo linguaggio visionario è un anello di raccordo tra il rock e la
canzone d’autore. Gli studi classici, la conoscenza della Poesia e di
certa Letteratura fanno di Massimo Bubola un autore, cantautore che
attraverso lo strumento della ballata riesce a portare le storie, i tranci di
vita che canta verso i cieli e le vette più alte.
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LucaniArt
L’ANDARE, IL DIVENIRE E IL RITORNARE NELLA
MUSICA DEI SULUTUMANA
“Sto sognando sette nani mentre ballano in ascensore e non mi fanno
salire e giusto tre secondi prima di svegliarmi sento il bel suono del
flauto di Ian e vedo un tale a inseguire ombre e vedo un altro in mezzo
alle onde potrei essere io tutti e due potresti essere tu che non
conosco, non ho mai visto. E c'e' una terra misteriosa, vedo strani
paesaggi laggiù oltre l'uomo che nuota, vedo parole uscite da vasi di
creta e da storie di fantasia e sento il bel suono del flauto di Ian e
volentieri toccherei una chitarra così soltanto per farti sentire il
profumo4 del ribes che non conosco, non ho mai visto. Sono contento
sai vieni ancora a trovarmi se vuoi io abito ovunque andrai, vieni
ancora a trovarmi se vuoi. Sto assaggiando lo sconforto di un risveglio
innaturale ancora non vedo il sole, ma solo gente uscire da case di
pietra e da storie di fantasia e quando partono per il lavoro si sente il
bel suono del flauto di Ian e intanto a me pare di ricordare il profumo
del ribes che non conosco, non ho mai visto. Sono contento sai, vieni
ancora a trovarmi se vuoi io abito ovunque andrai”. Tempo fa mi sono
imbattuto in questa bellissima canzone dei Sulutumana intitolata
“Ribes” e allora come spesso accade quando una cosa colpisce: si
cerca di scoprire, di sapere e così un po’ alla volta si entra in nuovi
mondi fino a quel momento sconosciuti. “Sulutumana” letteralmente
significa: sul divano, in dialetto vallassinese e la Vallassina è una zona
della Brianza. Dunque questo manipolo di musicisti: Gian Battista
Galli: voce e fisarmonica; Nadir Giori: contrabbasso e basso elettrico;
Angelo Galli Pich: flauto traverso, aggeggi e cori; Samuel Elazar
Cereghini: batterie e percussioni; Andrea Aloisi: violini e Francesco
Andreotti: pianoforte e tastiere formano l’ensemble “Sulutumana”.
Tutti i componenti collaborano alla stesura delle canzoni in base alle
loro diverse esperienze artistiche e musicali: nascono così le canzoni.
"La Danza", nel 2001: un esordio folgorante, trentacinque minuti, in
cui stipate, come in una “sorta” di antologia, ci sono tutte le magie che
la musica d'autore in Italia ha prodotto nella sua storia cinquantennale:
da De André a Guccini, da De Gregori a Paolo Conte solo per citare
primi che vengono in mente. Se chiudo gli occhi e ripenso alle canzoni
di questo folgorante esordio “Pomeriggio”, “La danza” “Ribes” ed
altre mi vien in mente un tessuto prezioso, un ordito fatto di piccole
perle, uno scrigno pieno di gioielli. Musica che trascina verso altri
mondi, con tutto l’ensemble coi flauti e le fisarmoniche che suonano
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LucaniArt
canzoni in una commistione fra etnico e folk strizzando l’occhio a tutta
la tradizione della canzone d’autore italiana. “Di segni e sogni” del
2003 è un taccuino di poesie, delicate e malinconiche, rime a volte
scontate ma incastonate in quel suono dei Sulutumana inconfondibile e
speciale, intruglio intricato di strumenti tradizionali e ritmi e melodie
con tanti piccoli monili e gemme preziose. Dopo la raccolta “Angeli a
perdere” del 2004 ... la raccolta galeotta che contiene la versione di
“Ribes” che mi ha colpito tantissimo! … nel 2005 esce “Decanter”. Il
decanter è un contenitore di vetro che serve a far ossigenare il vino di
modo da ridargli quelle caratteristiche che la costrizione in bottiglia gli
ha tolto. Questo disco dei Sulutumana, infatti, ha bisogno di tempo, di
diversi ascolti per aprirsi del tutto. È molto meno immediato dei dischi
predenti e si ha come l'impressione che si tratti di un disco di
transizione, in tutti i sensi: transizione intesa come variazione di
riferimenti e di stile, ma anche di spostamento vero e proprio. Il
movimento è infatti al centro di gran parte dei brani e non è casuale
che il disco si apra e si chiuda con due pezzi legati al viaggio. "AnamJi" ispirato da un libro di Tiziano Terzani, mentre "Antemare" ha un
testo adattato dalle Metamorfosi di Ovidio, come a dire che viaggio
fisico e viaggio interiore sono un tutt'uno. Questo disco possiede altre
coordinate musicali: il gruppo si allontana ulteriormente dal folk che
caratterizzava soprattutto il primi lavori, virando verso una canzone
d'autore che utilizza stili variegati. “Decanter” è un disco sul viaggio
visto da molteplici punti di vista. Sembrano scomparse le piccole storie
presenti nei due dischi precedenti, a favore di musiche e testi più
complessi. Oltre al movimento, questo disco parla del trascorrere del
tempo e l'importanza delle parole nella possibilità di superare la
dimensione del tempo. Un disco che cresce ascolto dopo ascolto come
del buon vino nel decanter appunto migliora con l’ascolto. Sempre nel
2005 è la volta di “L'incredibile meravigliosa storia di Prinsi
Raimund" che nasce dal repertorio musicale e popolare piemontese, da
fatti di cronaca di due secoli fa. Una “sorta” di vicenda Shakesperiana
narrata in dialetto, usando le parole dell’autore Giuseppe Adduci:
“come a dire che ci sono degli archetipi intorno a cui le storie, e quindi
le vicende del mondo, ruotano, assomigliandosi. Le stesse storie
perciò, anche senza trasmissione orale, si trovano sotto forma di canti
sia al nord che al sud d'Italia, e in molti altri luoghi del mondo”. E’ del
2008 invece l’ultimo album “Arimo”. Il termine Arimo è
un'abbreviazione di arimortis. Il modo di dire ricorda l'uso latino delle
arae mortis, gli altari della morte, elevati al termine della battaglia per
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LucaniArt
onorare i caduti. Una indicazione sacra di tregua rimasta ormai solo nel
linguaggio dei bambini, oppure usando le stesse parole dei Sulutmana:
“Arimo è una formula magica che usavamo da bambini giocando a
nascondino e ad altri giochi di strada e di cortile: quando questa
parola veniva detta a voce forte e chiara da qualcuno ci si aspettava
sempre qualcosa di buono: una tregua, una pausa per riprendere fiato
e rimettere ordine nel caos del gioco". “Arimo” è un disco che mette
un punto va a capo per ritornare da dove tutto era iniziato ossia da “La
danza”, un disco fuori dal tempo che fa correre piacevoli brividi lungo
la schiena, come la pioggia primaverile: i Sulutumana vanno avanti
tornando indietro!
Nati nel 1989, nei primi anni di attività si sono cimentati come cover
band interpretando alcune canzoni del repertorio di cantautori italiani
ed internazionali ed hanno iniziato ad ottenere i primi riconoscimenti
fra cui un premio in memoria di Lucio Battisti e poi la Targa Tenco.
Nel 2001 esce il loro primo album autoprodotto “La danza". Grazie a
uno dei brani in esso contenuto vincono il premio speciale del
periodico musicale "L'isola che non c'era" durante il concorso per la
canzone d'autore "I Migliori che abbiamo", patrocinato dal Comune di
Genova e dalla Fondazione Fabrizio De Andrè. Nel 2003, invece, è la
volta dell’album "Di segni e di sogni", ancora una volta autoprodotto,
che contiene dieci nuove canzoni. La raccolta "Angeli a perdere" è del
204. Sempre nel 2004 i Sulutumana incidono un album di canzoni
popolari " L'incredibile meravigliosa storia di Prinsi Raimund" frutto
della collaborazione con l'attore Giuseppe Adduci. Nel 2005 esce
"Decanter", mentre successivamente, grazie all’incontro con lo
scrittore Andrea Vitali nasce una florida collaborazione, che porta
anche alla composizione di numerose canzoni che fanno parte
dell'album “Arimo” del 2008. Il gruppo vanta diversi coinvolgimenti in
ambito teatrale: "Volti", su testi di Erri De Luca, "Pianoforte vendesi",
tratto da un racconto inedito di Andrea Vitali, "La farfalla sucullo", di
e con Giuseppe Adduci ed infine "Canti e Racconti", di Sulutumana e
Andrea Vitali.
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LucaniArt
“NOMI, COSE, CHISSA’” DI VALERIO ZITO
Un po’ di tempo fa mi sono imbattuto in un disco la cui copertina
aveva la forma di un “disco orario”, un cd la cui custodia ricorda uno
di quei dischi orari che vengono usati per segnalare alle autorità
competenti o anche agli altri automobilisti che la macchina è
parcheggiata li da un certo tempo. Sulla copertina c’era scritto: “Nomi,
cose, chissà” e l’autore era Valerio Zito. Subito ho cercato notizie sui
chi fosse Valerio Zito ed ho scoperto che è un giovane cantautore di
Potenza. In un’intervista rilasciata a Pietro Patrissi lo stesso Zito
afferma, in maniera autoironica che ha incominciato a fare musica “il
giorno in cui sbagliai a montare il mi cantino sulla chitarra di mio
fratello”. Ha frequentato il CET, la scuola di Mogol, lo storico
paroliere di Lucio Battisti e di tanti altri mostri sacri della musica
italiana e che durante questi anni in cui ha girato per il mondo ha
stretto amicizia con altri cantautori come Antonio Di Martino, Dario
Brunori, Niccolò Carnesi e il pianista compositore lucano Angelo
Trabace. Nel 2011 si è trasferito a Palermo per lavorare al suo primo
disco. Entra in contatto con la “Nuova scuola cantautoriale Siciliana”
di cui fanno parte oltre allo stesso Antonio Dimartino e Niccolò
Carnesi, il Pan del Diavolo, i Waines, Cesare Basile, Colapesce, le
Iotatola e altri. . Ma è soltanto l’anno seguente nel 2012 che iniziano le
registrazioni del primo disco/ep ufficiale dal titolo “Nomi, cose,
chissà”. Questo disco comincia con: “Taglia S” storia di un amore
verso una donna raccontata con la metafora di un cappotto di taglia S
che a volte calza a pennello ed altre volte va un po’ stretto, quasi a
voler simboleggiare il gioco di attrazione e lontananza tipico di tante
storie di amore. Il disco prosegue con “Ladri di vorrei” che canta delle
insoddisfazioni di chi si sente defraudato dei propri sogni e che non
vuole arrendersi ed appunto vuole continuare a credere nei propri
sogni. Poi è la volta di “Annette” in cui Valerio Zito forse si confronta
con alcuni fantasmi interiori come ad es. l’immagine femminile o
come direbbe uno Junghiano con la propria Anima. La quarta traccia
“Tutto torna” è una canzone inquietante ma bella perché parla di
insetti che si vendicano bruciando il soggetto di questa canzone, ma
dato che tutto è ciclico allora tutto torna, ritorna anche tutto il male che
uno ha fatto, ivi compreso l’aver ammazzato le formiche e altri animali
durante l’infanzia ed arriverà anche il momento in cui arriverà qualche
insetto a recidere le proprie code di paglia ossia arriva per tutti il
momento di crescere. Il disco continua e si conclude con “21 12 12”, in
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LucaniArt
cui Valerio Zito si rivolge direttamente al presidente degli Stati Uniti
d’America, emblema di tutti i potenti della terra, cantando con verve in
una specie di giostra impazzita tutta una serie di anatemi da cui non
viene risparmiato nessuno e nessuna istituzione, la Chiesa e tutta la
società comprese. Parafrasando lo stesso nostro cantautore:
“moriranno tutti di venerdì ... e all’altro mondo si starà da dio .. sarà
una festa di pittori e sommelier … indosserò la mia camicia a pois …
e sputerò poesie per l’eternità”. Dal punto di vista musicale “Nomi,
cose, chissà” è ben suonato, molto curato nei particolari. I riferimenti
musicali evidenti sono rintracciabili nella musica d’autore degli anni
’70, in particolare i cantautori storici ma anche nell’attualità di molti
suoni di altri cantautori più recenti fra cui ricordiamo Dario Brunori,
Lucio Corsi, Niccolò Carnesi ed altri. “Nomi, cose, chissà” rimanda
all’infanzia ed in particolare al gioco che si faceva: nomi, città, animali
eccetera. Ed è appunto questo rimando ad un’età incerta che indica,
secondo me, anche una condizione di incertezza generale, quella che
stiamo vivendo in questi anni. E se da un lato c’è il dubbio dall’altro
c’è anche un po’ di ottimismo, una positività scanzonata ed allegra.
Lunga vita a questo folletto anticonformista che ama definirsi
“BasiLucano” e che speriamo in un non lontano futuro ci riesca a
sorprendere con altre canzoni, altre poesie.
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LucaniArt
LA BASILICATA NELLE PAROLE E NELLA MUSICA DI
PIETRO BASENTINI
Questa storia inizia casualmente un giorno con un piccolo grande
ritrovamento, una grande scoperta per me. Qualche anno fa mi trovavo
in una campagna nei pressi di Bella, una piccola cittadina vicino a
Baragiano che è il mio paese ed il luogo in cui vivo e mentre stavo
osservando una piccola casupola diroccata feci una bellissima
scoperta: trovai un piccolo tesoro, alcune vecchie musicassette. Non
erano proprio in buone condizioni ma alcune si potevano ascoltare. Fra
le vecchie musicassette subito una in particolare attirò la mia
attenzione. Era di un “certo” Pietro Basentini e si intitolava: “Un due
tre fanti Briganti e re”. Subito scappai a casa e la misi nel mio stereo e
ne fui rapito, dalla musica e dai testi. Poi un po’ di tempo fa grazie a
mio fratello Luca, anch’egli appassionato di musica ed anch’egli come
me rapito da questa musica e da questi testi e dopo tante ricerche
finalmente siamo riusciti a trovare il primo disco, o come si sarebbe
detto alcuni anni fa il primo elleppì, di Pietro Basentini che si intitola:
“Terra d’argilla e di ginestre”. Pietro Basentini è un cantautore nato a
vissuto a Potenza ma è anche un pittore, uno studioso, uno scrittore ed
anche un poeta. Ma quello di cui voglio parlare in questo spazio è della
sua opera di cantautore. Prima però è giusto dare due note biografiche:
Pietro Basentini è nato a Potenza nel 1941. Fin da giovanissimo si
interessa alla poesia e alla pittura frequentando un gruppo di pittori e
poeti che operano a Potenza. Negli anni ’60 presenta a Potenza la sua
prima mostra personale pittorica, dopo aver partecipato a varie
rassegne d’arte contemporanea In seguito si dedica con passione alla
ricerca delle tradizioni popolari con particolare interesse per la canzone
della Basilicata che, accompagnandosi con la chitarra, porta nei teatri
di tutta Europa. L’attività di musicista lo fa conoscere ad un vasto
pubblico anche grazie a vari programmi radiofonici e televisivi ed
anche grazie ad alcune esibizioni al mitico Folk Studio di Roma, un
crocevia dove si esibivano tutti i più grandi musicisti italiani. Durante
gli anni ’70 registra dapprima “Terra d’argilla e di ginestre” nel 1975
e successivamente nel 1978 “Un due tre fanti Briganti e re”. Come
ricercatore nel 1969 pubblica con Aldo La Capra il libro “L’assenza
imposta”, mentre nel 1986 con Irene Grenci da alle stampe: “La
canzone popolare e civile in Basilicata”. Nel 1999, in occasione del
Bicentenario della Repubblica Napoletana , vince il primo premio al
concorso bandito dalla Regione Basilicata, mettendo in scena la
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LucaniArt
commedia musicale: “La breve illusione”. Sempre nel 1999 partecipa
alla messa in scena dell’opera “Pierino e il lupo” di Prokofiev.
Durante gli anni 2000 ha esposto sue opere pittoriche a Potenza ed
altrove. Pietro Basentini è morto nel 2011. Allora seguitemi che
iniziamo il viaggio nel mondo musicale di Pietro Basentini col suo
primo disco: “Terra d’argilla e di ginestre”. Il disco si apre con una
ninna nanna, una dolce nenia intitolata: “Nia Nia”, che racconta di
questa mamma che tiene in braccio questo suo figliolo e lo culla
dolcemente. Poi è la volta di “Matalena” una specie di cantilena
magica, un testo “non sense” che ammalia e trascina l’ascoltatore nel
mondo fatato di una storiella canticchiata dai bambini. “Carusina
Carusella” è una canzone le cui origini si perdono nella notte dei
tempi, proviene da mondi lontani, forse dall’Africa settentrionale e
descrive il rapimento di una giovane fanciulla e dei tormenti provati
dal giovane principe che di lei è innamorato e del giuramento amoroso
che lei ha fatto di vestirsi a lutto solo nel caso della morte del suo
amato. “Quann’ te corche alla sera” storia di un litigio fra giovani
fidanzati in tono scherzoso, che ricorda molto alcune canzoni a
braccio, ossia botta e risposta, tipiche della nostra cultura contadina.
“Li breante”, canzone emblema della poetica Basentiniana che su
questi temi ritornerà costantemente durante tutta la sua opera artistico
musicale ma credo forse anche nelle sue riflessioni quotidiane di uomo
pensante del Sud Italia. Questa canzone narra le vicende dei tantissimi
Briganti che dovendo scegliere fra la sottomissione o l’emigrazione,
scelsero invece la latitanza e il brigantaggio. In particolare questa
canzone credo sia dedicata ai più di cinquemila fra ragazzi, uomini e
anziani trucidati dalle truppe piemontesi durante l’unificazione
dell’Italia. “Vittorio Emanuele” invece racconta della disillusione dei
contadini, inizialmente fomentati ed appoggiati dalle classi sociali
elevate ed anche dal clero che non vedevano di buon occhio il processo
di unificazione d’Italia, con promesse di terre demaniali che sarebbero
dovute diventare di proprietà dei contadini, ma che alla fine come la
storia non ufficiale ci racconta le cose non andarono così ma anzi
andarono proprio in modo opposto. E da qui la disillusione cantata in
questa canzone. “Li carcere de Trane” che descrive una storia di
ordinaria violenza all’interno del carcere di Trani.”Zi Moneche e
Cappuccine” che racconta le vicende di un giovane innamorato che
pur di baciare la sua amata si traveste appunto da frate e va a bussare
alla porta della famiglia della giovane ragazza fingendo di chiedere
l’elemosina. “A Pio IX” narra invece della condanna a morte emanata
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LucaniArt
appunto dal papa Pio IX nei confronti di due garibaldini ed esprime a
mio modesto avviso l’anticlericalismo presente nelle classi povere del
Sud Italia ed in particolare della Basilicata, a seguito del
comportamento fatto di soprusi e violenze e deprivazione della libertà
esercitato dalla Chiesa Cattolica nel corso della sua millenaria storia,
nei confronti delle classi povere di tutto il meridione d’Italia e non
solo. “Lu scuarpare” sorta di canzone popolare, che è un’esortazione
alle belle fanciulle ad evitare i lavoratori poveri e con poche possibilità
di fare soldi. “Ierta chelonna” canzone d’amore che da un lato è una
esortazione all’amata e dall’altro dispensa una serie di consigli amorosi
ad una giovane donna. Ed il disco si conclude con “In morte di
Boryes”, canzone dedicata al brigante spagnolo Josè Boryes arruolato
dai Borboni per aiutare le bande armate del brigante Carmine Donatelli
in arte “Crocco”, ma che finì morto assassinato dopo essere fuggito
nello Stato Pontificio, essendo chiaramente in contrasto con Crocco.
Musicalmente “Terra d’argilla e di ginestre” mischia canzoni popolari
a tarantelle, pizziche a ballate con chitarra classica. Ovunque nel disco
si avvertono suoni mediterranei, ariosi e melodici. Questo disco mi
sembra sia stato suonato ed inciso dallo stesso Pietro Basentini e da
Clemente Giusto, quindi da due chitarre classiche. Nel 1978 è la volta
di “Un due tre fanti Briganti e re” bellissimo disco, quasi un concept
album sulla storia della Basilicata e dell’unità d’Italia, musicalmente
più complesso del precedente “Terra d’argilla e di ginestre”, grazie
alla presenza di diversi artisti e di una arricchita sezione di archi e fiati.
Infatti in questo disco ricordiamo oltre al fidato amico Clemente
Giusto alla chitarra classica anche la presenza di: Gastone Chiarini
all’oboe, Adalberto Cerbera alla viola, Cicci Santucci alla tromba e
Roberto Zappulla alle percussioni, oltre ovviamente al “nostro” Pietro
Basentini alla chitarra e voce. Il disco comincia con “Una nuvola di
sogni” che narra fra sogno e realtà dell’eccidio di tutti i briganti e delle
persone comuni morte appunto per difendere la propria terra e la
propria libertà e della disillusione seguente all’unità d’Italia, infatti
nonostante questa guerra e l’unificazione dell’Italia la povera gente è
costretta lo stesso ad emigrare ed ad essere chiamata “terrone”.
“Garibaldi vieni vieni”, racconta delle promesse non mantenute da
parte di Garibaldi che ricordiamolo aveva promesso in cambio
dell’aiuto contro i Borboni un riscatto delle terre demaniali e la
canzone continua dicendo: “.. a Garibaldi noi preferiamo il re Borbone
che almeno protegge la religione …”. Poi è la volta di “E
Garibaldi…”, che descrive dell’arrivo della spedizione dei mille che
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LucaniArt
quando giunsero in Basilicata furono accolti come dei liberatori e
furono più di mille i lucani che morirono partecipando alla spedizione
dei Garibaldini per l’unificazione del regno d’Italia. “Lu Brigantuzz”
racconta in maniera straziante delle condizioni di povertà in cui
nascevano le persone povere che poi sceglievano di diventare Briganti
e della loro solitudine, dato che non avevano né un re e né dio a
proteggerli, ossia i Briganti erano soli nella lotta contro i Savoia e
contro lo Stato Pontificio. “Si fa l’Italia”, invece descrive il processo
di unificazione dell’Italia, fatto alle spalle e a danno dei contadini e
della gente povera, alle spalle della gente della Basilicata e di tutto il
Sud d’Italia. “Italia Italia bella” descrive la morte di Pasquale
emblema di tutti i morti del Sud Italia e paragona questa nazione ad
una madre che letteralmente fa: “figli e figliastri”, ossia tratta in modo
diverso i vari figli. “Funtana nuova” racconta dell’impossibilità di
poter amare una donna da parte di un Brigante che letteralmente “… si
tu si nu brigante nun si né zito né amante si sul’ na stella che brilla e
po’ scumpare.. ”, ossia nella condizione del Brigante, nella sua vita
fatta di pericoli e stenti non può esserci spazio per l’amore. Poi è la
volta di una bellissima canzone di amore e lotta, di desiderio e di
libertà che si intitola: “Stella sulagna” che occupa uno spazio
privilegiato in quella parte della mia anima, nello spazio dedicato alle
più belle canzoni di sempre. “E mo … parlo italian’”, invece tratta del
processo di unificazione d’Italia visto dal punto di vista linguistico e
dei metodi violenti usati dal re di Savoia. Ricordiamo che sia la lingua
italiana che quella francese ed anche quella spagnola corrispondono a
tre lingue dei nostri dominatori, ossia sono lingue imposte al popolo
Lucano. “Italian’ ca sir Italian’” narra delle angherie a cui furono
sottoposti gli abitanti della Basilicata da parte dei Savoia grazie
all’emanazione di alcune leggi. Poi è la volta di “Cafoni dilettissimi”
che narra essenzialmente dell’emigrazione dei poveri contadini e della
povera gente della Basilicata verso l’America ed il nord Italia ed anche
in paesi del nord Europa inizialmente vista come un miraggio, ma che
si trasformava una volta approdati nella terra della libertà o nelle terre
del nord in una “sorta” di incubo. Infatti molti Lucani come tanti altri
meridionali venivano sottoposti a condizioni di permanenza e di vita
simili alle bestie, simili a come noi attualmente trattiamo gli
extracomunitari provenienti da zone di guerra o in fuga per un futuro
migliore. “Ninna nanna del re” che ironicamente dice che bisogna
voler bene al re che è paragonato ad un vecchio nonno benevolo che
vuole bene ai suoi figli ed ai suoi nipoti. Questo meraviglioso disco si
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LucaniArt
conclude con “Pizza e barbera” una canzone che gira come una giostra
impazzita e che racconta della sottomissione del popolo della
Basilicata prima ai Borboni che vengono ironicamente simboleggiati
dalla pizza napoletana e poi ad i Savoia visti come vino Barbera. Il
paragone enogastronomico secondo me indica che a chi gestisce il
potere non gliene frega niente della povertà e della condizione precaria
delle vite dei cosiddetti subalterni ossia della povera gente e
parafrasando quel vecchio adagio popolare possiamo dire anche noi
con Pietro Basentini: “Al popolo pane e divertimento”e cioè pizza e
barbera. Per finire questo breve scritto sull’opera musicale e poetica di
Pietro Basentini voglio condividere alcune considerazioni ed
un’esortazione. La prima cosa che mi è venuta in mente ascoltando
questi dischi è stata di fare un paragone con altri musicisti degli anni
’70, ma credo che Basentini rappresenti un caso a parte, pur essendo in
ogni caso un uomo che cantava e suonava durante quegli anni. Quindi
è inevitabile ascoltare nelle canzoni del “nostro” musicista un certo
influsso, una certa aria di quegli anni. Poi un’altra considerazione è che
Basentini, secondo me, è stato un antesignano, un precursore di quello
che è stato un recupero delle tradizioni e una riscoperta del folklore e
della musica popolare della Basilicata e della musica popolare in Italia.
Lui ed altri hanno aperto alla scoperta di questi modi di suonare che
affondano le origini in ritmi e canzoni ancestrali. E poi un’ultima
considerazione che non vuol essere assolutamente una critica nei
confronti di nessuno, ma piuttosto un invito a non dimenticare. Infatti
diciamo che, secondo me, esiste una sorta di dimenticanza collettiva
che affligge in particolare la città di Potenza ed un po’ tutta la
Basilicata che tende a dimenticare i propri figli in vita ed a volte anche
da morti, ossia per la Basilicata pare proprio essere veritiero quell’altro
adagio popolare che recita così: “nessuno è profeta in patria propria”.
Infine un’esortazione a chi compete, quindi ai familiari in primis ed
alle case editrici a ristampare questi gioielli in formato digitale per
permettere a chi ha voglia di poter ascoltare queste meravigliose
canzoni che fanno parte della cultura e della storia della Basilicata e di
tutto il Sud Italia.
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“MAINSTREAM” DI CALCUTTA
Mi ha colpito molto questo disco “Mainstream” di Calcutta tanto da
indurmi a scrivere queste parole. “Calcutta” all’inizio era il nome del
duo formato da Edoardo Calcutta e Marco Crypta, due ragazzi
originari di Latina che nel 2011 si sciolgono e Edoardo Calcutta
continua la sua carriera solista. Il disco in uscita a novembre di
quest’anno che si intitola: “Mainstream” comincia con “Gaetano”, che
è una bellissima canzone che racconta in parole e note, l’inquietudine
esistenziale, la storia di un ragazzo di quest’epoca, appunto Gaetano,
che si annoia a vivere secondo i dettami della società e preferisce fare a
botte piuttosto che essere inserito nei meccanismi stritolanti d questa
società, lui che è un disadattato romantico e sognatore. Il refrain è:
“...suona una fisarmonica e fiamme nel campo Rom tua madre lo
diceva: non andare su youporn … .e quante volte ho pensato che un
sorriso è una paresi se vedi bene mi annoiavo alle feste mi annoiavo
alle cene … “. La seconda canzone è: “Cosa mi manchi a fare”, una
canzone che narra quello che succede quando finisce una storia di
amore e ci si ritrova soli e bisogna ricominciare a camminare con le
proprie gambe. Ambientata a Pesaro nelle Marche, è una canzone di
amore e “sana follia” in cui il protagonista rivolgendosi ad uno
specchio o all’amata ripete: “ … che mi manchi a fare? ... “. La terza
traccia è uno strumentale dal titolo: “Intermezzo 2” un breve
frammento sonoro. La quarta canzone si intitola: “Milano” una
canzone di rabbia, sentimento molto comune in quest’epoca. Racconta
di giorni in cui si avrebbe voglia solo di dormire ed altri da buttare via,
in questa Milano paragonata ad una corsia di un ospedale. Ad un certo
punto durante “Milano” si può apprezzare un bel fraseggio vocale, un
gioco di vocalizzi che tanto ricordano un certo modo di fare canzoni
degli anni passati (anni ’70). Anni ’70 che ritornano nella canzone
successiva “Limonata”: “ … salutami tua mamma che è tornata a
Medjugorie … e non mi importa niente di tuo padre ascolta De
Gregori ...a me quel tipo di gente no, non va proprio giù … “. Qua c’è
anche un senso di rivolta verso il mondo dei propri genitori, fatto di
grandi automobili e beni materiali senza affetto. Un mondo che non
appartiene ai figli di quelli che erano giovani durante gli anni ’70, ma
che il protagonista di “Limonata” vorrebbe perdonare i propri genitori
e restargli accanto nonostante non sia più un bambino. E’ la volta di
“Frosinone” che racconta di una giornata di rabbia e normali
frustrazioni mentre parafrasando lo stesso autore che leggendo il
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LucaniArt
giornale si accorge che le novità sono che: “ …c’è papa Francesco ed
il Frosinone è in serie A … “. Poi è la volta di “Intermezzo 1” altro
intermezzo sonoro. Poi è la volta di “Del verde” che narra una
possibile via di fuga, in una notte in cui ricominciare. E’ un sogno
quello di Edoardo Calcutta ai confini col mondo incontaminato e pieno
di verde, rigoglioso e lontano, magari su qualche isola sperduta. E’la
volta di “Dal verme” sorta di incubo sonoro strumentale che la mia de /
formazione mentale subito rimanda ad un sogno maldestro, una “sorta”
di piccolo incubo Kafkiano che sta li quasi a mo’di contraltare alla
canzone precedente. “Mainstream” termina con “ Le barche”, una
meravigliosa ballata che sembra quasi voler simboleggiare un’altra via
di fuga. Un innocente viaggio in barca in cui il personaggio di questa
canzone ci invita ironicamente a fare una gita a Peschiera del Garda.
“Mainstream” è un disco che racconta la realtà del mondo di oggi
lasciando aperte tante vie di fuga. E’ pieno di canzoni ironiche ed
apparentemente sbarazzine che descrivono piccole storie di vita che
può capitare di osservare. La musica è costruita come un tessuto
sonoro fatto di chitarra acustica ed elettronica che produce e scatena
emozioni. Il significato stesso della parola Mainstream rimanda al
gusto popolare dunque alla musica leggera e dunque ad un calderone
da cui però Edoardo Calcutta, da fine cesellatore ed intarsiatore di
parole e note quale è, riesce ad estrarre il meglio e a condensarlo in
splendide canzoni
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NON TROVO LE PAROLE DI MALDESTRO
Maldestro è il nome d’arte di Antonio Prestieri giovane cantautore
napoletano che quest’anno ha esordito con questo bellissimo disco:
“Non trovo le parole”. Antonio Prestieri è nato a Scampia ed è figlio
di un boss della camorra ma grazie anche alla passione per la musica e
per il teatro è riuscito a non fare parte di quel mondo. Ha studiato
pianoforte fin da piccolo ed ha esordito a teatro con spettacoli scritti da
lui di denuncia sociale. Con le sue canzoni ha vinto numerosi premi
(dal premio Ciampi al premio De Andrè solo per nominare quelli più
importanti) e molti altri premi minori. Il disco è composto da dieci
canzoni, una più bella dell’altra tutte scritte e suonate dallo stesso
Maldestro, accompagnato da altri musicisti. Si comincia con “Dannato
amore” storia di un amore fra ubriacature e ruvidezze con il suono di
un violoncello che rimanda a sonorità di inizio secolo scorso, forse a
Parigi, una canzone d’amore delicata e cupa al contempo. La Parigi di
inizio ‘900 ritorna in “Georges Méliés (Le voyage dans la lune)”, la
seconda traccia che narra dell’illusionista e creatore dei primi
spettacoli antesignani del moderno cinematografo, una ballata a tratti
struggente. “Io sono nato qui”, la terza canzone è un atto di accusa ma
anche una lettera d’amore alla propria terra, quella provincia
napoletana dimenticata ed abbandonata a se stessa. La stessa terra
descritta da Roberto Saviano in “Gomorra”. Un meraviglioso
omaggio, un atto di accusa ma pieno di amore verso le proprie origini,
le proprie radici fatto col suono di pianoforte e voce. Quella sua voce
roca ed in grado di trasmettere emozioni a chi lo ascolta. La quarta
perla è: “Sopra il tetto del comune” che racconta di questi tempi
precari, di crisi economica, di cinquantenni che si trovano licenziati ed
in mezzo alla strada e che salgono sui tetti per protestare. La musica è
ska e sembra quasi una canzone balcanica con tanto di flauto e violino.
Il quinto pezzo è: “O sfratto e’ Totore”, storia di uno sfratto per cui il
personaggio appunto Salvatore viene sfrattato, ma la storia di Salvatore
è solo un pretesto per parlare di millenni e millenni di vessazioni ed
ingiustizie perpetrate dalla Chiesa Cattolica ai danni della povera
gente. La musica di “O sfratto e Totore” è un incidere quasi marziale
fatto di chitarra, batteria e pianoforte. La sesta gemma di questo
prezioso scrigno è: “Dimmi come ti posso amare” una ballata d’amore
e per un futuro che non c’è. Sono versi di amore e di rabbia mescolati
al suono di un’armonica e di una chitarra. Il settimo gioiello è la
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canzone che da il titolo al disco: “Non trovo le parole”. Un’altra
canzone che parla di amore e dell’incapacità di trovare le parole per
descrivere il sentimento che il personaggio di questa ballata prova nel
suo cuore. Il suono del pianoforte sembra quasi accompagnato da una
sezione di archi ed altri strumenti. L’ottava canzone è: “Maldestro”,
canzone autobiografica ironica in stile blues con il ritmo incalzante
della chitarra. Una specie di meta canzone che ad un certo punto
riflettendo su stessa, con la voce del suo stesso protagonista, si chiede
e ci chiede se continuare o meno con gli accordi in sol. La penultima
canzone è: “Na fenesta”, che inizia con la voce di Peppe Barra, in
dialetto napoletano e parla di ricordi, di infanzia, di amori con quel
suono di chitarra dolce e che pare quasi una ninna nanna. L’ultima
canzone è: “Po po po”, canzone che riflette sull’omologazione
dell’informazione e sull’influenza delle notizie che ci vengono date
dalla televisione e dai cosiddetti mezzi di comunicazione di massa.
Mischiando volutamente suoni elettronici e campionati come quasi a
voler raccontare l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa sulle
persone. Maldestro da sempre impegnato nella lotta in favore della
legalità e contro la malavita organizzata è un esempio per tutti coloro
che decidono di rimanere e combattere in terre infestate da poteri
corrotti e criminali, ma è anche qualcos’altro.
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“IL VIANDANTE SOLITARIO” DI MARCO IELPO
Marco Ielpo è un bravissimo e talentuoso chitarrista e cantante di
Castelluccio Superiore, paese in provincia di Potenza, nato negli anni
’90 e che quest’anno ha pubblicato il suo primo disco: “Il viandante
Solitario”. Per me aver avuto la fortuna di poterlo ascoltare dapprima
dal vivo al circolo Arci “Artemisia” di Baragiano e adesso mediante il
suo disco è un’emozione forte ed uno stimolo. Un’emozione forte
perché il suo modo di suonare mi coinvolge, mi trasporta e mi fa
sognare. Ma è anche uno stimolo alla conoscenza del così detto
“Fingerpicking”, dato che unanimemente a Marco Ielpo viene
associata questa parola, questo modo di suonare. E devo ammettere la
mia poca conoscenza di questa maniera di suonare la chitarra. infatti a
parte alcuni dischi di Beppe Gambetta ed un disco del 1983 del mitico
Stefano Rosso: “La chitarra fingerpicking di Stefano Rosso”, conosco
poco altro. Per me quindi è stata una scoperta, grazie alla musica di
Marco Ielpo mi si sono aperti squarci su un mondo che conoscevo
poco: quel modo di suonare la chitarra variegato e sconfinato definito
“Fingerpicking”. Comunque, al di la ed oltre le classificazioni dei
genere musicale, Marco Ielpo è un Musicista con un suo stile unico di
comporre musica e di suonare la chitarra. Leggo dalla seconda di
copertina del suo disco che: “Il Viandante Solitario” contiene i primi
brani composti da me a partire dal 2012 … L’album prende il nome
dall’omonimo brano … Questo disco è per me molto personale, in
quanto è stato curato da me in ogni fase della sua realizzazione …
sono felice di poter condividere ogni brano, ogni nota, ogni errore
presente in questo album con altre persone, sperando di riuscire a
trasmettere qualcosa”. Una vera e propria dichiarazione poetica e di
umiltà, dote alquanto preziosa ed estremamente rara al giorno d’oggi.
Le nove canzoni che compongono questo bellissimo disco, riescono a
trasmettere emozioni e sensazioni che fanno viaggiare con la testa e
con il cuore. “Welcome” il brano che apre questo disco è un breve
frammento che sembra quasi dirci benvenuti in questo mondo, nel
mondo di questo viandante solitario che la mia fantasia rimanda ad
altri mondi, una sconfinata distesa del West o ad una pianura
Australiana. Australiano come il grandissimo Tommy Emmanuel
“maestro” dichiarato di Marco Ielpo, suo principale riferimento
musicale oltre che molti altri musicisti jazz, blues e folk. Il disco
procede in questo viaggio da viandante con: “Emozioni” un
capolavoro di accordi e corde suonate, emozioni che scorrono copiose
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in una giornata o in un pomeriggio estivo qualsiasi. E’ la volta di “Tit
for Tat”, brano che credo alluda ad una strategia paradossale usata
nella teoria dei giochi per risolvere il dilemma del prigioniero, il
paradosso nasce dalla seguente domanda: i due prigionieri cooperano
per ridurre la condanna di entrambi o uno dei due ammazzerà l’altro
per ridurre la propria condanna? Il tutto nello stile di Marco Ielpo con
quel suo modo di “toccare” la chitarra, di suonare con le dita.
“Thinking of You” è una canzone suonata con la tecnica del “The
Engle”, un innovativo modo di suonare la chitarra con un martelletto,
di cui Marco Ielpo e Luca Francioso sono gli unici Endorser Italiani
ossia gli unici due in Italia ad usare questa tecnica. “Thinking of You”
mi da la sensazione che sia una canzone di amore, in cui questo
viandante solitario pare abbia scoperto un affetto, come se abbia il
cuore contento. “Intorno a me”è una canzone blues cantata dallo
stesso Marco Ielpo che narra di quello che accade quando il
personaggio di questo disco alza la testa e guarda con i propri occhi a
tutto quello che è cambiato intorno a lui e di come i suoi gesti
quotidiani possano indurlo a commettere errori. ”Dreaming”, è un
sogno di chitarra suonata in maniera percussiva con l’innovativa
tecnica del “The Engle” in cui il viandante solitario sogna e immagina
di fughe, magari nel vecchio West o in una sconfinata pianura
australiana, magari a bordo di vecchi treni. Gli stessi vecchi treni di
“Railway blues” che ricorda suoni e spezzoni di film western, pistoleri
yankee e pellerossa indigeni, in una torrida estate senza tempo, ma
forse anche i treni di qualche tratta ferroviaria Lucana. E quel suono
pulito e sporco al contempo della sua chitarra che è la vera voce di
Marco Ielpo, il suo linguaggio particolare. Così come nella successiva
“Spirito” che è una vera e propria ballata col finale che sembra che le
corde vengano letteralmente pizzicate. E il disco si conclude con
un’altra canzone cantata che da il titolo all’intero album: “Il Viandante
Solitario”. Ed è in questa canzone che Marco Ielpo raggiunge l’acme
compositivo in una specie di punto di approdo del viaggio di questo
viandante solitario. Una bella canzone che parla di questa figura di
viandante precario che viaggia fra desolate strade lucane e di cani a cui
viene sottratto l’osso, del duro lavoro e del sacrificio di chi nonostante
tutto e tutti sfida il pregiudizio sociale e decide di vivere della propria
arte, di chi decide di diventare se stesso assumendosene sia rischi che
successo, oneri ed onori. I lunghi accordi blues della canzone finale di
questo disco e le parole di questo giovane chitarrista sembrano la
giusta chiosa di un viaggio fatto con addosso una chitarra e tante
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emozioni. Le emozioni che Marcio Ielpo dichiara nella seconda di
copertina di sperare di riuscire a trasmettere a chi lo ascolta, riesce
eccome a trasmetterle. Mi piace chiudere queste parole su: “Il
Viandante Solitario” di Marco Ielpo con un duplice augurio: allo
stesso modo con cui Tommy Emmanuel ha sempre dichiarato di essere
stato ispirato dalla musica di Chet Atkins ed Hank Marvin ma poi è
diventato uno dei più grandi interpreti di fingerpicking a livello
mondiale auguro con tutto il cuore a a Marco Ielpo che dichiara di
essere stato influenzato dalla musica di Tommy Emmanuel di
raggiungere vette altissime e perché no di diventare più bravo ed
apprezzato anche dello stesso Tommy Emmanuel e che soprattutto il
suo viandante solitario prosegua il suo cammino, fra lande lucane ed
amici, fra concerti e nuovi dischi.
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“VERSO IL NUOVO REGNO” di GABRIELE RUSSILLO
Musicista e Poeta di Baragiano, Gabriele Russillo, dopo diverse
esperienze in Italia ed in tutta Europa, dopo aver militato in diverse
band, innovatore instancabile e polistrumentista, quest’anno ha dato
alla luce: “Verso il Nuovo Regno”. Questo disco è un’Opera che parla
di un viaggio, credo del suo stesso autore, viaggio inteso come
attraversamento e riconquista di un territorio, la Basilicata ed il Sud
Italia, ma anche come viaggio interiore della propria anima. Il disco si
apre con “Anelito di un viaggio” in cui il Musicista con degli arpeggi e
fraseggi di chitarra e sonorità di flauto crea quel suo sound
inconfondibile misto di flamenco e tradizione popolare dell’Italia del
Sud alternandosi al Poeta che narra di polvere e fango, di campi di
grano e di gigli, di sorrisi donati a viandanti e di smeraldi ed aneliti di
viaggi che riecheggiano e rimandano ad epoche passate. In questa
“ouverture” che è, secondo me, anche una dichiarazione della sua
poetica, Gabriele Russillo da moderno viandante e sagace menestrello
ci racconta, col suo linguaggio, l’essere umano in cerca della propria
anima. La seconda canzone è “Rinsaldare le vite”, in cui su ritmi
mediterranei si stagliano parole che descrivono di un altro viaggio
dell’anima fra ricordi giovanili e confronti / scontri coi quarantenni,
col mondo degli adulti. Il filo che tiene in piedi questa bellissima
canzone è la ri / scoperta di affetti sopiti in grado appunto di rinsaldare
e riappacificare l’anima e la propria vita. Il terzo pezzo è: “Fiotti
d’anima”, il cui suono incalzante della chitarra è interrotto da parole
che rimandano all’identità Lucana, che scorre nel sangue e nell’anima
del nostro stesso Musicista e Poeta. La quarta canzone è: “L’aurora”,
una storia d’amore fra volti, occhi e labbra, fra baci e carezze mentre il
mondo intorno sembra perduto con i personaggi di questa canzone che
continuano a danzare in una “sorta” di ballo apotropaico che protegge
e rigenera la vita. La quinta gemma di questo prezioso scrigno è:
“Della bellezza”, in cui echi lontani risuonano di un incontro che
grazie alla bellezza e alla follia di un attimo nutre la vita. Il suono di
Gabriele Russillo rimanda sempre a ritmi mediterranei e anche ad altre
sonorità più vicine alla tradizione del Sud Italia come ad esempio:
pizzica e tarantella. Come nel caso della canzone seguente: “Danze
gitane” che mischia flamenco a sonorità mediterranee in un racconto
di viaggi ed amici, di odori e sapori di altre terre, di sole che brucia e
vento che percuote l’anima. Poi è la volta di “Altalena”, melodia dolce
e struggente che schiude una dolce visione di una ragazza che dondola
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fra mille petali di rosa. E’ una visione che ammalia e che seduce, volto
di fanciulla e cuore d’oro, al ritmo di flamenco e conclusione al suono
di flauto, quasi come se fosse un piatto tipico e buonissimo fatto da
uno chef stellato. Un apice compositivo ed una stupenda ballata che
ricorda molto da vicino la musica di Paco De Lucia. La canzone
successiva è: “Stone Age – Eternal love”, un brano strumentale fatto
di percussioni e di basso, quel basso che Gabriele Russillo suona con
un’accordatura strana e credo unica e sua personale, che gli ha
permesso in passato di vincere numerosi premi internazionali. Il basso
credo che sia il suo strumento principe, la sua eccellenza. La traccia
successiva è: “Sfonda! Verso il Nuovo Regno” , brano strumentale che
sembra alludere quasi alla fine del viaggio e all’approdo nel Nuovo
Regno, forse un altro percorso nelle sonorità e negli incubi, nei sogni e
negli aneliti del suo stesso autore. Il disco si conclude con: “Eroica,
senza fine” che comincia col suono del flauto e prosegue con il suono
della chitarra incastonando note e cesellando parole per descrivere il
viaggio. In tutto il disco si ha la sensazione che i suoni vengano da altri
luoghi e trasportino storie e conquiste di nuovi spazi, di nuovi regni.
Ricordano sia riti di passaggio, universali ed essenziali ma al contempo
rimandano al tema della rivolta, della ribellione. “Verso il nuovo
Regno” interamente suonato e registrato da Gabriele Russillo è un gran
bel disco che si lascia ascoltare, che rapisce e trasporta verso altri
luoghi, verso altri mondi, verso il Nuovo Regno.
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IL VIAGGIO NEL BLUES DI ANDREA GIANNONI
Alcuni giorni fa durante uno dei miei vagabondaggi musicali mi è
capitato di ascoltare una canzone di un armonicista blues intitolata
“I’m Comin’ Home (Da fiume a fiume)” di Andrea Giannoni e allora
sospinto dalla mia curiosità mi sono messo alla ricerca di altre canzoni
e di sue notizie e alla fine è venuta fuori l’idea di scrivere qualcosa su
questo artista e su questo disco sorprendente e molto bello. "Da fiume
a fiume" è un disco uscito nel 2015 di Andrea Giannoni un musicista
ed in particolare un armonicista di Sarzana in provincia di La Spezia,
che dopo anni di collaborazioni con i migliori interpreti di blues e soul
italiani ha pubblicato il suo primo disco a nome proprio. Un album
composto da sette brani, che come sopra accennato vanta importanti
collaborazioni musicali tra cui quella dei chitarristi Enrico Gastardelli
e Marcello Milanese, ma anche di uno dei più grandi interpreti di funk
italiani ossia Bobby Soul. Dunque diciamolo subito: è un disco di
blues viscerale che parte dagli Stati Uniti d’America ed arriva in Italia
ed in Liguria in maniera speciale, andata e ritorno e lo fa diverse volte.
Il viaggio comincia con “Burn in helll” in cui riecheggiano suoni
blues con l’immancabile suono dell’armonica, con una chitarra
sorniona ed un kazoo per poi subito approdare con “I'm Comin Home
(Da fiume a fiume)” canzone che da il titolo al’album, fra i sentieri
liguri, i famosi Caruggi di DeAndreiana memoria. Questa canzone, che
è palesemente una dichiarazione di intenti e di poetica, scorre a ritmo
di blues con l’armonica che la fa da padrona e con un finale che lascia
senza respiro con parole bisbigliate che sembrano recitate in chiesa
come un mantra e con il suono di una fisarmonica che fa venire i
brividi. Poi il viaggio prosegue con un classico della storia del blues
“John the Revelator”, un tipico brano blues del delta del Mississippi.
Il viaggio prosegue con “Lay My Burden Down (il Catino Dei
Vigliacchi)” in cui il suono della tromba mischiato con l’immancabile
armonica ed il suono di uno strumento a fiato che sembra un flauto da
delle sensazioni quasi di preghiera “a mo’” di gospel in un finale
melodico. La quinta canzone è “Meet Me in the City” in cui l’incedere
delle percussioni, i suoni della chitarra con l’onnipresente armonica
unita ad un cantato diverso dal resto del disco che si potrebbe definire
un po’ meno sguaiato e più acuto danno piacevoli sensazioni
all’apparato uditivo. La sesta canzone è “Othar Man (il Sogno di
Othar Turner)”, è una canzone, omaggio a Othar Turner un
grandissimo bluesman che suonava con strumenti costruiti da lui stesso
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con canne di bambù i cosiddetti “riffari”. Il viaggio si conclude con
“One night (Il sogno di mio padre)”, brano che è anche il primo
singolo estratto dell'album. Si tratta di una canzone che fra atmosfere
blues rimanda al ricordo di un padre che torna in sogno. “Da fiume a
fiume” è un disco carico di sonorità che dal Mississippi arrivano al
Magra il fiume che passa per Sarzana, suonato molto bene e frutto di
un faticoso lavorio di cesellamento e ben incastonato fra le diverse
anime che lo compongono. Parafrasando lo stesso Andrea Giannoni:
“Quasi due anni per pensare un disco, perché la musica che suono non
è roba facile, mescola e strappa quello che credevi di saper fare e che
invece imitavi semplicemente. Il blues è una cosa grave, almeno quello
che conosco io. Il blues è un'attitudine ben precisa che molto spesso
tradisce le tue aspettative, per poi rifarsi una verginità da specchio
con quello che rimane della tua curiosità”. Un disco questo “Da fiume
a fiume” ricco di tematiche affrontate con una musica sublime. Infatti
questo disco parla di vita e di morte, di sogni e di viaggi. Tutti temi
cari al blues. Questo disco sembra quasi racchiudere la carriera
artistica del suo autore, con l’armonica e i suoni blues, con brevi
pezzetti cantati e la musica ridotta all’osso e soprattutto suonato in
maniera sorprendente. Mai troppo scarno, nemmeno barocco o fatto di
suoni virtuosistici fini a se stessi, questo “Da fiume a fiume” di
Andrea Giannoni è un gran bel disco che scorre piacevolmente nel mio
impianto stereo in questi pomeriggi di fine inverno in attesa della
primavera.
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ASCOLTI DAL MONDO
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DOLORE E CREATIVITA’NELLA MUSICA DI BILL EVANS
William John Evans detto Bill era nato a Painfield nel New Jersey il 16
agosto del 1929 da un gallese emigrato negli Stati Uniti, Harry Evans e
da Siroka, di origine russa della chiesa ortodossa. Secondogenito aveva
un fratello più grande, Harry Junior. La mamma era grande amante
della musica classica ed era una discreta pianista e fu lei molto
probabilmente ad infondere nei figli, e soprattutto in Bill, la passione
per la musica. Bill era cresciuto tra il suono delle canzoni popolari del
Galles e quelle della chiesa ortodossa russa. I genitori fecero impartire
loro lezioni di musica: di piano al fratello Harry, di violino al giovane
Bill di appena sei anni e in seguito, a tredici anni, di flauto. Bill
assisteva spesso alle lezione di pianoforte impartite al fratello Harry e
quasi per caso, per gioco, trovava facile e divertente ripetere ciò che
aveva ascoltato. Fu così che ben presto si era dedicato a riprodurre sul
pianoforte quei colori, quei suoni, quel tocco e quella dinamica che
aveva sperimentato sugli altri strumenti. Bill fin da bambino si era
dedicato allo studio delle musiche della tradizione classica, da Debussy
a Mahler a Stravinskij per molte ore al giorno nello studio di questo
strumento, il pianoforte, conosciuto quasi per caso. “Mi sforzavo di
suonare ogni cosa con sentimento, con pathos ed espressività,
utilizzando il pianoforte come un potente mezzo di espressione, la
musica come un altro linguaggio, un linguaggio fatto di sentimenti e
sensazioni”, come dirà poi lo stesso Bill. Una volta cresciuto era
diventato un giovane dotato di gradevole presenza, alto e con belle
mani. Aveva fatto dello studio classico, sei ore al giorno, il suo
bagaglio. Prediligeva autori come Bach, Chopin, Debussy, Ravel, Bud
Powell, Lennie Tristano. Successivamente però negli anni della guerra
fredda aveva iniziato a far uso di stupefacenti per sopportare come
meglio poteva le conseguenze di un servizio militare assai duro. Era
stato all’inizio degli anni cinquanta il fratello a fargli conoscere il jazz.
E il giovane Bill era attratto dall’ l'improvvisazione. Ma a guardar con
altri occhi le cose, forse era stato il jazz a scoprire lui. Aveva suonato a
dodici anni nell'orchestra di Buddy Valentino ed aveva precocemente
scoperto che si poteva andare oltre le note scritte su di un
pentagramma, ed il senso del blues. “Mi si aprì un nuovo orizzonte:
l'improvvisazione jazz, che mi permise di rompere i rigidi schemi della
musica accademica”, come dirà successivamente il Nostro Autore . Le
conoscenze, il sapere e il saper fare, di Bill Evans erano superiori a
quelle di tanti altri jazzisti. Infatti Bill Evans era diplomato in armonia
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e composizione oltre a possedere un profondo ed immenso background
di studi classici. Inoltre si era anche laureato ed aveva suonato il flauto
in una banda militare durante il servizio militare. Nella sua vita ebbe
due compagne: Elaine e Nenette, ma fu costretto a sacrificare la vita
affettiva per la carriera musicale. La sua vita fu costellata da numerosi
lutti. Nel 1971 infatti aveva perso la compagna Ellaine, morta suicida
nella linea della metro newyorkese, poi il padre Harry, alcolizzato da
tempo e ormai distrutto dall'alcol e nel 1979 aveva perso il caro fratello
Harry Junior anch’egli morto suicida. Ma già molti anni prima, nel
1961 il suo caro amico e giovane contrabbassista Scott LaFaro aveva
perso la vita in un tragico incidente stradale, fermando inesorabilmente
il suo nuovo linguaggio musicale in fieri. La droga aveva fatto
irruzione nella vita di questo genio già molti anni prima ma per Bill, il
fratello Harry era un punto di riferimento e morirà appena un anno
dopo il suo suicidio nel 1979, in preda alla depressione. Dal 1951 al
1954 era sotto le armi a Chicago. Da Chicago aveva deciso poi di
trasferirsi a New York nel 1955 deciso ad intraprendere la carriera di
musicista professionista. In questo periodo aveva conosciuto Tony
Scott, un già affermato sassofonista e aveva iniziato a suonare con altri
musicisti. Nel 1955 la prima incisione professionale non da leader, al
fianco della cantante Lucy Reed, in cui aveva fatto la comparsa un suo
capolavoro “Waltz for Debby". Nel 1956 aveva stretto amicizia con il
pianista George Russell. Sempre nel 1956 aveva registrato il suo primo
album: “New Jazz Conceptions”. Pare di ascoltare Lennie Tristano fra
i solchi di questo disco. Dopo l’incisione di “New Jazz Conceptions”
era accaduto un mezzo miracolo: era stato invitato da Miles Davis a
collaborare nella stesura di “Kind of Blue” unanimemente riconosciuto
uno dei migliori album mai incisi nella storia della musica. Bill Evans
insieme a tutto il manipolo di geni che ruotavano intorno a “Kind of
Blue” era riuscito in una duplice impresa: aveva contribuito a
rivoluzionare la storia della Musica con questa collaborazione ed era
riuscito personalmente a creare un linguaggio pianistico nuovo.
Successivamente Bill Evans col suo Trio aveva posto le basi per la
creazione di un linguaggio musicale ex novo, il suo jazz con quel tocco
di rara bellezza ed una preparazione straordinaria, sempre chino sullo
strumento ed i capelli lisci e pieni di brillantina ed il volto da bianco ed
impallidito. Il jazz del trio Evans aveva raggiunto sfere espressive
mancanti fino a quel momento: colto, ricercato ma anche un jazz con
gocce di tenera allegria. Mi piace terminare questo piccolo omaggio al
Genio di Bill Evans con le parole di Enrico Pieranunzi, pianista
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italiano di fama internazionale e autore di una biografia di Evans: “Le
sonorità morbide e risonanti, sempre conseguenti al carattere della
narrazione in musica che egli sta improvvisando, senza mai ricercare
uno scopo meramente decorativo o narcisistico". Come diceva lo
stesso Evans in uno dei suoi più grandi capolavori di piano solo
"Alone": “Il pianoforte è un mezzo (medium) di comunicazione
artistica e la solitudine ti permette di raggiungere una perfetta
armonia e comunicazione con lo strumento. Ma ciò solo in fase di
studio per ottenere la massima concentrazione e il proprio miglior
modo possibile di suonare, poi quello che conta nell'esibizione è
riuscire a catturare il pubblico facendo in modo che il pianismo non
sia uno sfondo ad un cocktail o ad una cena”.
Bill Evans
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IL GENIO SCONFINATO DI LENNIE TRISTANO
Leonard Joseph Tristano, detto Lennie era nato il 19 marzo 1919 a
Chicago da genitori emigranti di origine italiana, precisamente di
Aversa in provincia di Caserta. Era secondogenito di quattro fratelli.
L'influenza spagnola lo aveva reso cieco a nove anni, gli aveva
deturpato il volto e aveva rallentato il suo sviluppo mentale. Era stato
mandato, dopo varie bocciature, ad una scuola per ciechi nell'Illinois
dove era emerso sui compagni per la particolare inclinazione per la
matematica e la musica. Aveva iniziato lo studio del pianoforte, del
sassofono, del clarinetto e del violoncello diventando direttore di
alcune orchestrine studentesche. Successivamente si era iscritto al
Conservatorio di Chicago, aveva conseguito ottimi risultati ed in
brevissimo tempo: in soli due anni sui quattro necessari. Obbligato dal
regolamento del conservatorio a studiare per almeno tre anni, si era
diplomato anche in pianoforte e composizione. All’inizio degli anni
quaranta aveva lasciato il conservatorio senza diploma ufficiale dato
che non era in grado di pagare la retta. Aveva iniziato a guadagnare i
primi soldi suonando nei night club e nelle feste private poiché era
stato escluso dai circuiti del jazz dato che nessuno riusciva a
comprendere la Sua musica, che non vendeva fra l’altro perché i
proprietari delle case discografiche e quelli dei locali jazz ancora non
avevano la minima comprensione delle concezioni musicali di questo
immenso Genio. Le cose iniziarono a cambiare quando Lee Konitz,
dopo averlo ascoltato, ne era rimasto talmente impressionato da
convertirsi ai suoi ideali jazzistici. Successivamente lo ritroviamo a
New York, dove si era trasferito per seguire i Suoi interessi musicali.
Ben presto era riuscito a farsi apprezzare come pianista. In trio con il
chitarrista Billy Bauer e il contrabbassista Arnold Fishkin aveva
mostrato a tutti la sua originalità concettuale fondata su lunghe linee
melodiche, intervalli inconsueti e sequenze di accordi suonati da
entrambe le mani. Fra i suoi modelli c’era Art Tatum. Verso la fine
degli anni quaranta aveva registrato con i sassofonisti Lee Konitz e
Warne Marsh alcune delle sue cose più belle. Antesignano. solitario,
incompreso e geniale, Lennie Tristano aveva anche composto brani
completamente improvvisati senza alcuna melodia, armonia o ritmo
predefinito, anticipando di molti anni la nascita del free jazz. Il disco
“Lennie Tristano” del 1955 contiene una delle migliori
improvvisazioni del jazz: “Requiem”. La leggenda intorno alla nascita
di questo capolavoro vuole che, mentre si trovava in sala d'incisione,
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gli era stata annunciata la morte di Charlie Parker e che questo sia stato
l'omaggio al grande jazzista. Un'altra perla di questo disco è il brano
“Turkish Mambo” in cui, forse per la prima volta nel jazz, veniva
utilizzata la registrazione su più tracce ri-mixate in fase finale. Tra i
dischi registrati da Tristano, uno dei più importanti è “The New
Tristano” del 1962. Dalla metà degli anni cinquanta Lennie Tristano si
era concentrato sulla formazione diventando probabilmente il primo a
insegnare jazz in maniera strutturata. Con quel viso butterato e il lungo
naso ossuto sembrava quasi che la faccia gli sarebbe scivolata via dal
cranio, di lì a poco e che lui se la sarebbe trovata sulla tastiera. Gli
occhi, chiusi, avrebbero abbandonato la loro posizione e avrebbero
iniziato a galleggiare in quelle occhiaie che gli solcavano sempre il
volto. Sembrava deformata dalla forza di gravità, quella faccia. Forse
per questo motivo sono pochissime le foto in cui Tristano sorride.
Forse per questo motivo il suo jazz era chiamato il jazz posato, il jazz
dei bianchi, il jazz freddo, il cool jazz. Lennie Tristano era un
caposcuola, con decine di discepoli a cui oltre che musica amava anche
insegnare letteratura, filosofia e psicologia. Eppure nessuno è mai
riuscito a “rifare” Tristano, nessuno ha mai saputo raccogliere il Suo
testimone, rimettere le mani sulla tastiera e suonare come lui faceva. Il
Suo jazz era una “sorta” di jazz che snatura il jazz, perché non può
esistere un jazz che non sia sensuale, che non sia vitale o che non
tocchi le corde dell'anima. Ecco alcuni aggettivi per tentare di
descrivere la musica di Tristano: lucida, allucinata, stridente, nitida,
ipnotica ed assorta. Un jazz diverso, un jazz nuovo. Un jazz senza
paura di rievocare Bach. Tristano si era ritirato presto dalle scene.
Aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita lontano dai palchi e dalle
sale di incisione, continuando però a insegnare. Idolatrato dai suoi
discepoli, era diventato ben presto un mito della musica jazz. Un mito
isolato e unico, una meteora che era riuscita a brillare solo a cavallo fra
gli anni quaranta e cinquanta. Lennie Tristano aveva suonato una
parola nuova, una parola originale, non più ripetuta. E forse per questo,
ancora oggi, la sua figura appare come isolata, non catalogabile,
solitaria. Oltre ad essere un Genio della musica jazz era stato anche un
grandissimo pensatore del jazz e forse anche per questo era stato
accusato di freddezza, di intellettualismo. Eppure ogni nota
accarezzata dalle sue dita non era stata pensata che un millesimo di
secondo prima di venire suonata. Non improvvisava, Lennie Tristano:
componeva all'impronta. Lui lo chiamava jazz intuitivo. Creato come
dal nulla, spesso senza una base armonica e ritmica fissa. Quale modo
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migliore per concludere questo piccolissimo omaggio a questo
sconfinato Genio se non con le parole di Franco Fayenz uno dei
massimi esperti in materia Tristaniana? “La vicenda umana e artistica
di Lennie Tristano è assolutamente unica, nella storia del grande jazz.
Cieco e visionario, quasi un recluso nella propria casa-laboratorio ma
in grado di agire sul presente e il futuro del jazz attraverso l’opera
propria e quella dei suoi allievi (fra cui giganti come Lee Konitz,
Warne Marsh e molti altri), un autentico guru, Tristano ha indicato al
jazz moderno direzioni che ancora oggi suonano rare e preziose. Egli
fu in grado di portare alle estreme conseguenze i metodi creativi del
Bebop con una mentalità apertamente contemporanea ed eclettica,
attenta al portato della musica euro-colta del Novecento ma anche al
senso tragico del blues, e perfino alle risorse delle tecnologie di
manipolazione e post-produzione sonora di cui, incurante delle
critiche di un giornalismo impreparato ad innovazioni che si
sarebbero affermate pienamente solo vent’anni dopo, fu un assoluto
pioniere. Profeta e santone, indifferente a ogni routine e moda
culturale, Tristano era in anticipo sui tempi: anzi, fu un musicista
totalmente estraneo all’effimero, al transeunte, alla stessa concezione
borghese del progresso, inseguendo un’idea di musica per certi versi
fuori dalla storia, e dunque per ciò stesso atemporale, universale,
assoluta”.
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“KIND OF BLUE” DI MILES DAVIS
Credo che chiunque ami la musica ed il jazz non possa non amare
“Kind of Blue” di Miles Davis. Quindi col dovuto rispetto verso le più
grandi opere d’arte di tutti i tempi, mi inchino dinanzi al Genio, mi
tolgo il cappello e molto umilmente tento di parlare di questa pietra
miliare e capolavoro assoluto della storia del Jazz, della Musica e di
tutti i tempi. Ero un giovane studente universitario ed ero a Roma
quando per la prima volta ascoltai questo disco, vivevo la mia
personalissima passione per la storia del jazz ed ero arrivato più o
meno verso la fine del bebop così solo per dare qualche ridicola e forse
anche superflua coordinata ma questo è quello che mi accadeva.
Piccola parentesi solo per dire che il signor Davis era stato
giovanissimo, amico di Charlie Parker ed anche testimone della nascita
del bebop, in seguito aveva capitanato tutte le più grandi rivoluzioni
del jazz fino agli anni ottanta. Ma “Kind of Blue” è qualcosa in più,
una delle più belle opere d’arte partorite dalla mente di un essere
umano nel corso di tutto il Novecento. Un disco a proposito del quale
pare sia stato scritto tutto ed il contrario di tutto. Da dove iniziare se
non dalla lista dei musicisti che hanno partecipato alle sessioni da cui è
nato “Kind of Blue”: John Coltrane e Cannonball Adderley
rispettivamente al sax tenore e alto, Bill Evans al piano, Paul
Chambers al basso, James Cobb alle percussioni, Wynton Kelly
all’altro pianoforte e Miles Davis alla tromba e allora il semplice
sospetto di trovarsi di fronte a qualcosa di grande diventa poi certezza
quando si inizia ad ascoltare. Si tratta di jazz modale che nasce dalla
liberazione dalla gabbia armonica degli accordi e dalla massima libertà
nell’improvvisazione, che fa appunto riferimento alle scale modali
piuttosto che a quelle relative ai singoli accordi, eseguita su giri
armonici molto più semplici rispetto a tutti gli altri stili fin’allora
sperimentati. Un esempio di tutto ciò lo si ha fin dall’incipit del disco,
con la meravigliosa “So what”, composta sostanzialmente da un unico
accordo ripetuto in tutti i modi possibili a volte alzato o abbassato di
un semitono di modo tale da creare un vero e proprio mondo in un
accordo, musica nella musica. "So what" si apre con una breve
introduzione affidata al piano e al basso a cui subito dopo susseguono
fraseggi del basso a cui risponde il pianoforte e poi quel suono della
tromba coi due sassofoni e a chiudere nuovamente il piano. Poi si
passa a "Freddie Freeloader" e cioè Freddie lo scroccone, titolo
ispirato da un barista tuttofare amico di Davis, sorta di blues con un
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LucaniArt
pianoforte che pare quasi saltellare in compagnia della tromba e dei
sassofoni . Ecco che arriva “Blue in green" brano romantico quasi una
“sorta” di ballata, dal procedere rotondo in cui la tromba con la sordina
dialoga con il sassofono e col pianoforte. Poi è la volta di "All blues"
un blues in cui la sezione ritmica sembra ripetere quasi la magia di “So
Wath” con la tromba i sassofoni e il piano, il suono sembra avvolgere
l’ascoltatore come una coperta in una fredda giornata. Chiude il disco
“Flamenco sketches" il brano più melodico in cui la tromba trascina
subito in terra di Spagna seguita dai sassofoni e da un meraviglioso
piano e nuovamente a chiudere la tromba. “Kind of Blue” è un disco
che arriva dritto diritto al cuore di chi lo fa suo, si può tranquillamente
ascoltarlo e riascoltarlo tante e tante volte ed anche a distanza di
cinquant’anni ma si ha sempre la sensazione che una specie di magia
aleggi fra le Sue note: la capacità di trascinare l’ascoltatore in un altro
mondo. “Kind of Blue” forse non ha definizione, sicuramente si tratta
di uno dei passaggi fondamentali per lo sviluppo della musica del
secolo scorso, dunque non solo un grande disco ma forse anche un
pezzo di Storia dell’Arte Contemporanea
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LucaniArt
LA
GENIALITA’
THELONIOUS MONK
NELL’OPERA
ARTISTICA
DI
Thelonious Monk era affetto da quella che oggi un esperto di disagi
psicologici definirebbe “disturbo bipolare dell’umore”, dato che la sua
vita era costellata di momenti di creatività ed altri di profondo
mutacismo.. Thelonious Sphere Monk era nato il 10 Ottobre del 1917 a
Rocky Mount nel North Carolina. Secondogenito di Thelonious e
Barbara, aveva una sorella maggiore Marian ed un fratello più piccolo
Thomas. Nel 1922 la famiglia Monk si era trasferita a Manhattan a
New York e il piccolo Thelonious aveva iniziato a prendere lezioni di
pianoforte ed a suonare in chiesa l’organo fin dalla tenerissima età. Nei
primi anni Quaranta aveva iniziato a lavorare con molti gruppi jazz
dell’epoca ed era diventato ben presto uno dei pianisti che ruotavano
intorno al club Minton’s, noto luogo in cui sarebbe nata di li a poco
forse una delle più grandi rivoluzioni della Musica jazz ma
permettetemi di affermare anche una delle più grandi rivoluzioni di
tutta la storia della Musica: la nascita del bebop. Nel 1944 Thelonious
Monk era entrato per la prima volta in uno studio di registrazione,
insieme al quartetto capitanato da Coleman Hawkins a registrare un
disco. Nello stesso anno il suo ben noto brano “Round Midnight” era
stato registrato da Cootie Williams. In quegli anni il non più giovane
pianista Thelonious Monk suonava al Club Spotlite con l’orchestra di
Dizzy Gillespie. Tre anni più tardi, nel 1947, aveva fatto la Sua prima
registrazione con un sestetto. Tra il 1947 e il 1952 aveva registrato altri
cinque dischi e nel 1950 aveva collaborato con Charlie Parker. Nel
1952 Monk aveva firmato un contratto di tre anni con la Prestige
Records, con cui aveva registrato alcuni dei suoi capolavori “Little
Rootie Tootie” dedicato ai figli, e “Bags Groove” in un memorabile
incontro con Miles Davis alla vigilia di Natale del 1954. Due mesi
prima aveva registrato un album con Sonny Rollins e nel giugno del
1954 aveva registrato il suo primo album solista, a Parigi. Viste le
ristrettezze economiche la tiepida accoglienza della critica e la scarsa
vendibilità delle opere di questo Genio un ormai quasi quarantenne
Thelonious Monk si era ritrovato a far i conti con la realtà. Ma in
quegli anni fine cinquanta ed inizio sessanta aveva inoltre già
registrato e collaborato con tutti i più grossi jazzisti mondiali.
Thelonious Monk aveva poi continuato a far musica per tutti gli anni
sessanta e gli anni settanta, fino alla Sua morte avvenuta il 17 febbraio
del 1982 a Weehawken. Carriera strana quella di Thelonious Monk.
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LucaniArt
Costretto ad abbandonare fin da bambino il proprio ambiente a causa
del trasferimento della Sua famiglia, poco più che adolescente se ne
era stato in giro per l’America ad accompagnare le prediche di
un’evangelista. Al rientro a casa era possibile trovarlo ad esibirsi al
famoso Minton’s club, crocevia di molta storia del jazz fra gli anni
quaranta e cinquanta. Aveva partecipato alla nascita del bebop. A
trenta anni la prima incisione a proprio nome. E quasi nessuno che se
ne era accorto di questo Genio. Poi incisioni e concerti, intervallati da
storie di droga e di cattive compagnie ed il successo dopo i
quarant’anni. Finalmente i riconoscimenti, i capolavori. Ma in fondo
erano le stesse cose che Lui suonava da anni, identiche, brani e stile.
Solo che il mondo adesso se n’era accorto. E allora il successo, i dischi
della consacrazione, le copertine e poi rapido il sipario. Nessuna
tragica fine, nessuna fine rapida, da vero maledetto. Il declino più lento
e tragico di tutta la storia del jazz. Chiuso in una stanza per cinque anni
a fissare il muro, pazzo e Genio. Colui che aveva inventato un nuovo
modo di suonare e di fare Musica, colui che più di ogni altro era
riuscito letteralmente a scolpire a il tempo ed a trasformare il
pianoforte in sezione ritmica moriva nella più totale solitudine.
Thelonious Monk era dotato di una tecnica meravigliosa e completa,
che lui stesso aveva iniziato ad erodere dal Suo interno per cercare di
aprire a successive rivoluzioni e non solo pianistiche. Era un
equilibrista, un acrobata sempre in bilico sul filo, ma non aveva paura
di cadere. Un uomo troppo discreto e troppo geniale, da risultare
incomprensibile a molti suoi contemporanei che aveva avuto due
donne complementari e indispensabili nella sua vita la moglie Nellie e
la baronessa Pannonica de Koenigswarter, senza la pazienza e l’umiltà
della prima, senza la passione e i mezzi della seconda, chissà che ne
sarebbe stato dell’uomo e della Sua musica. Questa musica sghemba e
luminosa, spigolosa e sferica, affondata nel blues ma proiettata altrove.
Quella che Monk ha continuato serenamente a coltivare senza fretta,
senza rincorrere mai un collega né uno stile, fregandosene di tutto
finché non è stato il mondo ad accorgersi di lui. Thelonious Monk ha
scelto il suo spazio, ha piantato la Sua pianta e ha cominciato a
coltivarla innaffiandola e curandola per tutta la vita fino a farla
diventare un’enorme e meravigliosa pianta di altissimo fusto che oggi
conosciamo: l’opera artistica e geniale di uno dei più grandi jazzisti di
tutti i tempi.
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LE ORIGINI DELLA MUSICA POPOLARE BRASILIANA: LO
CHORO
Lo Choro ossia il primo genere musicale brasiliano è nato durante
l’Ottocento, quando si è stabilita a Rio de Janeiro la corte imperiale
portoghese. Oltre a portare un’ondata urbanistica di modernizzazioni
infrastrutturali, quest’evento ha avuto l’effetto di creare una classe
sociale media e urbana, fatta di funzionari e piccoli commercianti
prevalentemente di origine afro - brasiliana, che ha contribuito alla
nascita dello Choro, fornendo sia gli interpreti che il pubblico. Una
delle prime manifestazioni di questo nuovo genere musicale è quella
avvenuta nel 1845, quando al teatro imperiale Sao Pedro ci fu il primo
spettacolo di polca, che da alcuni mesi furoreggiava a Parigi e Lisbona.
Quello stile musicale fornì la materia prima per la definizione stilistica
dello Choro che altro non fu, in origine, che la “brasilianizzazione” di
quel genere tipicamente europeo. L’etimologia del termine “Choro” è
incerta. C’è chi sostiene che derivi da “xolo”, un ballo amato dagli
schiavi africani, invece c’è chi ritiene derivi dagli “choromeleiros”,
ceto di musicisti del periodo coloniale, che suonavano principalmente
le ciaramelle e che, nella vulgata popolare, divenne sinonimo di
qualunque gruppo dedito alla musica strumentale e c’è infine chi crede
derivi dall’espressione comune: “a ciorar” ossia piangere,
nell’impressione di malinconia generalizzata dovuta all’uso degli
accordi di chitarra, solitamente usati dai musicisti dello Choro. Il
termine ”chorinho” è usato per indicare la versione cristallizzata e
codificata del genere, quella che attualmente si intende come classica.
Lo Choro ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’identità
culturale nazionale Brasiliana e rimase il genere musicale più popolare
per lunga parte del Novecento, essendo precursore sia del Samba che
della Bossa Nova. I primi gruppi di Choro erano composti da un trio
formato dal flauto, che faceva assoli, dalla chitarra che faceva da
accompagnamento come se fosse un contrabbasso e dal cavaquinho,
che faceva da accompagnamento armonico con accordi e variazioni.
Poi se ne sono aggiunti altri e lo strumento di percussione
fondamentale è diventato il pandeiro. E’ una musica basata
sull’improvvisazione, un gioco creativo che necessita di grande abilità.
Non a caso Villa - Lobos ha affermato: “ lo Choro è il Jazz brasiliano,
non per la sua ricchezza armonica ma per la possibilità di
improvvisazione che offre al musicista”. Per essere uno “Chorao”,
ossia un suonatore di Choro, non basta saper suonare il pandeiro, il
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LucaniArt
cavaquinho, la chitarra o il flauto ma bisogna avere la malizia e il
modo brasiliano di vivere la musica. Quindi l’improvvisazione tipica
del jazz forse già esisteva in Brasile. Dopo un modesto declino in
termini di popolarità lo Choro ha ottenuto un significativo recupero
negli ultimi anni ed è stato riscoperto dalle ultime generazioni. Lo
Choro moderno è molto flessibile: può essere suonato da diverse
formazioni, da solisti a grosse bande, le cosiddette “Gafieras”. Può
essere cantato e persino danzato e offre varie possibilità di
performance, dalla “Roda de Choro” ai concerti nei teatri. Attualmente
lo Choro è una musica in parte scritta e in parte lasciata aperta alla
possibilità dell’improvvisazione.
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I PRINCIPALI ESPONENTI DELLO CHORO
Durante la seconda metà dell’Ottocento i balli di sala stavano
attraversando un periodo di mutamenti, passando dalla danza di gruppo
a quella di coppia e lo Choro si era inserito in questa evoluzione del
gusto, diventando immediatamente, con la sua commistione di polca,
di origine europea e lundu, di origine africana, un fenomeno di moda.
Senza alcuna ambizione di completezza, tra i musicisti che hanno
maggiormente contribuito alla definizione stilistica del genere, chi
portò il genere a vette inarrivabili risponde al nome di Pixinguinha.
Però prima occorre accennare a due personaggi fondamentali che in un
certo senso prepararono l’avvento di Pixinguinha: “Chiquinha”
Gonzaga ed Ernesto Nazareth. Francisca Edwiges Neves Gonzaga
detta “Chiquinha”, figlia illegittima di un tenente dell’esercito e di una
meticcia, era fuggita di casa giovanissima, creando scalpore, per
evitare un matrimonio combinato, esordendo precocemente
nell’ambiente dello Choro. “Chiquinha” Gonzaga è stata autrice di
una quantità enorme di canzoni, soprattutto per il teatro di rivista.
Inoltre ha contribuito a ridefinire la stessa formazione standard dello
Choro, che all’epoca prevedeva flauto, chitarra e cavaquinho, con
l’aggiunta del pianoforte. In quegli stessi anni agiva un altro musicista
cruciale ed essenziale per l’evoluzione del linguaggio musicale dello
Choro, Ernesto Nazareth, nato a Rio de Janeiro nel 1863, è
difficilmente inquadrabile nell’esperienza dello Choro tout-court come
altri musicisti del suo tempo, perché la sua traiettoria artistica è stata
estremamente personale. Lo stile di Nazareth è stato raffinato e
naturale, colto e popolare. Come tutti i Geni, durante la sua epoca non
fu pienamente compreso dal pubblico tantomeno dagli esecutori, che
incontravano molte difficoltà nel rendere e interpretare la sua musica.
Nato e cresciuto in un ambiente culturale pianistico di tradizione
europea, Ernesto Nazareth ha lasciato in eredità soprattutto il
perfezionamento formale del tango brasiliano, esito della fusione delle
melodie della polca con l’habanera e il lundu. Nel 1924 Nazareth
conobbe un giovane musicista, Radames Gnattali, che sarebbe
diventato nel tempo, il suo erede artistico e spirituale nonché il suo
miglior interprete. La morte della moglie e l’aggravarsi della propria
sordità lo portarono ad uno stato di progressiva spossatezza e distacco
dal mondo reale, rendendo necessario il suo ricovero presso un
ospedale psichiatrico, da cui fuggì per poi essere ritrovato, qualche
giorno dopo, cadavere riverso in un fosso. Nei primi anni del
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LucaniArt
Novecento, parallelamente all’esperienza artistica di Nazareth, arrivò a
Rio de Janeiro da Pernambuco un giovane chitarrista, Joao Teixeira
Guimaraes, in arte “Pernambuco”, che introdusse per primo nello
Choro, lo stile musicale del Sertao. L’esposizione alle musiche di
questo autore avrebbero avuto una grande influenza anche per le
successive generazioni. Facendo un passo indietro nel 1897 era invece
nato Alfredo da Rocha Vianna Filho, universalmente noto come
“Pixinguinha”. Nella casa del padre flautista amatoriale si
incontravano abitualmente tanti musicisti. In questo ambiente così
ricco di stimoli, pernottavano talvolta musicisti in difficoltà
economiche come Irineu de Almeida, che divenne il primo insegnante
di musica di Pixinguinha. Il nostro giovane autore aveva iniziato a
suonare professionalmente sin dall’età di undici anni, mostrando da
subito la sua grande inclinazione per l’improvvisazione. Musicista
eccezionalmente dotato, amava flauto e sassofono, all’inizio del 1920
aveva formato un proprio gruppo, “Os Oito Batutas”. “Pixinguinha”
ha dato allo Choro, nel corso del tempo, la sua forma musicale
definitiva che sotto il suo influsso ha acquisito ritmo, eleganza ed
intensità. Le parti di improvvisazione, che oggi ci sembrano consuete,
sono un altro lascito, allora inusuale, dell’esperienza di “Pixinguinha”.
Un’altra piccola rivoluzione introdotta da “Pixinguinha” è stata
l’introduzione di una certa ritmicità con la creazione di tantissime
melodie con arrangiamenti jazz. Si deve invece a “Pernambuco”,
l’inserimento nello Choro di altri elementi che sono riusciti ad
ampliare i colori e le influenze presenti in questo genere musicale
attribuendogli quel sapore rivoluzionario dato dalla combinazione di
virtuosismo, equilibrio e modernità. Le coordinate stilistiche dello
Choro erano in quegli anni definite ed apparvero gruppi come quello
di Benedito Lacerda, il “Conjunto Regional”, in cui si sarebbe formato
Waldiro Federico Tramontano, detto “Canhoto”, per la caratteristica di
suonare, dato che era mancino, la chitarra con le corde non invertite, in
pratica alla rovescia. “Canhoto” ha fondato un trio molto famoso nella
storia dello Choro, con Horondino José da Silva, detto “Dino 7
cordas” e Meira, ambedue alle chitarre. Dino 7 cordas, in particolare,
ha sviluppato in quegli anni uno stile contrappuntistico del tutto
riconoscibile, di tecnica perfetta e estrema musicalità. Il gruppo di
Benedito Lacerda, di per sé è stato un esempio ed un modello di
professionalità e disciplina che avrebbe influenzato molto anche il
giovane Jacob do Bandolim. Jacob Pick Bittencourt, detto “Jacob do
Bandolim” è stato un compositore estremamente variegato e versatile
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LucaniArt
che ha lasciato un segno anche per le evidenti influenze della
tradizione portoghese negli arrangiamenti delle sue musiche. La
grandezza di Jacob do Bandolim è stata però forse oscurata dal fatto di
essere coevo del musicista che ebbe il maggior successo commerciale
di tutta la storia dello choro: Waldir Azevedo. Nello stesso periodo si
stava intensificando anche la presenza dei gruppi di Choro alla radio.
All’inizio degli anni Cinquanta nel gruppo di “Canhoto”, oltre al trio
base di cui si è poc’anzi parlato, suonavano Altamiro Carrilho al
flauto, Orlando Silveira all’accordeon e Gilson de Freitas al pandeiro.
Un altro musicista influenzato dal contatto con il jazz, fu Anibal
Augusto Sardinha, detto “Garoto”. Tornato in Brasile Garoto aveva
lavorato al fianco di Radames Gnattali. L’infarto che ha messo fine
alla vita di “Garoto”, nel 1955, ci ha precocemente privato di uno dei
più grandi chitarristi di tutti i tempi, che fino all’ultimo aveva
continuato ad esplorare i limiti e le possibilità espressive del proprio
strumento. La palestra artistica d’elezione dello Choro è sicuramente la
Roda, un incontro casalingo in cui si sviluppa l’equilibrio e la
comunicazione fra i vari strumenti. Non è infrequente il caso di
musicisti tecnicamente perfetti che non riescono a integrarsi nel gruppo
per mancanza di amalgama e per inesperienza nel continuo gioco di
rimandi e fraseggi tra i vari solisti. La Roda perfetta è quella che
mescola musicisti di diverso livello, senza che la musica ne risenta.
Una delle Roda più famose è stata quella che si è tenuta durante gli
anni Cinquanta e Sessanta a casa di Jacob do Bandolim e quelle che,
negli anni Ottanta, si sono tenute a casa dei fratelli Carrilho, Alvaro ed
Altamiro. Pur essendo un genere tipicamente autoctono, lo Choro è
stato sempre esposto ed aperto alle più varie influenze musicali, fra cui
anche e soprattutto quella col jazz. Severino Araujo è stato uno dei
primi ad introdurre nello Choro elementi provenienti dalla musica jazz,
ma l’unione fra Choro e Jazz si perfezionarono, da un lato, con una
nutrita serie di compositori provenienti dal nordest del Brasile,
particolarmente sensibili a quelle sonorità e, dall’altro, attraverso
l’intervento cruciale di Radames Gnattali, che introdusse l’utilizzo
massiccio degli strumenti a fiato nell’ensemble dello Choro.Radames
Gnattali in compagnia di Sandoval Dias e di un giovanissimo Paulo
Moura durante gli anni Cinquanta ma successivamente anche insieme
al suo quintetto durante gli anni Sessanta ha traghettato lo Choro verso
la modernità e la molteplicità dei nuovi linguaggi musicali. Durante
gli anni Sessanta c’è stata una “sorta” di declino di questo genere
musicale. Declino arrestato dalla nuova linfa degli anni Settanta che
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LucaniArt
sull’onda della riscoperta di strumenti come il cavaquinho e la chitarra
a sette corde operata da molti gruppi di successo come i “Novos
Baianos”, “Galo Petro”, “Os Carioquinhas” hanno permesso allo
Choro di continuare a sopravvivere. Dagli anni Settanta fino ad oggi
sono nati tutto un manipolo di nuovi musicisti: Trio Madeira Brasil,
Yamandù Costa, Luciana Rabello, Paulo Sergio Santos e Teresa
Cristina solo per citare i più famosi. Una nuova generazione di Chorao
che continua a tenere alto il nobile nome, la musica e la poesia dello
Choro.
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LucaniArt
LA MUSICA DI MOONDOG
Louis Thomas Hardin era un singolare personaggio della New York
bohemienne degli anni '50. Si travestiva da vichingo, con tanto di
elmetto e spada, si faceva chiamare “Moondog”, stampava in proprio
libri d'ogni sorta che poi distribuiva gratuitamente, si esibiva agli
angoli delle strade e vendeva ai passanti gli spartiti delle sue
composizioni. Nato il 26 Maggio 1916 a Marysville, nel Kansas, figlio
di un predicatore episcopale, ma cresciuto nel Wyoming, dove iniziò a
suonare percussioni con le tribù pellerossa del luogo, cieco dall'età di
tredici anni, Louis Thomas Hardin frequentò la Iowa School For The
Blind, dove studiò composizione, piano, violino e batteria, e poi alla
Missouri School for the Blind a St Louis, dove imparò` a comporre in
braille. Dal 1936 si trasferì in Arkansas e nel 1942 studiò a Memphis.
Nel 1943 arrivò a New York, dove fece conoscenze importanti ma
visse la vita di musicista di strada. Nel 1947 decise di adottare il nome
d’arte di “Moondog” e divenne ben presto uno dei più rinomati artisti
di strada di New York. Intanto componeva quartetti per archi, sinfonie
ed opere, ma soprattutto decine e decine di brevi composizioni
strumentali senza senso, documentate su dischi ormai quasi introvabili
come “Snaketimes Rhythm” del 1949, “Moondog's Symphony” del
1950, “Organ Rounds” sempre del 1950, “Moondog And His
Friends” del 1951, “Moondog On The Streets Of New York” del
1953, registrato per le strade di New York ed altri. Arrangiando per
piccoli ensemble, rumori naturali e voci saltuarie, Moondog inventò un
genere musicale in anticipo sui tempi, fatto di musica da camera, di
danze esotiche, di filastrocche nonsense e di improvvisazioni jazz,
addirittura anche delle opere "onomatopeiche - ecologiche" fatte di
versi di uccello, versi di rana e il rumore delle onde marine. Ma la
vastità' della musica di questo stravagante musicista e' tale che si passa
dall'imitazione di una tigre e della jungla, alla recitazione giapponese,
da una sonata per pianoforte a duetti di musica lirica, per finire a poliritmi e strumenti esotici. A questi album fecero seguito altri: “More
Moondog” del 1956, “The Story Of Moondog” del 1957, “Tell It
Again” sempre del 1957 ed altri. Poi Moondog tacque per sette anni,
ma le composizioni di questi anni, di spessore sinfonico, vennero
finalmente raccolte su “Moondog” del 1969, che è una giungla di
sonorità strane, percussioni tribali, rumori e melodie nonsense, in
grado di sorprendere l’ascoltatore e di trascinarlo sulle orme di questo
cane lunare, folle e geniale al contempo. Comprava o affittava
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LucaniArt
strumenti usati, registrava separatamente le varie parti e poi miscelava
il tutto. Canzoni solenni e marziali, funeree e struggenti, con finale in
crescendo. L'ispirazione oscilla fra le orchestre del parco, fra le big
band dell'era swing e canzoni medioevali. Il puntiglioso lavoro
contrappuntistico e l'accurato arrangiamento da camera trasformano e
deformano quelli che altrimenti sarebbero soltanto bozzetti parodistici.
Pare di ascoltare anche tutto il minimalismo e la world music che
nasceranno almeno ufficialmente molti anni dopo. “Moondog due” del
1971, che ho ascoltato, coi suoi madrigali, con le voci che sembrano
quasi inseguirsi ripetendo la stessa melodia con piccoli sfasamenti. La
sensazione forte è che una gioia di vivere accompagni tutta l’arte di
questo eclettico e geniale musicista. Clavicembalo, viola, arpa, organo
a canne, chitarra, piano, composizioni quasi al limite fra un qualcosa
che ha a che fare con il “divino” si alternano a fanfare surreali e a
danze senza tempo. Nonostante la povertà di mezzi credo che
Moondog in un certo senso abbia voluto dare importanza a qualsiasi
tipo di rumore e di musica: dal fischietto di un poliziotto al verso di
una rana, dal dialogo di due persone alla cantilena di una bambina, dal
jazz delle big band ai concerti di Bach,rivalutando una delle tante
possibilità della musica come strumento comunicativo e cioè quella di
comunicare emozioni. Nel 1974 Louis Thomas Hardin si ritirò` a vita
sedentaria in Germania, dove uscirono numerosi altri album: “H'Art
Songs” del 1978, “A New Sound Of An Old Instrument” del 1979,”
Facets” del 1981, “Sax Pax For a Pax” del 1994 ed altri. Luis
Thomas Hardin detto “Moondog” e` morto l'8 settembre 1999 di
arresto cardiaco all'eta` di 83 anni in Germania. Credo che gli si
potrebbe dedicare come epitaffio questa frase: “Cominciai a suonare
una batteria di tamburi costruita con una scatola di cartone all'età di
cinque anni e da allora ho sempre vissuto da musicista e poeta”. La
sua musica traeva ispirazione dai suoni della strada, come la
metropolitana o il corno da nebbia. Era musica improntata alla
semplicità, ma caratterizzata da quello che lui chiamava "snaketime",
descritto come "un ritmo scivoloso, in tempi non consueti, infatti
affermava: ”Non ho intenzione di morire in 4/4!" innovatore
instancabile ed inventore di strumenti musicali: una piccola arpa
triangolare chiamata "Oo", un'altra che chiamò "Ooo-ya-tsu", e la
"Trimba", uno strumento a percussione, sempre di forma triangolare,
che il compositore ideò verso la fine degli anni '40. Moondog ha
ispirato moltissimi artisti: da grandi compositori di musica classica del
Novecento come ad esempio Igor Stravinskij, ad artisti rock del calibro
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LucaniArt
di Janis Joplin, a jazzisti del calibro di Charlie Parker. Brilla in cielo la
musica di questo vichingo che si aggirava per le strade del mondo
regalando le sue composizioni e le sue poesie, piccoli grandi perle ai
passanti.
Moondog
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L’OPERA MUSICALE DI DIAMANDA GALAS
Diamanda Galás è nata a San Diego nel 1955. I genitori entrambi di
origini greche: il padre era originario di Smirne, la madre di Sparta.
Fin da piccola la giovane Diamanda trovò nel padre, che la incoraggiò
già in tenera età a suonare il pianoforte, ma le proibì tassativamente di
cantare perché, a suo avviso, “solo gli idioti e le puttane cantavano”,
una figura ambivalente ma tutto sommato anche il primo punto di
riferimento musicale. Cresce ascoltando musica classica, blues e jazz.
A soli quattordici anni, suona con l’Orchestra Sinfonica di San Diego
il Concerto per Piano n° 1 di Beethoven. L’ambiente familiare è molto
severo e restrittivo: il padre le proibisce azioni banali e comuni a
qualsiasi adolescente, come ad esempio guardare la tv, ascoltare la
radio, portare amici a casa, avere appuntamenti, indossare un bikini. La
ragazza così scopre nella lettura una valvola di sfogo: Nietzsche,
Baudelaire, Pasolini, Poe e De Sade tra i suoi autori preferiti. Troverà
molta più libertà durante gli anni universitari, dedicati agli studi di
biochimica: libertà nel segno della trasgressione, tra uso di droghe e
spregiudicatezze sessuali. È in questo periodo che avviene la scoperta
delle sue sconcertanti capacità vocali. I primi esperimenti hanno luogo
addirittura in camere anecoiche, per avere totale libertà espressiva, per
impedire che qualcuno possa limitare o censurare tutto ciò che le
passava per la testa e aveva intenzione di fare. Risalgono a questi anni
collaborazioni con jazzisti d’avanguardia come David Murray, Butch
Morris e Mark Dresser e la famosa richiesta da parte del Living
Theatre di esibirsi in ospedali psichiatrici. L’inizio della carriera di
Diamanda Galás viene solitamente fatto coincidere col Festival
d’Avignone del 1979, quando accettò la proposta del compositore
slavo Vinko Gmobokar di interpretare il ruolo di protagonista della sua
opera "Un Jour Comme Un Autre", basata sulla documentazione
raccolta da Amnesty International sull’arresto e le torture subite dalle
donne turche. La Galás inizia a girare l’Europa per i festival con lo
scopo di far conoscere le sue prime composizioni. Il passo successivo è
la registrazione di questa musica tanto singolare quanto innovativa. Il
1982 vede così l’esordio discografico della musicista di San Diego,
“The Litanies Of Satan”, album talmente estremo e isolato da non
trovare epigoni nemmeno all’interno del mondo dell’avanguardia
stessa. Formata da due lunghe composizioni per voce ed elettronica,
l’opera è presumibilmente il capolavoro supremo della Galás, il
manifesto della sua arte, nonché il suo progetto più compiuto. È anche
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LucaniArt
il primo capitolo di una ipotetica trilogia che ne racchiude i lavori
migliori e più rappresentativi. Ad aprire il disco è "Wild Women With
Steak-Knives (The Homicidal Love Song For Solo Scream)", con
ogni probabilità il brano più scioccante e straziante della storia della
musica occidentale, saggio delle capacità vocali dell’artista, baccanale
ed inventario delle più disparate disfunzioni vocali formulate con la
lucida ferocia di una perversa squilibrata mentale. La facilità nel
cambiare registro vocale della Galás è impressionante: passa con
sorprendente naturalezza dall’urlo all’acuto, dalla declamazione
psicotica al gargarismo, dalla vocalità convulsa al silenzio. Diamanda
Galàs credo abbia una consapevolezza piena e totale dell’entità e delle
potenzialità della sua musica straordinariamente innovativa. La
grandezza e l’originalità del pezzo sta anche nella sua totale assenza di
accompagnamento strumentale: la voce dilaniata della Galás permea i
dodici minuti di durata, portando l’ascoltatore a una sorta di
partecipazione emotiva universale, un’immedesimazione completa nel
mondo che l’artista non ci descrive, bensì ci fa percepire a un livello
quasi multisensoriale. I concetti di dolore, sofferenza, umiliazione, sia
fisica che psicologica, saranno sempre al centro della poetica della
Galas. E’ sua intenzione dare voce a coloro che di norma non hanno
diritto ad esprimersi, vale a dire i reietti, gli sconfitti, gli abbattuti, i
feriti. Vuole dar voce, insomma, all’inascoltabile, a ciò che la società,
per convenzione, paura e rigetto, rifiuta di ascoltare. Le idee di
purificazione e vita ultraterrena sono per la Galás illusorie. Non c’è
riscatto, non c’è compensazione ai patimenti dell’esistenza terrena.
Esiste solo il dolore, per lo sconfitto, il quale rimane tale fino alla fine.
Il secondo album, l’omonimo “Diamanda Galás” del 1984, ricalca il
modus operandi dell’esordio. Qui però c’è un maggior interesse per
questioni politiche e un maggior squilibrio, una maggior enfasi,
nell’uso degli strumenti nei due brani. "Panoptikon" è forse il
capolavoro elettronico della Galás. Una fragorosa esplosione
radioattiva dà l’incipit al brano, seguita dalla voce della cantante, man
mano sempre più distorta elettronicamente. Inno alla libertà, il brano è
molto più parlato rispetto ai due pezzi di “Litanies Of Satan”, ma
soprattutto la voce, ovviamente non esente da diversi tour de force di
epilettiche raffiche di bestemmie animalesche, viene molto più
immersa nel suono, un mare di suono metallico e tagliente, dando così
vita ad un sentimento di estraniazione. Diversamente in "Tragouthia
Apo To Aima Exoun Fonos (Song From The Blood of Those
Murdered)", brano live del 1981 dedicato alle vittime della Dittatura
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LucaniArt
dei colonnelli, il regime oppressivo vigente in Grecia dal 1967 al 1974.
La voce è padrona assoluta, questo brano è un autentico muro del
pianto e del silenzio, "Tragouthia" è una sinfonia vocale emotiva, un
lamento polifonico che dà voce alle anime dei morti, una presa diretta
dall’inferno, un atto di accusa sconvolgente e coinvolgente alllo stesso
tempo. La voce della Galás è sorprendentemente bella, calma, alta e il
pezzo è incredibilmente lirico e poetico. Ascoltando il pezzo, sembra
quasi di essere toccati dalle mani degli spiriti delle vittime. Se “The
Litanies Of Satan” è l’album della sofferenza, del dolore fisico, della
lacerazione della carne, “Diamanda Galás” è l’album della
desolazione, del vuoto interiore, dell’annullamento dell’individuo. Il
1986 è un anno fondamentale per la musicista, sia da un punto di vista
personale che professionale: muore infatti di Aids il suo amato fratello,
il drammaturgo Philip-Dimitri e nasce il suo nuovo progetto per tre
dischi, “Masque Of The Red Death”, che proprio sull’Aids e sulle sue
vittime è incentrato. Il primo capitolo è “The Divine Punishment”,
“sorta” di spartiacque, di anello di congiunzione tra le due trilogie,
quella della fase sperimentale per voce ed elettronica e una seconda
fase più teatrale e dedita a un pubblico di più ampia portata. In
"Deliver From My Enemies", pezzo suddiviso in sei parti, la Galás
rivisita alcuni estratti delle Sacre Scritture, inscenando una sorta di
messa nera, una preghiera per i disperati: nella prima parte, "This Is
The Law Of The Plague", i tamburi, i cori oscuri e la voce accusatoria
della cantante non lasciano scampo. Dopodiché la Galás riprende l’uso
della voce sfoggiato in "Tragouthia": più lacerato che lacerante, più
sofferto, più introspettivo. In "Psalm 22", sesta e ultima sezione del
brano, si raggiunge il rantolo assoluto, una disperazione senza limiti, la
consapevolezza della fine senza ritorno. Il secondo brano, "Free
Among The Dead", anch’esso suddiviso in più sezioni forse è il suo
capolavoro esoterico, un caleidoscopio di linguacce e declamazioni
contro la religione, durante questo pezzo la Galás nuovamente recitare
estratti dei Testi Sacri misti a brani scritti da lei stessa. Apice del disco
è la sezione finale, "Sono L’Antichristo", dove la Galás, più sguaiata
che mai dicjiara per l’appunto di essere Satana. Questo disco ha dato
vita a una delle accuse più facili e superficiali alla musica di Diamanda
Galás: quella di satanismo. L’artista, agnostica dichiarata, in realtà non
si è mai minimamente accostata alle ideologie e ai culti satanici, la sua
è molto più semplicemente una critica Nietzschiana nei confronti della
religione cristiana in quanto istituzione terrena. Per Diamanda Galas
Dio e Satana non sono altro che concetti, idoli di una organizzazione
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oscurantista, la Chiesa. La Galás, quindi, non va affatto affiancata alla
realtà patinata del rock satanico; la sua arte trova piuttosto nelle
performance di Marina Abramović, Gina Pane, Ana Mendieta, Karen
Finley e degli esponenti del Wiener Aktionismus, nelle fotografie di
Joel-Peter Witkin e Andres Serrano e nel teatro di Jan Fabre le
proprie sorelle. Nello stesso anno esce il secondo capitolo della
trilogia, “Saint Of The Pit”, album che segna un cambiamento nella
musica della Galás: abbandonate le declamazioni psico - elettroniche,
la musicista passa a un tipo di musica gotica. Il disco comincia con il
brano strumentale "La Trezième Revient", in cui l’organo suggerisce
una melodia oscura, ipnotica, ammaliante; segue "Exeloume",
L'Heautontimioroumenos", uno dei pezzi più atipici e interessanti del
disco, la Galás diventa sirena che con voce sinuosa seduce e poi
abbandona l’ascoltatore. "Artémis" anticipa quello che sarà il modus
operandi del secondo periodo della carriera della Galás, ovvero quello
consistente nell’uso del pianoforte classico e di una voce più narrativa
che espressiva. Ad alzare il livello dell’album ci pensa "Cris
D’Aveugle", la traccia conclusiva e anche il brano che sancisce la fine
del primo periodo della carriera della Galás: per l’ultima volta la
cantante incarna la voce del Demonio, in 12 minuti di grandissima
intensità, tra cori medievali, stridi allucinati, evocazioni esoteriche,
tempeste di tamburi. Nel 1989 esce “You Must Be Certain Of The
Devil”, capitolo finale della trilogia. Qui il cambiamento verso il
formato canzone è completato, Nel 1989 la cantante viene premiata
alla Queen Elizabeth Hall di Londra per la trilogia, che nel 1991 trova
il suo ideale appendice nel live “Plague Mass”. Il disco, a livello
concettuale, non è meno destabilizzante: è in tutto e per tutto la più
imponente apologia nei confronti delle vittime dell’Aids mai
realizzata, apologia che sfocia nella più sincera compassione e
nell’attacco violento verso i nemici delle vittime, cioè i pregiudizi e la
Chiesa. Registrato il 12 e il 13 ottobre 1990 nella cattedrale di St. John
The Divine a New York, il progetto riprende i momenti salienti di
“Masque Of The Red Death” e aggiunge pezzi inediti. “Plague Mass”
è il capolavoro a livello comunicativo di Diamanda Galás, la sua più
grande opera cerimoniale, perché la musica è prima di tutto
comunicazione, trasmissione di messaggi ben definiti. Sbaglia chi
considera la sua arte una mera e provocatoria ostentazione di capacità
tecniche, per la Galás il messaggio e la sua forma sono tutt’uno. E ciò
è portato alla sua massima espressione in questo disco.
Successivamente nel 1992 esce “The singer” raccolta di pezzi scritti
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da altri ad eccezione di un solo brano. L’anno successivo con “Vena
Cava”, nuovo progetto live in cui si ritorna alla ricerca dell’origine del
dolore, al latrato becero. Tratto dai testi scritti dal fratello Philip
Dimitri durante la malattia e imperniato sulla malattia mentale e sulle
orribili cause dell’Aids, “Vena Cava” è il seguito di “Plague Mass”,
dal quale si differenzia nettamente però nella forma: tanto spettacolare,
dirompente, ricco è infatti il disco precedente quanto minimalista,
asciutta, povera è questa sua prosecuzione. Nel 1994 esce “The
Sporting Life” in collaborazione con l’ l’ex bassista dei Led Zeppelin:
John Paul Jones. Nello stesso anno la Galás realizza un altro progetto,
un lavoro per la radio che ha come tema la tortura, psicologica e fisica:
“Schrei 27”. Pubblicato solo due anni dopo, nel 1996, con un
ampliamento live e un titolo leggermente diverso”Schrei X”, questo
disco sono 27 minuti di latrati ed urla. L’opera vede la ripresa dello
scarno uso di voce ed elettronica, sebbene la Galás lo faccia in maniera
diversa rispetto agli esordi: qui vengono usate, anziché grandiose
cavalcate psico vocali dei piccoli componimenti di pochi minuti. Ideale
inno ai manicomi e ai campi di concentramento, il disco è forse il più
spaventoso, il più oscuro, infatti le performance live sono state
realizzate al completo buio, il più folle dei suoi lavori, oltre ad essere
quello in cui si avverte un senso di morte. Mentre in tutta la carriera ha
sempre dato primaria importanza al messaggio, in “Schrei 27” la Galás
sembra quasi dimenticarsene, o meglio il messaggio qui si incarna nel
lavoro stesso. L’insopportabile tour de force si conclude con i sette
minuti e mezzo di "Hee Shock Die" in cui la Galàs per tutta la durata
del pezzo, non fa altro che ripetere "ok", emettere risate tra il luciferino
e il disperato e rigurgitare urli strozzati. Il senso di oppressione e la
coscienza di annientamento della propria persona raggiungono lo
stadio finale: la vittima ormai non è che carne, un corpo che aspetta
solamente la propria morte violenta. Fine che si identifica con il
prosciugamento d’ispirazione della musicista di San Diego. Gli ultimi
dieci anni discografici hanno visto un ritorno alle origini musicali di
Diamanda Galás, ovvero al mondo del blues, del gospel e del jazz.
Ritorno che coincide con l’uscita di album più ascoltabili:
“Malediction & Prayer”, “La Serpenta Canta”, “Defixiones”, “Will
And Testament” e il recente “Guilty Guilty Guilty”. Se da un lato gli
intenti accusatori e umanitari non vengono meno, “Defixiones”, ad
esempio, tratta del genocidio dei popoli armeno e greco da parte dei
turchi tra il 1914 e il 1923, le ultime produzioni della Galás hanno
l’indubbio merito di averne divulgato la fama a livello internazionale
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ben più dei suoi primi dischi; ormai il suo nome è conosciuto e
apprezzato anche fuori dal mondo underground per quanto,
ovviamente, rimanga un’artista sconosciuta al pubblico meno
preparato. Nel 2005 la musicista è stata omaggiata del premio alla
carriera Demetrio Stratos, forse il giusto riconoscimento a una cantante
che, per quanto in piena e probabilmente definitiva eclissi artistica,
rimane una delle più straordinarie, sincere, radicali e rivoluzionarie
musiciste di tutti i tempi.
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L’OPERA MUSICALE DI MEREDITH MONK
Meredith Jane Monk è nata a New York il 20 novembre 1942, da una
famiglia di cantanti e ballerini, la madre e il nonno erano cantanti
professionisti. Nel 1964 a ventidue anni si laurea al Sarah Lawrence
College. Subito dopo partecipa a numerosi spettacoli d'avanguardia,
prestando la sua voce a composizioni altrui o esibendosi come
"danzatrice solista". I suoi interessi fin dal principio sono: il corpo e la
voce, attraverso un approccio interdisciplinare, infatti il "movimento"
e la "danza" rimarranno dei capisaldi anche delle sue produzioni
esclusivamente musicali. Nel 1968 fonda la compagnia teatrale “The
House” con l’intento di abbattere le frontiere fra le varie forme di arte
e creare “un’arte che a sua volta diventi una metafora per aprire il
pensiero, la percezione, l'esperienza. Un'arte che purifichi i sensi, che
offra intuito, sentimento, magia. Che permetta al pubblico, forse, di
vedere cose già conosciute in un nuovo modo", parafrasando la stessa
Monk. Ed è proprio in questi anni che Meredith Monk inizia a
“lavorare” sulla propria voce. In poco tempo diventa uno dei nomi di
punta dell’avanguardia vocale, negli Usa ma anche nel resto del
mondo. Fra il 1968 e il 1970 Meredith Monk mette in scena uno
spettacolo che andrà a costituire il materiale della sua prima uscita
discografica: si tratta di “Key”. In questo disco la Sua voce con
l’ausilio di un piano, di un organo e di uno scacciapensieri si rivela al
mondo. E’ un disco fatto di dieci piccoli abbozzi che rivelano un
enorme talento e la grandezza vocale di un’artista che si avventura fra
canti, esorcismi, contemplazione e rituali che inducono la trance. E’ un
canto libero, istintivo, primordiale, viscerale e non intellettuale quello
della Monk. Negli anni successivi oltre a continuare nella Sua
personale ricerca sulla Voce si dedica anche al teatro e alla regia di
cortometraggi. Ma nel 1976 decide di ritirarsi in cima a una collina
deserta del New Mexico. In questi luoghi brulli, aridi e disabitati,
Meredith Monk avverte la presenza di civiltà scomparse, delle culture
perdute, degli indios sterminati. È in questo stato di suggestione che
nasce una delle sue opere più belle e commoventi: “Songs From The
Hill”. Questi "canti della collina" sono dieci brevi visioni in cui
l'artista impersona dieci differenti personaggi, utilizzando per ciascuno
una differente tecnica vocale. A farla da padrone è un senso di
desolazione, amplificato dall'asprezza delle interpretazioni, in cui la
voce è l'unico strumento. L'ugola della Monk diventa il tramite, il
veicolo attraverso cui i vocalizzi, le cantilene millenarie, i riti
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propiziatori di una civiltà estinta, identificata con quella indios, ma qui
il messaggio credo sia universale, vengono passati in rassegna per
un'ultima volta prima dell'oblio finale. Ecco così giungerci alle
orecchie la ninna nanna spettrale del finale. E’ la voce di Meredith
Monk ad innalzarsi verso le vette più alte e ad immergersi negli
anfratti più bui. Una vera disanima delle potenzialità della Voce in
quanto strumento. Ed è proprio in questi Suoi primi dischi che la nostra
amatissima Artista mette a punto anche una nuova tecnica musicale,
forse mutuata dal Minimalismo di John Cage: il pianoforte ripete
ossessivamente un breve giro di note, che in tutto il brano subiscono
poche variazioni, la voce inizia a intonare una nenia, rotta a volte
dall’irrompere di altri strumenti o da altre voci. Nel 1980 esce
“Dolmen Music”, unanimemente considerato un capolavoro della
Storia dell’Arte in cui Meredith Monk si mostra e dimostra di essere
una compositrice matura e consapevole, che sa esprimere, dosare e
veicolare con sapienza le proprie smisurate capacità vocali tese
costantemente verso l’oltre, come se il vero punto d'arrivo fosse
sempre il prossimo, ancora da venire. “Dolmen Music” è un’Opera
definitiva e compiuta , in cui convergono le tante direzioni di ricerca
personali e che al contempo diventa anche punto di riferimento per
qualsiasi persona interessata al fenomeno della Voce. Il disco è un
viaggio verso i Dolmen, emblema delle vette più alte mai raggiunte da
un artista in campo sonoro. Si parte con una nenia, una ninna nanna,
“Ghotam Lullaby” in cui la tecnica del giro di pianoforte reiterato
all'infinito con poche variazioni in cui su poche note la voce della
Monk intona una melodia triste ma ariosa e solenne. Ecco una delle
idee geniali trasformata in realtà: la fusione fra voce e strumento è
attuata. In “Travelling”, il brano successivo, il viaggio continua e la
Sua voce sfuggente e a tratti invasata tocca vette inimmaginabili. Il
registro cambia ancora con “The Tale” siparietto schizo surreale.
Quando arriviamo quasi in prossimità del Dolmen, ecco “Biography”.
Questa più che una canzone è una scarica di elettroshock, la Voce si
insinua, si attorciglia andando a stimolare i nervi profondi, la psiche.
Superata “Biography”, in silenzio, giungiamo ai piedi del Dolmen. E
qui saliamo su una macchina del tempo immaginaria e salutiamo
definitivamente le categorie di spazio e di tempo. "Dolmen Music" è
un'opera corale per sei voci, tre femminili e tre maschili, tutte
straordinarie, a cui si aggiunge il suono quasi irriconoscibile di un
violoncello e le percussioni, tutto architettato in base ai concetti di
progressione e mutazione continua. Ogni volta che ascolto questo
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brano mi si blocca il respiro, mi viene una fitta dentro, per cui, a volte
avverto quasi il bisogno di fermarmi nell’ascolto. "Dolmen Music" è
un viaggio fra sogno e realtà, un'esperienza mentale e fisica, in bilico
fra un andirivieni temporale, insomma una delle vette più alte mai
toccate dall’essere umano. Gli anni successivi a “Dolmen Music”, fra
progetti teatrali e multimediali, scorrono veloci ed arriviamo al 1983,
anno di uscita di un altro capolavoro: “Turtle Dreams”. Abbandonate
le visioni naturali dei dolmen e del New Mexico, Meredith Monk
decide di mettere a nudo il mondo intorno a sé, gli Usa frenetici degli
anni ’80, facendo trasparire un’umanità angosciata e farneticante,
consumistica obesa ed altera, in fila davanti alle vetrine illuminate,
mentre dentro vive il contrasto e l’aspirazione ad un mondo naturale.
Dal punto di vista musicale ciò viene rappresentato da cori che
s’alternano, lamenti di solitudine e dal suono di strumenti musicali
quali organo e percussioni. Nel 1986 è la volta di “Our Lady Of Late”,
un singolare esperimento portato a teatro alcuni anni prima in cui
l'artista si esibisce con il contributo di alcuni calici da vino, quindici
frammenti vocali, l'uno diverso dall'altro così come diverso è anche il
suono dei calici sullo sfondo. “Do You Be” uscito sempre nel 1986 è
una raccolta di brani ideati durante gli anni predenti composti in gran
parte con sintetizzatore e pianoforte. “Book Of Days” del 1990 è
invece un disco in cui prevalgono per lo più brani malinconici,
essenziali, canzoni che sembrano dialogare col silenzio. “Book Of
Days” è un viaggio nel Medioevo, che racconta la storia di una
bambina ebrea protagonista di una serie di magici incontri, un disco
notturno ed affascinante. Nel 1992 è la volta di “Facing North” basato
sulla storia di Giovanna D'Arco. Nello stesso anno esce “Atlas” una
“sorta” di nuovo approdo verso un altro punto d’arrivo di una
straordinaria e audace ricerca artistica. È in questa monumentale opera
in tre atti che la fusione tra voce e musica, nonché l’idea di unione, di
interdisciplinarietà tra le arti, raggiunge il definitivo compimento.
“Atlas” è un viaggio, o forse il viaggio: il pellegrinaggio, fisico o
spirituale, alla ricerca della soluzione di quelle domande sul vero senso
della vita. È un viaggio che parte con il sogno, che diventa poi reale, in
cui assistiamo a degli incontri, in cui veniamo portati in altri luoghi e
che si conclude malinconicamente. E come in tutti i viaggi, non è
importante il luogo in cui ci ha portato quanto piuttosto ciò che
abbiamo incontrato durante il viaggio. “Atlas” insomma è un’opera
suprema della Voce della Monk. Nel 1997 è la volta di “Volcano
Songs”, poi nel 2003 sarà la volta di “Mercy” e nel 2008 invece
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LucaniArt
“Impermanence” ed infine l’anno scorso “Beginnings”. Tutte opere
capillari ed altrettanto importanti di questa immensa Artista che ha
saputo regalarci le chiavi di accesso alla musica come viaggio verso le
vette più alte con la Sua Opera, la Sua ricerca vocale ed il Suo talento
sconfinati.
Meredith Monk
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LA MUSICA DI JIRI STEVENS
Jiri Stivin è un Musicista cecoslovacco nato nel 1942 a Praga. A mio
modo di vedere l’opera musicale di quest’umile e immenso Artista ha
tutti i crismi di ciò che gli studiosi di Alchimia definirebbero Pietra
Filosofale. Per gli antichi Alchimisti la ricerca aveva un fine che a
seconda della cultura e delle esperienze di vita assumeva diversi nomi:
Sacro Calice, Laphis Cristhi, Pietra Filosofale e tutti i mille nomi che
ha il fine ultimo della ricerca spirituale alchimistica. Spero che nessuno
se la prenda se mi permetto di paragonare l’Opera Musicale di Jiri
Stivin all’Opus Alchemica degli antichi alchimisti. Ho pensato a
queste cose fin dai primi solchi di “System Tandem” il disco in duo di
Jiri Stivin e Rudolf Dasek del 1975. Destino tipico di molti Geni,
quello di esser trascurati dal grande pubblico, d’altronde al grande
pubblico interessa di più ciò che è commerciale. Nessuna polemica.
Ma adesso cerco di addentrarmi in questo grandioso disco, usando le
mie parole che come tutte le parole sono sempre cosa altra e diversa
rispetto al linguaggio della musica. L’incipit del disco è dato da:
“Puddle on the Muddle” una specie di brano jazz rock che per
assonanza ricorda i King Crimson e gran parte delle sonorità
progressive anni ’70. Solo che in questo brano di apertura c’è anche un
sassofono free jazz stridente ma incastonato come una pietra preziosa
in questa “sorta” di magnifica ouverture. Poi si passa a “Moravian folk
song - Forman going down the valley” e qua il registro cambia. Si
inizia con un flauto dolce, che evoca una ninna nanna, ma
d’improvviso dopo un po’ il registro cambia ed eccoci trascinati in
millenni di cultura folklorica dei paesi dell’est europeo. Ed è come una
cavalcata in compagnia di questo flauto traverso che tanto ricorda
quello di Jan Anderson dei Jethro Tull, pur essendo una cosa altra
anche rispetto al grande menestrello del rock progressivo. Ecco invece
il suono delle chitarre iniziali di Rudolf Dasek prontamente raggiunte
dall’immancabile flauto di Jiri Stivin di “Hey, man (let's play
something about religion)”. Questo terzo brano è un baccanale
incredibile con voci sconnesse che si alternano a suoni di flauto. Un
pezzo in grado di gareggiare con le migliori performances vocali di
Tim Buckley e con le acrobazie strumentali di Eric Dolphy. Senza giri
di parole nove minuti di tensione in crescendo e liberatoria, come una
specie di ballo di San Vito strumentale. Finito questo sabba liberatorio
eccoci trascinati in “Shepherd song”. Questa è una ballata con
strumenti a fiato e chitarra, viaggio che disintegra un secolo e più di
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LucaniArt
musica. Una delle grandezze di quest’umile ma geniale artista, Jiri
Stivin appunto, consiste appunto nella sintesi di ordine superiore che in
compagnia del suo compagno di viaggio riesce a compiere: infatti
questo è jazz che incontra la musica classica, si compenetra in essa, si
fonde senza confondersi e dando luogo ad un risultato in grado di
polverizzare secoli di musica. Finita questa incredibile ballata eccoci
come in un labirinto di un antico castello trascinati dentro con estrema
dolcezza da: “What's your story” brano assolutamente incredibile con
le onnipresenti acrobazie flautistiche che a farla da assolute padroni, in
questo vero e proprio e altro viaggio musicale. Il discorso sotteso
all’opus alchimistica in questo brano prende forma, per cui jazz e
classica convivono in una sintesi di ordine superiore, insieme ad
improvvisazioni di flamenco e sonorità barocche. Ed infine eccoci
ripiombare nuovamente a terra dopo voli pindarici con il suono
stranissimo di un altrettanto inusuale strumento a fiato che così ad
orecchio dovrebbe essere un vero e proprio flauto di Pan di “Puzzle
Game” brano finale. Mi sento stordito, felicemente stordito da un tipo
di musica che non avevo mai ascoltato e proveniente da un Artista
umile poiché per tutta la vita ha continuato a fare anche altri mestieri
oltre al Musicista, ma al contempo assolutamente Geniale, dinanzi a
cui non ci si può che togliere il cappello, inchinarsi ed ascoltare.
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LucaniArt
“MARE NOSTRUM” DI RICHARD GALLIANO, PAOLO
FRESU E JAN LUNDGREN
Ascolterei per ore ed ore “Qu’ rest t’il de nous amor” di Charles
Trenet senza mai stancarmi, poi figurarsi in una versione jazz, come
quella contenuta in “Mare Nostrum” di Richard Galliano, Paolo Fresu
e Jan Lundgren del 2008. Il Mediterraneo come luogo di incontro di
popoli e culture diverse, ma anche come punto di partenza per
esplorare territori sconosciuti, questa pare essere la metafora che
sottende "Mare Nostrum", album che vede l'esordio di un inedito trio
jazz: il trombettista sardo Paolo Fresu, il fisarmonicista francese
Richard Galliano e il pianista svedese Jan Lundgren. Tre mondi
diversi, tre strumenti diversi si sono magicamente incontrati in un
album dalle sonorità tenui, delicate e malinconiche. Dato che il jazz è
anche apertura e confronto con altre culture musicali, quest’album è
fatto di melodie che vengono da tradizioni e stili differenti. La
bellissima canzone francese di un brano immortale di Charles Trenet
evocatrice di visioni filmiche di Truffauttiana memoria, il folklore
svedese, la musica di Maurice Ravel, alcuni brani della tradizione
brasiliana di Tom Jobim e Vinicius De Moraes, così come le
composizioni originali, tutto unito e fuso in un disco gradevole e molto
bello. La varietà e la ricchezza di "Mare Nostrum" consiste in
un'invenzione di grande fascino ed armonia: una miscela di jazz con
una sfumatura di contemporaneità che forse ci offre l'immagine di un
attualità in cui il jazz si fonde non confondendosi, ma arricchendosi
con altri stili, altre tradizioni musicali. “Mare Nostrum”, come già
detto, è l’incontro tra la tromba di Paolo Fresu, da decenni uno dei più
grandi interpreti di tromba nell’ambito del jazz che coltiva incontri e
collaborazioni in tutto il continente pur mantenendo un forte legame
con la sua Sardegna, il fisarmonicista Richard Galliano, francese, la cui
musica unisce jazz, tango e valzer e il pianista svedese Jan Lundgren
che intesse influenze contemporanee e classiche, folclore scandinavo e
jazz. Musica che privilegia i chiaroscuri timbrici. La mancanza del
basso e della batteria rende la musica di “Mare Nostrum” rarefatta e
sospesa, per cui sembra quasi che le composizioni siano crepuscolari e
dotate di quella tenue e delicata malinconia che a volte è una delle
caratteristiche dei più grandi capolavori della musica jazz, ma dell’arte
in generale.
Richard Galliano è nato a Cannes il 12 dicembre del 1950. Fin da
bambino ha studiato piano e fisarmonica col padre Luciano Galliano
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fisarmonicista italiano. Dopo un lungo e intenso periodo di studio con
lezioni di trombone, armonia e contrappunto all'Accademia di Musica
di Nizza, a quattordici anni, nella ricerca di una espansione delle sue
idee sulla fisarmonica, ha iniziato ad ascoltare la musica jazz ed è
rimasto impressionato dal trombettista Clifford Brown, dal quale ha
preso numerosi spunti. “Ho iniziato ad inoltrarmi in questo campo ed
uno dei miei insegnanti, Claude Noel, un ribelle della fisarmonica, ho
speso gli anni della mia adolescenza cercando i dischi dei più grandi
fisarmonicisti moderni in un momento in cui tutto ciò che potevi
trovare nei negozi erano i fisarmonicisti tradizionali. Volevo suonare
in una maniera diversa. E sapevo che questa maniera esisteva negli
Stati Uniti ed in Brasile”, come confiderà lo stesso Galliano molti anni
dopo. Dopo anni di studio e di apprendistato, nel 1973 è andato a
Parigi, dove ha incontrato il cantante Claude Nougaro. Per tre anni
ha ricoperto il ruolo di direttore d’orchestra, arrangiatore e
compositore per quell’orchestra, come affermerà molti anni dopo lo
stesso Galliano: “Un ‘orchestra come la Nougaro ha lasciato in me un
segno. Con lui ho imparato specialmente l’importanza della melodia.
Ora, quando compongo immagino di scrivere una canzone, anche se le
mie musiche sono sostanzialmente strumentali”. Dopo Nougaro c’è
stato l’importante incontro con il grande Astor Piazzolla, di cui sempre
lo stesso Galliano ha detto: “Astor Piazzola mi ha guidato e mi ha
aiutato a capire la necessità di ritrovare la mia identità. Fino alla sua
morte siamo stati inseparabili. Mi ha aperto gli occhi e mi ha donato
l’assoluta padronanza di questo strumento musicale che ha
attraversato tutti i cambi delle mode, le passioni, e sofferto tutti i tipi
di emarginazione”. Dunque Richard Galliano, erede diretto di Astor
Piazzolla, interpreta, compone ed orchestra musica che appare come
una mescolanza di tango, valzer, musica alla Bill Evans,
improvvisazioni alla Keith Jarrett e reminescenze di Charlie Parker e
John Coltrane, il tutto suonato con un piacevole gusto. Uno dei
maggiori meriti di Richard Galliano è la sua originalità; il sintetizzare
tutte queste esperienze in una musica europea costruita da
improvvisazioni jazz e da una gran quantità di tradizione mediterranea.
Un’altra peculiarità è il suo modo di adoperare la fisarmonica ed il
bandonéon, strumenti musicali poco maneggevoli che hanno sempre
avuto vita dura nel jazz e nella musica colta. Per anni, la fisarmonica è
stata relegata al rango più basso della musica popolare, nelle mani di
Galliano la popolare fisarmonica ha acquisito la policromia di
un’orchestra e poi il tono intimistico della musica da camera.
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Paolo Fresu è nato il 10 febbraio 1961 a Berchidda, in Sardegna. Ha
iniziato lo studio della tromba all'età di undici anni nella Banda
Musicale "Bernardo de Muro" di Berchidda, per appunto suo paese
natale. Dopo varie esperienze di musica leggera ha scoperto la musica
jazz nel 1980 ed ha iniziato l'attività professionale nel 1982
frequentando dapprima i "Seminari Senesi" e registrando quindi per la
Rai sotto la direzione di Bruno Tommaso. Si è diplomato prima come
Perito Elettrotecnico a Sassari, poi nel 1984 in Tromba presso il
Conservatorio di Cagliari e ha frequentato successivamente la facoltà
universitaria "Dams “ sezione musica presso l'Università di Bologna.
La sua attività discografica vanta oltre trecento dischi e quella
concertistica oltre duemila concerti. Vive tra Bologna, Parigi e la
Sardegna. La banda del paese e i maggiori premi internazionali, la
campagna sarda e i dischi, la scoperta del jazz e le mille
collaborazioni, l'amore per le piccole cose e Parigi. Un personaggio
singolare Paolo Fresu che è riuscito a trasportare il più profondo
significato della sua magica terra nella più preziosa e libera delle arti,
la musica. Non serve a nulla enumerare tutte le sue incisioni, tutti i
premi che ha vinto e le esperienze varie che lo hanno imposto a livello
internazionale e che fanno amare la sua musica: dentro al suono della
sua tromba c'è una linfa magica in grado di rivoluzionare il jazz
europeo, la profondità di un pensiero non solo musicale, la generosità
che lo vuole nel posto giusto al momento giusto ma, soprattutto,
l'enorme ed inesauribile passione che lo sorregge da sempre.
Turbinosa, onnivora e creativa questi i primi aggettivi che mi vengono
in mente per tentare di descrivere la musica di Paolo Fresu. Fra le
numerose esperienze musicali di Paolo Fresu vanno annoverate quella
col suo storico quintetto, quelle in duo con Uri Caine, quelle col
quartetto “Devil” e la collaborazione con Carla Bley e Steve Swallow.
Degni di nota sono anche i progetti con alcuni grandi nomi del mondo
letterario e teatrale italiano: Ascanio Celestini, Lella Costa, Stefano
Benni, Milena Vukotic poi anche collaborazioni per colonne sonore di
importanti film. Anche se sarebbe un errore dimenticare le strizzatine
d’occhio verso la musica classica con quartetti d’archi
Jan Lundgren è nato a Kristianstad in Svezia. Ha cominciato a
prendere lezioni di pianoforte a cinque anni e dopo quasi un decennio
di formazione pianistica classica ha scoperto il jazz, sua grande
passione fin dal primo momento. Dal 1986 al 1991 ha studiato al Royal
College of Music di Malmoe e in quegli anni ha iniziato la sua carriera
da musicista professionista. Il suo talento è stato scoperto dal
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leggendario sassofonista Arne Domnerus. Nel 1994 è uscito il suo
album d'esordio "Conclusion“. Negli anni a venire l'orientamento
musicale di Lundgren non ha lasciato spazio a dubbi: la sua abilità
trova massima rispondenza nel linguaggio del jazz. Nel 1997,
"Swedish Standards“ è stato premiato come miglior album jazz
dell'anno. Negli Stati Uniti ha registrato numerosi altri album.
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LE PAROLE, LA MUSICA DI CANIO LOGUERCIO
“Canio Loguercio nato a Campomaggiore in provincia di Potenza ma
da molti definito “napoletano d’adozione” per via dei Suoi studi di
Architettura fatti a Napoli e non solo, infatti parafrasando lo stesso
Canio Loguercio: “scrivo e canto in napoletano la sacra madrelingua
delle passioni”. Canio Loguercio verso la metà degli anni ’80 fonda
con altri musicisti i “Little Italy” una specie di ensemble musicale di
cui non ho mai ascoltato niente. Poi durante i primi anni ’90 fonda
l’etichetta discografica indipendente Officina. Successivamente fonda
insieme a Rocco Petruzzi ed al maestro Rocco De Rosa, con il quale
collabora in tanti progetti, la casa discografica Little Italy Studio. La
carriera solista di Canio Loguercio inizia con la pubblicazione di
alcune canzoni, o come si sarebbe detto fino a qualche anno fa con
qualche 45 giri, fra cui ricordiamo: Kufia - Canto per la Palestina ed
altre canzoni. Nel 2003 esce “Indifferentemente” (Breve cerimonia a
domicilio di canzoni appassionate) suo primo album che prende il
nome da una canzone della tradizione musicale napoletana di Mario
Abbate. Questo album è un concept album, una breve cerimonia a
domicilio di canzoni appassionate come suggerisce il sottotitolo del cd,
uno spettacolo teatrale musicale ideato e pensato per essere fatto
davanti a poche persone, in cui le canzoni si susseguono come in una
recita religiosa attraverso rituali e preghiere. Canio Loguercio con
“Indifferentemente” (Breve cerimonia a domicilio di canzoni
appassionate) innova la tradizione e sperimenta nuovi linguaggi
musicali e poetici dando vita a un concerto di canzoni d’amore fisiche
quasi da annusare, da mangiare, da bere e da raccontare in dialetto
napoletano o con preghiere alla madonna e all’acqua di Lourdes. La
prima canzone è: “Petula venneva ‘e scarpe” fatto da un tourbillon di
voci che parlano di un amore finito in mezzo ad una via, di birre da
bere e scarpette femminili rosse da vendere, di peperoni o rape da
friggere e croci di camposanto. E poi i peperoni o le rape fritte in olio e
con un po’ di aglio ritornano subito dopo in “Friariella” fra il cattivo
odore di una malva rosa e una melma di sputi, la vita che fugge via
velocemente avvelenata con il personaggio di questa canzone che
chiede al suo amore perché lo ha sedotto e poi abbandonato. La musica
di questa seconda canzone è una cavalcata sonora molto bella fatta di
piano e suoni campionati. “Ogni scarpa nu sciore” in cui ritornano le
scarpe colorate di rosso dell’incipit ed in cui si sente il lamento
dell’abbandono ed il senso di rabbia per l’amore che arriva e poi va
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via. In “Ferrarella” continua questo viaggio, fra una corsa per
prendere un calabrone che è entrato nei pantaloni e le bottiglie d’acqua
sfiatata, a cui credo alluda il titolo della stessa canzone, fra tumori e
male al cuore e dolci tipici, fra carne e carogne, fra sesso e morte.
L’album continua con “O tiempo de limoni” che parla di una bella
bocca rossa da baciare, una “sorta” di mantra zeppo di baci carnali e
lingue che si attorcigliano e si srotolano. La bocca rossa che il
personaggio di questo disco prima desiderava baciare ritorna nella
canzone successiva: “Vocca rossa, vocca persa”, quasi a pretendere
che la passione erotica si riappropri di un posto principale nella vita di
ognuno di noi. Questa canzone molto coinvolgente, secondo me,
rappresenta anche un acme di tutto l’intero disco. “Perso” incomincia
col rumore del mare e di un dialogo fra un uomo ed una donna e
racconta di difficoltà economiche e disagio, di bar in cui non ti offrono
niente da bere perché hai finito i soldi e la ricerca di un po’ di piacere
sessuale. “Stretto” narra della violenza e della forza di una passione
che ti prende e ti sbatte come un incendio in una notte nera color pece,
con lo stesso Canio Loguercio che sussurra alle nostre orecchie di
stare attenti alla forza di questa passione. “Leonardo”, la canzone
successiva, racconta della passione amorosa, l’esortazione a stringersi
del corpo dei due amanti, una richiesta di contatto fisico, un altro gesto
di amore. In “Città vuota” (‘o brodo pe passa’ ‘a vecchiaia) canzone
successiva in cui in sottofondo si sente la nota canzone di Mina,
racconta di campane che suonano per poter essere ascoltate, di mani
vuote e di sangue da essere gettato ai cani. La stessa campana ritorna
nella successiva: ”Sona campana” che racconta di un lutto e di casse
da morti, di corpi induriti dal sole e di mani fredde che non trovano più
niente. “Lazzarella indifferente” invece narra le vicende di Lazzarella
e del suo amato amante, un amore clandestino, dapprima respinto e poi
osteggiato. “E uno e doje” riprende la “numerazione” della canzone
precedente, raccontando in un vortice musicale tutti gli accadimenti
che sono stati raccontati in tutto il disco, una canzone a mo’ di
sommario. “Aspetto” è una dichiarazione amorosa, una promessa di
amore eterno che i due amanti si scambiano, rimanendo lontani ma
sapendo che si aspetteranno in quel luogo, nello stesso luogo di
sempre. “Giuggiola” (ai cani), racconta di passione e di seduzione, di
lotta e di resa, di lingue e di avanzi dati ai cani. Questo meraviglioso
disco si conclude con: “Che giorno è?” in cui il tempo passa
nonostante tutto, con la consapevolezza che il proprio incedere
continuerà, che il proprio viaggio non si fermerà qua. Poi nel 2012 le
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LucaniArt
poesie e le musiche frutto delle performance fatte durante i tanti
festival e rassegne da parte di Canio Loguercio e del maestro Rocco
De Rosa vengono raccolte in un cd con un libro in allegato ed
intitolato “Amaro Ammore”. Questo disco parla di passione e di
dolore che stanno alla base di qualsiasi amore. Amore che rende
schiavi e che libera al contempo, che si ciba di anima e di corpo. In
“Amaro Ammore” le canzoni e le poesie d’amore sono il racconto
doloroso di chi vive questa passione, fatto di gioia e dolore, perché
l’amore intenso è una “sorta” di rinuncia a se stessi, un viaggio verso
la persona che si ama, un tentativo di colmare le nostre mancanze, il
nostro vuoto interiore. E’ di amore infelice che parlano con note e
parole in “Amaro Ammore”, Canio Loguercio ed il maestro Rocco De
Rosa e lo fanno suonando ed attingendo dalla tradizione folk
meridionale ma anche ad altri linguaggi musicali fra cui drum’n bass e
jazz. E’ un viaggio fra nostalgia e ricordi. La scelta della lingua
napoletana non è solo un omaggio alla tradizione, ma è anche un
tentativo di innovazione, infatti suoni e parole sono il frutto della
grande ricerca che Canio Loguercio ha fatto nel corso di tanti anni, in
compagnia di tanti altri artisti fra cui oltre a Rocco De Rosa
ricordiamo anche Maria Pia De Vito, Alessandro D’Alessandro e
tantissimi altri bravi musicisti ma anche poeti ed attori. La canzone che
più mi colpisce è “Cumpà” meraviglioso affresco sonoro con la
bellissima voce di Maria Pia De Vito e il piano del maestro Rocco De
Rosa, dedicata ad un amico che non c’è più. Metaforicamente lascio la
parola a lui, al “poeta musicale di ispirazione cosmopolita”, Canio
Loguercio con la certezza che il disco che è in uscita fra poco “Canti,
ballate e ipocondrie d'ammore” frutto della collaborazione di Canio
Loguercio con il fisarmonicista Alessandro D’Alessandro sarà
sicuramente un altro viaggio nelle viscere di questa passione che ci
accomuna e che riguarda ognuno di noi. Questo che segue è il testo
della bellissima “Cumpà”: “Cumpà, stasera a te pensavo e te pensavo
assai/ Sarrà stu cielo niro e stu sfaccimmo 'e viento, nu viento friddo 'e
tramontana / Int'a stu vierno traditore 'nce facimme viecchi e 'o tiempo
nun è 'ngannatore. / Te piglia e vola, vola, vola e se ne va/ st'auciello
vola e nun se ferma mai vola, vola, vola e se ne va / Cumpà, stu tiempo
vola e nun se ferma mai! / Arò fernesce 'o cielo e 'o mare i' me 'nce
perdo piglianno 'nfaccia acqua e fuoco e sabbia e viento, nu viento
comme na tempesta, int'a chist'uocchie luccicante c' 'o sale 'mocca e c'
'e mmane ca nun stregneno niente./ E vola, vola, vola e se ne va /
st'auciello vola e nun se ferma mai vola, vola, vola e se ne va / Cumpà,
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stu tiempo vola e nun se ferma mai! / Cumpà, stasera a te pensavo e te
pensavo assai. / Sarrà stu cielo niro e stu sfaccimmo 'e viento, nu
viento 'e terra, o viento 'e mare 'nt'a ste jurnate senza sole / Pascà, i' a
te pensavo e me chiagnevo 'o core. / E vola, vola, vola e se ne va /
st'auciello vola e nun se ferma mai vola, vola, vola e se ne va/ Cumpà,
stu tiempo vola e nun se ferma mai!”
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“O PATA PATA” DI MARIA PIA DE VITO
“‘O Pata Pata” la nuova Opera della Musicista napoletana Maria Pia
De Vito si apre con: “Strummolo a Tiriteppola”, un’immagine forte
che evoca questo gioco d’infanzia, questa trottola sbilanciata, un canto,
un monito , una sveglia, un rifiuto di molti luoghi comuni su Napoli,
un atto d’accusa contro chi vede tutto il malaffare e l’immondizia
fisica e morale e non fa niente per migliorare la situazione, un grido di
dolore contro la corruzione, un gesto d’amore nei confronti della
propria città, dei propri concittadini e delle proprie origini, un
proclama libertario prima che la trottola cada e smetta di girare e che
per l’ennesima volta Masaniello venga ammazzato o tradito e con lui
tutti i napoletani. Una brevissima divagazione terminologica: anche il
termine “scugnizzo”, così caro alla De Vito, deriva dal gioco dello
“Strummolo” e di chi lanciava la sua trottola più forte verso quella
degli altri di fatto “scugnandola” ossia rompendola! In questo continuo
rimando fra vocalità ludica e canzone sensata si approda a “G.
continua”, in cui Maria Pia De Vito mette in luce quella sua immensa
capacità timbrica, quel suo modo unico di canticchiare nenie e
frammenti, pezzi di parole e non sense, sillabe e note. Ebbene si! Quel
Suo modo peculiare di intendere la voce in quanto strumento. Poi
arriviamo a “A spusa riluttante” che è una bellissima canzone
d’amore, un gentile miscuglio di promesse non mantenute, di
dichiarazioni, di silenzi al posto di parole, come se appunto l’amore
non avesse bisogno solo di parole ma anche di silenzio e gesti gentili
per poter essere dichiarato. “Yucellla” è una dolcissima ballata giocata
fra ascolto ed incanto, una canzone di acqua e di vento, un
meraviglioso canto d’ amore, tradotto in napoletano dalla tradizione
brasiliana. Poi è l’ora di “Frevo en Maceiò” una canzone di Hermeto
Pascoal, dunque una cover ma in realtà tutto ciò che canta Maria Pia
DeVito, strana e magica alchimia, diventa sempre anche qualcos’altro,
un viaggio nel Canto e nella storia del bel Canto. “Curre Maria”, è un
altro tassello di questo: trittico dedicato a dei grandi ispiratori della
“nostra” grandissima artista, un altro omaggio a dei mostri sacri della
musica brasiliana e della musica mondiale del calibro di Vinicius de
Moraes e Antonio Carlos Jobim, ma anche credo di altri grandi
musicisti come Caetano Veloso e Milton Nascimiento. In particolare il
testo di “Curre Maria” è una traduzione del testo di Chico Buarque de
Hollanda: “Olha Maria”. Dopo questo trittico veniamo ripiombati in
questo: “Bello tiempo antico” in cui il cantato e il sovra inciso ossia
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voci sovrapposte si seguono e si inseguono in questo chiaro rimando
alla tradizione popolare partenopea e per estensione italiana. Poi è la
volta di: “Si fosse fatto foco” omaggio a Cecco Angiolieri in dialetto
napoletano e credo anche alla rilettura che ne fece il grande De Andrè.
Poi è la volta della canzone che da il titolo a tutto il disco, ossia “’O
Pata pata” che narra di questa zia Maria, alter ego della stessa Maria
Pia De Vito e per estensione emblema di tutte le persone oneste, che
abita a Terzigno e che vedendo crescere i limoni geneticamente
modificati a causa dell’inquinamento nella terra del “Lacrima Christi”
ossia uno dei vini più buoni di tutta la Campania e del mondo i cui
vitigni vengono dalle pendici del Vesuvio, prega affinché venga
appunto “’O Pata Pata”. Si! Ma che cos’è questo Pata Pata? Lascio la
parola direttamente a Lei, ossia all’autrice di quest’Opera d’Arte,
trascrivendo le parole che ci sono nella seconda pagina del cd: “A
Napoli, quando un acquazzone è ormai prossimo, le nubi sono basse e
l’aria inizia a profumare di terra umida, si dice in quella splendida
lingua onomatopeica e polposa, ritmica e croccante che è il
napoletano che «sta arrivanno ‘o pata pata ‘e ll’acqua». ‘O pata pata
è un auspicio perché le nuvole scure, basse e gonfie si aprano e un
bagno liberatorio e purificatore liberi Napoli dai miasmi
dell’immondizia e dall’indifferenza generale che la vuole brutta,
sporca e cattiva. Dedico questo lavoro alla gente di Terzigno, di
Napoli e del Casertano e alle terre avvelenate dall’incuria umana.
Terre su cui oggi crescono limoni deformi. Lo dedico alla gente del
Brasile che, come diceva Caetano Veloso, tanto somiglia a quella di
Napoli: entrambe impertinenti, come chi ne ha viste tante, troppe. Che
venga l’acquazzone a ripulire queste terre, che venga ‘o pata pata a
ripulirci il cuore, a emendarci la reputazione e a salvare la vita dei
nostri figli. Musicalmente, impertinentemente, napoletanamente
vostra. Maria Pia De Vito”. Il disco si conclude con altre tre canzoni:
“Curiosity Theatreans” sorta di omaggio alla libera curiosità, e al
coraggio di sperimentare nuove vie vocali, “La nova gelosia” omaggio
alla poesia di Roberto Murolo e di Fabrizio De Andrè ed infine “Um a
zero”.
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Nota biobigliografica
Mariano Lizzadro è nato a Potenza. Ha esordito nel 1999 con la sua
prima raccolta poetica: “Frammenti di viaggio” Ed. Appia 2 Venosa.
Nel 2003 ha vinto il premio letterario “Parola di donna” con la raccolta
“Parole contro” Ed. Quaderni di Scriptavolant. Successivamente ha
pubblicato “Parlano parole” Ed. Besa. Grande appassionato di musica
ha scritto numerosi articoli per LucaniArt, di cui è collaboratore.
Mariano Lizzadro
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Sommario
Presentazione ………………………………………………..
6
Nota dell’autore …………………………………….................
8
Ascolti italiani
Canzoni da spiaggia deturpata …………………………………
Le alchimie musicali e poetiche di Dente …………….………..
Canti e controcanti di Alessio Lega……………………………
Fra realtà surrealtà ed oniricità: le canzoni di Ettore Giuradei…
Gli schiaffi in faccia di Germano Bonaveri ……………………
L’innovativo recupero degli Ardecord ………………………...
“Al bar della rabbia”: la musica e le storie di A. Mannarino ….
“Per amor del cielo”: la poesia di Bobo Rondelli…………..….
I Gatti Mezzi …………………………………………………...
La musica dei Roma Amor …………………………………….
Elia Biloni alias Dino Fumaretto ………………………………
La musica de Il Pan del Diavolo ………………………………
La musica degli Eva Mon Amour ……………………………..
Il “Chupadero!” della Barnetti Bros Band……………………..
Gastone Pietrucci e la Macina …………………………………
Le ballate di Massimo Bubola …………………………………
La musica dei Sulutumana …………………………………….
“Nomi, cose, chissà” di Valerio Zito …………………………..
La Basilicata nella musica di Pietro Basentini…………………
“Mainstream” di Calcutta ……………………………………...
Non trovo le parole di Maldestro ……………………………...
“Il viandante solitario” di Marco Ielpo………………………....
“Verso il nuovo regno” di Gabriele Russillo ………………......
Il viaggio nel blus di Andrea Giannoni ………………………..
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Ascolti dal mondo
Dolore e creatività nella musica di Bill Evans ………………...
Il genio sconfinato di Lennie Tristano …………….…………..
“King of Blue” di Miles Davis…………………………………
La genialità nell’opera artistica di Thelonious Monk…………..
Le origini della musica popolare brasiliana: Lo Choro ………..
I principali esponenti dello Choro ………………………..........
La musica di Moongog ………………………………………...
L’opera musicale di Diamanda Galas…………..…………...…
L’opera musicale di Meredith Monk …………………………..
La musica di Jiri Stevens ………………………………………
“Mare nostrum” di Galliano, Fresu, Lundgren ………………...
Le parole, la musica in Canio Loguercio ……………………...
“O Pata Pata” di Maria Pia De Vito …………………………...
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LucaniArt
Un atto culturale libero rappresenta in questo momento un atto politico
Finito di stampare nel mese di luglio 2016
per conto dell’Associazione Culturale LucaniArt
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