Mariano Lizzadro sguardi e ascolti dal mondo appunti musicali di Mariano Lizzadro LucaniArt LucaniArt QUADERNO 3 SGUARDI E ASCOLTI DAL MONDO _____________________________________________ Appunti musicali Associazione Culturale LucaniArt Onlus 2 LucaniArt I QUADERNI DI LUCANIART (numero 3) a cura dell’Associazione Culturale LucaniArt ONLUS via Mezzana Salice, 278 85030 San Severino Lucano (PZ) C.F. 91007300766 [email protected] http://lucaniart.wordpress.com/ Foto interne e di copertina, artisti vari dal web © Copyright 2016 LucaniArtTutti i diritti riservati – Printed in Italy 3 LucaniArt La musica è l’arte per un mondo migliore. La musica è l'esempio unico di ciò che si sarebbe potuto dire, se non ci fosse stata l'invenzione del linguaggio, la formazione delle parole, l'analisi delle idee, la comunicazione delle anime. (Marcel Proust) 4 LucaniArt Maria Pia De Vito 5 LucaniArt Nota introduttiva A che cosa faccia appello la musica in noi è difficile sapere; è certo però che tocca una zona così profonda che la follia stessa non riesce a penetrarvi. (E.M Cioran) Queste piccole note di Mariano Lizzadro sulla musica, mi hanno sempre richiamato alla mente la strada. La strada come luogo di passaggio e di incontro. E lungo questa strada ho immaginato il viaggio dell’uomo che non sta fermo, ma si muove, cammina, conosce, si contamina e si porta a casa cose nuove e inesplorate. Il viaggio di Mariano Lizzadro nel mondo della musica è tutto questo. Passione, voglia di conoscere e di conoscersi, ma soprattutto necessità di condividere. Ecco perché nel 2007 è nata questa rubrica, che ospita ad oggi circa 40 note o attraversamenti musicali, in cui l’autore e collaboratore di LucaniArt, ci fa dono delle sue scoperte e dei suoi gusti musicali. E lo fa ascoltando senza pregiudizi musica più locale (come i lucani Pietro Basentini, Valerio Zito e Marco Ielpo), musica regionale (penso alla napoletana Maria Pia De Vito) e internazionale, che varca i confini dell’Italia per raggiungere le sonorità europee, americane, brasiliane. Senza mai dare nulla per scontato, senza allinearsi alle mode e ai tempi; spesso scavando ai margini, spesso inerpicandosi in luoghi inesplorati del panorama musicale, portando alla luce cantanti e musicisti bravi e di talento, talvolta ancora semisconosciuti al grande pubblico, ma che meritano ascolto e attenzione. Per scelta dell’autore, l’antologia si divide in due parti, la prima raccoglie gli articoli con riferimento agli ascolti italiani, la seconda con riferimento agli ascolti del mondo. Concludo augurando una buona lettura a musicisti, appassionati di musica, lettori curiosi, perché questo libro è per tutti, un viaggio coinvolgente e appassionato alla scoperta di parole, suoni, ritmi musicali “altri e diversi”. Senza mode, senza pose, senza pregiudizi. Maria Pina Ciancio 6 LucaniArt Ecco in ordine di pubblicazione gli autori recensiti presenti nell’antologia. Ascolti italiani: Le luci della centrale elettrica Dente Alessio Lega Ettore Giuradei Germano Bonaveri Ardecore Alessandro Mannarino Bobo Rondelli Gatti Mèzzi Roma Amor Elia Biloni Pan del Diavolo Eva Mon Amour Barnetti Bros Band Gastone Pietrucci e La Macina Massimo Bubola Sulutumana Valerio Zito Pietro Basentini Calcutta Maldestro Marco Ielpo Gabriele Russillo Andrea Giannoni Ascolti dal mondo: Bill Evans Lennie Tristano “Kind of Blues” di Miles Davis Thelonious Monk Le origini della musica popolare Brasiliana: lo Choro Moondog Diamanda Galás Meredith Monk Jiri Stivin “Mare Nostrum” di Richard Galliano, Paolo Fresu e Jan Lundgren Le parole e la musica di Canio Loguercio “O Pata Pata” di Maria Pia De Vito 7 LucaniArt Questo piccolo libro raccoglie tutti gli articoli di musica che ho scritto a partire dal 2007 per la rubrica “Sguardi e ascolti dal mondo” per il Magazine LucaniArt. Nella prima parte sono articoli di musica italiana inerenti soprattutto quella nuova generazione di musicisti e di gruppi musicali nata in Italia durante gli anni ’70 e gli anni ’80 e non solo. C’è poi una seconda parte, dedicata per lo più a figure storiche del jazz ed altre cose. Un piccolo diario, su cui in questi ultimi dieci anni ho appuntato una parte di quello che mi ha colpito, che mi è piaciuto a livello musicale, senza nessuna pretesa. Mariano Lizzadro 8 LucaniArt ASCOLTI ITALIANI 9 LucaniArt CANZONI DA SPIAGGIA DETURPATA Le luci della centrale elettrica è il nome del progetto musicale del cantautore ferrarese Vasco Brondi che esordisce nel 2007 con un demo autoprodotto dal titolo omonimo, fortemente influenzato dai lavori di Rino Gaetano e dei CCCP Fedeli alla linea. Nel maggio 2008 ha poi pubblicato il suo album d'esordio album “Canzoni da spiaggia deturpata”, prodotto da Giorgio Canali, che riprende alcune canzoni del precedente lavoro. Il disco ha ricevuto un ottimo riscontro di pubblico e critica, vincendo anche la Targa Tenco 2008 come Miglior Opera Prima per nuovi cantautori. Le Luci Della Centrale Elettrica, cioè Vasco Brondi da Ferrara, nemmeno venticinque anni è uno in grado di urlarci in faccia il tempo devastato in cui viviamo, con quella rabbia e dolcezza che solo chi viene dal basso, dalla provincia ed ha un talento smisurato si può permettere. La sua uscita pubblica era molto attesa, infatti questo progetto è un qualcosa che lo si aspettava da tempo, da troppo tempo, ripiegati su noi stessi a sentir canzoncine senza spina dorsale, senza intensità senza rabbia. Impegnati a guardarci allo specchio, impregnati e pieni di noi stessi quasi dimentichi che esiste ancora un mondo intorno, fuori vicino e distante al contempo. Una sorpresa per tutti, come se qualcuno avesse preso l'Italiano e l'avesse reinventato dall'inizio alla fine per rendercelo più attuale e vivo: il modo di scrivere di “Le Luci della centrale elettrica” è vivido e nuovo. Ci racconta il quotidiano con la lingua dell'oggi, cioè "parla come mangi e se non mangi è perché il frigorifero è eternamente vuoto, perché nemmeno uno straccio di lavoro precario sottopagato ti permette una vita che sia al di sopra del livello della sopravvivenza, allora o stai zitto o parlerai ed urlerai così”. E questo "Canzoni da spiaggia deturpata" diventa così una personale raccolta di inni, una “sorta” di leit motiv da scandire quotidianamente quasi come a voler esorcizzare questo nuovo ma sempiterno male di vivere, perché comunque la bellezza si nasconde anche dove non l'aspetti, perché “l'amore respira nelle stanze di appartamenti subaffittati e ha gli occhi chiari e ha capelli che sono come fili scoperti”, parafrasando lo stesso Brondi. E' bellissimo e straziante e commovente questo disco. E' forse ancora più bello perché dopo tanta attesa non solo conferma le aspettative ma le supera. Infatti dopo un demo ruvido e urlato e quasi inascoltabile per la maggior parte delle persone "normali", finalmente quelle stesse canzoni trovano forma e compimento nella produzione perfetta di Giorgio Canali che ne affila gli spigoli e ne pulisce 10 LucaniArt l'irruenza, il rumore di fondo ma lasciandone intatto l'ardore ne amplifica la forza d'urto. Il risultato è dirompente: un disco immaginifico e potentissimo. Dieci canzoni come dieci bombe Molotov lanciate contro la melassa annichilente di un Paese disastrato, contro la noia e la morte del vivere quotidiano in una società sconfitta dal dio denaro e dalla brama di potere. Immagini e metafore come se piovessero. Poesia urbana. Un bacio ad occhi aperti in mezzo ai lacrimogeni. Una dichiarazione d'amore sul letto di morte alla Canzone Italiana. Questo disco non è roba facile e non è nemmeno rivoluzione: però è un ottimo disco d'esordio, un buon punto di partenza. I testi che gridano urgenza, verità ed onestà. Un’urgenza che, senza mezzi termini, fa male e lascia annichiliti, questi testi cantati con una voce capace di toccare le corde più nascoste dell’anima e che mettono sotto i riflettori tematiche a cui non si vuole pensare, di cui non si vorrebbe sapere. Parole che in alcuni momenti sembrano un flusso di coscienza, ma che in altri sono assolutamente prive di significato, ma che riescono sempre a colpire nel segno, tra giochi di parole e parole gridate al vento. Come nella splendida “Sere Feriali”: “… Perché non ci siamo mai rincorsi come nei film melodrammatici di merda invece dei dormitori per tossici, delle sere feriali a verniciare treni infermi sotto gli alberi stempiati lungo i viali trafficati per sorprenderti …” o come quando si invidiano le ciminiere in “Per Combattere L’Acne”, “perché hanno sempre da fumare”. I testi delle canzoni e lo stile del canto sono influenzati da Rino Gaetano, che viene citato esplicitamente nella conclusiva “Nei Garage A Milano Nord”, e Giovanni Lindo Ferretti, che viene citato con i suoi CCCP ne “La gigantesca scritta COOP”. Le musiche sono basate principalmente su semplici accordi di chitarra acustica inframmezzati da riff semplici con poche concessioni a ritornelli orecchiabili. La copertina è opera del fumettista Gipi. Questo disco è molto bello. Ed ecco la formazione musicale, questo terzetto delle meraviglie: Vasco Brondi: voce, chitarra ed effetti; Giorgio Canali: chitarra elettrica e basso acustico ed infine Max Stirner: organo in “Per Combattere L’Acne” e “Sere Feriali”. 11 LucaniArt LE ALCHIMIE MUSICALI E POETICHE DI DENTE Ti ti ti ri ti ti ti ci ri ci ri pa pa pa la la la fi fi fi ci ri ci ri pa na na na la la la la la la. Le canzoni di Dente sono come piccoli scrigni, una volta aperti fanno sfoggio del loro prezioso contenuto: storie ed immagini che trasportano l'ascoltatore nel mondo di un artista stravagante, piccolo alchimista compositore di melodie e poesie. La sua musica è uno stile acustico che col suono di una chitarra sposato talvolta a percussioni ed elementi elettronici da voce alla vita di tutti i giorni, in maniera del tutto irregolare però ai noti e consolidati modi di far musica oggi in Italia. Le canzoni di Dente sono intrise di una poesia malinconica ed intimista, sono melodie orecchiabili e belle. "Non c'è due senza te" è un disco da ascoltare in silenzio per poterne assaporare a pieno il valore artistico. Si rimane con gli occhi larghi di stupore e il cuore leggero di gioia e pieni di incredulità, quasi come a ricordarsi all'improvviso che dopotutto ci sono ancora tanti pezzi stupendi da scrivere e ascoltare, canzoni semplici e sincere, limpide armonie costruite solo con voce e chitarra. Dente miscela magicamente testi evocativi e ironici, con un carattere musicale che pur essendo assolutamente originale e caratteristico è quello che si potrebbe tranquillamente definire, sempre per quello che valgono le classificazioni o le etichette, come una naturale continuazione della canzone tradizionale italiana. Alcune canzoni ricordano il suono di una chitarra in una giornata di pioggia. Dente racconta storie di viaggi in macchina, di lunghi baci. La dimensione del ricordo che ritorna spesso nelle sue canzoni avvolge molte melodie e si confonde con l'afa e l'amaro in bocca di un doloroso tradimento forse ancora non superato. "Io per lei ho fatto finta di non capire come mi abbia spezzato le costole quando mi ha abbracciato a metà, mi dico "vedi?" cambiano in fretta le regole, i tempi, gli sguardi e l'umore. Ma io per lei ho fatto un trapianto di cuore". La voce delicata di Dente che a volte sembra il bisbiglio di una persona rassegnata ma con dignità pare esprimere frasi amare, ferite ancora aperte e squarci nel cuore che questo musicista esorcizza col suono della sua chitarra. Come un auto cura, Dente, rimargina le ferite e asciuga le lacrime con melodie che sono dei balsami profumati. E la malinconia e il bruciore del ricordo apparentemente sembrano mutare. Insomma un piccolo alchimista, una “sorta” di mago, un distillatore di poesia in musica. Ed è così che le canzoni che raccontano di tradimenti dell'amata sono paradossalmente le più allegre e riuscirebbero a strappare un sorriso a chiunque. Merito 12 LucaniArt anche dei testi fatti di una semplicità violenta e disarmante e densi di ironia. Con crudele delicatezza e disillusione, le canzoni di Dente sono come le sorprese ben riuscite, quelle che sgrani gli occhi e fai un sospiro grosso così. “Sono come i baci che un giorno sovra pensiero ti ho dato e non mi sono ancora ripreso, sono come gli abbracci lasciati lì a metà, tra lo stare e l'andare, che non si capisce, quando sei tra il ridere e il piangere, e forse stai per fare tutte e due le cose insieme o forse no”. Dente vola e scivola sulla vita senza attrito, sorprendendosi e sorprendendoci con un tocco, una cadenza ed un passo che forse solo gli individui irregolari e geniali possono avere. “L’amore non è bello” l’ultimo lavoro di Dente uscito proprio nel giorno di San Valentino del 2009 è una tavolozza dai colori tenui, primaverili canzoni semplici, motivi orecchiabili. Si sente forte l’ombra di un moderno cantastorie che parla di amore e di quotidianità col tocco leggero e di un angelo. E’ un disco che a tratti strizza l’occhio a certi ritmi sudamericani, ad esempio la Bossanova, ma che si apre anche ad altre sonorità .Questo disco con uno stile semplice, esprime un sacco di piccole verità, che appartengono al viver quotidiano. Le mie dita seguono il ritmo di questo disco e per una volta mi sento un piccolo compositore anch’io! Mancano però i ci ri ci ri pi ri pi ri di “Non c’è due senza te”, ma questo credo sia una scelta, una evoluzione stilistica. Ecco però d’improvviso, musica e testo, piombare giù nel suo stile, quello che conosco e riconosco, parlando di baci dati al pavimento. Ma sta parlando di se stesso oppure di qualcun altro? Comunque il gioco regge lo stesso e poi credo che la Sua musica non abbia pretese intellettuali, nel senso di musica impegnata. D’altronde cos’è la musica se non anche trasmettere emozioni e sensazioni? Questo disco mi pare un piccolo omaggio alla poetica di Battisti filtrata da una straordinaria sensibilità, che approda ad altri lidi. Autoironico e surreale, Dente riesce a dipingere emozioni quotidiane grazie a testi originali e per nulla scontati, con questa raccolta di canzoni autobiografiche in cui c’è “la gioia dell'amore e la perdita di questa gioia e la perdita della fiducia stessa nell'amore, vista come una sorta di liberazione”, parafrasando lo stesso Dente. Un disco in apparenza naif, fischiettato e fischiettabile così quasi senza che uno se ne accorga, con la svagatezza romantica che solo i poeti e i sognatori riescono a trasmettere. Dente inanella con disarmante facilità d’ascolto tredici perle di inebriante malinconia, ineffabili schegge di genialità e follia, musicando l’amore. Piccoli frammenti, suoni e parole, in grado di evocare fotografie relative alla perdita di un amore, del proprio amore con giochi di 13 LucaniArt parole per nulla banali. Insomma un disco che si svela e si rivela non fin dal primo ascolto, ma le cui canzoni appunto fioriscono un po’ alla volta come gemme in primavera. “L’Amore non è bello” è un album che ha la sua forza nella semplicità, senza per questo essere banale. Bello, lento, dolce, gradevole, flebile: ecco gli aggettivi che di primo acchitto mi vengono in mente ascoltandolo. E già, perché ascoltandolo e riascoltandolo, ci si accorge che questo disco non è per nulla scontato, ma è un'opera precisa e recisa, che intende sottolineare in maniera esplicita la presa di distanze dalla solita retorica cuore/amore, trattando i temi amorosi in modo tutt'altro che mieloso, analizzando rapporti esauriti e narrando dell'amore soprattutto gli aspetti meno prosaici e forse per questo più autentici. Con uno spirito giocoso ma mai troppo autoreferenziale con dei testi dotati del pregio di non prendersi troppo sul serio, Dente dimostra di sapersi destreggiare con abilità nella scrittura di canzoni melodiche ed impreziosite da un ricco impianto strumentale, pianoforte chitarra e tutta una sezione di fiati. E’ un album estremamente curato fatto di canzoni d’amore al contrario e narrazioni divertite dall’aria malinconica ma mai seriosa, composte da una persona innamorata. Un disco sull’amore da masticare e digerire fin dall’ebbrezza e la devozione dell’inizio, la rabbia e la delusione della fine e tutte le sfumature possibili nel mezzo. Il tutto fatto con una serietà impressionante, affilata e tagliente. Una meta riflessione sull’amore e su tutto ciò che genera a partire dalla illusione per arrivare fino alla delusione passando attraverso quasi tutte le sfumature intermedie. 14 LucaniArt CANTI E CONTROCANTI DI ALESSIO LEGA Tempo fa ebbi modo di ascoltare una canzone che mi colpì molto: “Vigliacca!” di Alessio Lega. Allora mi sono informato su chi fosse, poi ho iniziato ad ascoltare dapprima “Resistenza e amore” il suo primo disco e poi pian piano tutti gli altri suoi lavori. Alessio Lega è un cantautore che gira lontano dal mercato, preferisce esibirsi nei centri sociali, in piccoli circoli culturali, nei palchi e sui soppalchi coniugando canzoni della tradizione musicale - teatrale con venature esistenziali, toccando a volte il tema dell’amore ma esprimendo soprattutto temi sociali. La sua musica, le sue canzoni hanno la forza tipica della canzone impegnata d’autore: fondono personale e politico, umore e passione nella poesia cantata. Le canzoni di Alessio Lega sono un percorso personale nella piccola storia d’ogni giorno, una strada con dei lampioni per illuminare il buio dei rapporti con se stessi e con l’amore, fino a parlare di donne libere come oasi nel deserto che scelgono la propria vita a dispetto di ogni morale. Ma se i temi sono noti la sua novità è nell’impasto fra suoni e parole, libero dagli stereotipi musicali. Parole e musica di Alessio Lega si fondono in una totale libertà espressiva che può andare da alcune ouverture ariose ad altre canzoni quasi da cabaret. Riff elettronici e semplici accordi di chitarra classica si alternano e si fondono dando come risultato una voce che esce quasi dagli schemi del tempo e dello spazio. Una musica che può ricordare qualcosa di atavico e passato. O di interiore e rivoluzionario, dato che “l’amore è una forma di rivolta, e che la rivolta è una forma d’amore”, citando lo stesso Lega. Un artista che considera la parola musica e che considera la canzone come un genere più teatrale che discografico, la cui vera creazione non è né la scrittura né l’incisione, ma l’esecuzione. Oppure sempre citando lo stesso Lega: "Le poesie non sono solo belle, sono ri-belle. La magia della musica interna alle parole, che è il nodo cruciale della poesia, è una vera arma per cambiare il mondo. La poesia – e l’umanesimo in genere - è la più grande nemica della nostra società divistica e spettacolare. Si dice che la poesia è difficile perché nel nostro mondo si ha più paura dell’irrazionale che del tecnologico, dell’amore più che del sesso, della rivoluzione più che della guerra. Si dice che la poesia è un prodotto fallimentare, nel senso che non è commercializzabile. In compenso tutti scrivono poesia: a me questa pare una vittoria grandiosa, sogno un mondo in cui non ci siano artisti e pubblico, ma solamente uomini, ognuno con le proprie cose da dire. La poesia è 15 LucaniArt l’arte che più di ogni altra si avvicina già ora a questo”. Alessio Lega è nato a Lecce il 26 settembre del 1972 Ha iniziato a scrivere canzoni fin dal 1985. Fumettista, anarchico e poeta ha pubblicato anche alcuni libri oltre che dischi. Ho ascoltato quattro suoi dischi: “Resistenza ed amore”, “Sotto il pavè la pioggia”, “E ti chiamaron matta” ed infine “Compagnia cantante”. Diversi l’uno dall’altro, ma belli e densi di poesia, di uno sguardo che va oltre, anarchia musica e parole fuse in questi suoi canti controcanti! 16 LucaniArt FRA REALTA’ SURREALTA’ ED ONIRICITA’: LE CANZONI DI ETTORE GIURADEI “In questi anni ho avuto la fortuna di conoscere persone coraggiose e veramente libere senza le quali probabilmente non sarei riuscito a fare niente.” Ettore Giuradei Mi ha colpito molto un disco che ho ascoltato recentemente: “Era che così” di Ettore Giuradei. Dopo gli ottimi riscontri, specialmente da parte della critica, ottenuti dal suo album d’esordio “Panciastorie”, questo giovanissimo cantautore le cui canzoni fra folk e rock, miscelano elettricità ed acustico, poesia ed ironia, ha pubblicato recentemente un disco che mi ha colpito molto e che trovo davvero molto bello, appunto “Era che così” . Cantastorie in chiave musicale e teatrale, surreale ed onirico: Ettore Giuradei pare dar vita al suo universo, un immaginario istintivo e straripante, tra filastrocche e poesie, che ricordano un Vinicio Capossela che scherza con Paolo Rossi e ballate al piano, nelle quale rock, folk e canzone d’autore si fondono con parole paradossali, ma agganciate alla realtà. Canzoni che appaiono come sospese, poesie oniriche, contrappuntate dal suono di un violino e stralunate in cui pare di ascoltare una “sorta” di Tom Waits che canta un valzer! Questo disco, mezz’ora o poco più di fotografie sbiadite, in grado di evocare amori osservati con la lente obliqua dell’ironia o canzoni dai contenuti sociali o vere e proprie poesie, ed a questo riguardo come non commuoversi dinanzi alla poesia musicata di “Pasolini”? Autore dalla vena surreale, nella quale teatro e letteratura scompaginano e si amalgamano alla meglio per un viaggio onirico tra dolci ballate, rumori violenti, fiabe cantate, in cui emerge un linguaggio continuamente spiazzante. Ettore Giuradei canta di cantine e di sbronze ma anche di fiorellini di stelle e di mucche, di culi sudati sulla lavatrice, mentre fa le boccacce a chi lo riprende, salutando chi viene e chi va, staccando le luci della corrente per ammantarsi di oscurità e nell’oblio. Le sue canzoni sono degli intrecci di parole e musica in grado di creare situazioni sospese, intime ma sempre legate ad una realtà che non viene mai tralasciata. Racconti che si snodano attraverso un linguaggio originale, un calderone di emozioni che trascina, lunare magico clownesco, in altre realtà, mediante dei testi che, per stessa ammissione dell’autore, “risultano volutamente criptici e surreali”, quasi l’autore stesso volesse prendere le distanze, con gli strumenti della metafora e della trasfigurazione 17 LucaniArt immaginifica, da situazioni non sempre piacevoli forse vissute in prima persona. Ettore Giuradei è nato il 30 marzo 1981 a Brescia, nel 1998 inizia a scrivere canzoni. Dal 2001 lavora come attore per la compagnia “Teatro Distratto” con la quale mette in scena diversi spettacoli di Teatro Comico. Nel 2004 inizia a lavorare, con il fratello Marco Giuradei, grosso talento al piano, sugli arrangiamenti delle canzoni che finiranno nel primo disco "Panciastorie" che è uscito nel 2006. Mentre è del 2008 il meraviglioso “Era che così”. Ettore Giuradei 18 LucaniArt GLI SCHIAFFI IN FACCIA DI GERMANO BONAVERI Un po’ di tempo fa, nei miei vagabondaggi musicali, mi sono imbattuto credo in una raccolta di Germano Bonaveri e i Resto Mancha. La ascoltai, mi colpì molto e la lasciai, metaforicamente a fermentare pensando che come il mosto avrei dovuto aspettare che diventasse buon vino. Ho aperto la cantina, l’ho assaggiato e quella che era stata solo un’impressione si è trasformata in una certezza. Dal mosto è fuoriuscito dell’ottimo vino! Ma dopo aver degustato, passiamo ad un’analisi un po’ più approfondita del sapore, del gusto, del contenuto di questo vino, onde evitare che poi alla fine ci si ubriachi di solo odore! Leader del gruppo "Resto Mancha", Germano Bonaveri, emiliano doc esordisce nel 2007 come solista con un album dalle forte tematiche sociali “Magnifico”, tra brani dal sapore etno folk molto ritmati e venature jazz con virate dal tocco cantautoriale che si alzano potenti e forti in versi come: "Sarà che un telegiornale/non può convincermi fino in fondo/e ormai ci sembra normale/qualunque guerra di questo mondo/", oppure "Sarà che un' altra umanità/altrove ha fame davvero/e noi facciamo la guerra/per un fottuto barile di oro nero". Le canzoni di Bonaveri parlano di influenza della televisione e della politica sulle nostre vite, invitandoci a rompere gli schemi, da un lato cercando di riconoscere le diversità o le differenze, da un altro lato invitandoci alla partecipazione. Canzoni di resistenza dunque, perché esprimono una volontà di non adeguarsi ai parametri comuni di un vivere veloce. leggero ed alla moda (fast, easy, trendy!) e che si ergono contro i filosofi all'acqua di rose, contro gli opinionisti presenzialisti, contro gli psicologi pressappochisti, contro appunto quel pensiero comune che ha bisogno di capri espiatori su cui puntare il dito per alleggerire la propria coscienza, per sentirsi amati ed amabili, rispettati e rispettabili. Canzoni nate per comunicare, per inviare messaggi diretti e precisi. “E' un album di indignazione, mi sono ispirato al quotidiano ma anche alla lettura e alla poesia, una denuncia dell'uso della comunicazione da parte del potere in modo distorto, dedicato all'informazione e da come ci viene dipinto un mondo che in realtà non esiste, in cui non cerco di dare delle risposte ma voglio invece sollevare delle domande, soprattutto in un mondo dove la piazza ha smesso di esistere, e al suo posto adesso c'è Internet”, come afferma lo stesso Bonaveri. “Magnifico” è un album che cavalca la lirica e l'invettiva, che getta uno sguardo anarchico su sentimenti e disagio sociale. Con l'accortezza di non offrire mai 19 LucaniArt risposte, come se uno ti spegnesse in faccia una sigaretta accesa per poi lasciarti ad elaborare il dolore che nasce dalla coscienza di aver ascoltato queste canzoni, poesia e musica, che suonano come sonori ceffoni in faccia”. Stringendo l’occhio a Gaber, Fossati e a De Andrè, Bonaveri spazia sul senso meraviglioso della vita che è tale comunque si viva ma scagliandosi in modo diretto contro le ingiustizie e i disagi. Infatti afferma lo stesso autore: "questo disco è un'invettiva contro l'uso/abuso dell'informazione da parte del potere, con la complicità di una certa categoria di intellettuali sempre ben disposti a giustificare o condannare secondo le convenienze e le mode del momento ma anche un’opera magnifica come una musica improvvisata, come una foto nata sfocata, come una lirica leopardiana, come la vita che è proprio puttana”. Magnifico” è il titolo del disco che segna il debutto solista di Germano Bonaveri nel 2007, leader dei Resto Mancha con i quali ha pubblicato nel 2005 l’album “Scivola via”. Le canzoni di Germano Bonaveri suonano come sonori schiaffi in faccia! 20 LucaniArt L’INNOVATIVO RECUPERO DEGLI ARDECORE Gli Ardecore attingono alla melma del Tevere, alle paludi fangose, canzoni che parlano di morti strazianti, di coltelli, di malattie e annegamenti, ma anche di carcere e di amore. In effetti si tratta di un progetto trans culturale: ripescare la tradizione degli stornelli Romaneschi, storie d'amore e di coltelli, di popolane sanguigne e figli di buona donna, per ridare voce metaforicamente a quel patrimonio senza tradirne lo spirito, ma attualizzandolo con arrangiamenti moderni. Dietro questo progetto musicale c’è l'idea di un'operazione di archeologia ed etnologia musicale: riportare alla luce brani, ballate di vita e di morte, che tratteggiano una Roma a tinte fosche, vicina all'immaginario Pasoliniano dei "Ragazzi di vita", che parla il gergo universale delle vite al margine, del loro carico di miseria e disperazione. Il progetto Ardecore nasce dall'incontro artistico tra la band degli Zu, il cantautore blues Giampaolo Felici ed il chitarrista americano Geoff Farina, dei Karate. L'idea della collaborazione nasce nel 2002 durante il tour europeo che i Karate fecero appunto con Zu e Blind Loving Power ossia il gruppo di Gianpaolo Felici. Ogni concerto veniva aperto e chiuso con vecchi stornelli romani. L'intento iniziale del gruppo musicale era quello di rielaborare in chiave moderna le canzoni appartenenti alla tradizione popolare romanesca, rispettandone l'ossatura e le particolarità stilistiche. Da qui' la nascita del primo album omonimo "Ardecore" pubblicato nel 2005. Il filo conduttore delle nove canzoni che compongono l'album è l'ispirazione al lato più oscuro e drammatico della tradizione popolare romana. Le tematiche principali sono l'amore, nel suo aspetto più tragico cioè morte e tradimento, le insidie del Tevere ed il carcere. In particolare questo disco è diviso in tre parti, come nella tradizione dei cantastorie o come un trittico pittorico. Nella prima l'ambientazione è quella delle carceri e del malaffare, del dramma, della vendetta e di una religiosità a sfondo pagano. La seconda è dominata dalla morte, che scorre sulle acque del Tevere. La terza parte è dedicata all’amore e in particolare alla "serenata", nucleo melodico della canzone romana. Sonorità folk blues pervadono l'iniziale "Come te posso ama' ", lamento di un prigioniero politico per l'amata e per la libertà perduta. "Madonna dell'Unione" e "Madonna dell'Angeli" sono due invocazioni dell'aiuto divino. La prima tratteggia una scenata di gelosia e di tradimenti. La seconda è la parabola straziante di un uomo che perde la sua bella e il figlio e supplica il cielo di restituirglieli: una magnifica folk-song di 21 LucaniArt oltre sette minuti, tra stacchi di fiati, contrappunti di fisarmonica e una coda free. Nel secondo capitolo entra in scena il Tevere, divinità pagana e altare di vite a perdere, come quella del "Lupo de fiume" che segue il destino del "… pupo verso la corente un tonfo, in fonno e poi nulla più …" o del classicissimo "Barcarolo Romano", qui suonato in una “sorta” di blues balcanico. E pare quasi di vedere una Madonna pasoliniana nell'eroica "Popolana" che salva i pupi dalle acque del fiume. A chiudere l'album, tre serenate ed un sonetto: "L'eco der core", Il "Fiore de gioventù" un vecchio tango che sboccia in un folk blues al rallentatore, la “Serenata de paradiso" ed infine appunto un sonetto del XIII secolo. Nel 2007 è uscito il loro secondo disco, “Chimera” composto di canzoni originali, oltre a nuove reinterpretazioni di vecchi brani della tradizione musicale italiana. Il progetto diventa in questo secondo disco più ampio nelle collaborazioni, dando spazio, oltre che ai componenti presenti nel primo album, a musicisti e strumenti "nuovi" che rendono questo secondo lavoro molto più versatile e ricco nei contenuti e nelle sonorità. Il carattere acustico del primo disco è ampliato da sonorità elettriche che non allontanano il gruppo da quei temi che avevano in precedenza acceso una forte attenzione sulla loro musica. La presenza in molti brani di sezioni di fiati ed archi allarga ulteriormente gli orizzonti sonori di questo nuovo album. “Chimera” è composto da dieci canzoni che partendo dal folk nostrano e attraversando una vasta serie di generi contemporanei che vanno dal blues al jazz dei primordi, arrivano a toccare sonorità che precorrono i tempi, con un gusto del tutto originale e personale. 22 LucaniArt “AL BAR DELLA RABBIA”: LA MUSICA E LE STORIE DI ALESSANDRO MANNARINO Alessandro Mannarino con la sua chitarra, da moderno cantastorie, canta il suo strampalato mondo in questo suo primo disco: “Al bar della rabbia”, palcoscenico di una Roma massacrata i cui protagonisti sono immigrati che dondolano su impalcature barboni e pagliacci, Mannarino da voce a tutta quest’umanità indigente. E’ la stessa gente raccontata in alcuni film di Pasolini o di Fellini. Un mondo sommerso e dimenticato dalla gente per bene. Un universo ai limiti della cosiddetta società civile: pagliacci ubriachi e folli che cantano amore, immigrati che abitano baraccopoli incrostate di fumo, barboni che trovano città immaginarie in fondo al mare e girovaghi che cercano la propria identità. Ed allora tutta questa ciurma di reietti e di ribelli indigenti ecco che, magia dell’arte, trova finalmente voce e spazio in questo Bar della rabbia, luogo immaginario e reale al contempo, grazie a Mannarino funambolo di parole ed artista di strada. Il Bar della rabbia, terra di confine tra quotidianità e fantasia, diviene così un luogo metaforico ma reale in cui questi esiliati ritrovano la loro voce e la loro profonda umanità. Alessandro Mannarino è nato a Roma nel 1979 ed ha iniziato la sua attività artistica nel 2001, quando si è esibito in strane session a cavallo tra il djing e i live acustici. Lasciandosi alle spalle queste esperienze di “dj con la chitarra”, nel 2006 da vita alla “Kampina” una band formata da 5 elementi con cui si esibisce nei maggiori club e locali della capitale. Nei suoi testi surreali convivono storie oniriche e tragicomiche di pagliacci, ubriachi e zingari innamorati. Partendo dalle sonorità e dai ritmi della musica popolare italiana Mannarino condisce il proprio mondo con elementi di musica balcanica e gitana, citazioni Felliniane e evoluzioni circensi, dando voce a tutte le sue storie a tutta la sua rabbia diventando portavoce di quest’universo sommerso e dimenticato: un mondo di persone reiette in terre di confine. 23 LucaniArt “PER AMOR DEL CIELO”: LA POESIA SINCERA E DISARMANTE DI BOBO RONDELLI “Per amor del cielo” di Bobo Rondelli è un disco straordinario, un’opera d’arte, musica e poesia incastonate alla perfezione e ottimamente amalgamate. “Viaggio ad autunno” apre il disco, note dal pianoforte, lasciano immediatamente spazio alla voce che ci rende partecipi di un senso di nostalgia per un passato che non torna più. Toccante è “Per amor del cielo” che da il titolo al disco, il secondo brano che alterna suoni acustici ad un assolo elettrico di chitarra, note e parole per descrivere una situazione di amore disperato. “Soffio d’angelo” è una specie di ninna nanna tragica e straziante al contempo che narra di morte. “Marmellata”, introdotta dal fischio dello stesso Rondelli è ancora una volta uno sguardo sereno all’indietro, alla giovinezza in cui l’effetto della musica è quello di regalare un bel momento all’ascoltatore, con la musica arricchita da diversi strumenti. “Madame Sitrì” tocca il tema eterno della guerra, facendolo però attraverso gli occhi di Madame Sitrì maitresse di un bordello di Livorno attraverso cui passano, si fermano diversi soldati, con un finale estremamente toccante col suono di un violino e del sassofono. “Mia dolce anima” invece è un viaggio dentro all’anima con versi misurati ed ermetici. suonata con grande discrezione, costruita ed intessuta intorno al suono di un vibrafono. Segue una poesia di Gianni Rodari intitolata “Il cielo è di tutti”, musicata per l’occasione da Bobo Rondelli, che è una riflessione sull’eterna stupidità dell’uomo e che si conclude dando in un certo senso sfogo ad una specie di rabbia. In “Licantropi” subito dopo vien fuori tutta la vena romantica di Bobo Rondelli, in questa canzone d’amore strappa lacrime, con parole che qualunque persona amerebbe sentirsi dire almeno una volta nella vita. Nella conclusiva “Niente più di questo, l’amore”, musica e parole hanno il dono di saper essere un miracolo, ancor più dolce e commovente della precedente canzone, solo voce e pianoforte. Questa canzone è un inno, un ringraziamento, un’estasi nei confronti delle proprie creature e di colei che le ha generate senza, però tralasciare un ironico spiraglio finale in cui forse riemerge l’altro Bobo Rondelli, quello dei lavori precedenti insieme al gruppo Ottavo Padiglione, ma tutto sommato questo disco è poetico, tenero e dotato di una sincerità disarmante tali che personalmente me ne innamoro sempre di più, ascolto dopo ascolto. Bobo Rondelli è nato il 18 marzo 1963 a Livorno, città che farà da 24 LucaniArt musa ispiratrice a tutta la sua carriera artistica, dal 1992 suona in varie cover band, per poi formare un gruppo proprio con cui suonare pezzi inediti e dare spazio a quell’esuberante creatività che costituirà la cifra stilistica di tutto il suo lavoro. Gli Ottavo Padiglione (reparto di psichiatria dell'ospedale civile di Livorno) è il nome della band: da subito riscuotono un discreto successo anche fuori dalla Toscana, soprattutto grazie ai testi di Bobo, introspettivi e ironici, folkloristici ma concretamente legati all’oggi che racchiudono i tanti spaccati di quella cultura toscana un po’ cinica ma altrettanto spassionata. Il risultato è il singolo intitolato “Ho Picchiato La Testa” che vende 30.000 copie. La vita artistica degli Ottavo Padiglione prosegue con altri due dischi pubblicati fino al 1999-2000, quando la band si scioglie e Bobo inizia la sua carriera solista. Nel 2001 esce “Figli Del Nulla”, seguito un anno dopo da “Disperati, Intellettuali, Ubriaconi”, prodotto da Stefano Bollani. Per la critica si tratta di un autentico capolavoro. La stampa ne parla con toni lodevoli accompagnando Stefano Bollani alla vittoria, nel 2001, del Premio Ciampi per il miglior arrangiamento. Negli anni successivi esce una raccolta degli Ottavo Padiglione e Bobo si dà alle colonne sonore di film quali “Sud Side Story”, di cui è il protagonista, e “Andata E Ritorno” di Alessandro Paci. Dopo un lungo periodo di silenzio, quest’anno è uscito “Per amor del cielo”. Ed ecco i musicisti che hanno contribuito alla creazione di questo disco, musica e poesia sincere e disarmanti: Bobo Rondelli: voce, chitarra acustica, chitarra ottava, sinth; Fabio Marchiori: pianoforte, farfisa, piano elettrico; Simone Padovani: cajon, batteria e percussioni; Filippo Gatti: chitarra acustica, basso elettrico; Dimitri Espinosa: sassofono e strumenti a fiato; Steve Lunardi: violino; Francesco Gatti: chitarra elettrica e Cristiano De Fabritiis: vibrafono. 25 LucaniArt I GATTI MEZZI I Gatti Mèzzi sono un duo pisano, formato da: Francesco Bottai: chitarra, voce e kazoo e Tommaso Novi: pianoforte, voce e fischio a cui si aggiungono Matteo Anelli al contrabbasso e Matteo Consani alla batteria. Letteralmente in dialetto pisano l’aggettivo “mèzzi” vuol dire: fradici. “Gatti mézzi”, deriva da un modo di dire pisano, “Roba da gatti mézzi”, che sta per: la cosa peggiore che possa capitare o anche la scabrosità e la bassezza di una situazione al limite del dignitoso. La peggior cosa che infatti possa capitare ad un paio di gatti è un diluvio nel vicolo o una piena d'un fiume in città. L'acqua uccide i gatti che, nonostante le loro sette vite, non possono nulla contro il cimurro. L'immagine evocativa di due gatti infradiciati scorrazzanti in un vicolo notturno alla ricerca di una lisca o di una compagna in calore è l'idea che credo stia alla base di questo progetto artistico strampalato e divertente. L’idea che la realtà urbana sia cittadina che anche provinciale italiana, globalizzata e tecnologica stia dimenticandosi dei propri vicoli bui e puzzolenti, dei suoni e dei rumori nascosti che in questi luoghi è ancora possibile ascoltare, del frastuono dei suoi abitanti secchi e spelacchiati che in questi luoghi fanno di un gran trambusto la loro esistenza fra un miagolio d'amore e un altro di disperazione e della loro lingua d’elezione: il dialetto. I Gatti Mézzi nascono da questa idea, un'idea che diventa progetto e poi si realizza uscendo dal buio dei vicoli per venire alla luce della piazza al ritmo di swing. Dunque gatti fradici che cantano in vernacolo toscano e che strizzano l’occhio al jazz ed in particolare allo swing. Hanno esordito nel 2005 e l’anno dopo hanno pubblicato il loro primo disco, auto producendoselo ed intitolato: “Anco alle pulce ni viene la tosse”, poi nel 2007 è stata la volta di: “Amori e Fortori” anche questo auto prodotto ed infine quest’anno è uscito il bellissimo: “Struscioni”. Nella musica dei Gatti Mèzzi la passione per un tipo di composizione ironica, sperimentale, colta e irriverente, le melodie che spaziano dal jazz allo swing unite alle sonorità della musica popolare si unisce, rileggendola, alla tradizione cantautoriale italiana. La parola “Struscioni”, indica coloro che si dedicavano ai balli lenti in passato, balli che imponevano un contatto fisico tra le due persone che danzavano insieme, ed è preso “a prestito” come simbolo, emblema di un modo di vita meno frenetico e più umano, dove la comunicazione avveniva in modi autentici, anche attraverso il corpo, il respiro, gli sguardi ravvicinati, gli odori, i profumi. Da “Portami a pescare”, in 26 LucaniArt cui si ironizza su chi abbandona il mare per recarsi in montagna, a “Morandi” ritratto di un vagabondo alcolizzato e della sua tragica fine, da “Fra l'arioporto e la stazione”, con la descrizione della frenesia della gente che corre e si ammassa, a “Sor Tentenna”, apologo ed incarnazione dell'indecisione, da “Avanzi di balera”, alla surreale “Se”, fino alla stupenda “Caciucco Blues” si respira in tutto il disco l’umorismo, l’ironia tipica di quello stile cantautoriale, che a me ha fatto subito saltare all’orecchio ad esempio Giorgio Gaber oppure Paolo Conte. “Struscioni” è anche una “sorta” di viaggio nelle vite, nei vizi e nelle virtù dei personaggi raccontati e cantati da questi musicisti toscani, il tutto condito con ironia e buona musica. I Gatti Mezzi 27 LucaniArt FRA TRADIZIONE FOLK E CABARET: LA MUSICA DEI ROMA AMOR Dopo il bell’esordio di “Roma Amor” disco del 2008, poco più di mezz’ora in bilico fra fisarmonica, chitarra, strumenti a percussione, con testi in inglese ed in dialetto, l’anno scorso è uscito “Femmina” il secondo disco dei Roma Amor. Il nome di questa band, essenzialmente un duo di origine romagnola formato da una voce femminile ed un polistrumentista che si fanno chiamare Candela ed Euski, dal punto di vista letterale grammaticale è un palindromo, ossia un nome che può esser letto dall’inizio o dalla fine. Quindi questa scelta del nome mi ha subito evocato un progetto musicale, un andirivieni fra passato e presente: musica che trae origine dal passato per arrivare nel presente e ritornare nuovamente indietro. I Roma Amor, infatti fanno un folk cabaret, che prende spunto dalla tradizione cabarettistica del nord Europa riletto in chiave mediterranea. Musica al confine col liscio italiano ma con solide radici nella tradizione folk italiana e con una strizzatina d’occhio alla musica da cabaret nordica. “Femmina” è un disco di dieci canzoni, nove ritratti di donne ed una cover di una vecchia canzone dei Japan di David Sylvian. Si inizia con “La Guerriera” che racconta di una donna che è in guerra per amore. Poi si prosegue con “La Belda” che parla di una “tusa”, termine che significa appunto ragazza in molte regioni del nord. Con “La Zirinelda” eccoci immersi in una vicenda di carne e macelli, in cui la protagonista pare abitare proprio vicino o nei pressi di una macelleria. “La Borda” narra le vicende di un’altra donna, forse una mamma che accudisce i figli, mentre racconta loro questa ninna nanna: La Borda. “Lo lo lo”, invece pare proprio uno scioglilingua con questi tre monosillabi, appunto lo lo lo, ripetuti in maniera ossessiva da questa donna protagonista di questa canzone come in una “sorta” di rito apotropaico. “Settimane Spagnole”, il cui ritmo e la presenza delle nacchere mi evocano vicende di donne spagnole, di giornate calde, fra un flamenco e la sensualità di terra di Spagna. “Azzurrina” credo sia la storia dell’anima vagante di una donna in cerca di amore rinchiusa in un castello. “Ela Vera” è la storia al femminile di una guerra, infatti racconta la guerra vista cogli occhi di una donna. “Femmina” il brano che da il titolo all’album è una ballata di una donna insonne che non mente, non osa più niente forse a causa di tutti i suoi guai. Conclude l’album “Nighporter” la cover del vecchio pezzo dei Japan riletto in chiave folk ed attraverso gli occhiali dei Roma Amor, lenti che filtrano suoni 28 LucaniArt mediterranei mischiandoli con la tradizione cabarettistica nordica, ma mantenendo ben salde le radici nella tradizione italiana. Il folk, il riferimento al cabaret e la scelta del dialetto per raccontare storie antiche e popolari di donne, fanno di questo “Femmina” un’opera meta musicale, quasi una ricerca antropologica e sociale, espressa in dieci canzoni di rara bellezza. Roma amor 29 LucaniArt L’OPERA SURREALE E GROTTESCA DI ELIA BILONI ALIAS DINO FUMARETTO “La vita è breve e spesso rimane sotto” di Elia Biloni è un’opera musicale teatrale su testi di Dino Fumaretto. E’ un disco divertente, cabarettistico a tratti strizza l’occhio all’avanguardia, fatto di voce e pianoforte, di armonica, kazoo ed harmonium. Una nuova formula musicale, surreale ed onirica, che strizza l’occhio alla tradizione ma che pare superarla. Volendo ab-usare di un termine si potrebbe dire: teatro canzone introspettivo, ironico e tagliente. Ma chi sono questi due nuovi menestrelli della canzone d’autore italiana? Uno è Dino Fumaretto definito “cantautore timido” e l’altro è Elia Billoni attore solitario. Il loro esordio discografico risale al 2006 con un mini disco: “Buchi”, una manciata di tracce di quell'album si ritrovano oggi in "La vita è breve e spesso rimane sotto". Una sequenza pressoché ininterrotta di pezzi pensati, concepiti e realizzati sostanzialmente per voce e piano. Un piano dalle venature cabarettistiche e martellanti in grado di scavare sotto la superficie degli apparenti testi non sense o insensati. Mi colpisce molto la nascita di questo progetto nato dall’incontro di un poeta in musica e parole ed un attore, in realtà credo si tratti di una situazione Kafkiana o meglio Pirandelliana per cui Dino Fumaretto forse potrebbe essere un personaggio immaginario frutto della mente dello stesso Elia Biloni. Dino Fumaretto è un personaggio, un nome d’arte, un alter ego, che incarna tutte le psicosi e debolezze umane, creato dallo stesso Elia Billoni, che però si definisce solo l’interprete ufficiale di queste canzoni quasi rinnegandone la paternità ed attribuendola al suo “autore immaginario”. Ma al di là ed oltre queste quisquiglie questo disco è forte: i testi parlano di nevrosi quotidiane, storie minime di blocchi psicologici, disillusioni post adolescenziali, disagi ed omicidi presunti o reali che siano, ma il tutto sempre interpretato in modo anticonvenzionale per cui aleggia in quasi tutto il disco lo stridore fra testi ed interpretazione sarcastico grottesca. Un’urgenza espressiva di fondo per una narrazione che diventa sdoppiamento al limite quasi della dissimulazione, che permette a Biloni - Fumaretto di dire il vero mediante la finzione. Lo spettacolo di Elia Billoni è una performances musicale teatrale che parte dagli scritti di Dino Fumaretto, ma che va oltre, andando a piazzarsi di diritto al’interno di quel filone di parole e musica in grado di andare oltre il proprio tempo. 30 LucaniArt FRA FOLK, ROCK E BLUES: LA MUSICA DE IL PAN DEL DIAVOLO Il Pan del Diavolo sono in due, Pietro Alessandro Aloisi: voce solista, autore dei pezzi, chitarra e grancassa, e Gianluca Bartolo alla chitarra. Percuotono le loro chitarre e la gran cassa come menestrelli d’altri tempi, con in testa folk, rock e blues. Pietro Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo, coadiuvati da: Ufo al basso acustico, Karim alla batteria minimale, Andrea Appino alla chitarra elettrica sotto il nome appunto di Il Pan del Diavolo. Ascoltai l’anno scorso il loro disco d’esordio, dal titolo omonimo: “Il Pan del Diavolo”. Quattro canzoni tra folk, rock e blues, con una voce graffiante che per assonanza mi evocò quella di Fella dei Jumbo, anni 70. Bene, vecchi ricordi del progressive italiano che per assonanza facevano una danza in questa mente bacata, pensai. E misi da parte come si fa col buon mosto in attesa che diventi poi buon vino. A gennaio di quest’anno è uscito il loro secondo lavoro: “Sono all’osso”, il loro primo long playng come si sarebbe detto durante gli anni 70. L’ho ascoltato. Sono dodici canzoni, fra folk rock e blues con la voce che urla quasi psicotica sospesa fra passato e presente. Una dinamite. Come un cazzotto in faccia o nello stomaco. Chitarre e grancassa a sonagli che portano il tempo, una voce graffiante che urla e si dimena come una ossessa. Musica affamata che digerisce e vomita tutto il rock italiano anni 70. Per la precisione folk rock blues che esala quasi di nitroglicerina. Una musica, questa de Il Pan del Diavolo, quasi scarnificata ridotta all’osso, forse per questo rigenerata. I testi dissacranti, diretti, fra tic e nevrosi, guaiti e ossessioni parlano in maniera anticonvenzionale e ruvida della realtà che ci circonda. Dunque grande abilità compositiva di questa band palermitana sanguigna e verace che nell’ultima canzone di questo: “Sono all’osso”, si lascia un po’ andare sciogliendosi in un ballo lento ma solo musicalmente. Fra folk, rock e blues la musica de Il Pan del Diavolo è come sale sulla ferita sui nervi scoperti di quest’epoca e di chi l’ascolta che all’inizio brucia e fa male ma che poi, potere curativo della buona musica, risana essa stessa tutte le ferite. 31 LucaniArt I SALISCENDI EMOZIONALI NELLA MUSICA DEGLI EVA MON AMOUR Gli Eva Mon Amour sono un trio: Emanuele Colandrea: voce, chitarra elettrica e chitarra acustica, Fabrizio Colella: batteria e cori, Corrado Maria De Santis: chitarra elettrica, voce, organo, banjo e diamonica ed appartengono a quella schiera di artisti che formano la cosiddetta nuova scena indie rock italiana. La band nata a Roma inizia a proporsi con il nome di Cappello A Cilindro, ma ben presto acquista il nome di Eva Mon Amour. Nel febbraio 2009 esce il disco che segna anche il loro debutto “Senza niente addosso”. splendido esempio di rock melodico e graffiante, ma dopo pochi mesi il tastierista lascia il gruppo. Rimasti un trio, gli Eva Mon Amour realizzano: “La doccia non è gratis. E’ un disco ruvido, a tratti spigoloso e vagamente anche destabilizzante, i cui testi parlano di situazioni e stati d’animo di disagio che nascono dalla quotidianità, ripetitiva e poco stimolante come quella di una città ma si potrebbe tranquillamente dire lo stesso anche di altre realtà non urbane. Questo disco mi ha fatto subito pensare a “Le luci della centrale elettrica” di Vasco Brondi. Le canzoni degli Eva Mon Amour colpiscono molto, mettono a nudo l’ascoltatore, poiché musica e parole esprimono a pieno il disagio di questi tempi in modo sincero e spontaneo. Un disco senza compromessi, crudo, viscerale una “sorta” di saliscendi emozionale che riesce a coinvolgere l’ascoltatore ed a trascinarlo in questi spaccati esistenziali letti però anche con la lente dell’ironia, mediante un linguaggio a tratti paradossale ed assurdo. Undici canzoni che corrono e scorrono velocemente non lasciando mai spazio alla banalità, ma descrivendo a pieno, o all’osso parafrasando la figura del cane presente in molte canzoni, l’essenza di questi tempi. 32 LucaniArt IL VIAGGIO MUSICALE, FRA FRONTIERE E BANDITI, NEL “CHUPADERO!” DELLA BARNETTI BROS BAND Massimo Bubola, Andrea Parodi, Massimiliano Larocca e Jono Manson, in arte “Barnetti Bros Band”, hanno fatto un disco, uscito a Gennaio del 2010 ed intitolato “Chupadero!”. Questi quattro musicisti coadiuvati da Terry Allen, Tom Russell, Gurf Morlix e Chris Barron si sono incontrati in un luogo sacro, appunto Chupadero, nel New Mexico, a 2700 metri di altezza tra pietre e polvere, magari vicino qualche vecchio sentiero Apache o Navajo ed hanno creato questo disco fatto di storie e ritratti di banditi e briganti, insomma un affresco di fuorilegge, sia della storia e della tradizione nord americana quanto di quella italiana. Un disco, un viaggio sonoro fra tradizioni e frontiere, che raccoglie atmosfere, sonorità e storie di Indiani d’America e di briganti italiani. Undici ritratti che come piccole cartoline d’epoca e provenienti da zone al confine si amalgamano benissimo fra loro, col risultato di musiche e canzoni che sono anche avventura e storia. Dunque anche un confronto su due tradizioni popolari diverse ma al contempo simili: il tema dei banditi o dei fuorilegge con lo scopo di creare un ponte, un legame fra due culture e due tradizioni usando appunto la musica. Il nome, “Barnetti Bros Band” prende spunto dalla vicenda dei quattro fratelli Barnetti, quattro fratelli di sangue uniti dall’amore per le chitarre, le pistole e la tequila. Un disco questo “Chupadero!” che unisce suoni, strumenti e lingue diversi. Nelle undici canzoni ci imbattiamo in luoghi e storie diverse che partono dal West e al West ritornano, attraversando però anche l’epoca Vittoriana inglese, il Risorgimento italiano, la New York degli anni ’50, gli anni di piombo. Si passa con leggerezza da “Cops & Mosquitos”, una ballata in stile tex mex sul generale Garibaldi al classico rivisitato di Townes Van Zandt “Pancho & Lefty”, da “Dove corrono i cavalli” una “sorta” di ri - evocazione della leggenda di Billy the Kid alla leggenda padana del brigante di strada che assale i malcapitati di “Son Passator cortese”. Dal “Brigante Tiburzi” storia del brigante toscano Domenico Tiburzi vissuto a fine ‘800 a “Red Dirt Road” una canzone che descrive la fuga di un uomo nel deserto rosso del New Mexico. Dalla storia di “Hannah Snell” , il primo marinaio donna nell’Inghilterra di fine settecento a “Angelo del bronx” che narra le vicende di un cantante che con il suo quartetto vocale sfornava hit nel bronx degli anni ’50 prima di perdersi in storie di droga e religione. Da “Camelia” che musica le vicende di un bandito violinista 33 LucaniArt che ama le donne nell’Italia degli anni ’70 a “Sante Y Girardengo” rilettura in chiave flamenca di un De Gregori mischiato ad un Luigi Grechi. E come per magia il disco si chiude ritornando al punto di partenza con “Città di frontiera” che ci riporta in quelle città dove suoni, profumi e facce si mischiano continuamente e si sovrappongono, esattamente come in questo gran bel disco in cui storie e momenti storici tra loro diversi sono uniti a creare un grande quadro di umanità dai confini linguistici e musicali attraversati continuamente. 34 LucaniArt LA STRUGGENTE POESIA E LA TRADIZIONE NE: “AEDO MALINCONICO ED ARDENTE, FUOCO ED ACQUE DI CANTO” DI GASTONE PIETRUCCI E LA MACINA Dopo i primi ascolti di questo primo volume dell’ “Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto” di Gastone Pietrucci e La Macina e dopo la recente scoperta dell’esistenza degli altri due volumi, di cui l’ultimo uscito recentemente, a marzo del 2010, avevo pensato: “ci sono dei dischi talmente belli di fronte a cui le parole, qualsiasi parola pare inadeguata ed io non ho parole, mi si sono bloccate in gola, fermate sull’uscio dell’ugola di fronte a questa meraviglia, a tanta poesia, a tanta buona musica di questo primo volume dell’ “Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto” di Gastone Pietrucci e La Macina, uscito nel 2002. La Macina è un ensemble marchigiano di ricerca di musica popolare, attivo da più di trent’anni e Gastone Pietrucci è un poeta cantante attivo anche lui da tantissimi anni. Questo disco inizia con degli arpeggi di chitarra, percussioni dolci, fisarmonica e dopo qualche giro ecco la voce di Gastone Pietrucci in questa splendida canzone d’amore: “Bella sei nada femmina” che racconta una storia di una bella giardiniera a cui il soggetto della canzone dedica questa meravigliosa canzone d’amore, che a me ha evocato, ricordi di chiacchierate con anziani, la serenata che in tempi antichi si portava sotto al balcone della propria amata. Subito dopo eccoci con: “Se io fossi una formica / Monaca a forza” struggente e malinconica canzone, che narra le vicende di una ragazza che viene rinchiusa in monastero forse per un amore osteggiato dalla propria famiglia. Poi con: “Ramo de fiori, rose d’amor”, storia di una ragazzina che piange per il proprio amore partito per la guerra con la voce rauca di Pietrucci, accordi di pianoforte, arpeggi di chitarra e tutti i brividi che mi fa venire questa gemma di canzone. “La guerriera” con la sola voce di Pietrucci che si staglia nel cielo seguita da chitarra e flauto invece narra le vicende di un soldato morto e del rimpianto dell’amata e della mamma, per la perdita di questo giovane. Con: “Io me ne vojo andà pel mondo sperso” si cambia registro e si affonda nella tradizione folk ancestrale con questa bella tarantella che racconta le avventure di questo personaggio che appunto vuole andare da solo per le strade del mondo. Insomma una bella boccata di ossigeno in questo mondo in cui pare che l’avventura e l’imprevisto non esistano più e che l’obbiettivo di quasi tutti sia diventato il posto di lavoro fisso. “Benediciamo a Cristoforo Colombo” è la storia dell’epopea del 35 LucaniArt grande viaggiatore genovese che scoprì l’America. Dopo con: “Io vorrei che sulla luna / Tutti ce dice a spasso a spasso / E è lle cinque ‘lle sei se scioglie / , E mamma mia porta l’argè’ e la catena / Mentre che io pesacavo tra Napoli e Messina / O mamma mia vojò mmarido / Il mare è torbido l’acqua è turchina / Senti ‘l mio caro Adolfo / O mamma mamma preparami le fasce / Cattivo custode / Io vorrei che sulla luna” questa meravigliosa canzone collage tratto dai canti del repertorio minore della filanda di Jesi, nove minuti e mezzo in cui rimango davvero senza fiato e senza parole. Poi con “Cecilia”, storia d’amore di questa donna, Cecilia, “morta d’amore” a seguito alla morte del suo amato. Poi con “Il marito tosado”, storia di un uomo che diventa confessore di tutte le donne e di tutti i loro “peccati” sessuali col ritmo allegro e popolare di una tipica tarantella. “Mentre che rastrellava / La ballata del brigante Pietro Masi detto Bellente” inizia con la voce della grandissima Giovanna Marini e continua con questa storia di questo brigante rubacuori dell’Appennino centrale che alla fine muore con tutte le donne che l’hanno amato che piangono al suo funerale. “Sotto la croce, Maria” è la storia della morte di un Cristo popolare e di sua madre, Maria, che lo piange. “Dormi core mia” è una ninna nanna al suono dolce dedicato al proprio cuore, stanco di vagabondare con una strepitosa voce femminile che pare proprio quella di Rossana Casale. “Bovi bovi” è una meravigliosa e dolcissima descrizione della vestizione del corpo di Cristo morto con la Madonna che canta questa meravigliosa nenia al povero figlio, morto crocifisso. Chiude il disco un’altra meraviglia: “Stanotte mi sognai ‘na bella fata”, epica, superlativa chiosa, per un disco sospeso fra tradizione e poesia, fra folk e musica d’autore, un semplice gioiello di rara bellezza che Gastone Pietrucci e La Macina, ci hanno donato come un regalo che oltrepassa il tempo e si colloca nell’Olimpo atemporale dei grandi capolavori della Storia dell’arte di tutti i tempi “Gastone Pietrucci e i suoi compagni di viaggio de La Macina: Adriano Taborro: chitarra, mandolino, violino e voce, Marco Gigli: chitarra, cembalo e voce, Michele Lelli e Riccardo Andrenacci: batteria, percussioni e voce, Roberto Picchio: fisarmonica, organetto e voce e Giorgio Cellinese: coordinatore, sono un ensemble aperto e minimale, con la splendida e scura voce di Gastone Pietrucci. La voce di Gastone è tutt’uno con lui. i suoni che escono dalla gola di Gastone, i graffi della sua emissione scavano solchi nelle parole come granelli di una sabbia antica sollevata da un vento caldo, come i suoni delle sirene che tentarono Ulisse, ammaliano, attirano fino a farci 36 LucaniArt confondere le nostri voci con la sua. La Macina splendida creatura che lavora sulla tradizione nelle Marche: un lavoro, Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto che, crediamo abbia un posto riservato e speciale nella discoteca dell’anima delle cose che non si dimenticano. Un gruppo di ricerca e riproposta della musica di tradizione orale marchigiana. La voce rauca e ombrosa di Gastone Pietrucci, che con la stessa confidenza e lo stesso amore canta i documenti della tradizione marchigiana e i capolavori dei più grandi cantautori italiani. “Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto”: i canti della cultura orale marchigiana, ma ci sono anche echi di Moni Ovadia, di Dodi Moscati, di Giovanna Marini, dei Gang. Pietrucci completa una sua trilogia con il presente album, per così dire antologico di tante e varie esperienze, per cui anche qui troviamo brani anonimi e altri d’autore, e che autori: Franco Scataglini, Virgilio Savona, Piero Ciampi, Pier Paolo Pasolini, Vangelis. Per non parlare degli ospiti: la Banda Osiris, Ambrogio Sparagna. Anche stavolta, il repertorio contempla i due estremi della tradizione orale e della poesia scritta, così come quelle fasce intermedie: un canto narrativo da cantastorie, una serenata eseguita con un’orchestra classica. La Macina ha cancellato confini, ha abbattuto frontiere come dovrebbe essere ovunque per qualsiasi genere di frontiere”. Tratto dalle note di Enrico de Angelis, dalla prefazione al disco: Gastone Pietrucci La Macina, Aedo malinconico ed ardente, fuoco ed acque di canto, Vol. III, 2010 37 LucaniArt LE BALLATE DI MASSIMO BUBOLA Massimo Bubola è un cantautore raffinato e relativamente poco conosciuto a fronte del suo enorme talento musicale e poetico. Un poeta, un musicista sensibile ed estremamente colto, che spesso preferisce starsene in disparte. Lontano dal clamore e dal frastuono dello show business, continua a scrivere da più di trent’anni le sue canzoni, le sue poesie in forma di ballate. A regalarci le sue perle, a scrivere e musicare storie popolari ma anche storie di emarginati e deboli. Insomma un grande cantautore, silenzioso e laborioso. Massimo Bubola nasce a Terrazzo di Legnago in provincia di Verona il 15 marzo 1954. “Nastro giallo” del 1976 è il suo esordio, un disco zeppo di intuizioni e di un modo di scrivere canzoni unico e singolare ed accomunabile forse soltanto ai primi dischi di Francesco De Gregori. Piccole gemme di sfavillante bellezza, che non sfuggono ad una delle figure più importanti ed influenti della scena musicale del nostro paese, Fabrizio De Andrè. E' il disco che ascolta Fabrizio De André, rimanendone fortemente impressionato. Secondo le cronache, arriva alle tre di un pomeriggio del 1977 la telefonata di De Andrè che vuole Massimo Bubola con lui per collaborare al suo album “Rimini”. Tra sorpresa e incredulità Massimo Bubola si trasferisce in Sardegna, nella casa in campagna di Fabrizio De Andrè in Gallura. Incomincia una collaborazione musicale che andrà avanti nel tempo. A quell’epoca Massimo Bubola ha poco più di vent’anni. Per De Andrè incomincia un nuovo capitolo musicale e Massimo Bubola sarà il trait d’union fra la formula classica e la nuova avventura verso il rock dell’ultima parte della Sua carriera. Del disco “Rimini” del 1978, il giovane Bubola infatti ne è il coautore di testi e musiche. Nel 1979 esce “Marabel” il secondo lavoro solista di Massimo Bubola. che contiene già gran parte della sua personale poetica musicale: le ballate a ritmo rock, ma anche ballate fatte da suoni e sonorità disparate, dal folk irlandese ai ritmi sudamericani. Nel 1980 esce un 45 giri con Chi ruberà - Bar dei Cuori infranti. “Chi ruberà” è una ballata semiacustica, con mandolino e “Bar dei cuori infranti” è invece una ballata country con il pianoforte. Nel 1981 ritorna in sala d’incisione con De André per incidere il 45 giri “Una storia sbagliata”, una canzone ispirata alla tragica morte dello scrittore poeta regista Pier Paolo Pasolini. Sempre del 1981 sono sia l’album omonimo “Fabrizio De Andrè” universalmente noto come: “L’indiano” di cui Massimo Bubola ne è un’altra volta coautore che “Tre rose”. Nel 1982 scrive e musica l’omonimo disco “Massimo 38 LucaniArt Bubola”. Dopo sette anni di silenzio nel 1989 esce “Vita, morte e miracoli”. “Doppio lungo addio” è del 1994, mentre l’anno successivo è la volta di “Amore e guerra”. Nel 1997 è la volta di “Mon tresor”. Nel 1999 esce “Diavoli & Farfalle” che contiene fra l’altro alcune meravigliose ballate fra cui: “Se questo è un uomo” dedicato al romanzo di Primo Levi e “Tina” dedicata a Tina Modotti, fotografa e pasionaria friulana immigrata in America e poi in Messico ai primi del ‘900, questo disco ripropone la figura di Massimo Bubola all’attenzione generale. Nel 2001, dopo venticinque anni di attività e più di duecento canzoni pubblicate esce il primo doppio album live “Il cavaliere elettrico – vol. I & II”, mentre nel 2002 è la volta del terzo e quarto capitolo di questa saga live: “Il cavaliere elettrico – vol. III & vol. IV”. Nel 2004 esce “Segreti Trasparenti”, una “sorta” di summa Buboliana che racchiude splendide ballate tradizionali come: “La sposa del diavolo” ed altre ballate come: “Stai con me” e “Niente passa invano” oltre alla meravigliosa “Jetta a luna” brano che amo particolarmente e che mi ha sempre emozionato tantissimo. Nel 2005 è la volta di "Quel lungo treno", un album tematico sulla Prima Guerra mondiale in cui Bubola si riappropria della tradizione folk veneta. Nel 2006 ha pubblicato un libro di poesie e lettere musicate dal titolo "Neve sugli Aranci". Nel 2008 ha pubblicato: “Ballate di terra e di acqua” ed infine quest’anno è uscito lo splendido “Chupadero!”. La musica di Massimo Bubola è una specie di sintesi tra la canzone d’autore italiana e il rock. Atipico e lontano dai carrozzoni rumorosi della musica commerciale o di consumo, piuttosto un artigiano di liriche e melodie di primordine, Massimo Bubola ha un modo di far musica in rottura con gli schemi tradizionali di un certo cantautorato. Il suo linguaggio visionario è un anello di raccordo tra il rock e la canzone d’autore. Gli studi classici, la conoscenza della Poesia e di certa Letteratura fanno di Massimo Bubola un autore, cantautore che attraverso lo strumento della ballata riesce a portare le storie, i tranci di vita che canta verso i cieli e le vette più alte. 39 LucaniArt L’ANDARE, IL DIVENIRE E IL RITORNARE NELLA MUSICA DEI SULUTUMANA “Sto sognando sette nani mentre ballano in ascensore e non mi fanno salire e giusto tre secondi prima di svegliarmi sento il bel suono del flauto di Ian e vedo un tale a inseguire ombre e vedo un altro in mezzo alle onde potrei essere io tutti e due potresti essere tu che non conosco, non ho mai visto. E c'e' una terra misteriosa, vedo strani paesaggi laggiù oltre l'uomo che nuota, vedo parole uscite da vasi di creta e da storie di fantasia e sento il bel suono del flauto di Ian e volentieri toccherei una chitarra così soltanto per farti sentire il profumo4 del ribes che non conosco, non ho mai visto. Sono contento sai vieni ancora a trovarmi se vuoi io abito ovunque andrai, vieni ancora a trovarmi se vuoi. Sto assaggiando lo sconforto di un risveglio innaturale ancora non vedo il sole, ma solo gente uscire da case di pietra e da storie di fantasia e quando partono per il lavoro si sente il bel suono del flauto di Ian e intanto a me pare di ricordare il profumo del ribes che non conosco, non ho mai visto. Sono contento sai, vieni ancora a trovarmi se vuoi io abito ovunque andrai”. Tempo fa mi sono imbattuto in questa bellissima canzone dei Sulutumana intitolata “Ribes” e allora come spesso accade quando una cosa colpisce: si cerca di scoprire, di sapere e così un po’ alla volta si entra in nuovi mondi fino a quel momento sconosciuti. “Sulutumana” letteralmente significa: sul divano, in dialetto vallassinese e la Vallassina è una zona della Brianza. Dunque questo manipolo di musicisti: Gian Battista Galli: voce e fisarmonica; Nadir Giori: contrabbasso e basso elettrico; Angelo Galli Pich: flauto traverso, aggeggi e cori; Samuel Elazar Cereghini: batterie e percussioni; Andrea Aloisi: violini e Francesco Andreotti: pianoforte e tastiere formano l’ensemble “Sulutumana”. Tutti i componenti collaborano alla stesura delle canzoni in base alle loro diverse esperienze artistiche e musicali: nascono così le canzoni. "La Danza", nel 2001: un esordio folgorante, trentacinque minuti, in cui stipate, come in una “sorta” di antologia, ci sono tutte le magie che la musica d'autore in Italia ha prodotto nella sua storia cinquantennale: da De André a Guccini, da De Gregori a Paolo Conte solo per citare primi che vengono in mente. Se chiudo gli occhi e ripenso alle canzoni di questo folgorante esordio “Pomeriggio”, “La danza” “Ribes” ed altre mi vien in mente un tessuto prezioso, un ordito fatto di piccole perle, uno scrigno pieno di gioielli. Musica che trascina verso altri mondi, con tutto l’ensemble coi flauti e le fisarmoniche che suonano 40 LucaniArt canzoni in una commistione fra etnico e folk strizzando l’occhio a tutta la tradizione della canzone d’autore italiana. “Di segni e sogni” del 2003 è un taccuino di poesie, delicate e malinconiche, rime a volte scontate ma incastonate in quel suono dei Sulutumana inconfondibile e speciale, intruglio intricato di strumenti tradizionali e ritmi e melodie con tanti piccoli monili e gemme preziose. Dopo la raccolta “Angeli a perdere” del 2004 ... la raccolta galeotta che contiene la versione di “Ribes” che mi ha colpito tantissimo! … nel 2005 esce “Decanter”. Il decanter è un contenitore di vetro che serve a far ossigenare il vino di modo da ridargli quelle caratteristiche che la costrizione in bottiglia gli ha tolto. Questo disco dei Sulutumana, infatti, ha bisogno di tempo, di diversi ascolti per aprirsi del tutto. È molto meno immediato dei dischi predenti e si ha come l'impressione che si tratti di un disco di transizione, in tutti i sensi: transizione intesa come variazione di riferimenti e di stile, ma anche di spostamento vero e proprio. Il movimento è infatti al centro di gran parte dei brani e non è casuale che il disco si apra e si chiuda con due pezzi legati al viaggio. "AnamJi" ispirato da un libro di Tiziano Terzani, mentre "Antemare" ha un testo adattato dalle Metamorfosi di Ovidio, come a dire che viaggio fisico e viaggio interiore sono un tutt'uno. Questo disco possiede altre coordinate musicali: il gruppo si allontana ulteriormente dal folk che caratterizzava soprattutto il primi lavori, virando verso una canzone d'autore che utilizza stili variegati. “Decanter” è un disco sul viaggio visto da molteplici punti di vista. Sembrano scomparse le piccole storie presenti nei due dischi precedenti, a favore di musiche e testi più complessi. Oltre al movimento, questo disco parla del trascorrere del tempo e l'importanza delle parole nella possibilità di superare la dimensione del tempo. Un disco che cresce ascolto dopo ascolto come del buon vino nel decanter appunto migliora con l’ascolto. Sempre nel 2005 è la volta di “L'incredibile meravigliosa storia di Prinsi Raimund" che nasce dal repertorio musicale e popolare piemontese, da fatti di cronaca di due secoli fa. Una “sorta” di vicenda Shakesperiana narrata in dialetto, usando le parole dell’autore Giuseppe Adduci: “come a dire che ci sono degli archetipi intorno a cui le storie, e quindi le vicende del mondo, ruotano, assomigliandosi. Le stesse storie perciò, anche senza trasmissione orale, si trovano sotto forma di canti sia al nord che al sud d'Italia, e in molti altri luoghi del mondo”. E’ del 2008 invece l’ultimo album “Arimo”. Il termine Arimo è un'abbreviazione di arimortis. Il modo di dire ricorda l'uso latino delle arae mortis, gli altari della morte, elevati al termine della battaglia per 41 LucaniArt onorare i caduti. Una indicazione sacra di tregua rimasta ormai solo nel linguaggio dei bambini, oppure usando le stesse parole dei Sulutmana: “Arimo è una formula magica che usavamo da bambini giocando a nascondino e ad altri giochi di strada e di cortile: quando questa parola veniva detta a voce forte e chiara da qualcuno ci si aspettava sempre qualcosa di buono: una tregua, una pausa per riprendere fiato e rimettere ordine nel caos del gioco". “Arimo” è un disco che mette un punto va a capo per ritornare da dove tutto era iniziato ossia da “La danza”, un disco fuori dal tempo che fa correre piacevoli brividi lungo la schiena, come la pioggia primaverile: i Sulutumana vanno avanti tornando indietro! Nati nel 1989, nei primi anni di attività si sono cimentati come cover band interpretando alcune canzoni del repertorio di cantautori italiani ed internazionali ed hanno iniziato ad ottenere i primi riconoscimenti fra cui un premio in memoria di Lucio Battisti e poi la Targa Tenco. Nel 2001 esce il loro primo album autoprodotto “La danza". Grazie a uno dei brani in esso contenuto vincono il premio speciale del periodico musicale "L'isola che non c'era" durante il concorso per la canzone d'autore "I Migliori che abbiamo", patrocinato dal Comune di Genova e dalla Fondazione Fabrizio De Andrè. Nel 2003, invece, è la volta dell’album "Di segni e di sogni", ancora una volta autoprodotto, che contiene dieci nuove canzoni. La raccolta "Angeli a perdere" è del 204. Sempre nel 2004 i Sulutumana incidono un album di canzoni popolari " L'incredibile meravigliosa storia di Prinsi Raimund" frutto della collaborazione con l'attore Giuseppe Adduci. Nel 2005 esce "Decanter", mentre successivamente, grazie all’incontro con lo scrittore Andrea Vitali nasce una florida collaborazione, che porta anche alla composizione di numerose canzoni che fanno parte dell'album “Arimo” del 2008. Il gruppo vanta diversi coinvolgimenti in ambito teatrale: "Volti", su testi di Erri De Luca, "Pianoforte vendesi", tratto da un racconto inedito di Andrea Vitali, "La farfalla sucullo", di e con Giuseppe Adduci ed infine "Canti e Racconti", di Sulutumana e Andrea Vitali. 42 LucaniArt “NOMI, COSE, CHISSA’” DI VALERIO ZITO Un po’ di tempo fa mi sono imbattuto in un disco la cui copertina aveva la forma di un “disco orario”, un cd la cui custodia ricorda uno di quei dischi orari che vengono usati per segnalare alle autorità competenti o anche agli altri automobilisti che la macchina è parcheggiata li da un certo tempo. Sulla copertina c’era scritto: “Nomi, cose, chissà” e l’autore era Valerio Zito. Subito ho cercato notizie sui chi fosse Valerio Zito ed ho scoperto che è un giovane cantautore di Potenza. In un’intervista rilasciata a Pietro Patrissi lo stesso Zito afferma, in maniera autoironica che ha incominciato a fare musica “il giorno in cui sbagliai a montare il mi cantino sulla chitarra di mio fratello”. Ha frequentato il CET, la scuola di Mogol, lo storico paroliere di Lucio Battisti e di tanti altri mostri sacri della musica italiana e che durante questi anni in cui ha girato per il mondo ha stretto amicizia con altri cantautori come Antonio Di Martino, Dario Brunori, Niccolò Carnesi e il pianista compositore lucano Angelo Trabace. Nel 2011 si è trasferito a Palermo per lavorare al suo primo disco. Entra in contatto con la “Nuova scuola cantautoriale Siciliana” di cui fanno parte oltre allo stesso Antonio Dimartino e Niccolò Carnesi, il Pan del Diavolo, i Waines, Cesare Basile, Colapesce, le Iotatola e altri. . Ma è soltanto l’anno seguente nel 2012 che iniziano le registrazioni del primo disco/ep ufficiale dal titolo “Nomi, cose, chissà”. Questo disco comincia con: “Taglia S” storia di un amore verso una donna raccontata con la metafora di un cappotto di taglia S che a volte calza a pennello ed altre volte va un po’ stretto, quasi a voler simboleggiare il gioco di attrazione e lontananza tipico di tante storie di amore. Il disco prosegue con “Ladri di vorrei” che canta delle insoddisfazioni di chi si sente defraudato dei propri sogni e che non vuole arrendersi ed appunto vuole continuare a credere nei propri sogni. Poi è la volta di “Annette” in cui Valerio Zito forse si confronta con alcuni fantasmi interiori come ad es. l’immagine femminile o come direbbe uno Junghiano con la propria Anima. La quarta traccia “Tutto torna” è una canzone inquietante ma bella perché parla di insetti che si vendicano bruciando il soggetto di questa canzone, ma dato che tutto è ciclico allora tutto torna, ritorna anche tutto il male che uno ha fatto, ivi compreso l’aver ammazzato le formiche e altri animali durante l’infanzia ed arriverà anche il momento in cui arriverà qualche insetto a recidere le proprie code di paglia ossia arriva per tutti il momento di crescere. Il disco continua e si conclude con “21 12 12”, in 43 LucaniArt cui Valerio Zito si rivolge direttamente al presidente degli Stati Uniti d’America, emblema di tutti i potenti della terra, cantando con verve in una specie di giostra impazzita tutta una serie di anatemi da cui non viene risparmiato nessuno e nessuna istituzione, la Chiesa e tutta la società comprese. Parafrasando lo stesso nostro cantautore: “moriranno tutti di venerdì ... e all’altro mondo si starà da dio .. sarà una festa di pittori e sommelier … indosserò la mia camicia a pois … e sputerò poesie per l’eternità”. Dal punto di vista musicale “Nomi, cose, chissà” è ben suonato, molto curato nei particolari. I riferimenti musicali evidenti sono rintracciabili nella musica d’autore degli anni ’70, in particolare i cantautori storici ma anche nell’attualità di molti suoni di altri cantautori più recenti fra cui ricordiamo Dario Brunori, Lucio Corsi, Niccolò Carnesi ed altri. “Nomi, cose, chissà” rimanda all’infanzia ed in particolare al gioco che si faceva: nomi, città, animali eccetera. Ed è appunto questo rimando ad un’età incerta che indica, secondo me, anche una condizione di incertezza generale, quella che stiamo vivendo in questi anni. E se da un lato c’è il dubbio dall’altro c’è anche un po’ di ottimismo, una positività scanzonata ed allegra. Lunga vita a questo folletto anticonformista che ama definirsi “BasiLucano” e che speriamo in un non lontano futuro ci riesca a sorprendere con altre canzoni, altre poesie. 44 LucaniArt LA BASILICATA NELLE PAROLE E NELLA MUSICA DI PIETRO BASENTINI Questa storia inizia casualmente un giorno con un piccolo grande ritrovamento, una grande scoperta per me. Qualche anno fa mi trovavo in una campagna nei pressi di Bella, una piccola cittadina vicino a Baragiano che è il mio paese ed il luogo in cui vivo e mentre stavo osservando una piccola casupola diroccata feci una bellissima scoperta: trovai un piccolo tesoro, alcune vecchie musicassette. Non erano proprio in buone condizioni ma alcune si potevano ascoltare. Fra le vecchie musicassette subito una in particolare attirò la mia attenzione. Era di un “certo” Pietro Basentini e si intitolava: “Un due tre fanti Briganti e re”. Subito scappai a casa e la misi nel mio stereo e ne fui rapito, dalla musica e dai testi. Poi un po’ di tempo fa grazie a mio fratello Luca, anch’egli appassionato di musica ed anch’egli come me rapito da questa musica e da questi testi e dopo tante ricerche finalmente siamo riusciti a trovare il primo disco, o come si sarebbe detto alcuni anni fa il primo elleppì, di Pietro Basentini che si intitola: “Terra d’argilla e di ginestre”. Pietro Basentini è un cantautore nato a vissuto a Potenza ma è anche un pittore, uno studioso, uno scrittore ed anche un poeta. Ma quello di cui voglio parlare in questo spazio è della sua opera di cantautore. Prima però è giusto dare due note biografiche: Pietro Basentini è nato a Potenza nel 1941. Fin da giovanissimo si interessa alla poesia e alla pittura frequentando un gruppo di pittori e poeti che operano a Potenza. Negli anni ’60 presenta a Potenza la sua prima mostra personale pittorica, dopo aver partecipato a varie rassegne d’arte contemporanea In seguito si dedica con passione alla ricerca delle tradizioni popolari con particolare interesse per la canzone della Basilicata che, accompagnandosi con la chitarra, porta nei teatri di tutta Europa. L’attività di musicista lo fa conoscere ad un vasto pubblico anche grazie a vari programmi radiofonici e televisivi ed anche grazie ad alcune esibizioni al mitico Folk Studio di Roma, un crocevia dove si esibivano tutti i più grandi musicisti italiani. Durante gli anni ’70 registra dapprima “Terra d’argilla e di ginestre” nel 1975 e successivamente nel 1978 “Un due tre fanti Briganti e re”. Come ricercatore nel 1969 pubblica con Aldo La Capra il libro “L’assenza imposta”, mentre nel 1986 con Irene Grenci da alle stampe: “La canzone popolare e civile in Basilicata”. Nel 1999, in occasione del Bicentenario della Repubblica Napoletana , vince il primo premio al concorso bandito dalla Regione Basilicata, mettendo in scena la 45 LucaniArt commedia musicale: “La breve illusione”. Sempre nel 1999 partecipa alla messa in scena dell’opera “Pierino e il lupo” di Prokofiev. Durante gli anni 2000 ha esposto sue opere pittoriche a Potenza ed altrove. Pietro Basentini è morto nel 2011. Allora seguitemi che iniziamo il viaggio nel mondo musicale di Pietro Basentini col suo primo disco: “Terra d’argilla e di ginestre”. Il disco si apre con una ninna nanna, una dolce nenia intitolata: “Nia Nia”, che racconta di questa mamma che tiene in braccio questo suo figliolo e lo culla dolcemente. Poi è la volta di “Matalena” una specie di cantilena magica, un testo “non sense” che ammalia e trascina l’ascoltatore nel mondo fatato di una storiella canticchiata dai bambini. “Carusina Carusella” è una canzone le cui origini si perdono nella notte dei tempi, proviene da mondi lontani, forse dall’Africa settentrionale e descrive il rapimento di una giovane fanciulla e dei tormenti provati dal giovane principe che di lei è innamorato e del giuramento amoroso che lei ha fatto di vestirsi a lutto solo nel caso della morte del suo amato. “Quann’ te corche alla sera” storia di un litigio fra giovani fidanzati in tono scherzoso, che ricorda molto alcune canzoni a braccio, ossia botta e risposta, tipiche della nostra cultura contadina. “Li breante”, canzone emblema della poetica Basentiniana che su questi temi ritornerà costantemente durante tutta la sua opera artistico musicale ma credo forse anche nelle sue riflessioni quotidiane di uomo pensante del Sud Italia. Questa canzone narra le vicende dei tantissimi Briganti che dovendo scegliere fra la sottomissione o l’emigrazione, scelsero invece la latitanza e il brigantaggio. In particolare questa canzone credo sia dedicata ai più di cinquemila fra ragazzi, uomini e anziani trucidati dalle truppe piemontesi durante l’unificazione dell’Italia. “Vittorio Emanuele” invece racconta della disillusione dei contadini, inizialmente fomentati ed appoggiati dalle classi sociali elevate ed anche dal clero che non vedevano di buon occhio il processo di unificazione d’Italia, con promesse di terre demaniali che sarebbero dovute diventare di proprietà dei contadini, ma che alla fine come la storia non ufficiale ci racconta le cose non andarono così ma anzi andarono proprio in modo opposto. E da qui la disillusione cantata in questa canzone. “Li carcere de Trane” che descrive una storia di ordinaria violenza all’interno del carcere di Trani.”Zi Moneche e Cappuccine” che racconta le vicende di un giovane innamorato che pur di baciare la sua amata si traveste appunto da frate e va a bussare alla porta della famiglia della giovane ragazza fingendo di chiedere l’elemosina. “A Pio IX” narra invece della condanna a morte emanata 46 LucaniArt appunto dal papa Pio IX nei confronti di due garibaldini ed esprime a mio modesto avviso l’anticlericalismo presente nelle classi povere del Sud Italia ed in particolare della Basilicata, a seguito del comportamento fatto di soprusi e violenze e deprivazione della libertà esercitato dalla Chiesa Cattolica nel corso della sua millenaria storia, nei confronti delle classi povere di tutto il meridione d’Italia e non solo. “Lu scuarpare” sorta di canzone popolare, che è un’esortazione alle belle fanciulle ad evitare i lavoratori poveri e con poche possibilità di fare soldi. “Ierta chelonna” canzone d’amore che da un lato è una esortazione all’amata e dall’altro dispensa una serie di consigli amorosi ad una giovane donna. Ed il disco si conclude con “In morte di Boryes”, canzone dedicata al brigante spagnolo Josè Boryes arruolato dai Borboni per aiutare le bande armate del brigante Carmine Donatelli in arte “Crocco”, ma che finì morto assassinato dopo essere fuggito nello Stato Pontificio, essendo chiaramente in contrasto con Crocco. Musicalmente “Terra d’argilla e di ginestre” mischia canzoni popolari a tarantelle, pizziche a ballate con chitarra classica. Ovunque nel disco si avvertono suoni mediterranei, ariosi e melodici. Questo disco mi sembra sia stato suonato ed inciso dallo stesso Pietro Basentini e da Clemente Giusto, quindi da due chitarre classiche. Nel 1978 è la volta di “Un due tre fanti Briganti e re” bellissimo disco, quasi un concept album sulla storia della Basilicata e dell’unità d’Italia, musicalmente più complesso del precedente “Terra d’argilla e di ginestre”, grazie alla presenza di diversi artisti e di una arricchita sezione di archi e fiati. Infatti in questo disco ricordiamo oltre al fidato amico Clemente Giusto alla chitarra classica anche la presenza di: Gastone Chiarini all’oboe, Adalberto Cerbera alla viola, Cicci Santucci alla tromba e Roberto Zappulla alle percussioni, oltre ovviamente al “nostro” Pietro Basentini alla chitarra e voce. Il disco comincia con “Una nuvola di sogni” che narra fra sogno e realtà dell’eccidio di tutti i briganti e delle persone comuni morte appunto per difendere la propria terra e la propria libertà e della disillusione seguente all’unità d’Italia, infatti nonostante questa guerra e l’unificazione dell’Italia la povera gente è costretta lo stesso ad emigrare ed ad essere chiamata “terrone”. “Garibaldi vieni vieni”, racconta delle promesse non mantenute da parte di Garibaldi che ricordiamolo aveva promesso in cambio dell’aiuto contro i Borboni un riscatto delle terre demaniali e la canzone continua dicendo: “.. a Garibaldi noi preferiamo il re Borbone che almeno protegge la religione …”. Poi è la volta di “E Garibaldi…”, che descrive dell’arrivo della spedizione dei mille che 47 LucaniArt quando giunsero in Basilicata furono accolti come dei liberatori e furono più di mille i lucani che morirono partecipando alla spedizione dei Garibaldini per l’unificazione del regno d’Italia. “Lu Brigantuzz” racconta in maniera straziante delle condizioni di povertà in cui nascevano le persone povere che poi sceglievano di diventare Briganti e della loro solitudine, dato che non avevano né un re e né dio a proteggerli, ossia i Briganti erano soli nella lotta contro i Savoia e contro lo Stato Pontificio. “Si fa l’Italia”, invece descrive il processo di unificazione dell’Italia, fatto alle spalle e a danno dei contadini e della gente povera, alle spalle della gente della Basilicata e di tutto il Sud d’Italia. “Italia Italia bella” descrive la morte di Pasquale emblema di tutti i morti del Sud Italia e paragona questa nazione ad una madre che letteralmente fa: “figli e figliastri”, ossia tratta in modo diverso i vari figli. “Funtana nuova” racconta dell’impossibilità di poter amare una donna da parte di un Brigante che letteralmente “… si tu si nu brigante nun si né zito né amante si sul’ na stella che brilla e po’ scumpare.. ”, ossia nella condizione del Brigante, nella sua vita fatta di pericoli e stenti non può esserci spazio per l’amore. Poi è la volta di una bellissima canzone di amore e lotta, di desiderio e di libertà che si intitola: “Stella sulagna” che occupa uno spazio privilegiato in quella parte della mia anima, nello spazio dedicato alle più belle canzoni di sempre. “E mo … parlo italian’”, invece tratta del processo di unificazione d’Italia visto dal punto di vista linguistico e dei metodi violenti usati dal re di Savoia. Ricordiamo che sia la lingua italiana che quella francese ed anche quella spagnola corrispondono a tre lingue dei nostri dominatori, ossia sono lingue imposte al popolo Lucano. “Italian’ ca sir Italian’” narra delle angherie a cui furono sottoposti gli abitanti della Basilicata da parte dei Savoia grazie all’emanazione di alcune leggi. Poi è la volta di “Cafoni dilettissimi” che narra essenzialmente dell’emigrazione dei poveri contadini e della povera gente della Basilicata verso l’America ed il nord Italia ed anche in paesi del nord Europa inizialmente vista come un miraggio, ma che si trasformava una volta approdati nella terra della libertà o nelle terre del nord in una “sorta” di incubo. Infatti molti Lucani come tanti altri meridionali venivano sottoposti a condizioni di permanenza e di vita simili alle bestie, simili a come noi attualmente trattiamo gli extracomunitari provenienti da zone di guerra o in fuga per un futuro migliore. “Ninna nanna del re” che ironicamente dice che bisogna voler bene al re che è paragonato ad un vecchio nonno benevolo che vuole bene ai suoi figli ed ai suoi nipoti. Questo meraviglioso disco si 48 LucaniArt conclude con “Pizza e barbera” una canzone che gira come una giostra impazzita e che racconta della sottomissione del popolo della Basilicata prima ai Borboni che vengono ironicamente simboleggiati dalla pizza napoletana e poi ad i Savoia visti come vino Barbera. Il paragone enogastronomico secondo me indica che a chi gestisce il potere non gliene frega niente della povertà e della condizione precaria delle vite dei cosiddetti subalterni ossia della povera gente e parafrasando quel vecchio adagio popolare possiamo dire anche noi con Pietro Basentini: “Al popolo pane e divertimento”e cioè pizza e barbera. Per finire questo breve scritto sull’opera musicale e poetica di Pietro Basentini voglio condividere alcune considerazioni ed un’esortazione. La prima cosa che mi è venuta in mente ascoltando questi dischi è stata di fare un paragone con altri musicisti degli anni ’70, ma credo che Basentini rappresenti un caso a parte, pur essendo in ogni caso un uomo che cantava e suonava durante quegli anni. Quindi è inevitabile ascoltare nelle canzoni del “nostro” musicista un certo influsso, una certa aria di quegli anni. Poi un’altra considerazione è che Basentini, secondo me, è stato un antesignano, un precursore di quello che è stato un recupero delle tradizioni e una riscoperta del folklore e della musica popolare della Basilicata e della musica popolare in Italia. Lui ed altri hanno aperto alla scoperta di questi modi di suonare che affondano le origini in ritmi e canzoni ancestrali. E poi un’ultima considerazione che non vuol essere assolutamente una critica nei confronti di nessuno, ma piuttosto un invito a non dimenticare. Infatti diciamo che, secondo me, esiste una sorta di dimenticanza collettiva che affligge in particolare la città di Potenza ed un po’ tutta la Basilicata che tende a dimenticare i propri figli in vita ed a volte anche da morti, ossia per la Basilicata pare proprio essere veritiero quell’altro adagio popolare che recita così: “nessuno è profeta in patria propria”. Infine un’esortazione a chi compete, quindi ai familiari in primis ed alle case editrici a ristampare questi gioielli in formato digitale per permettere a chi ha voglia di poter ascoltare queste meravigliose canzoni che fanno parte della cultura e della storia della Basilicata e di tutto il Sud Italia. 49 LucaniArt “MAINSTREAM” DI CALCUTTA Mi ha colpito molto questo disco “Mainstream” di Calcutta tanto da indurmi a scrivere queste parole. “Calcutta” all’inizio era il nome del duo formato da Edoardo Calcutta e Marco Crypta, due ragazzi originari di Latina che nel 2011 si sciolgono e Edoardo Calcutta continua la sua carriera solista. Il disco in uscita a novembre di quest’anno che si intitola: “Mainstream” comincia con “Gaetano”, che è una bellissima canzone che racconta in parole e note, l’inquietudine esistenziale, la storia di un ragazzo di quest’epoca, appunto Gaetano, che si annoia a vivere secondo i dettami della società e preferisce fare a botte piuttosto che essere inserito nei meccanismi stritolanti d questa società, lui che è un disadattato romantico e sognatore. Il refrain è: “...suona una fisarmonica e fiamme nel campo Rom tua madre lo diceva: non andare su youporn … .e quante volte ho pensato che un sorriso è una paresi se vedi bene mi annoiavo alle feste mi annoiavo alle cene … “. La seconda canzone è: “Cosa mi manchi a fare”, una canzone che narra quello che succede quando finisce una storia di amore e ci si ritrova soli e bisogna ricominciare a camminare con le proprie gambe. Ambientata a Pesaro nelle Marche, è una canzone di amore e “sana follia” in cui il protagonista rivolgendosi ad uno specchio o all’amata ripete: “ … che mi manchi a fare? ... “. La terza traccia è uno strumentale dal titolo: “Intermezzo 2” un breve frammento sonoro. La quarta canzone si intitola: “Milano” una canzone di rabbia, sentimento molto comune in quest’epoca. Racconta di giorni in cui si avrebbe voglia solo di dormire ed altri da buttare via, in questa Milano paragonata ad una corsia di un ospedale. Ad un certo punto durante “Milano” si può apprezzare un bel fraseggio vocale, un gioco di vocalizzi che tanto ricordano un certo modo di fare canzoni degli anni passati (anni ’70). Anni ’70 che ritornano nella canzone successiva “Limonata”: “ … salutami tua mamma che è tornata a Medjugorie … e non mi importa niente di tuo padre ascolta De Gregori ...a me quel tipo di gente no, non va proprio giù … “. Qua c’è anche un senso di rivolta verso il mondo dei propri genitori, fatto di grandi automobili e beni materiali senza affetto. Un mondo che non appartiene ai figli di quelli che erano giovani durante gli anni ’70, ma che il protagonista di “Limonata” vorrebbe perdonare i propri genitori e restargli accanto nonostante non sia più un bambino. E’ la volta di “Frosinone” che racconta di una giornata di rabbia e normali frustrazioni mentre parafrasando lo stesso autore che leggendo il 50 LucaniArt giornale si accorge che le novità sono che: “ …c’è papa Francesco ed il Frosinone è in serie A … “. Poi è la volta di “Intermezzo 1” altro intermezzo sonoro. Poi è la volta di “Del verde” che narra una possibile via di fuga, in una notte in cui ricominciare. E’ un sogno quello di Edoardo Calcutta ai confini col mondo incontaminato e pieno di verde, rigoglioso e lontano, magari su qualche isola sperduta. E’la volta di “Dal verme” sorta di incubo sonoro strumentale che la mia de / formazione mentale subito rimanda ad un sogno maldestro, una “sorta” di piccolo incubo Kafkiano che sta li quasi a mo’di contraltare alla canzone precedente. “Mainstream” termina con “ Le barche”, una meravigliosa ballata che sembra quasi voler simboleggiare un’altra via di fuga. Un innocente viaggio in barca in cui il personaggio di questa canzone ci invita ironicamente a fare una gita a Peschiera del Garda. “Mainstream” è un disco che racconta la realtà del mondo di oggi lasciando aperte tante vie di fuga. E’ pieno di canzoni ironiche ed apparentemente sbarazzine che descrivono piccole storie di vita che può capitare di osservare. La musica è costruita come un tessuto sonoro fatto di chitarra acustica ed elettronica che produce e scatena emozioni. Il significato stesso della parola Mainstream rimanda al gusto popolare dunque alla musica leggera e dunque ad un calderone da cui però Edoardo Calcutta, da fine cesellatore ed intarsiatore di parole e note quale è, riesce ad estrarre il meglio e a condensarlo in splendide canzoni 51 LucaniArt NON TROVO LE PAROLE DI MALDESTRO Maldestro è il nome d’arte di Antonio Prestieri giovane cantautore napoletano che quest’anno ha esordito con questo bellissimo disco: “Non trovo le parole”. Antonio Prestieri è nato a Scampia ed è figlio di un boss della camorra ma grazie anche alla passione per la musica e per il teatro è riuscito a non fare parte di quel mondo. Ha studiato pianoforte fin da piccolo ed ha esordito a teatro con spettacoli scritti da lui di denuncia sociale. Con le sue canzoni ha vinto numerosi premi (dal premio Ciampi al premio De Andrè solo per nominare quelli più importanti) e molti altri premi minori. Il disco è composto da dieci canzoni, una più bella dell’altra tutte scritte e suonate dallo stesso Maldestro, accompagnato da altri musicisti. Si comincia con “Dannato amore” storia di un amore fra ubriacature e ruvidezze con il suono di un violoncello che rimanda a sonorità di inizio secolo scorso, forse a Parigi, una canzone d’amore delicata e cupa al contempo. La Parigi di inizio ‘900 ritorna in “Georges Méliés (Le voyage dans la lune)”, la seconda traccia che narra dell’illusionista e creatore dei primi spettacoli antesignani del moderno cinematografo, una ballata a tratti struggente. “Io sono nato qui”, la terza canzone è un atto di accusa ma anche una lettera d’amore alla propria terra, quella provincia napoletana dimenticata ed abbandonata a se stessa. La stessa terra descritta da Roberto Saviano in “Gomorra”. Un meraviglioso omaggio, un atto di accusa ma pieno di amore verso le proprie origini, le proprie radici fatto col suono di pianoforte e voce. Quella sua voce roca ed in grado di trasmettere emozioni a chi lo ascolta. La quarta perla è: “Sopra il tetto del comune” che racconta di questi tempi precari, di crisi economica, di cinquantenni che si trovano licenziati ed in mezzo alla strada e che salgono sui tetti per protestare. La musica è ska e sembra quasi una canzone balcanica con tanto di flauto e violino. Il quinto pezzo è: “O sfratto e’ Totore”, storia di uno sfratto per cui il personaggio appunto Salvatore viene sfrattato, ma la storia di Salvatore è solo un pretesto per parlare di millenni e millenni di vessazioni ed ingiustizie perpetrate dalla Chiesa Cattolica ai danni della povera gente. La musica di “O sfratto e Totore” è un incidere quasi marziale fatto di chitarra, batteria e pianoforte. La sesta gemma di questo prezioso scrigno è: “Dimmi come ti posso amare” una ballata d’amore e per un futuro che non c’è. Sono versi di amore e di rabbia mescolati al suono di un’armonica e di una chitarra. Il settimo gioiello è la 52 LucaniArt canzone che da il titolo al disco: “Non trovo le parole”. Un’altra canzone che parla di amore e dell’incapacità di trovare le parole per descrivere il sentimento che il personaggio di questa ballata prova nel suo cuore. Il suono del pianoforte sembra quasi accompagnato da una sezione di archi ed altri strumenti. L’ottava canzone è: “Maldestro”, canzone autobiografica ironica in stile blues con il ritmo incalzante della chitarra. Una specie di meta canzone che ad un certo punto riflettendo su stessa, con la voce del suo stesso protagonista, si chiede e ci chiede se continuare o meno con gli accordi in sol. La penultima canzone è: “Na fenesta”, che inizia con la voce di Peppe Barra, in dialetto napoletano e parla di ricordi, di infanzia, di amori con quel suono di chitarra dolce e che pare quasi una ninna nanna. L’ultima canzone è: “Po po po”, canzone che riflette sull’omologazione dell’informazione e sull’influenza delle notizie che ci vengono date dalla televisione e dai cosiddetti mezzi di comunicazione di massa. Mischiando volutamente suoni elettronici e campionati come quasi a voler raccontare l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa sulle persone. Maldestro da sempre impegnato nella lotta in favore della legalità e contro la malavita organizzata è un esempio per tutti coloro che decidono di rimanere e combattere in terre infestate da poteri corrotti e criminali, ma è anche qualcos’altro. 53 LucaniArt “IL VIANDANTE SOLITARIO” DI MARCO IELPO Marco Ielpo è un bravissimo e talentuoso chitarrista e cantante di Castelluccio Superiore, paese in provincia di Potenza, nato negli anni ’90 e che quest’anno ha pubblicato il suo primo disco: “Il viandante Solitario”. Per me aver avuto la fortuna di poterlo ascoltare dapprima dal vivo al circolo Arci “Artemisia” di Baragiano e adesso mediante il suo disco è un’emozione forte ed uno stimolo. Un’emozione forte perché il suo modo di suonare mi coinvolge, mi trasporta e mi fa sognare. Ma è anche uno stimolo alla conoscenza del così detto “Fingerpicking”, dato che unanimemente a Marco Ielpo viene associata questa parola, questo modo di suonare. E devo ammettere la mia poca conoscenza di questa maniera di suonare la chitarra. infatti a parte alcuni dischi di Beppe Gambetta ed un disco del 1983 del mitico Stefano Rosso: “La chitarra fingerpicking di Stefano Rosso”, conosco poco altro. Per me quindi è stata una scoperta, grazie alla musica di Marco Ielpo mi si sono aperti squarci su un mondo che conoscevo poco: quel modo di suonare la chitarra variegato e sconfinato definito “Fingerpicking”. Comunque, al di la ed oltre le classificazioni dei genere musicale, Marco Ielpo è un Musicista con un suo stile unico di comporre musica e di suonare la chitarra. Leggo dalla seconda di copertina del suo disco che: “Il Viandante Solitario” contiene i primi brani composti da me a partire dal 2012 … L’album prende il nome dall’omonimo brano … Questo disco è per me molto personale, in quanto è stato curato da me in ogni fase della sua realizzazione … sono felice di poter condividere ogni brano, ogni nota, ogni errore presente in questo album con altre persone, sperando di riuscire a trasmettere qualcosa”. Una vera e propria dichiarazione poetica e di umiltà, dote alquanto preziosa ed estremamente rara al giorno d’oggi. Le nove canzoni che compongono questo bellissimo disco, riescono a trasmettere emozioni e sensazioni che fanno viaggiare con la testa e con il cuore. “Welcome” il brano che apre questo disco è un breve frammento che sembra quasi dirci benvenuti in questo mondo, nel mondo di questo viandante solitario che la mia fantasia rimanda ad altri mondi, una sconfinata distesa del West o ad una pianura Australiana. Australiano come il grandissimo Tommy Emmanuel “maestro” dichiarato di Marco Ielpo, suo principale riferimento musicale oltre che molti altri musicisti jazz, blues e folk. Il disco procede in questo viaggio da viandante con: “Emozioni” un capolavoro di accordi e corde suonate, emozioni che scorrono copiose 54 LucaniArt in una giornata o in un pomeriggio estivo qualsiasi. E’ la volta di “Tit for Tat”, brano che credo alluda ad una strategia paradossale usata nella teoria dei giochi per risolvere il dilemma del prigioniero, il paradosso nasce dalla seguente domanda: i due prigionieri cooperano per ridurre la condanna di entrambi o uno dei due ammazzerà l’altro per ridurre la propria condanna? Il tutto nello stile di Marco Ielpo con quel suo modo di “toccare” la chitarra, di suonare con le dita. “Thinking of You” è una canzone suonata con la tecnica del “The Engle”, un innovativo modo di suonare la chitarra con un martelletto, di cui Marco Ielpo e Luca Francioso sono gli unici Endorser Italiani ossia gli unici due in Italia ad usare questa tecnica. “Thinking of You” mi da la sensazione che sia una canzone di amore, in cui questo viandante solitario pare abbia scoperto un affetto, come se abbia il cuore contento. “Intorno a me”è una canzone blues cantata dallo stesso Marco Ielpo che narra di quello che accade quando il personaggio di questo disco alza la testa e guarda con i propri occhi a tutto quello che è cambiato intorno a lui e di come i suoi gesti quotidiani possano indurlo a commettere errori. ”Dreaming”, è un sogno di chitarra suonata in maniera percussiva con l’innovativa tecnica del “The Engle” in cui il viandante solitario sogna e immagina di fughe, magari nel vecchio West o in una sconfinata pianura australiana, magari a bordo di vecchi treni. Gli stessi vecchi treni di “Railway blues” che ricorda suoni e spezzoni di film western, pistoleri yankee e pellerossa indigeni, in una torrida estate senza tempo, ma forse anche i treni di qualche tratta ferroviaria Lucana. E quel suono pulito e sporco al contempo della sua chitarra che è la vera voce di Marco Ielpo, il suo linguaggio particolare. Così come nella successiva “Spirito” che è una vera e propria ballata col finale che sembra che le corde vengano letteralmente pizzicate. E il disco si conclude con un’altra canzone cantata che da il titolo all’intero album: “Il Viandante Solitario”. Ed è in questa canzone che Marco Ielpo raggiunge l’acme compositivo in una specie di punto di approdo del viaggio di questo viandante solitario. Una bella canzone che parla di questa figura di viandante precario che viaggia fra desolate strade lucane e di cani a cui viene sottratto l’osso, del duro lavoro e del sacrificio di chi nonostante tutto e tutti sfida il pregiudizio sociale e decide di vivere della propria arte, di chi decide di diventare se stesso assumendosene sia rischi che successo, oneri ed onori. I lunghi accordi blues della canzone finale di questo disco e le parole di questo giovane chitarrista sembrano la giusta chiosa di un viaggio fatto con addosso una chitarra e tante 55 LucaniArt emozioni. Le emozioni che Marcio Ielpo dichiara nella seconda di copertina di sperare di riuscire a trasmettere a chi lo ascolta, riesce eccome a trasmetterle. Mi piace chiudere queste parole su: “Il Viandante Solitario” di Marco Ielpo con un duplice augurio: allo stesso modo con cui Tommy Emmanuel ha sempre dichiarato di essere stato ispirato dalla musica di Chet Atkins ed Hank Marvin ma poi è diventato uno dei più grandi interpreti di fingerpicking a livello mondiale auguro con tutto il cuore a a Marco Ielpo che dichiara di essere stato influenzato dalla musica di Tommy Emmanuel di raggiungere vette altissime e perché no di diventare più bravo ed apprezzato anche dello stesso Tommy Emmanuel e che soprattutto il suo viandante solitario prosegua il suo cammino, fra lande lucane ed amici, fra concerti e nuovi dischi. 56 LucaniArt “VERSO IL NUOVO REGNO” di GABRIELE RUSSILLO Musicista e Poeta di Baragiano, Gabriele Russillo, dopo diverse esperienze in Italia ed in tutta Europa, dopo aver militato in diverse band, innovatore instancabile e polistrumentista, quest’anno ha dato alla luce: “Verso il Nuovo Regno”. Questo disco è un’Opera che parla di un viaggio, credo del suo stesso autore, viaggio inteso come attraversamento e riconquista di un territorio, la Basilicata ed il Sud Italia, ma anche come viaggio interiore della propria anima. Il disco si apre con “Anelito di un viaggio” in cui il Musicista con degli arpeggi e fraseggi di chitarra e sonorità di flauto crea quel suo sound inconfondibile misto di flamenco e tradizione popolare dell’Italia del Sud alternandosi al Poeta che narra di polvere e fango, di campi di grano e di gigli, di sorrisi donati a viandanti e di smeraldi ed aneliti di viaggi che riecheggiano e rimandano ad epoche passate. In questa “ouverture” che è, secondo me, anche una dichiarazione della sua poetica, Gabriele Russillo da moderno viandante e sagace menestrello ci racconta, col suo linguaggio, l’essere umano in cerca della propria anima. La seconda canzone è “Rinsaldare le vite”, in cui su ritmi mediterranei si stagliano parole che descrivono di un altro viaggio dell’anima fra ricordi giovanili e confronti / scontri coi quarantenni, col mondo degli adulti. Il filo che tiene in piedi questa bellissima canzone è la ri / scoperta di affetti sopiti in grado appunto di rinsaldare e riappacificare l’anima e la propria vita. Il terzo pezzo è: “Fiotti d’anima”, il cui suono incalzante della chitarra è interrotto da parole che rimandano all’identità Lucana, che scorre nel sangue e nell’anima del nostro stesso Musicista e Poeta. La quarta canzone è: “L’aurora”, una storia d’amore fra volti, occhi e labbra, fra baci e carezze mentre il mondo intorno sembra perduto con i personaggi di questa canzone che continuano a danzare in una “sorta” di ballo apotropaico che protegge e rigenera la vita. La quinta gemma di questo prezioso scrigno è: “Della bellezza”, in cui echi lontani risuonano di un incontro che grazie alla bellezza e alla follia di un attimo nutre la vita. Il suono di Gabriele Russillo rimanda sempre a ritmi mediterranei e anche ad altre sonorità più vicine alla tradizione del Sud Italia come ad esempio: pizzica e tarantella. Come nel caso della canzone seguente: “Danze gitane” che mischia flamenco a sonorità mediterranee in un racconto di viaggi ed amici, di odori e sapori di altre terre, di sole che brucia e vento che percuote l’anima. Poi è la volta di “Altalena”, melodia dolce e struggente che schiude una dolce visione di una ragazza che dondola 57 LucaniArt fra mille petali di rosa. E’ una visione che ammalia e che seduce, volto di fanciulla e cuore d’oro, al ritmo di flamenco e conclusione al suono di flauto, quasi come se fosse un piatto tipico e buonissimo fatto da uno chef stellato. Un apice compositivo ed una stupenda ballata che ricorda molto da vicino la musica di Paco De Lucia. La canzone successiva è: “Stone Age – Eternal love”, un brano strumentale fatto di percussioni e di basso, quel basso che Gabriele Russillo suona con un’accordatura strana e credo unica e sua personale, che gli ha permesso in passato di vincere numerosi premi internazionali. Il basso credo che sia il suo strumento principe, la sua eccellenza. La traccia successiva è: “Sfonda! Verso il Nuovo Regno” , brano strumentale che sembra alludere quasi alla fine del viaggio e all’approdo nel Nuovo Regno, forse un altro percorso nelle sonorità e negli incubi, nei sogni e negli aneliti del suo stesso autore. Il disco si conclude con: “Eroica, senza fine” che comincia col suono del flauto e prosegue con il suono della chitarra incastonando note e cesellando parole per descrivere il viaggio. In tutto il disco si ha la sensazione che i suoni vengano da altri luoghi e trasportino storie e conquiste di nuovi spazi, di nuovi regni. Ricordano sia riti di passaggio, universali ed essenziali ma al contempo rimandano al tema della rivolta, della ribellione. “Verso il nuovo Regno” interamente suonato e registrato da Gabriele Russillo è un gran bel disco che si lascia ascoltare, che rapisce e trasporta verso altri luoghi, verso altri mondi, verso il Nuovo Regno. 58 LucaniArt IL VIAGGIO NEL BLUES DI ANDREA GIANNONI Alcuni giorni fa durante uno dei miei vagabondaggi musicali mi è capitato di ascoltare una canzone di un armonicista blues intitolata “I’m Comin’ Home (Da fiume a fiume)” di Andrea Giannoni e allora sospinto dalla mia curiosità mi sono messo alla ricerca di altre canzoni e di sue notizie e alla fine è venuta fuori l’idea di scrivere qualcosa su questo artista e su questo disco sorprendente e molto bello. "Da fiume a fiume" è un disco uscito nel 2015 di Andrea Giannoni un musicista ed in particolare un armonicista di Sarzana in provincia di La Spezia, che dopo anni di collaborazioni con i migliori interpreti di blues e soul italiani ha pubblicato il suo primo disco a nome proprio. Un album composto da sette brani, che come sopra accennato vanta importanti collaborazioni musicali tra cui quella dei chitarristi Enrico Gastardelli e Marcello Milanese, ma anche di uno dei più grandi interpreti di funk italiani ossia Bobby Soul. Dunque diciamolo subito: è un disco di blues viscerale che parte dagli Stati Uniti d’America ed arriva in Italia ed in Liguria in maniera speciale, andata e ritorno e lo fa diverse volte. Il viaggio comincia con “Burn in helll” in cui riecheggiano suoni blues con l’immancabile suono dell’armonica, con una chitarra sorniona ed un kazoo per poi subito approdare con “I'm Comin Home (Da fiume a fiume)” canzone che da il titolo al’album, fra i sentieri liguri, i famosi Caruggi di DeAndreiana memoria. Questa canzone, che è palesemente una dichiarazione di intenti e di poetica, scorre a ritmo di blues con l’armonica che la fa da padrona e con un finale che lascia senza respiro con parole bisbigliate che sembrano recitate in chiesa come un mantra e con il suono di una fisarmonica che fa venire i brividi. Poi il viaggio prosegue con un classico della storia del blues “John the Revelator”, un tipico brano blues del delta del Mississippi. Il viaggio prosegue con “Lay My Burden Down (il Catino Dei Vigliacchi)” in cui il suono della tromba mischiato con l’immancabile armonica ed il suono di uno strumento a fiato che sembra un flauto da delle sensazioni quasi di preghiera “a mo’” di gospel in un finale melodico. La quinta canzone è “Meet Me in the City” in cui l’incedere delle percussioni, i suoni della chitarra con l’onnipresente armonica unita ad un cantato diverso dal resto del disco che si potrebbe definire un po’ meno sguaiato e più acuto danno piacevoli sensazioni all’apparato uditivo. La sesta canzone è “Othar Man (il Sogno di Othar Turner)”, è una canzone, omaggio a Othar Turner un grandissimo bluesman che suonava con strumenti costruiti da lui stesso 59 LucaniArt con canne di bambù i cosiddetti “riffari”. Il viaggio si conclude con “One night (Il sogno di mio padre)”, brano che è anche il primo singolo estratto dell'album. Si tratta di una canzone che fra atmosfere blues rimanda al ricordo di un padre che torna in sogno. “Da fiume a fiume” è un disco carico di sonorità che dal Mississippi arrivano al Magra il fiume che passa per Sarzana, suonato molto bene e frutto di un faticoso lavorio di cesellamento e ben incastonato fra le diverse anime che lo compongono. Parafrasando lo stesso Andrea Giannoni: “Quasi due anni per pensare un disco, perché la musica che suono non è roba facile, mescola e strappa quello che credevi di saper fare e che invece imitavi semplicemente. Il blues è una cosa grave, almeno quello che conosco io. Il blues è un'attitudine ben precisa che molto spesso tradisce le tue aspettative, per poi rifarsi una verginità da specchio con quello che rimane della tua curiosità”. Un disco questo “Da fiume a fiume” ricco di tematiche affrontate con una musica sublime. Infatti questo disco parla di vita e di morte, di sogni e di viaggi. Tutti temi cari al blues. Questo disco sembra quasi racchiudere la carriera artistica del suo autore, con l’armonica e i suoni blues, con brevi pezzetti cantati e la musica ridotta all’osso e soprattutto suonato in maniera sorprendente. Mai troppo scarno, nemmeno barocco o fatto di suoni virtuosistici fini a se stessi, questo “Da fiume a fiume” di Andrea Giannoni è un gran bel disco che scorre piacevolmente nel mio impianto stereo in questi pomeriggi di fine inverno in attesa della primavera. 60 LucaniArt ASCOLTI DAL MONDO 61 LucaniArt DOLORE E CREATIVITA’NELLA MUSICA DI BILL EVANS William John Evans detto Bill era nato a Painfield nel New Jersey il 16 agosto del 1929 da un gallese emigrato negli Stati Uniti, Harry Evans e da Siroka, di origine russa della chiesa ortodossa. Secondogenito aveva un fratello più grande, Harry Junior. La mamma era grande amante della musica classica ed era una discreta pianista e fu lei molto probabilmente ad infondere nei figli, e soprattutto in Bill, la passione per la musica. Bill era cresciuto tra il suono delle canzoni popolari del Galles e quelle della chiesa ortodossa russa. I genitori fecero impartire loro lezioni di musica: di piano al fratello Harry, di violino al giovane Bill di appena sei anni e in seguito, a tredici anni, di flauto. Bill assisteva spesso alle lezione di pianoforte impartite al fratello Harry e quasi per caso, per gioco, trovava facile e divertente ripetere ciò che aveva ascoltato. Fu così che ben presto si era dedicato a riprodurre sul pianoforte quei colori, quei suoni, quel tocco e quella dinamica che aveva sperimentato sugli altri strumenti. Bill fin da bambino si era dedicato allo studio delle musiche della tradizione classica, da Debussy a Mahler a Stravinskij per molte ore al giorno nello studio di questo strumento, il pianoforte, conosciuto quasi per caso. “Mi sforzavo di suonare ogni cosa con sentimento, con pathos ed espressività, utilizzando il pianoforte come un potente mezzo di espressione, la musica come un altro linguaggio, un linguaggio fatto di sentimenti e sensazioni”, come dirà poi lo stesso Bill. Una volta cresciuto era diventato un giovane dotato di gradevole presenza, alto e con belle mani. Aveva fatto dello studio classico, sei ore al giorno, il suo bagaglio. Prediligeva autori come Bach, Chopin, Debussy, Ravel, Bud Powell, Lennie Tristano. Successivamente però negli anni della guerra fredda aveva iniziato a far uso di stupefacenti per sopportare come meglio poteva le conseguenze di un servizio militare assai duro. Era stato all’inizio degli anni cinquanta il fratello a fargli conoscere il jazz. E il giovane Bill era attratto dall’ l'improvvisazione. Ma a guardar con altri occhi le cose, forse era stato il jazz a scoprire lui. Aveva suonato a dodici anni nell'orchestra di Buddy Valentino ed aveva precocemente scoperto che si poteva andare oltre le note scritte su di un pentagramma, ed il senso del blues. “Mi si aprì un nuovo orizzonte: l'improvvisazione jazz, che mi permise di rompere i rigidi schemi della musica accademica”, come dirà successivamente il Nostro Autore . Le conoscenze, il sapere e il saper fare, di Bill Evans erano superiori a quelle di tanti altri jazzisti. Infatti Bill Evans era diplomato in armonia 62 LucaniArt e composizione oltre a possedere un profondo ed immenso background di studi classici. Inoltre si era anche laureato ed aveva suonato il flauto in una banda militare durante il servizio militare. Nella sua vita ebbe due compagne: Elaine e Nenette, ma fu costretto a sacrificare la vita affettiva per la carriera musicale. La sua vita fu costellata da numerosi lutti. Nel 1971 infatti aveva perso la compagna Ellaine, morta suicida nella linea della metro newyorkese, poi il padre Harry, alcolizzato da tempo e ormai distrutto dall'alcol e nel 1979 aveva perso il caro fratello Harry Junior anch’egli morto suicida. Ma già molti anni prima, nel 1961 il suo caro amico e giovane contrabbassista Scott LaFaro aveva perso la vita in un tragico incidente stradale, fermando inesorabilmente il suo nuovo linguaggio musicale in fieri. La droga aveva fatto irruzione nella vita di questo genio già molti anni prima ma per Bill, il fratello Harry era un punto di riferimento e morirà appena un anno dopo il suo suicidio nel 1979, in preda alla depressione. Dal 1951 al 1954 era sotto le armi a Chicago. Da Chicago aveva deciso poi di trasferirsi a New York nel 1955 deciso ad intraprendere la carriera di musicista professionista. In questo periodo aveva conosciuto Tony Scott, un già affermato sassofonista e aveva iniziato a suonare con altri musicisti. Nel 1955 la prima incisione professionale non da leader, al fianco della cantante Lucy Reed, in cui aveva fatto la comparsa un suo capolavoro “Waltz for Debby". Nel 1956 aveva stretto amicizia con il pianista George Russell. Sempre nel 1956 aveva registrato il suo primo album: “New Jazz Conceptions”. Pare di ascoltare Lennie Tristano fra i solchi di questo disco. Dopo l’incisione di “New Jazz Conceptions” era accaduto un mezzo miracolo: era stato invitato da Miles Davis a collaborare nella stesura di “Kind of Blue” unanimemente riconosciuto uno dei migliori album mai incisi nella storia della musica. Bill Evans insieme a tutto il manipolo di geni che ruotavano intorno a “Kind of Blue” era riuscito in una duplice impresa: aveva contribuito a rivoluzionare la storia della Musica con questa collaborazione ed era riuscito personalmente a creare un linguaggio pianistico nuovo. Successivamente Bill Evans col suo Trio aveva posto le basi per la creazione di un linguaggio musicale ex novo, il suo jazz con quel tocco di rara bellezza ed una preparazione straordinaria, sempre chino sullo strumento ed i capelli lisci e pieni di brillantina ed il volto da bianco ed impallidito. Il jazz del trio Evans aveva raggiunto sfere espressive mancanti fino a quel momento: colto, ricercato ma anche un jazz con gocce di tenera allegria. Mi piace terminare questo piccolo omaggio al Genio di Bill Evans con le parole di Enrico Pieranunzi, pianista 63 LucaniArt italiano di fama internazionale e autore di una biografia di Evans: “Le sonorità morbide e risonanti, sempre conseguenti al carattere della narrazione in musica che egli sta improvvisando, senza mai ricercare uno scopo meramente decorativo o narcisistico". Come diceva lo stesso Evans in uno dei suoi più grandi capolavori di piano solo "Alone": “Il pianoforte è un mezzo (medium) di comunicazione artistica e la solitudine ti permette di raggiungere una perfetta armonia e comunicazione con lo strumento. Ma ciò solo in fase di studio per ottenere la massima concentrazione e il proprio miglior modo possibile di suonare, poi quello che conta nell'esibizione è riuscire a catturare il pubblico facendo in modo che il pianismo non sia uno sfondo ad un cocktail o ad una cena”. Bill Evans 64 LucaniArt IL GENIO SCONFINATO DI LENNIE TRISTANO Leonard Joseph Tristano, detto Lennie era nato il 19 marzo 1919 a Chicago da genitori emigranti di origine italiana, precisamente di Aversa in provincia di Caserta. Era secondogenito di quattro fratelli. L'influenza spagnola lo aveva reso cieco a nove anni, gli aveva deturpato il volto e aveva rallentato il suo sviluppo mentale. Era stato mandato, dopo varie bocciature, ad una scuola per ciechi nell'Illinois dove era emerso sui compagni per la particolare inclinazione per la matematica e la musica. Aveva iniziato lo studio del pianoforte, del sassofono, del clarinetto e del violoncello diventando direttore di alcune orchestrine studentesche. Successivamente si era iscritto al Conservatorio di Chicago, aveva conseguito ottimi risultati ed in brevissimo tempo: in soli due anni sui quattro necessari. Obbligato dal regolamento del conservatorio a studiare per almeno tre anni, si era diplomato anche in pianoforte e composizione. All’inizio degli anni quaranta aveva lasciato il conservatorio senza diploma ufficiale dato che non era in grado di pagare la retta. Aveva iniziato a guadagnare i primi soldi suonando nei night club e nelle feste private poiché era stato escluso dai circuiti del jazz dato che nessuno riusciva a comprendere la Sua musica, che non vendeva fra l’altro perché i proprietari delle case discografiche e quelli dei locali jazz ancora non avevano la minima comprensione delle concezioni musicali di questo immenso Genio. Le cose iniziarono a cambiare quando Lee Konitz, dopo averlo ascoltato, ne era rimasto talmente impressionato da convertirsi ai suoi ideali jazzistici. Successivamente lo ritroviamo a New York, dove si era trasferito per seguire i Suoi interessi musicali. Ben presto era riuscito a farsi apprezzare come pianista. In trio con il chitarrista Billy Bauer e il contrabbassista Arnold Fishkin aveva mostrato a tutti la sua originalità concettuale fondata su lunghe linee melodiche, intervalli inconsueti e sequenze di accordi suonati da entrambe le mani. Fra i suoi modelli c’era Art Tatum. Verso la fine degli anni quaranta aveva registrato con i sassofonisti Lee Konitz e Warne Marsh alcune delle sue cose più belle. Antesignano. solitario, incompreso e geniale, Lennie Tristano aveva anche composto brani completamente improvvisati senza alcuna melodia, armonia o ritmo predefinito, anticipando di molti anni la nascita del free jazz. Il disco “Lennie Tristano” del 1955 contiene una delle migliori improvvisazioni del jazz: “Requiem”. La leggenda intorno alla nascita di questo capolavoro vuole che, mentre si trovava in sala d'incisione, 65 LucaniArt gli era stata annunciata la morte di Charlie Parker e che questo sia stato l'omaggio al grande jazzista. Un'altra perla di questo disco è il brano “Turkish Mambo” in cui, forse per la prima volta nel jazz, veniva utilizzata la registrazione su più tracce ri-mixate in fase finale. Tra i dischi registrati da Tristano, uno dei più importanti è “The New Tristano” del 1962. Dalla metà degli anni cinquanta Lennie Tristano si era concentrato sulla formazione diventando probabilmente il primo a insegnare jazz in maniera strutturata. Con quel viso butterato e il lungo naso ossuto sembrava quasi che la faccia gli sarebbe scivolata via dal cranio, di lì a poco e che lui se la sarebbe trovata sulla tastiera. Gli occhi, chiusi, avrebbero abbandonato la loro posizione e avrebbero iniziato a galleggiare in quelle occhiaie che gli solcavano sempre il volto. Sembrava deformata dalla forza di gravità, quella faccia. Forse per questo motivo sono pochissime le foto in cui Tristano sorride. Forse per questo motivo il suo jazz era chiamato il jazz posato, il jazz dei bianchi, il jazz freddo, il cool jazz. Lennie Tristano era un caposcuola, con decine di discepoli a cui oltre che musica amava anche insegnare letteratura, filosofia e psicologia. Eppure nessuno è mai riuscito a “rifare” Tristano, nessuno ha mai saputo raccogliere il Suo testimone, rimettere le mani sulla tastiera e suonare come lui faceva. Il Suo jazz era una “sorta” di jazz che snatura il jazz, perché non può esistere un jazz che non sia sensuale, che non sia vitale o che non tocchi le corde dell'anima. Ecco alcuni aggettivi per tentare di descrivere la musica di Tristano: lucida, allucinata, stridente, nitida, ipnotica ed assorta. Un jazz diverso, un jazz nuovo. Un jazz senza paura di rievocare Bach. Tristano si era ritirato presto dalle scene. Aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita lontano dai palchi e dalle sale di incisione, continuando però a insegnare. Idolatrato dai suoi discepoli, era diventato ben presto un mito della musica jazz. Un mito isolato e unico, una meteora che era riuscita a brillare solo a cavallo fra gli anni quaranta e cinquanta. Lennie Tristano aveva suonato una parola nuova, una parola originale, non più ripetuta. E forse per questo, ancora oggi, la sua figura appare come isolata, non catalogabile, solitaria. Oltre ad essere un Genio della musica jazz era stato anche un grandissimo pensatore del jazz e forse anche per questo era stato accusato di freddezza, di intellettualismo. Eppure ogni nota accarezzata dalle sue dita non era stata pensata che un millesimo di secondo prima di venire suonata. Non improvvisava, Lennie Tristano: componeva all'impronta. Lui lo chiamava jazz intuitivo. Creato come dal nulla, spesso senza una base armonica e ritmica fissa. Quale modo 66 LucaniArt migliore per concludere questo piccolissimo omaggio a questo sconfinato Genio se non con le parole di Franco Fayenz uno dei massimi esperti in materia Tristaniana? “La vicenda umana e artistica di Lennie Tristano è assolutamente unica, nella storia del grande jazz. Cieco e visionario, quasi un recluso nella propria casa-laboratorio ma in grado di agire sul presente e il futuro del jazz attraverso l’opera propria e quella dei suoi allievi (fra cui giganti come Lee Konitz, Warne Marsh e molti altri), un autentico guru, Tristano ha indicato al jazz moderno direzioni che ancora oggi suonano rare e preziose. Egli fu in grado di portare alle estreme conseguenze i metodi creativi del Bebop con una mentalità apertamente contemporanea ed eclettica, attenta al portato della musica euro-colta del Novecento ma anche al senso tragico del blues, e perfino alle risorse delle tecnologie di manipolazione e post-produzione sonora di cui, incurante delle critiche di un giornalismo impreparato ad innovazioni che si sarebbero affermate pienamente solo vent’anni dopo, fu un assoluto pioniere. Profeta e santone, indifferente a ogni routine e moda culturale, Tristano era in anticipo sui tempi: anzi, fu un musicista totalmente estraneo all’effimero, al transeunte, alla stessa concezione borghese del progresso, inseguendo un’idea di musica per certi versi fuori dalla storia, e dunque per ciò stesso atemporale, universale, assoluta”. 67 LucaniArt “KIND OF BLUE” DI MILES DAVIS Credo che chiunque ami la musica ed il jazz non possa non amare “Kind of Blue” di Miles Davis. Quindi col dovuto rispetto verso le più grandi opere d’arte di tutti i tempi, mi inchino dinanzi al Genio, mi tolgo il cappello e molto umilmente tento di parlare di questa pietra miliare e capolavoro assoluto della storia del Jazz, della Musica e di tutti i tempi. Ero un giovane studente universitario ed ero a Roma quando per la prima volta ascoltai questo disco, vivevo la mia personalissima passione per la storia del jazz ed ero arrivato più o meno verso la fine del bebop così solo per dare qualche ridicola e forse anche superflua coordinata ma questo è quello che mi accadeva. Piccola parentesi solo per dire che il signor Davis era stato giovanissimo, amico di Charlie Parker ed anche testimone della nascita del bebop, in seguito aveva capitanato tutte le più grandi rivoluzioni del jazz fino agli anni ottanta. Ma “Kind of Blue” è qualcosa in più, una delle più belle opere d’arte partorite dalla mente di un essere umano nel corso di tutto il Novecento. Un disco a proposito del quale pare sia stato scritto tutto ed il contrario di tutto. Da dove iniziare se non dalla lista dei musicisti che hanno partecipato alle sessioni da cui è nato “Kind of Blue”: John Coltrane e Cannonball Adderley rispettivamente al sax tenore e alto, Bill Evans al piano, Paul Chambers al basso, James Cobb alle percussioni, Wynton Kelly all’altro pianoforte e Miles Davis alla tromba e allora il semplice sospetto di trovarsi di fronte a qualcosa di grande diventa poi certezza quando si inizia ad ascoltare. Si tratta di jazz modale che nasce dalla liberazione dalla gabbia armonica degli accordi e dalla massima libertà nell’improvvisazione, che fa appunto riferimento alle scale modali piuttosto che a quelle relative ai singoli accordi, eseguita su giri armonici molto più semplici rispetto a tutti gli altri stili fin’allora sperimentati. Un esempio di tutto ciò lo si ha fin dall’incipit del disco, con la meravigliosa “So what”, composta sostanzialmente da un unico accordo ripetuto in tutti i modi possibili a volte alzato o abbassato di un semitono di modo tale da creare un vero e proprio mondo in un accordo, musica nella musica. "So what" si apre con una breve introduzione affidata al piano e al basso a cui subito dopo susseguono fraseggi del basso a cui risponde il pianoforte e poi quel suono della tromba coi due sassofoni e a chiudere nuovamente il piano. Poi si passa a "Freddie Freeloader" e cioè Freddie lo scroccone, titolo ispirato da un barista tuttofare amico di Davis, sorta di blues con un 68 LucaniArt pianoforte che pare quasi saltellare in compagnia della tromba e dei sassofoni . Ecco che arriva “Blue in green" brano romantico quasi una “sorta” di ballata, dal procedere rotondo in cui la tromba con la sordina dialoga con il sassofono e col pianoforte. Poi è la volta di "All blues" un blues in cui la sezione ritmica sembra ripetere quasi la magia di “So Wath” con la tromba i sassofoni e il piano, il suono sembra avvolgere l’ascoltatore come una coperta in una fredda giornata. Chiude il disco “Flamenco sketches" il brano più melodico in cui la tromba trascina subito in terra di Spagna seguita dai sassofoni e da un meraviglioso piano e nuovamente a chiudere la tromba. “Kind of Blue” è un disco che arriva dritto diritto al cuore di chi lo fa suo, si può tranquillamente ascoltarlo e riascoltarlo tante e tante volte ed anche a distanza di cinquant’anni ma si ha sempre la sensazione che una specie di magia aleggi fra le Sue note: la capacità di trascinare l’ascoltatore in un altro mondo. “Kind of Blue” forse non ha definizione, sicuramente si tratta di uno dei passaggi fondamentali per lo sviluppo della musica del secolo scorso, dunque non solo un grande disco ma forse anche un pezzo di Storia dell’Arte Contemporanea 69 LucaniArt LA GENIALITA’ THELONIOUS MONK NELL’OPERA ARTISTICA DI Thelonious Monk era affetto da quella che oggi un esperto di disagi psicologici definirebbe “disturbo bipolare dell’umore”, dato che la sua vita era costellata di momenti di creatività ed altri di profondo mutacismo.. Thelonious Sphere Monk era nato il 10 Ottobre del 1917 a Rocky Mount nel North Carolina. Secondogenito di Thelonious e Barbara, aveva una sorella maggiore Marian ed un fratello più piccolo Thomas. Nel 1922 la famiglia Monk si era trasferita a Manhattan a New York e il piccolo Thelonious aveva iniziato a prendere lezioni di pianoforte ed a suonare in chiesa l’organo fin dalla tenerissima età. Nei primi anni Quaranta aveva iniziato a lavorare con molti gruppi jazz dell’epoca ed era diventato ben presto uno dei pianisti che ruotavano intorno al club Minton’s, noto luogo in cui sarebbe nata di li a poco forse una delle più grandi rivoluzioni della Musica jazz ma permettetemi di affermare anche una delle più grandi rivoluzioni di tutta la storia della Musica: la nascita del bebop. Nel 1944 Thelonious Monk era entrato per la prima volta in uno studio di registrazione, insieme al quartetto capitanato da Coleman Hawkins a registrare un disco. Nello stesso anno il suo ben noto brano “Round Midnight” era stato registrato da Cootie Williams. In quegli anni il non più giovane pianista Thelonious Monk suonava al Club Spotlite con l’orchestra di Dizzy Gillespie. Tre anni più tardi, nel 1947, aveva fatto la Sua prima registrazione con un sestetto. Tra il 1947 e il 1952 aveva registrato altri cinque dischi e nel 1950 aveva collaborato con Charlie Parker. Nel 1952 Monk aveva firmato un contratto di tre anni con la Prestige Records, con cui aveva registrato alcuni dei suoi capolavori “Little Rootie Tootie” dedicato ai figli, e “Bags Groove” in un memorabile incontro con Miles Davis alla vigilia di Natale del 1954. Due mesi prima aveva registrato un album con Sonny Rollins e nel giugno del 1954 aveva registrato il suo primo album solista, a Parigi. Viste le ristrettezze economiche la tiepida accoglienza della critica e la scarsa vendibilità delle opere di questo Genio un ormai quasi quarantenne Thelonious Monk si era ritrovato a far i conti con la realtà. Ma in quegli anni fine cinquanta ed inizio sessanta aveva inoltre già registrato e collaborato con tutti i più grossi jazzisti mondiali. Thelonious Monk aveva poi continuato a far musica per tutti gli anni sessanta e gli anni settanta, fino alla Sua morte avvenuta il 17 febbraio del 1982 a Weehawken. Carriera strana quella di Thelonious Monk. 70 LucaniArt Costretto ad abbandonare fin da bambino il proprio ambiente a causa del trasferimento della Sua famiglia, poco più che adolescente se ne era stato in giro per l’America ad accompagnare le prediche di un’evangelista. Al rientro a casa era possibile trovarlo ad esibirsi al famoso Minton’s club, crocevia di molta storia del jazz fra gli anni quaranta e cinquanta. Aveva partecipato alla nascita del bebop. A trenta anni la prima incisione a proprio nome. E quasi nessuno che se ne era accorto di questo Genio. Poi incisioni e concerti, intervallati da storie di droga e di cattive compagnie ed il successo dopo i quarant’anni. Finalmente i riconoscimenti, i capolavori. Ma in fondo erano le stesse cose che Lui suonava da anni, identiche, brani e stile. Solo che il mondo adesso se n’era accorto. E allora il successo, i dischi della consacrazione, le copertine e poi rapido il sipario. Nessuna tragica fine, nessuna fine rapida, da vero maledetto. Il declino più lento e tragico di tutta la storia del jazz. Chiuso in una stanza per cinque anni a fissare il muro, pazzo e Genio. Colui che aveva inventato un nuovo modo di suonare e di fare Musica, colui che più di ogni altro era riuscito letteralmente a scolpire a il tempo ed a trasformare il pianoforte in sezione ritmica moriva nella più totale solitudine. Thelonious Monk era dotato di una tecnica meravigliosa e completa, che lui stesso aveva iniziato ad erodere dal Suo interno per cercare di aprire a successive rivoluzioni e non solo pianistiche. Era un equilibrista, un acrobata sempre in bilico sul filo, ma non aveva paura di cadere. Un uomo troppo discreto e troppo geniale, da risultare incomprensibile a molti suoi contemporanei che aveva avuto due donne complementari e indispensabili nella sua vita la moglie Nellie e la baronessa Pannonica de Koenigswarter, senza la pazienza e l’umiltà della prima, senza la passione e i mezzi della seconda, chissà che ne sarebbe stato dell’uomo e della Sua musica. Questa musica sghemba e luminosa, spigolosa e sferica, affondata nel blues ma proiettata altrove. Quella che Monk ha continuato serenamente a coltivare senza fretta, senza rincorrere mai un collega né uno stile, fregandosene di tutto finché non è stato il mondo ad accorgersi di lui. Thelonious Monk ha scelto il suo spazio, ha piantato la Sua pianta e ha cominciato a coltivarla innaffiandola e curandola per tutta la vita fino a farla diventare un’enorme e meravigliosa pianta di altissimo fusto che oggi conosciamo: l’opera artistica e geniale di uno dei più grandi jazzisti di tutti i tempi. 71 LucaniArt LE ORIGINI DELLA MUSICA POPOLARE BRASILIANA: LO CHORO Lo Choro ossia il primo genere musicale brasiliano è nato durante l’Ottocento, quando si è stabilita a Rio de Janeiro la corte imperiale portoghese. Oltre a portare un’ondata urbanistica di modernizzazioni infrastrutturali, quest’evento ha avuto l’effetto di creare una classe sociale media e urbana, fatta di funzionari e piccoli commercianti prevalentemente di origine afro - brasiliana, che ha contribuito alla nascita dello Choro, fornendo sia gli interpreti che il pubblico. Una delle prime manifestazioni di questo nuovo genere musicale è quella avvenuta nel 1845, quando al teatro imperiale Sao Pedro ci fu il primo spettacolo di polca, che da alcuni mesi furoreggiava a Parigi e Lisbona. Quello stile musicale fornì la materia prima per la definizione stilistica dello Choro che altro non fu, in origine, che la “brasilianizzazione” di quel genere tipicamente europeo. L’etimologia del termine “Choro” è incerta. C’è chi sostiene che derivi da “xolo”, un ballo amato dagli schiavi africani, invece c’è chi ritiene derivi dagli “choromeleiros”, ceto di musicisti del periodo coloniale, che suonavano principalmente le ciaramelle e che, nella vulgata popolare, divenne sinonimo di qualunque gruppo dedito alla musica strumentale e c’è infine chi crede derivi dall’espressione comune: “a ciorar” ossia piangere, nell’impressione di malinconia generalizzata dovuta all’uso degli accordi di chitarra, solitamente usati dai musicisti dello Choro. Il termine ”chorinho” è usato per indicare la versione cristallizzata e codificata del genere, quella che attualmente si intende come classica. Lo Choro ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’identità culturale nazionale Brasiliana e rimase il genere musicale più popolare per lunga parte del Novecento, essendo precursore sia del Samba che della Bossa Nova. I primi gruppi di Choro erano composti da un trio formato dal flauto, che faceva assoli, dalla chitarra che faceva da accompagnamento come se fosse un contrabbasso e dal cavaquinho, che faceva da accompagnamento armonico con accordi e variazioni. Poi se ne sono aggiunti altri e lo strumento di percussione fondamentale è diventato il pandeiro. E’ una musica basata sull’improvvisazione, un gioco creativo che necessita di grande abilità. Non a caso Villa - Lobos ha affermato: “ lo Choro è il Jazz brasiliano, non per la sua ricchezza armonica ma per la possibilità di improvvisazione che offre al musicista”. Per essere uno “Chorao”, ossia un suonatore di Choro, non basta saper suonare il pandeiro, il 72 LucaniArt cavaquinho, la chitarra o il flauto ma bisogna avere la malizia e il modo brasiliano di vivere la musica. Quindi l’improvvisazione tipica del jazz forse già esisteva in Brasile. Dopo un modesto declino in termini di popolarità lo Choro ha ottenuto un significativo recupero negli ultimi anni ed è stato riscoperto dalle ultime generazioni. Lo Choro moderno è molto flessibile: può essere suonato da diverse formazioni, da solisti a grosse bande, le cosiddette “Gafieras”. Può essere cantato e persino danzato e offre varie possibilità di performance, dalla “Roda de Choro” ai concerti nei teatri. Attualmente lo Choro è una musica in parte scritta e in parte lasciata aperta alla possibilità dell’improvvisazione. 73 LucaniArt I PRINCIPALI ESPONENTI DELLO CHORO Durante la seconda metà dell’Ottocento i balli di sala stavano attraversando un periodo di mutamenti, passando dalla danza di gruppo a quella di coppia e lo Choro si era inserito in questa evoluzione del gusto, diventando immediatamente, con la sua commistione di polca, di origine europea e lundu, di origine africana, un fenomeno di moda. Senza alcuna ambizione di completezza, tra i musicisti che hanno maggiormente contribuito alla definizione stilistica del genere, chi portò il genere a vette inarrivabili risponde al nome di Pixinguinha. Però prima occorre accennare a due personaggi fondamentali che in un certo senso prepararono l’avvento di Pixinguinha: “Chiquinha” Gonzaga ed Ernesto Nazareth. Francisca Edwiges Neves Gonzaga detta “Chiquinha”, figlia illegittima di un tenente dell’esercito e di una meticcia, era fuggita di casa giovanissima, creando scalpore, per evitare un matrimonio combinato, esordendo precocemente nell’ambiente dello Choro. “Chiquinha” Gonzaga è stata autrice di una quantità enorme di canzoni, soprattutto per il teatro di rivista. Inoltre ha contribuito a ridefinire la stessa formazione standard dello Choro, che all’epoca prevedeva flauto, chitarra e cavaquinho, con l’aggiunta del pianoforte. In quegli stessi anni agiva un altro musicista cruciale ed essenziale per l’evoluzione del linguaggio musicale dello Choro, Ernesto Nazareth, nato a Rio de Janeiro nel 1863, è difficilmente inquadrabile nell’esperienza dello Choro tout-court come altri musicisti del suo tempo, perché la sua traiettoria artistica è stata estremamente personale. Lo stile di Nazareth è stato raffinato e naturale, colto e popolare. Come tutti i Geni, durante la sua epoca non fu pienamente compreso dal pubblico tantomeno dagli esecutori, che incontravano molte difficoltà nel rendere e interpretare la sua musica. Nato e cresciuto in un ambiente culturale pianistico di tradizione europea, Ernesto Nazareth ha lasciato in eredità soprattutto il perfezionamento formale del tango brasiliano, esito della fusione delle melodie della polca con l’habanera e il lundu. Nel 1924 Nazareth conobbe un giovane musicista, Radames Gnattali, che sarebbe diventato nel tempo, il suo erede artistico e spirituale nonché il suo miglior interprete. La morte della moglie e l’aggravarsi della propria sordità lo portarono ad uno stato di progressiva spossatezza e distacco dal mondo reale, rendendo necessario il suo ricovero presso un ospedale psichiatrico, da cui fuggì per poi essere ritrovato, qualche giorno dopo, cadavere riverso in un fosso. Nei primi anni del 74 LucaniArt Novecento, parallelamente all’esperienza artistica di Nazareth, arrivò a Rio de Janeiro da Pernambuco un giovane chitarrista, Joao Teixeira Guimaraes, in arte “Pernambuco”, che introdusse per primo nello Choro, lo stile musicale del Sertao. L’esposizione alle musiche di questo autore avrebbero avuto una grande influenza anche per le successive generazioni. Facendo un passo indietro nel 1897 era invece nato Alfredo da Rocha Vianna Filho, universalmente noto come “Pixinguinha”. Nella casa del padre flautista amatoriale si incontravano abitualmente tanti musicisti. In questo ambiente così ricco di stimoli, pernottavano talvolta musicisti in difficoltà economiche come Irineu de Almeida, che divenne il primo insegnante di musica di Pixinguinha. Il nostro giovane autore aveva iniziato a suonare professionalmente sin dall’età di undici anni, mostrando da subito la sua grande inclinazione per l’improvvisazione. Musicista eccezionalmente dotato, amava flauto e sassofono, all’inizio del 1920 aveva formato un proprio gruppo, “Os Oito Batutas”. “Pixinguinha” ha dato allo Choro, nel corso del tempo, la sua forma musicale definitiva che sotto il suo influsso ha acquisito ritmo, eleganza ed intensità. Le parti di improvvisazione, che oggi ci sembrano consuete, sono un altro lascito, allora inusuale, dell’esperienza di “Pixinguinha”. Un’altra piccola rivoluzione introdotta da “Pixinguinha” è stata l’introduzione di una certa ritmicità con la creazione di tantissime melodie con arrangiamenti jazz. Si deve invece a “Pernambuco”, l’inserimento nello Choro di altri elementi che sono riusciti ad ampliare i colori e le influenze presenti in questo genere musicale attribuendogli quel sapore rivoluzionario dato dalla combinazione di virtuosismo, equilibrio e modernità. Le coordinate stilistiche dello Choro erano in quegli anni definite ed apparvero gruppi come quello di Benedito Lacerda, il “Conjunto Regional”, in cui si sarebbe formato Waldiro Federico Tramontano, detto “Canhoto”, per la caratteristica di suonare, dato che era mancino, la chitarra con le corde non invertite, in pratica alla rovescia. “Canhoto” ha fondato un trio molto famoso nella storia dello Choro, con Horondino José da Silva, detto “Dino 7 cordas” e Meira, ambedue alle chitarre. Dino 7 cordas, in particolare, ha sviluppato in quegli anni uno stile contrappuntistico del tutto riconoscibile, di tecnica perfetta e estrema musicalità. Il gruppo di Benedito Lacerda, di per sé è stato un esempio ed un modello di professionalità e disciplina che avrebbe influenzato molto anche il giovane Jacob do Bandolim. Jacob Pick Bittencourt, detto “Jacob do Bandolim” è stato un compositore estremamente variegato e versatile 75 LucaniArt che ha lasciato un segno anche per le evidenti influenze della tradizione portoghese negli arrangiamenti delle sue musiche. La grandezza di Jacob do Bandolim è stata però forse oscurata dal fatto di essere coevo del musicista che ebbe il maggior successo commerciale di tutta la storia dello choro: Waldir Azevedo. Nello stesso periodo si stava intensificando anche la presenza dei gruppi di Choro alla radio. All’inizio degli anni Cinquanta nel gruppo di “Canhoto”, oltre al trio base di cui si è poc’anzi parlato, suonavano Altamiro Carrilho al flauto, Orlando Silveira all’accordeon e Gilson de Freitas al pandeiro. Un altro musicista influenzato dal contatto con il jazz, fu Anibal Augusto Sardinha, detto “Garoto”. Tornato in Brasile Garoto aveva lavorato al fianco di Radames Gnattali. L’infarto che ha messo fine alla vita di “Garoto”, nel 1955, ci ha precocemente privato di uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi, che fino all’ultimo aveva continuato ad esplorare i limiti e le possibilità espressive del proprio strumento. La palestra artistica d’elezione dello Choro è sicuramente la Roda, un incontro casalingo in cui si sviluppa l’equilibrio e la comunicazione fra i vari strumenti. Non è infrequente il caso di musicisti tecnicamente perfetti che non riescono a integrarsi nel gruppo per mancanza di amalgama e per inesperienza nel continuo gioco di rimandi e fraseggi tra i vari solisti. La Roda perfetta è quella che mescola musicisti di diverso livello, senza che la musica ne risenta. Una delle Roda più famose è stata quella che si è tenuta durante gli anni Cinquanta e Sessanta a casa di Jacob do Bandolim e quelle che, negli anni Ottanta, si sono tenute a casa dei fratelli Carrilho, Alvaro ed Altamiro. Pur essendo un genere tipicamente autoctono, lo Choro è stato sempre esposto ed aperto alle più varie influenze musicali, fra cui anche e soprattutto quella col jazz. Severino Araujo è stato uno dei primi ad introdurre nello Choro elementi provenienti dalla musica jazz, ma l’unione fra Choro e Jazz si perfezionarono, da un lato, con una nutrita serie di compositori provenienti dal nordest del Brasile, particolarmente sensibili a quelle sonorità e, dall’altro, attraverso l’intervento cruciale di Radames Gnattali, che introdusse l’utilizzo massiccio degli strumenti a fiato nell’ensemble dello Choro.Radames Gnattali in compagnia di Sandoval Dias e di un giovanissimo Paulo Moura durante gli anni Cinquanta ma successivamente anche insieme al suo quintetto durante gli anni Sessanta ha traghettato lo Choro verso la modernità e la molteplicità dei nuovi linguaggi musicali. Durante gli anni Sessanta c’è stata una “sorta” di declino di questo genere musicale. Declino arrestato dalla nuova linfa degli anni Settanta che 76 LucaniArt sull’onda della riscoperta di strumenti come il cavaquinho e la chitarra a sette corde operata da molti gruppi di successo come i “Novos Baianos”, “Galo Petro”, “Os Carioquinhas” hanno permesso allo Choro di continuare a sopravvivere. Dagli anni Settanta fino ad oggi sono nati tutto un manipolo di nuovi musicisti: Trio Madeira Brasil, Yamandù Costa, Luciana Rabello, Paulo Sergio Santos e Teresa Cristina solo per citare i più famosi. Una nuova generazione di Chorao che continua a tenere alto il nobile nome, la musica e la poesia dello Choro. 77 LucaniArt LA MUSICA DI MOONDOG Louis Thomas Hardin era un singolare personaggio della New York bohemienne degli anni '50. Si travestiva da vichingo, con tanto di elmetto e spada, si faceva chiamare “Moondog”, stampava in proprio libri d'ogni sorta che poi distribuiva gratuitamente, si esibiva agli angoli delle strade e vendeva ai passanti gli spartiti delle sue composizioni. Nato il 26 Maggio 1916 a Marysville, nel Kansas, figlio di un predicatore episcopale, ma cresciuto nel Wyoming, dove iniziò a suonare percussioni con le tribù pellerossa del luogo, cieco dall'età di tredici anni, Louis Thomas Hardin frequentò la Iowa School For The Blind, dove studiò composizione, piano, violino e batteria, e poi alla Missouri School for the Blind a St Louis, dove imparò` a comporre in braille. Dal 1936 si trasferì in Arkansas e nel 1942 studiò a Memphis. Nel 1943 arrivò a New York, dove fece conoscenze importanti ma visse la vita di musicista di strada. Nel 1947 decise di adottare il nome d’arte di “Moondog” e divenne ben presto uno dei più rinomati artisti di strada di New York. Intanto componeva quartetti per archi, sinfonie ed opere, ma soprattutto decine e decine di brevi composizioni strumentali senza senso, documentate su dischi ormai quasi introvabili come “Snaketimes Rhythm” del 1949, “Moondog's Symphony” del 1950, “Organ Rounds” sempre del 1950, “Moondog And His Friends” del 1951, “Moondog On The Streets Of New York” del 1953, registrato per le strade di New York ed altri. Arrangiando per piccoli ensemble, rumori naturali e voci saltuarie, Moondog inventò un genere musicale in anticipo sui tempi, fatto di musica da camera, di danze esotiche, di filastrocche nonsense e di improvvisazioni jazz, addirittura anche delle opere "onomatopeiche - ecologiche" fatte di versi di uccello, versi di rana e il rumore delle onde marine. Ma la vastità' della musica di questo stravagante musicista e' tale che si passa dall'imitazione di una tigre e della jungla, alla recitazione giapponese, da una sonata per pianoforte a duetti di musica lirica, per finire a poliritmi e strumenti esotici. A questi album fecero seguito altri: “More Moondog” del 1956, “The Story Of Moondog” del 1957, “Tell It Again” sempre del 1957 ed altri. Poi Moondog tacque per sette anni, ma le composizioni di questi anni, di spessore sinfonico, vennero finalmente raccolte su “Moondog” del 1969, che è una giungla di sonorità strane, percussioni tribali, rumori e melodie nonsense, in grado di sorprendere l’ascoltatore e di trascinarlo sulle orme di questo cane lunare, folle e geniale al contempo. Comprava o affittava 78 LucaniArt strumenti usati, registrava separatamente le varie parti e poi miscelava il tutto. Canzoni solenni e marziali, funeree e struggenti, con finale in crescendo. L'ispirazione oscilla fra le orchestre del parco, fra le big band dell'era swing e canzoni medioevali. Il puntiglioso lavoro contrappuntistico e l'accurato arrangiamento da camera trasformano e deformano quelli che altrimenti sarebbero soltanto bozzetti parodistici. Pare di ascoltare anche tutto il minimalismo e la world music che nasceranno almeno ufficialmente molti anni dopo. “Moondog due” del 1971, che ho ascoltato, coi suoi madrigali, con le voci che sembrano quasi inseguirsi ripetendo la stessa melodia con piccoli sfasamenti. La sensazione forte è che una gioia di vivere accompagni tutta l’arte di questo eclettico e geniale musicista. Clavicembalo, viola, arpa, organo a canne, chitarra, piano, composizioni quasi al limite fra un qualcosa che ha a che fare con il “divino” si alternano a fanfare surreali e a danze senza tempo. Nonostante la povertà di mezzi credo che Moondog in un certo senso abbia voluto dare importanza a qualsiasi tipo di rumore e di musica: dal fischietto di un poliziotto al verso di una rana, dal dialogo di due persone alla cantilena di una bambina, dal jazz delle big band ai concerti di Bach,rivalutando una delle tante possibilità della musica come strumento comunicativo e cioè quella di comunicare emozioni. Nel 1974 Louis Thomas Hardin si ritirò` a vita sedentaria in Germania, dove uscirono numerosi altri album: “H'Art Songs” del 1978, “A New Sound Of An Old Instrument” del 1979,” Facets” del 1981, “Sax Pax For a Pax” del 1994 ed altri. Luis Thomas Hardin detto “Moondog” e` morto l'8 settembre 1999 di arresto cardiaco all'eta` di 83 anni in Germania. Credo che gli si potrebbe dedicare come epitaffio questa frase: “Cominciai a suonare una batteria di tamburi costruita con una scatola di cartone all'età di cinque anni e da allora ho sempre vissuto da musicista e poeta”. La sua musica traeva ispirazione dai suoni della strada, come la metropolitana o il corno da nebbia. Era musica improntata alla semplicità, ma caratterizzata da quello che lui chiamava "snaketime", descritto come "un ritmo scivoloso, in tempi non consueti, infatti affermava: ”Non ho intenzione di morire in 4/4!" innovatore instancabile ed inventore di strumenti musicali: una piccola arpa triangolare chiamata "Oo", un'altra che chiamò "Ooo-ya-tsu", e la "Trimba", uno strumento a percussione, sempre di forma triangolare, che il compositore ideò verso la fine degli anni '40. Moondog ha ispirato moltissimi artisti: da grandi compositori di musica classica del Novecento come ad esempio Igor Stravinskij, ad artisti rock del calibro 79 LucaniArt di Janis Joplin, a jazzisti del calibro di Charlie Parker. Brilla in cielo la musica di questo vichingo che si aggirava per le strade del mondo regalando le sue composizioni e le sue poesie, piccoli grandi perle ai passanti. Moondog 80 LucaniArt L’OPERA MUSICALE DI DIAMANDA GALAS Diamanda Galás è nata a San Diego nel 1955. I genitori entrambi di origini greche: il padre era originario di Smirne, la madre di Sparta. Fin da piccola la giovane Diamanda trovò nel padre, che la incoraggiò già in tenera età a suonare il pianoforte, ma le proibì tassativamente di cantare perché, a suo avviso, “solo gli idioti e le puttane cantavano”, una figura ambivalente ma tutto sommato anche il primo punto di riferimento musicale. Cresce ascoltando musica classica, blues e jazz. A soli quattordici anni, suona con l’Orchestra Sinfonica di San Diego il Concerto per Piano n° 1 di Beethoven. L’ambiente familiare è molto severo e restrittivo: il padre le proibisce azioni banali e comuni a qualsiasi adolescente, come ad esempio guardare la tv, ascoltare la radio, portare amici a casa, avere appuntamenti, indossare un bikini. La ragazza così scopre nella lettura una valvola di sfogo: Nietzsche, Baudelaire, Pasolini, Poe e De Sade tra i suoi autori preferiti. Troverà molta più libertà durante gli anni universitari, dedicati agli studi di biochimica: libertà nel segno della trasgressione, tra uso di droghe e spregiudicatezze sessuali. È in questo periodo che avviene la scoperta delle sue sconcertanti capacità vocali. I primi esperimenti hanno luogo addirittura in camere anecoiche, per avere totale libertà espressiva, per impedire che qualcuno possa limitare o censurare tutto ciò che le passava per la testa e aveva intenzione di fare. Risalgono a questi anni collaborazioni con jazzisti d’avanguardia come David Murray, Butch Morris e Mark Dresser e la famosa richiesta da parte del Living Theatre di esibirsi in ospedali psichiatrici. L’inizio della carriera di Diamanda Galás viene solitamente fatto coincidere col Festival d’Avignone del 1979, quando accettò la proposta del compositore slavo Vinko Gmobokar di interpretare il ruolo di protagonista della sua opera "Un Jour Comme Un Autre", basata sulla documentazione raccolta da Amnesty International sull’arresto e le torture subite dalle donne turche. La Galás inizia a girare l’Europa per i festival con lo scopo di far conoscere le sue prime composizioni. Il passo successivo è la registrazione di questa musica tanto singolare quanto innovativa. Il 1982 vede così l’esordio discografico della musicista di San Diego, “The Litanies Of Satan”, album talmente estremo e isolato da non trovare epigoni nemmeno all’interno del mondo dell’avanguardia stessa. Formata da due lunghe composizioni per voce ed elettronica, l’opera è presumibilmente il capolavoro supremo della Galás, il manifesto della sua arte, nonché il suo progetto più compiuto. È anche 81 LucaniArt il primo capitolo di una ipotetica trilogia che ne racchiude i lavori migliori e più rappresentativi. Ad aprire il disco è "Wild Women With Steak-Knives (The Homicidal Love Song For Solo Scream)", con ogni probabilità il brano più scioccante e straziante della storia della musica occidentale, saggio delle capacità vocali dell’artista, baccanale ed inventario delle più disparate disfunzioni vocali formulate con la lucida ferocia di una perversa squilibrata mentale. La facilità nel cambiare registro vocale della Galás è impressionante: passa con sorprendente naturalezza dall’urlo all’acuto, dalla declamazione psicotica al gargarismo, dalla vocalità convulsa al silenzio. Diamanda Galàs credo abbia una consapevolezza piena e totale dell’entità e delle potenzialità della sua musica straordinariamente innovativa. La grandezza e l’originalità del pezzo sta anche nella sua totale assenza di accompagnamento strumentale: la voce dilaniata della Galás permea i dodici minuti di durata, portando l’ascoltatore a una sorta di partecipazione emotiva universale, un’immedesimazione completa nel mondo che l’artista non ci descrive, bensì ci fa percepire a un livello quasi multisensoriale. I concetti di dolore, sofferenza, umiliazione, sia fisica che psicologica, saranno sempre al centro della poetica della Galas. E’ sua intenzione dare voce a coloro che di norma non hanno diritto ad esprimersi, vale a dire i reietti, gli sconfitti, gli abbattuti, i feriti. Vuole dar voce, insomma, all’inascoltabile, a ciò che la società, per convenzione, paura e rigetto, rifiuta di ascoltare. Le idee di purificazione e vita ultraterrena sono per la Galás illusorie. Non c’è riscatto, non c’è compensazione ai patimenti dell’esistenza terrena. Esiste solo il dolore, per lo sconfitto, il quale rimane tale fino alla fine. Il secondo album, l’omonimo “Diamanda Galás” del 1984, ricalca il modus operandi dell’esordio. Qui però c’è un maggior interesse per questioni politiche e un maggior squilibrio, una maggior enfasi, nell’uso degli strumenti nei due brani. "Panoptikon" è forse il capolavoro elettronico della Galás. Una fragorosa esplosione radioattiva dà l’incipit al brano, seguita dalla voce della cantante, man mano sempre più distorta elettronicamente. Inno alla libertà, il brano è molto più parlato rispetto ai due pezzi di “Litanies Of Satan”, ma soprattutto la voce, ovviamente non esente da diversi tour de force di epilettiche raffiche di bestemmie animalesche, viene molto più immersa nel suono, un mare di suono metallico e tagliente, dando così vita ad un sentimento di estraniazione. Diversamente in "Tragouthia Apo To Aima Exoun Fonos (Song From The Blood of Those Murdered)", brano live del 1981 dedicato alle vittime della Dittatura 82 LucaniArt dei colonnelli, il regime oppressivo vigente in Grecia dal 1967 al 1974. La voce è padrona assoluta, questo brano è un autentico muro del pianto e del silenzio, "Tragouthia" è una sinfonia vocale emotiva, un lamento polifonico che dà voce alle anime dei morti, una presa diretta dall’inferno, un atto di accusa sconvolgente e coinvolgente alllo stesso tempo. La voce della Galás è sorprendentemente bella, calma, alta e il pezzo è incredibilmente lirico e poetico. Ascoltando il pezzo, sembra quasi di essere toccati dalle mani degli spiriti delle vittime. Se “The Litanies Of Satan” è l’album della sofferenza, del dolore fisico, della lacerazione della carne, “Diamanda Galás” è l’album della desolazione, del vuoto interiore, dell’annullamento dell’individuo. Il 1986 è un anno fondamentale per la musicista, sia da un punto di vista personale che professionale: muore infatti di Aids il suo amato fratello, il drammaturgo Philip-Dimitri e nasce il suo nuovo progetto per tre dischi, “Masque Of The Red Death”, che proprio sull’Aids e sulle sue vittime è incentrato. Il primo capitolo è “The Divine Punishment”, “sorta” di spartiacque, di anello di congiunzione tra le due trilogie, quella della fase sperimentale per voce ed elettronica e una seconda fase più teatrale e dedita a un pubblico di più ampia portata. In "Deliver From My Enemies", pezzo suddiviso in sei parti, la Galás rivisita alcuni estratti delle Sacre Scritture, inscenando una sorta di messa nera, una preghiera per i disperati: nella prima parte, "This Is The Law Of The Plague", i tamburi, i cori oscuri e la voce accusatoria della cantante non lasciano scampo. Dopodiché la Galás riprende l’uso della voce sfoggiato in "Tragouthia": più lacerato che lacerante, più sofferto, più introspettivo. In "Psalm 22", sesta e ultima sezione del brano, si raggiunge il rantolo assoluto, una disperazione senza limiti, la consapevolezza della fine senza ritorno. Il secondo brano, "Free Among The Dead", anch’esso suddiviso in più sezioni forse è il suo capolavoro esoterico, un caleidoscopio di linguacce e declamazioni contro la religione, durante questo pezzo la Galás nuovamente recitare estratti dei Testi Sacri misti a brani scritti da lei stessa. Apice del disco è la sezione finale, "Sono L’Antichristo", dove la Galás, più sguaiata che mai dicjiara per l’appunto di essere Satana. Questo disco ha dato vita a una delle accuse più facili e superficiali alla musica di Diamanda Galás: quella di satanismo. L’artista, agnostica dichiarata, in realtà non si è mai minimamente accostata alle ideologie e ai culti satanici, la sua è molto più semplicemente una critica Nietzschiana nei confronti della religione cristiana in quanto istituzione terrena. Per Diamanda Galas Dio e Satana non sono altro che concetti, idoli di una organizzazione 83 LucaniArt oscurantista, la Chiesa. La Galás, quindi, non va affatto affiancata alla realtà patinata del rock satanico; la sua arte trova piuttosto nelle performance di Marina Abramović, Gina Pane, Ana Mendieta, Karen Finley e degli esponenti del Wiener Aktionismus, nelle fotografie di Joel-Peter Witkin e Andres Serrano e nel teatro di Jan Fabre le proprie sorelle. Nello stesso anno esce il secondo capitolo della trilogia, “Saint Of The Pit”, album che segna un cambiamento nella musica della Galás: abbandonate le declamazioni psico - elettroniche, la musicista passa a un tipo di musica gotica. Il disco comincia con il brano strumentale "La Trezième Revient", in cui l’organo suggerisce una melodia oscura, ipnotica, ammaliante; segue "Exeloume", L'Heautontimioroumenos", uno dei pezzi più atipici e interessanti del disco, la Galás diventa sirena che con voce sinuosa seduce e poi abbandona l’ascoltatore. "Artémis" anticipa quello che sarà il modus operandi del secondo periodo della carriera della Galás, ovvero quello consistente nell’uso del pianoforte classico e di una voce più narrativa che espressiva. Ad alzare il livello dell’album ci pensa "Cris D’Aveugle", la traccia conclusiva e anche il brano che sancisce la fine del primo periodo della carriera della Galás: per l’ultima volta la cantante incarna la voce del Demonio, in 12 minuti di grandissima intensità, tra cori medievali, stridi allucinati, evocazioni esoteriche, tempeste di tamburi. Nel 1989 esce “You Must Be Certain Of The Devil”, capitolo finale della trilogia. Qui il cambiamento verso il formato canzone è completato, Nel 1989 la cantante viene premiata alla Queen Elizabeth Hall di Londra per la trilogia, che nel 1991 trova il suo ideale appendice nel live “Plague Mass”. Il disco, a livello concettuale, non è meno destabilizzante: è in tutto e per tutto la più imponente apologia nei confronti delle vittime dell’Aids mai realizzata, apologia che sfocia nella più sincera compassione e nell’attacco violento verso i nemici delle vittime, cioè i pregiudizi e la Chiesa. Registrato il 12 e il 13 ottobre 1990 nella cattedrale di St. John The Divine a New York, il progetto riprende i momenti salienti di “Masque Of The Red Death” e aggiunge pezzi inediti. “Plague Mass” è il capolavoro a livello comunicativo di Diamanda Galás, la sua più grande opera cerimoniale, perché la musica è prima di tutto comunicazione, trasmissione di messaggi ben definiti. Sbaglia chi considera la sua arte una mera e provocatoria ostentazione di capacità tecniche, per la Galás il messaggio e la sua forma sono tutt’uno. E ciò è portato alla sua massima espressione in questo disco. Successivamente nel 1992 esce “The singer” raccolta di pezzi scritti 84 LucaniArt da altri ad eccezione di un solo brano. L’anno successivo con “Vena Cava”, nuovo progetto live in cui si ritorna alla ricerca dell’origine del dolore, al latrato becero. Tratto dai testi scritti dal fratello Philip Dimitri durante la malattia e imperniato sulla malattia mentale e sulle orribili cause dell’Aids, “Vena Cava” è il seguito di “Plague Mass”, dal quale si differenzia nettamente però nella forma: tanto spettacolare, dirompente, ricco è infatti il disco precedente quanto minimalista, asciutta, povera è questa sua prosecuzione. Nel 1994 esce “The Sporting Life” in collaborazione con l’ l’ex bassista dei Led Zeppelin: John Paul Jones. Nello stesso anno la Galás realizza un altro progetto, un lavoro per la radio che ha come tema la tortura, psicologica e fisica: “Schrei 27”. Pubblicato solo due anni dopo, nel 1996, con un ampliamento live e un titolo leggermente diverso”Schrei X”, questo disco sono 27 minuti di latrati ed urla. L’opera vede la ripresa dello scarno uso di voce ed elettronica, sebbene la Galás lo faccia in maniera diversa rispetto agli esordi: qui vengono usate, anziché grandiose cavalcate psico vocali dei piccoli componimenti di pochi minuti. Ideale inno ai manicomi e ai campi di concentramento, il disco è forse il più spaventoso, il più oscuro, infatti le performance live sono state realizzate al completo buio, il più folle dei suoi lavori, oltre ad essere quello in cui si avverte un senso di morte. Mentre in tutta la carriera ha sempre dato primaria importanza al messaggio, in “Schrei 27” la Galás sembra quasi dimenticarsene, o meglio il messaggio qui si incarna nel lavoro stesso. L’insopportabile tour de force si conclude con i sette minuti e mezzo di "Hee Shock Die" in cui la Galàs per tutta la durata del pezzo, non fa altro che ripetere "ok", emettere risate tra il luciferino e il disperato e rigurgitare urli strozzati. Il senso di oppressione e la coscienza di annientamento della propria persona raggiungono lo stadio finale: la vittima ormai non è che carne, un corpo che aspetta solamente la propria morte violenta. Fine che si identifica con il prosciugamento d’ispirazione della musicista di San Diego. Gli ultimi dieci anni discografici hanno visto un ritorno alle origini musicali di Diamanda Galás, ovvero al mondo del blues, del gospel e del jazz. Ritorno che coincide con l’uscita di album più ascoltabili: “Malediction & Prayer”, “La Serpenta Canta”, “Defixiones”, “Will And Testament” e il recente “Guilty Guilty Guilty”. Se da un lato gli intenti accusatori e umanitari non vengono meno, “Defixiones”, ad esempio, tratta del genocidio dei popoli armeno e greco da parte dei turchi tra il 1914 e il 1923, le ultime produzioni della Galás hanno l’indubbio merito di averne divulgato la fama a livello internazionale 85 LucaniArt ben più dei suoi primi dischi; ormai il suo nome è conosciuto e apprezzato anche fuori dal mondo underground per quanto, ovviamente, rimanga un’artista sconosciuta al pubblico meno preparato. Nel 2005 la musicista è stata omaggiata del premio alla carriera Demetrio Stratos, forse il giusto riconoscimento a una cantante che, per quanto in piena e probabilmente definitiva eclissi artistica, rimane una delle più straordinarie, sincere, radicali e rivoluzionarie musiciste di tutti i tempi. 86 LucaniArt L’OPERA MUSICALE DI MEREDITH MONK Meredith Jane Monk è nata a New York il 20 novembre 1942, da una famiglia di cantanti e ballerini, la madre e il nonno erano cantanti professionisti. Nel 1964 a ventidue anni si laurea al Sarah Lawrence College. Subito dopo partecipa a numerosi spettacoli d'avanguardia, prestando la sua voce a composizioni altrui o esibendosi come "danzatrice solista". I suoi interessi fin dal principio sono: il corpo e la voce, attraverso un approccio interdisciplinare, infatti il "movimento" e la "danza" rimarranno dei capisaldi anche delle sue produzioni esclusivamente musicali. Nel 1968 fonda la compagnia teatrale “The House” con l’intento di abbattere le frontiere fra le varie forme di arte e creare “un’arte che a sua volta diventi una metafora per aprire il pensiero, la percezione, l'esperienza. Un'arte che purifichi i sensi, che offra intuito, sentimento, magia. Che permetta al pubblico, forse, di vedere cose già conosciute in un nuovo modo", parafrasando la stessa Monk. Ed è proprio in questi anni che Meredith Monk inizia a “lavorare” sulla propria voce. In poco tempo diventa uno dei nomi di punta dell’avanguardia vocale, negli Usa ma anche nel resto del mondo. Fra il 1968 e il 1970 Meredith Monk mette in scena uno spettacolo che andrà a costituire il materiale della sua prima uscita discografica: si tratta di “Key”. In questo disco la Sua voce con l’ausilio di un piano, di un organo e di uno scacciapensieri si rivela al mondo. E’ un disco fatto di dieci piccoli abbozzi che rivelano un enorme talento e la grandezza vocale di un’artista che si avventura fra canti, esorcismi, contemplazione e rituali che inducono la trance. E’ un canto libero, istintivo, primordiale, viscerale e non intellettuale quello della Monk. Negli anni successivi oltre a continuare nella Sua personale ricerca sulla Voce si dedica anche al teatro e alla regia di cortometraggi. Ma nel 1976 decide di ritirarsi in cima a una collina deserta del New Mexico. In questi luoghi brulli, aridi e disabitati, Meredith Monk avverte la presenza di civiltà scomparse, delle culture perdute, degli indios sterminati. È in questo stato di suggestione che nasce una delle sue opere più belle e commoventi: “Songs From The Hill”. Questi "canti della collina" sono dieci brevi visioni in cui l'artista impersona dieci differenti personaggi, utilizzando per ciascuno una differente tecnica vocale. A farla da padrone è un senso di desolazione, amplificato dall'asprezza delle interpretazioni, in cui la voce è l'unico strumento. L'ugola della Monk diventa il tramite, il veicolo attraverso cui i vocalizzi, le cantilene millenarie, i riti 87 LucaniArt propiziatori di una civiltà estinta, identificata con quella indios, ma qui il messaggio credo sia universale, vengono passati in rassegna per un'ultima volta prima dell'oblio finale. Ecco così giungerci alle orecchie la ninna nanna spettrale del finale. E’ la voce di Meredith Monk ad innalzarsi verso le vette più alte e ad immergersi negli anfratti più bui. Una vera disanima delle potenzialità della Voce in quanto strumento. Ed è proprio in questi Suoi primi dischi che la nostra amatissima Artista mette a punto anche una nuova tecnica musicale, forse mutuata dal Minimalismo di John Cage: il pianoforte ripete ossessivamente un breve giro di note, che in tutto il brano subiscono poche variazioni, la voce inizia a intonare una nenia, rotta a volte dall’irrompere di altri strumenti o da altre voci. Nel 1980 esce “Dolmen Music”, unanimemente considerato un capolavoro della Storia dell’Arte in cui Meredith Monk si mostra e dimostra di essere una compositrice matura e consapevole, che sa esprimere, dosare e veicolare con sapienza le proprie smisurate capacità vocali tese costantemente verso l’oltre, come se il vero punto d'arrivo fosse sempre il prossimo, ancora da venire. “Dolmen Music” è un’Opera definitiva e compiuta , in cui convergono le tante direzioni di ricerca personali e che al contempo diventa anche punto di riferimento per qualsiasi persona interessata al fenomeno della Voce. Il disco è un viaggio verso i Dolmen, emblema delle vette più alte mai raggiunte da un artista in campo sonoro. Si parte con una nenia, una ninna nanna, “Ghotam Lullaby” in cui la tecnica del giro di pianoforte reiterato all'infinito con poche variazioni in cui su poche note la voce della Monk intona una melodia triste ma ariosa e solenne. Ecco una delle idee geniali trasformata in realtà: la fusione fra voce e strumento è attuata. In “Travelling”, il brano successivo, il viaggio continua e la Sua voce sfuggente e a tratti invasata tocca vette inimmaginabili. Il registro cambia ancora con “The Tale” siparietto schizo surreale. Quando arriviamo quasi in prossimità del Dolmen, ecco “Biography”. Questa più che una canzone è una scarica di elettroshock, la Voce si insinua, si attorciglia andando a stimolare i nervi profondi, la psiche. Superata “Biography”, in silenzio, giungiamo ai piedi del Dolmen. E qui saliamo su una macchina del tempo immaginaria e salutiamo definitivamente le categorie di spazio e di tempo. "Dolmen Music" è un'opera corale per sei voci, tre femminili e tre maschili, tutte straordinarie, a cui si aggiunge il suono quasi irriconoscibile di un violoncello e le percussioni, tutto architettato in base ai concetti di progressione e mutazione continua. Ogni volta che ascolto questo 88 LucaniArt brano mi si blocca il respiro, mi viene una fitta dentro, per cui, a volte avverto quasi il bisogno di fermarmi nell’ascolto. "Dolmen Music" è un viaggio fra sogno e realtà, un'esperienza mentale e fisica, in bilico fra un andirivieni temporale, insomma una delle vette più alte mai toccate dall’essere umano. Gli anni successivi a “Dolmen Music”, fra progetti teatrali e multimediali, scorrono veloci ed arriviamo al 1983, anno di uscita di un altro capolavoro: “Turtle Dreams”. Abbandonate le visioni naturali dei dolmen e del New Mexico, Meredith Monk decide di mettere a nudo il mondo intorno a sé, gli Usa frenetici degli anni ’80, facendo trasparire un’umanità angosciata e farneticante, consumistica obesa ed altera, in fila davanti alle vetrine illuminate, mentre dentro vive il contrasto e l’aspirazione ad un mondo naturale. Dal punto di vista musicale ciò viene rappresentato da cori che s’alternano, lamenti di solitudine e dal suono di strumenti musicali quali organo e percussioni. Nel 1986 è la volta di “Our Lady Of Late”, un singolare esperimento portato a teatro alcuni anni prima in cui l'artista si esibisce con il contributo di alcuni calici da vino, quindici frammenti vocali, l'uno diverso dall'altro così come diverso è anche il suono dei calici sullo sfondo. “Do You Be” uscito sempre nel 1986 è una raccolta di brani ideati durante gli anni predenti composti in gran parte con sintetizzatore e pianoforte. “Book Of Days” del 1990 è invece un disco in cui prevalgono per lo più brani malinconici, essenziali, canzoni che sembrano dialogare col silenzio. “Book Of Days” è un viaggio nel Medioevo, che racconta la storia di una bambina ebrea protagonista di una serie di magici incontri, un disco notturno ed affascinante. Nel 1992 è la volta di “Facing North” basato sulla storia di Giovanna D'Arco. Nello stesso anno esce “Atlas” una “sorta” di nuovo approdo verso un altro punto d’arrivo di una straordinaria e audace ricerca artistica. È in questa monumentale opera in tre atti che la fusione tra voce e musica, nonché l’idea di unione, di interdisciplinarietà tra le arti, raggiunge il definitivo compimento. “Atlas” è un viaggio, o forse il viaggio: il pellegrinaggio, fisico o spirituale, alla ricerca della soluzione di quelle domande sul vero senso della vita. È un viaggio che parte con il sogno, che diventa poi reale, in cui assistiamo a degli incontri, in cui veniamo portati in altri luoghi e che si conclude malinconicamente. E come in tutti i viaggi, non è importante il luogo in cui ci ha portato quanto piuttosto ciò che abbiamo incontrato durante il viaggio. “Atlas” insomma è un’opera suprema della Voce della Monk. Nel 1997 è la volta di “Volcano Songs”, poi nel 2003 sarà la volta di “Mercy” e nel 2008 invece 89 LucaniArt “Impermanence” ed infine l’anno scorso “Beginnings”. Tutte opere capillari ed altrettanto importanti di questa immensa Artista che ha saputo regalarci le chiavi di accesso alla musica come viaggio verso le vette più alte con la Sua Opera, la Sua ricerca vocale ed il Suo talento sconfinati. Meredith Monk 90 LucaniArt LA MUSICA DI JIRI STEVENS Jiri Stivin è un Musicista cecoslovacco nato nel 1942 a Praga. A mio modo di vedere l’opera musicale di quest’umile e immenso Artista ha tutti i crismi di ciò che gli studiosi di Alchimia definirebbero Pietra Filosofale. Per gli antichi Alchimisti la ricerca aveva un fine che a seconda della cultura e delle esperienze di vita assumeva diversi nomi: Sacro Calice, Laphis Cristhi, Pietra Filosofale e tutti i mille nomi che ha il fine ultimo della ricerca spirituale alchimistica. Spero che nessuno se la prenda se mi permetto di paragonare l’Opera Musicale di Jiri Stivin all’Opus Alchemica degli antichi alchimisti. Ho pensato a queste cose fin dai primi solchi di “System Tandem” il disco in duo di Jiri Stivin e Rudolf Dasek del 1975. Destino tipico di molti Geni, quello di esser trascurati dal grande pubblico, d’altronde al grande pubblico interessa di più ciò che è commerciale. Nessuna polemica. Ma adesso cerco di addentrarmi in questo grandioso disco, usando le mie parole che come tutte le parole sono sempre cosa altra e diversa rispetto al linguaggio della musica. L’incipit del disco è dato da: “Puddle on the Muddle” una specie di brano jazz rock che per assonanza ricorda i King Crimson e gran parte delle sonorità progressive anni ’70. Solo che in questo brano di apertura c’è anche un sassofono free jazz stridente ma incastonato come una pietra preziosa in questa “sorta” di magnifica ouverture. Poi si passa a “Moravian folk song - Forman going down the valley” e qua il registro cambia. Si inizia con un flauto dolce, che evoca una ninna nanna, ma d’improvviso dopo un po’ il registro cambia ed eccoci trascinati in millenni di cultura folklorica dei paesi dell’est europeo. Ed è come una cavalcata in compagnia di questo flauto traverso che tanto ricorda quello di Jan Anderson dei Jethro Tull, pur essendo una cosa altra anche rispetto al grande menestrello del rock progressivo. Ecco invece il suono delle chitarre iniziali di Rudolf Dasek prontamente raggiunte dall’immancabile flauto di Jiri Stivin di “Hey, man (let's play something about religion)”. Questo terzo brano è un baccanale incredibile con voci sconnesse che si alternano a suoni di flauto. Un pezzo in grado di gareggiare con le migliori performances vocali di Tim Buckley e con le acrobazie strumentali di Eric Dolphy. Senza giri di parole nove minuti di tensione in crescendo e liberatoria, come una specie di ballo di San Vito strumentale. Finito questo sabba liberatorio eccoci trascinati in “Shepherd song”. Questa è una ballata con strumenti a fiato e chitarra, viaggio che disintegra un secolo e più di 91 LucaniArt musica. Una delle grandezze di quest’umile ma geniale artista, Jiri Stivin appunto, consiste appunto nella sintesi di ordine superiore che in compagnia del suo compagno di viaggio riesce a compiere: infatti questo è jazz che incontra la musica classica, si compenetra in essa, si fonde senza confondersi e dando luogo ad un risultato in grado di polverizzare secoli di musica. Finita questa incredibile ballata eccoci come in un labirinto di un antico castello trascinati dentro con estrema dolcezza da: “What's your story” brano assolutamente incredibile con le onnipresenti acrobazie flautistiche che a farla da assolute padroni, in questo vero e proprio e altro viaggio musicale. Il discorso sotteso all’opus alchimistica in questo brano prende forma, per cui jazz e classica convivono in una sintesi di ordine superiore, insieme ad improvvisazioni di flamenco e sonorità barocche. Ed infine eccoci ripiombare nuovamente a terra dopo voli pindarici con il suono stranissimo di un altrettanto inusuale strumento a fiato che così ad orecchio dovrebbe essere un vero e proprio flauto di Pan di “Puzzle Game” brano finale. Mi sento stordito, felicemente stordito da un tipo di musica che non avevo mai ascoltato e proveniente da un Artista umile poiché per tutta la vita ha continuato a fare anche altri mestieri oltre al Musicista, ma al contempo assolutamente Geniale, dinanzi a cui non ci si può che togliere il cappello, inchinarsi ed ascoltare. 92 LucaniArt “MARE NOSTRUM” DI RICHARD GALLIANO, PAOLO FRESU E JAN LUNDGREN Ascolterei per ore ed ore “Qu’ rest t’il de nous amor” di Charles Trenet senza mai stancarmi, poi figurarsi in una versione jazz, come quella contenuta in “Mare Nostrum” di Richard Galliano, Paolo Fresu e Jan Lundgren del 2008. Il Mediterraneo come luogo di incontro di popoli e culture diverse, ma anche come punto di partenza per esplorare territori sconosciuti, questa pare essere la metafora che sottende "Mare Nostrum", album che vede l'esordio di un inedito trio jazz: il trombettista sardo Paolo Fresu, il fisarmonicista francese Richard Galliano e il pianista svedese Jan Lundgren. Tre mondi diversi, tre strumenti diversi si sono magicamente incontrati in un album dalle sonorità tenui, delicate e malinconiche. Dato che il jazz è anche apertura e confronto con altre culture musicali, quest’album è fatto di melodie che vengono da tradizioni e stili differenti. La bellissima canzone francese di un brano immortale di Charles Trenet evocatrice di visioni filmiche di Truffauttiana memoria, il folklore svedese, la musica di Maurice Ravel, alcuni brani della tradizione brasiliana di Tom Jobim e Vinicius De Moraes, così come le composizioni originali, tutto unito e fuso in un disco gradevole e molto bello. La varietà e la ricchezza di "Mare Nostrum" consiste in un'invenzione di grande fascino ed armonia: una miscela di jazz con una sfumatura di contemporaneità che forse ci offre l'immagine di un attualità in cui il jazz si fonde non confondendosi, ma arricchendosi con altri stili, altre tradizioni musicali. “Mare Nostrum”, come già detto, è l’incontro tra la tromba di Paolo Fresu, da decenni uno dei più grandi interpreti di tromba nell’ambito del jazz che coltiva incontri e collaborazioni in tutto il continente pur mantenendo un forte legame con la sua Sardegna, il fisarmonicista Richard Galliano, francese, la cui musica unisce jazz, tango e valzer e il pianista svedese Jan Lundgren che intesse influenze contemporanee e classiche, folclore scandinavo e jazz. Musica che privilegia i chiaroscuri timbrici. La mancanza del basso e della batteria rende la musica di “Mare Nostrum” rarefatta e sospesa, per cui sembra quasi che le composizioni siano crepuscolari e dotate di quella tenue e delicata malinconia che a volte è una delle caratteristiche dei più grandi capolavori della musica jazz, ma dell’arte in generale. Richard Galliano è nato a Cannes il 12 dicembre del 1950. Fin da bambino ha studiato piano e fisarmonica col padre Luciano Galliano 93 LucaniArt fisarmonicista italiano. Dopo un lungo e intenso periodo di studio con lezioni di trombone, armonia e contrappunto all'Accademia di Musica di Nizza, a quattordici anni, nella ricerca di una espansione delle sue idee sulla fisarmonica, ha iniziato ad ascoltare la musica jazz ed è rimasto impressionato dal trombettista Clifford Brown, dal quale ha preso numerosi spunti. “Ho iniziato ad inoltrarmi in questo campo ed uno dei miei insegnanti, Claude Noel, un ribelle della fisarmonica, ho speso gli anni della mia adolescenza cercando i dischi dei più grandi fisarmonicisti moderni in un momento in cui tutto ciò che potevi trovare nei negozi erano i fisarmonicisti tradizionali. Volevo suonare in una maniera diversa. E sapevo che questa maniera esisteva negli Stati Uniti ed in Brasile”, come confiderà lo stesso Galliano molti anni dopo. Dopo anni di studio e di apprendistato, nel 1973 è andato a Parigi, dove ha incontrato il cantante Claude Nougaro. Per tre anni ha ricoperto il ruolo di direttore d’orchestra, arrangiatore e compositore per quell’orchestra, come affermerà molti anni dopo lo stesso Galliano: “Un ‘orchestra come la Nougaro ha lasciato in me un segno. Con lui ho imparato specialmente l’importanza della melodia. Ora, quando compongo immagino di scrivere una canzone, anche se le mie musiche sono sostanzialmente strumentali”. Dopo Nougaro c’è stato l’importante incontro con il grande Astor Piazzolla, di cui sempre lo stesso Galliano ha detto: “Astor Piazzola mi ha guidato e mi ha aiutato a capire la necessità di ritrovare la mia identità. Fino alla sua morte siamo stati inseparabili. Mi ha aperto gli occhi e mi ha donato l’assoluta padronanza di questo strumento musicale che ha attraversato tutti i cambi delle mode, le passioni, e sofferto tutti i tipi di emarginazione”. Dunque Richard Galliano, erede diretto di Astor Piazzolla, interpreta, compone ed orchestra musica che appare come una mescolanza di tango, valzer, musica alla Bill Evans, improvvisazioni alla Keith Jarrett e reminescenze di Charlie Parker e John Coltrane, il tutto suonato con un piacevole gusto. Uno dei maggiori meriti di Richard Galliano è la sua originalità; il sintetizzare tutte queste esperienze in una musica europea costruita da improvvisazioni jazz e da una gran quantità di tradizione mediterranea. Un’altra peculiarità è il suo modo di adoperare la fisarmonica ed il bandonéon, strumenti musicali poco maneggevoli che hanno sempre avuto vita dura nel jazz e nella musica colta. Per anni, la fisarmonica è stata relegata al rango più basso della musica popolare, nelle mani di Galliano la popolare fisarmonica ha acquisito la policromia di un’orchestra e poi il tono intimistico della musica da camera. 94 LucaniArt Paolo Fresu è nato il 10 febbraio 1961 a Berchidda, in Sardegna. Ha iniziato lo studio della tromba all'età di undici anni nella Banda Musicale "Bernardo de Muro" di Berchidda, per appunto suo paese natale. Dopo varie esperienze di musica leggera ha scoperto la musica jazz nel 1980 ed ha iniziato l'attività professionale nel 1982 frequentando dapprima i "Seminari Senesi" e registrando quindi per la Rai sotto la direzione di Bruno Tommaso. Si è diplomato prima come Perito Elettrotecnico a Sassari, poi nel 1984 in Tromba presso il Conservatorio di Cagliari e ha frequentato successivamente la facoltà universitaria "Dams “ sezione musica presso l'Università di Bologna. La sua attività discografica vanta oltre trecento dischi e quella concertistica oltre duemila concerti. Vive tra Bologna, Parigi e la Sardegna. La banda del paese e i maggiori premi internazionali, la campagna sarda e i dischi, la scoperta del jazz e le mille collaborazioni, l'amore per le piccole cose e Parigi. Un personaggio singolare Paolo Fresu che è riuscito a trasportare il più profondo significato della sua magica terra nella più preziosa e libera delle arti, la musica. Non serve a nulla enumerare tutte le sue incisioni, tutti i premi che ha vinto e le esperienze varie che lo hanno imposto a livello internazionale e che fanno amare la sua musica: dentro al suono della sua tromba c'è una linfa magica in grado di rivoluzionare il jazz europeo, la profondità di un pensiero non solo musicale, la generosità che lo vuole nel posto giusto al momento giusto ma, soprattutto, l'enorme ed inesauribile passione che lo sorregge da sempre. Turbinosa, onnivora e creativa questi i primi aggettivi che mi vengono in mente per tentare di descrivere la musica di Paolo Fresu. Fra le numerose esperienze musicali di Paolo Fresu vanno annoverate quella col suo storico quintetto, quelle in duo con Uri Caine, quelle col quartetto “Devil” e la collaborazione con Carla Bley e Steve Swallow. Degni di nota sono anche i progetti con alcuni grandi nomi del mondo letterario e teatrale italiano: Ascanio Celestini, Lella Costa, Stefano Benni, Milena Vukotic poi anche collaborazioni per colonne sonore di importanti film. Anche se sarebbe un errore dimenticare le strizzatine d’occhio verso la musica classica con quartetti d’archi Jan Lundgren è nato a Kristianstad in Svezia. Ha cominciato a prendere lezioni di pianoforte a cinque anni e dopo quasi un decennio di formazione pianistica classica ha scoperto il jazz, sua grande passione fin dal primo momento. Dal 1986 al 1991 ha studiato al Royal College of Music di Malmoe e in quegli anni ha iniziato la sua carriera da musicista professionista. Il suo talento è stato scoperto dal 95 LucaniArt leggendario sassofonista Arne Domnerus. Nel 1994 è uscito il suo album d'esordio "Conclusion“. Negli anni a venire l'orientamento musicale di Lundgren non ha lasciato spazio a dubbi: la sua abilità trova massima rispondenza nel linguaggio del jazz. Nel 1997, "Swedish Standards“ è stato premiato come miglior album jazz dell'anno. Negli Stati Uniti ha registrato numerosi altri album. 96 LucaniArt LE PAROLE, LA MUSICA DI CANIO LOGUERCIO “Canio Loguercio nato a Campomaggiore in provincia di Potenza ma da molti definito “napoletano d’adozione” per via dei Suoi studi di Architettura fatti a Napoli e non solo, infatti parafrasando lo stesso Canio Loguercio: “scrivo e canto in napoletano la sacra madrelingua delle passioni”. Canio Loguercio verso la metà degli anni ’80 fonda con altri musicisti i “Little Italy” una specie di ensemble musicale di cui non ho mai ascoltato niente. Poi durante i primi anni ’90 fonda l’etichetta discografica indipendente Officina. Successivamente fonda insieme a Rocco Petruzzi ed al maestro Rocco De Rosa, con il quale collabora in tanti progetti, la casa discografica Little Italy Studio. La carriera solista di Canio Loguercio inizia con la pubblicazione di alcune canzoni, o come si sarebbe detto fino a qualche anno fa con qualche 45 giri, fra cui ricordiamo: Kufia - Canto per la Palestina ed altre canzoni. Nel 2003 esce “Indifferentemente” (Breve cerimonia a domicilio di canzoni appassionate) suo primo album che prende il nome da una canzone della tradizione musicale napoletana di Mario Abbate. Questo album è un concept album, una breve cerimonia a domicilio di canzoni appassionate come suggerisce il sottotitolo del cd, uno spettacolo teatrale musicale ideato e pensato per essere fatto davanti a poche persone, in cui le canzoni si susseguono come in una recita religiosa attraverso rituali e preghiere. Canio Loguercio con “Indifferentemente” (Breve cerimonia a domicilio di canzoni appassionate) innova la tradizione e sperimenta nuovi linguaggi musicali e poetici dando vita a un concerto di canzoni d’amore fisiche quasi da annusare, da mangiare, da bere e da raccontare in dialetto napoletano o con preghiere alla madonna e all’acqua di Lourdes. La prima canzone è: “Petula venneva ‘e scarpe” fatto da un tourbillon di voci che parlano di un amore finito in mezzo ad una via, di birre da bere e scarpette femminili rosse da vendere, di peperoni o rape da friggere e croci di camposanto. E poi i peperoni o le rape fritte in olio e con un po’ di aglio ritornano subito dopo in “Friariella” fra il cattivo odore di una malva rosa e una melma di sputi, la vita che fugge via velocemente avvelenata con il personaggio di questa canzone che chiede al suo amore perché lo ha sedotto e poi abbandonato. La musica di questa seconda canzone è una cavalcata sonora molto bella fatta di piano e suoni campionati. “Ogni scarpa nu sciore” in cui ritornano le scarpe colorate di rosso dell’incipit ed in cui si sente il lamento dell’abbandono ed il senso di rabbia per l’amore che arriva e poi va 97 LucaniArt via. In “Ferrarella” continua questo viaggio, fra una corsa per prendere un calabrone che è entrato nei pantaloni e le bottiglie d’acqua sfiatata, a cui credo alluda il titolo della stessa canzone, fra tumori e male al cuore e dolci tipici, fra carne e carogne, fra sesso e morte. L’album continua con “O tiempo de limoni” che parla di una bella bocca rossa da baciare, una “sorta” di mantra zeppo di baci carnali e lingue che si attorcigliano e si srotolano. La bocca rossa che il personaggio di questo disco prima desiderava baciare ritorna nella canzone successiva: “Vocca rossa, vocca persa”, quasi a pretendere che la passione erotica si riappropri di un posto principale nella vita di ognuno di noi. Questa canzone molto coinvolgente, secondo me, rappresenta anche un acme di tutto l’intero disco. “Perso” incomincia col rumore del mare e di un dialogo fra un uomo ed una donna e racconta di difficoltà economiche e disagio, di bar in cui non ti offrono niente da bere perché hai finito i soldi e la ricerca di un po’ di piacere sessuale. “Stretto” narra della violenza e della forza di una passione che ti prende e ti sbatte come un incendio in una notte nera color pece, con lo stesso Canio Loguercio che sussurra alle nostre orecchie di stare attenti alla forza di questa passione. “Leonardo”, la canzone successiva, racconta della passione amorosa, l’esortazione a stringersi del corpo dei due amanti, una richiesta di contatto fisico, un altro gesto di amore. In “Città vuota” (‘o brodo pe passa’ ‘a vecchiaia) canzone successiva in cui in sottofondo si sente la nota canzone di Mina, racconta di campane che suonano per poter essere ascoltate, di mani vuote e di sangue da essere gettato ai cani. La stessa campana ritorna nella successiva: ”Sona campana” che racconta di un lutto e di casse da morti, di corpi induriti dal sole e di mani fredde che non trovano più niente. “Lazzarella indifferente” invece narra le vicende di Lazzarella e del suo amato amante, un amore clandestino, dapprima respinto e poi osteggiato. “E uno e doje” riprende la “numerazione” della canzone precedente, raccontando in un vortice musicale tutti gli accadimenti che sono stati raccontati in tutto il disco, una canzone a mo’ di sommario. “Aspetto” è una dichiarazione amorosa, una promessa di amore eterno che i due amanti si scambiano, rimanendo lontani ma sapendo che si aspetteranno in quel luogo, nello stesso luogo di sempre. “Giuggiola” (ai cani), racconta di passione e di seduzione, di lotta e di resa, di lingue e di avanzi dati ai cani. Questo meraviglioso disco si conclude con: “Che giorno è?” in cui il tempo passa nonostante tutto, con la consapevolezza che il proprio incedere continuerà, che il proprio viaggio non si fermerà qua. Poi nel 2012 le 98 LucaniArt poesie e le musiche frutto delle performance fatte durante i tanti festival e rassegne da parte di Canio Loguercio e del maestro Rocco De Rosa vengono raccolte in un cd con un libro in allegato ed intitolato “Amaro Ammore”. Questo disco parla di passione e di dolore che stanno alla base di qualsiasi amore. Amore che rende schiavi e che libera al contempo, che si ciba di anima e di corpo. In “Amaro Ammore” le canzoni e le poesie d’amore sono il racconto doloroso di chi vive questa passione, fatto di gioia e dolore, perché l’amore intenso è una “sorta” di rinuncia a se stessi, un viaggio verso la persona che si ama, un tentativo di colmare le nostre mancanze, il nostro vuoto interiore. E’ di amore infelice che parlano con note e parole in “Amaro Ammore”, Canio Loguercio ed il maestro Rocco De Rosa e lo fanno suonando ed attingendo dalla tradizione folk meridionale ma anche ad altri linguaggi musicali fra cui drum’n bass e jazz. E’ un viaggio fra nostalgia e ricordi. La scelta della lingua napoletana non è solo un omaggio alla tradizione, ma è anche un tentativo di innovazione, infatti suoni e parole sono il frutto della grande ricerca che Canio Loguercio ha fatto nel corso di tanti anni, in compagnia di tanti altri artisti fra cui oltre a Rocco De Rosa ricordiamo anche Maria Pia De Vito, Alessandro D’Alessandro e tantissimi altri bravi musicisti ma anche poeti ed attori. La canzone che più mi colpisce è “Cumpà” meraviglioso affresco sonoro con la bellissima voce di Maria Pia De Vito e il piano del maestro Rocco De Rosa, dedicata ad un amico che non c’è più. Metaforicamente lascio la parola a lui, al “poeta musicale di ispirazione cosmopolita”, Canio Loguercio con la certezza che il disco che è in uscita fra poco “Canti, ballate e ipocondrie d'ammore” frutto della collaborazione di Canio Loguercio con il fisarmonicista Alessandro D’Alessandro sarà sicuramente un altro viaggio nelle viscere di questa passione che ci accomuna e che riguarda ognuno di noi. Questo che segue è il testo della bellissima “Cumpà”: “Cumpà, stasera a te pensavo e te pensavo assai/ Sarrà stu cielo niro e stu sfaccimmo 'e viento, nu viento friddo 'e tramontana / Int'a stu vierno traditore 'nce facimme viecchi e 'o tiempo nun è 'ngannatore. / Te piglia e vola, vola, vola e se ne va/ st'auciello vola e nun se ferma mai vola, vola, vola e se ne va / Cumpà, stu tiempo vola e nun se ferma mai! / Arò fernesce 'o cielo e 'o mare i' me 'nce perdo piglianno 'nfaccia acqua e fuoco e sabbia e viento, nu viento comme na tempesta, int'a chist'uocchie luccicante c' 'o sale 'mocca e c' 'e mmane ca nun stregneno niente./ E vola, vola, vola e se ne va / st'auciello vola e nun se ferma mai vola, vola, vola e se ne va / Cumpà, 99 LucaniArt stu tiempo vola e nun se ferma mai! / Cumpà, stasera a te pensavo e te pensavo assai. / Sarrà stu cielo niro e stu sfaccimmo 'e viento, nu viento 'e terra, o viento 'e mare 'nt'a ste jurnate senza sole / Pascà, i' a te pensavo e me chiagnevo 'o core. / E vola, vola, vola e se ne va / st'auciello vola e nun se ferma mai vola, vola, vola e se ne va/ Cumpà, stu tiempo vola e nun se ferma mai!” 100 LucaniArt “O PATA PATA” DI MARIA PIA DE VITO “‘O Pata Pata” la nuova Opera della Musicista napoletana Maria Pia De Vito si apre con: “Strummolo a Tiriteppola”, un’immagine forte che evoca questo gioco d’infanzia, questa trottola sbilanciata, un canto, un monito , una sveglia, un rifiuto di molti luoghi comuni su Napoli, un atto d’accusa contro chi vede tutto il malaffare e l’immondizia fisica e morale e non fa niente per migliorare la situazione, un grido di dolore contro la corruzione, un gesto d’amore nei confronti della propria città, dei propri concittadini e delle proprie origini, un proclama libertario prima che la trottola cada e smetta di girare e che per l’ennesima volta Masaniello venga ammazzato o tradito e con lui tutti i napoletani. Una brevissima divagazione terminologica: anche il termine “scugnizzo”, così caro alla De Vito, deriva dal gioco dello “Strummolo” e di chi lanciava la sua trottola più forte verso quella degli altri di fatto “scugnandola” ossia rompendola! In questo continuo rimando fra vocalità ludica e canzone sensata si approda a “G. continua”, in cui Maria Pia De Vito mette in luce quella sua immensa capacità timbrica, quel suo modo unico di canticchiare nenie e frammenti, pezzi di parole e non sense, sillabe e note. Ebbene si! Quel Suo modo peculiare di intendere la voce in quanto strumento. Poi arriviamo a “A spusa riluttante” che è una bellissima canzone d’amore, un gentile miscuglio di promesse non mantenute, di dichiarazioni, di silenzi al posto di parole, come se appunto l’amore non avesse bisogno solo di parole ma anche di silenzio e gesti gentili per poter essere dichiarato. “Yucellla” è una dolcissima ballata giocata fra ascolto ed incanto, una canzone di acqua e di vento, un meraviglioso canto d’ amore, tradotto in napoletano dalla tradizione brasiliana. Poi è l’ora di “Frevo en Maceiò” una canzone di Hermeto Pascoal, dunque una cover ma in realtà tutto ciò che canta Maria Pia DeVito, strana e magica alchimia, diventa sempre anche qualcos’altro, un viaggio nel Canto e nella storia del bel Canto. “Curre Maria”, è un altro tassello di questo: trittico dedicato a dei grandi ispiratori della “nostra” grandissima artista, un altro omaggio a dei mostri sacri della musica brasiliana e della musica mondiale del calibro di Vinicius de Moraes e Antonio Carlos Jobim, ma anche credo di altri grandi musicisti come Caetano Veloso e Milton Nascimiento. In particolare il testo di “Curre Maria” è una traduzione del testo di Chico Buarque de Hollanda: “Olha Maria”. Dopo questo trittico veniamo ripiombati in questo: “Bello tiempo antico” in cui il cantato e il sovra inciso ossia 101 LucaniArt voci sovrapposte si seguono e si inseguono in questo chiaro rimando alla tradizione popolare partenopea e per estensione italiana. Poi è la volta di: “Si fosse fatto foco” omaggio a Cecco Angiolieri in dialetto napoletano e credo anche alla rilettura che ne fece il grande De Andrè. Poi è la volta della canzone che da il titolo a tutto il disco, ossia “’O Pata pata” che narra di questa zia Maria, alter ego della stessa Maria Pia De Vito e per estensione emblema di tutte le persone oneste, che abita a Terzigno e che vedendo crescere i limoni geneticamente modificati a causa dell’inquinamento nella terra del “Lacrima Christi” ossia uno dei vini più buoni di tutta la Campania e del mondo i cui vitigni vengono dalle pendici del Vesuvio, prega affinché venga appunto “’O Pata Pata”. Si! Ma che cos’è questo Pata Pata? Lascio la parola direttamente a Lei, ossia all’autrice di quest’Opera d’Arte, trascrivendo le parole che ci sono nella seconda pagina del cd: “A Napoli, quando un acquazzone è ormai prossimo, le nubi sono basse e l’aria inizia a profumare di terra umida, si dice in quella splendida lingua onomatopeica e polposa, ritmica e croccante che è il napoletano che «sta arrivanno ‘o pata pata ‘e ll’acqua». ‘O pata pata è un auspicio perché le nuvole scure, basse e gonfie si aprano e un bagno liberatorio e purificatore liberi Napoli dai miasmi dell’immondizia e dall’indifferenza generale che la vuole brutta, sporca e cattiva. Dedico questo lavoro alla gente di Terzigno, di Napoli e del Casertano e alle terre avvelenate dall’incuria umana. Terre su cui oggi crescono limoni deformi. Lo dedico alla gente del Brasile che, come diceva Caetano Veloso, tanto somiglia a quella di Napoli: entrambe impertinenti, come chi ne ha viste tante, troppe. Che venga l’acquazzone a ripulire queste terre, che venga ‘o pata pata a ripulirci il cuore, a emendarci la reputazione e a salvare la vita dei nostri figli. Musicalmente, impertinentemente, napoletanamente vostra. Maria Pia De Vito”. Il disco si conclude con altre tre canzoni: “Curiosity Theatreans” sorta di omaggio alla libera curiosità, e al coraggio di sperimentare nuove vie vocali, “La nova gelosia” omaggio alla poesia di Roberto Murolo e di Fabrizio De Andrè ed infine “Um a zero”. 102 LucaniArt Nota biobigliografica Mariano Lizzadro è nato a Potenza. Ha esordito nel 1999 con la sua prima raccolta poetica: “Frammenti di viaggio” Ed. Appia 2 Venosa. Nel 2003 ha vinto il premio letterario “Parola di donna” con la raccolta “Parole contro” Ed. Quaderni di Scriptavolant. Successivamente ha pubblicato “Parlano parole” Ed. Besa. Grande appassionato di musica ha scritto numerosi articoli per LucaniArt, di cui è collaboratore. Mariano Lizzadro 103 LucaniArt Sommario Presentazione ……………………………………………….. 6 Nota dell’autore ……………………………………................. 8 Ascolti italiani Canzoni da spiaggia deturpata ………………………………… Le alchimie musicali e poetiche di Dente …………….……….. Canti e controcanti di Alessio Lega…………………………… Fra realtà surrealtà ed oniricità: le canzoni di Ettore Giuradei… Gli schiaffi in faccia di Germano Bonaveri …………………… L’innovativo recupero degli Ardecord ………………………... “Al bar della rabbia”: la musica e le storie di A. Mannarino …. “Per amor del cielo”: la poesia di Bobo Rondelli…………..…. I Gatti Mezzi …………………………………………………... La musica dei Roma Amor ……………………………………. Elia Biloni alias Dino Fumaretto ……………………………… La musica de Il Pan del Diavolo ……………………………… La musica degli Eva Mon Amour …………………………….. Il “Chupadero!” della Barnetti Bros Band…………………….. Gastone Pietrucci e la Macina ………………………………… Le ballate di Massimo Bubola ………………………………… La musica dei Sulutumana ……………………………………. “Nomi, cose, chissà” di Valerio Zito ………………………….. La Basilicata nella musica di Pietro Basentini………………… “Mainstream” di Calcutta ……………………………………... Non trovo le parole di Maldestro ……………………………... “Il viandante solitario” di Marco Ielpo……………………….... “Verso il nuovo regno” di Gabriele Russillo ………………...... Il viaggio nel blus di Andrea Giannoni ……………………….. 10 12 15 17 19 21 23 24 26 28 30 31 32 33 35 38 40 43 45 50 52 54 57 59 104 LucaniArt Ascolti dal mondo Dolore e creatività nella musica di Bill Evans ………………... Il genio sconfinato di Lennie Tristano …………….………….. “King of Blue” di Miles Davis………………………………… La genialità nell’opera artistica di Thelonious Monk………….. Le origini della musica popolare brasiliana: Lo Choro ……….. I principali esponenti dello Choro ……………………….......... La musica di Moongog ………………………………………... L’opera musicale di Diamanda Galas…………..…………...… L’opera musicale di Meredith Monk ………………………….. La musica di Jiri Stevens ……………………………………… “Mare nostrum” di Galliano, Fresu, Lundgren ………………... Le parole, la musica in Canio Loguercio ……………………... “O Pata Pata” di Maria Pia De Vito …………………………... 62 65 68 70 72 74 78 81 87 91 93 97 101 Nota biobibliografica …………………………………………. 103 105 LucaniArt Un atto culturale libero rappresenta in questo momento un atto politico Finito di stampare nel mese di luglio 2016 per conto dell’Associazione Culturale LucaniArt 106