1 De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi: un confronto possibile? II

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De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi: un confronto possibile?
II pessimismo
Nei Supplementi al libro quarto del Mondo troviamo scritto: «Nessuno ha trattato
così a fondo e così esaurientemente questo soggetto [il pessimismo] come, ai
giorni nostri, Leopardi. [...] Il suo tema è ovunque la beffa e la miseria di quest'esistenza». Schopenhauer si avvicinò a Leopardi nel 1858 soprattutto attraverso la
lettura delle Operette morali (1824-32). In quello stesso anno l'accostamento tra il
filosofo tedesco e il maggiore poeta dell'Ottocento italiano fu proposto per la
prima volta in modo esplicito dallo storico e critico della letteratura Francesco De
Sanctis, in un saggio-dialogo dal titolo Schopenhauer e Leopardi. Dialogo tra A. e
D. Nel complesso De Sanctis tendeva a sottolineare più la distanza che l'affinità
fra i due autori ed esprimeva in conclusione una netta preferenza per il
pessimismo eroico del poeta nei confronti del messaggio eticamente rinunciatario e
politicamente ambiguo del Mondo. La possibilità del parallelo si reggeva, in ogni
caso, su una serie di precise analogie, tutte rigorosamente documentate nei testi
dei due autori, che possiamo riassumere, per comodità, in una serie di punti:
1. una visione radicalmente pessimistica dell'uomo, della storia, della natura;
2. un'immagine dell'esistenza come vicenda irrimediabilmente segnata dal dolore,
dal bisogno e dalla privazione;
3. un'interpretazione dell'esperienza del piacere come momento essenzialmente
negativo nei confronti di uno stato di privazione;
4. una presa di coscienza del carattere illusorio di tutte le cose;
5. un'etica fondata sul motivo della compassione.
Tanto per Schopenhauer quanto per Leopardi il nostro non è affatto il migliore dei
mondi possibili. Se nell'ambito della storia non esiste sviluppo e tantomeno
progresso o perfezionamento (come, a diverso titolo, pensavano tanto i romantici
quanto Hegel), ma solo vuota ripetizione,,la natura, dal canto suo, non si cura degli
individui e punta solo alla sopravvivenza della specie. La volontà — per esprimerci
con Schopenhauer — è sempre uguale a se stessa. Essa non trova mai definitiva
soddisfazione, e questa circostanza risulta evidente se si considera che, nel succedersi
delle generazioni, ogni nuovo individuo viene a occupare il posto di quelli che di
volta in volta escono di scena, senza che in questa eterna vicenda possa essere
riconosciuto alcun fine generale. La momentanea soddisfazione che gli individui
incontrano nel dare attuazione ai loro desideri o alle loro ambizioni (successo,
riuscita, vittoria ecc.) non costituisce motivo di ottimismo: alla soddisfazione
seguono spesso nuovi bisogni che offrono sempre nuove occasioni di dolore. A interrompere questa concatenazione di desiderio e appagamento può subentrare in
alcuni casi una condizione ancora più difficile da sopportare del desiderio stesso: la
noia.
Su questo terreno le analogie fra il pessimismo di Schopenhauer e la «filosofia
dolorosa, ma vera» di Leopardi sono innegabili. Nei Canti (1831) del poeta
troviamo per esempio l'idea di un attaccamento alla vita che persiste anche nella
consapevolezza del suo necessario fallimento: «Se la vita è sventura, / Perché da
noi si dura?» (Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); la percezione nichilistica
di una complessiva mancanza di senso nell'essere: «E l'infinita vanità del tutto» (A
se stesso); il riconoscimento del dolore come tonalità fondamentale dell'esistenza
umana: «[...] Arcano è tutto, / Fuor che il nostro dolor [...]» (Ultimo canto di
Saffo). Nelle Operette morali gli stessi motivi vengono sottolineati con precisione,
se possibile, ancora maggiore.
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Le teorie del piacere
Seguiamo ora brevemente il parallelo Schopenhauer-Leopardi sul piano delle
rispettive teorie del piacere. La teoria leopardiana del piacere è esposta
soprattutto in un testo del 1820 che si trova nello Zibaldone. Vi si afferma la tesi
centrale del carattere «limitato» del piacere, al quale si oppone invece il
carattere «illimitato» del desiderio e della tendenza dell'uomo alla felicità. Questo
desiderio non termina se non con la fine dell'esistenza, è sostanziale in noi, perché
non è semplicemente desiderio dell'uno o dell'altro piacere, ma desiderio del piacere
come tale. Quando un singolo desiderio viene appagato, non si estingue il
desiderare, il quale, anzi, risorge in forme sempre nuove.
Nei Canti il tema viene declinato in due forme strettamente congiunte. Da un
lato abbiamo l'idea della vanità di ogni speranza relativa a una vera felicità. Si pensi
ad esempio all'idea della festa come "vuoto" al quale inconsapevolmente tendono
l'attesa e la speranza dell'uomo (tema al centro dei canti La sera del dì di festa e Il
sabato del villaggio). Proprio l'illimitatezza del desiderio mette in discussione l'idea
della festa, in quanto il giorno di festa è il momento in cui si rivela all'uomo la vanità
del suo desiderare. Dall'altro è sottolineata la natura del piacere come mera soppressione
di uno stato di bisogno, di mancanza, ossia il carattere negativo di ogni esperienza del
piacere. Parlare di negazione non significa qui sostenere che il piacere sia in sé
qualcosa di negativo, ma piuttosto sottolineare il suo essere strettamente legato al venir
meno di uno stato di bisogno o di privazione. Nel momento in cui questo stato di
bisogno viene «negato» con il raggiungimento di un fine determinato, cessa anche il bisogno che era stato avvertito come tensione e dolore. Per questo Leopardi può
esprimere, in versi celebri, l'idea di una sostanziale dipendenza del piacere dal dolore
che lo precede: «Piacer figlio d'affanno» (La quiete dopo la tempesta).
Certo, occorre precisare che la definizione leopardiana del piacere come cessazione del
dolore ha una serie di precedenti nella cultura del Settecento francese e italiano. E di
una tale discendenza si trovano numerose tracce nei testi del poeta. Questa osservazione
ci aiuta a rintracciare il vero retroterra del pessimismo leopardiano, che è radicato più
nella filosofia materialistica settecentesca che nello spiritualismo o nell'idealismo del
primo Ottocento.
Scrive Leopardi nello Zibaldone: «Il sentimento della nullità di tutte le cose, la
insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l'animo, e la tendenza nostra verso un
infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più
materiale che spirituale».
La compassione
Un altro tema presente in entrambi i nostri autori è quello della compassione, a
maggior ragione se si considera il nesso che esso intrattiene con la visione pessimistica
fin qui articolata. È appunto la presa d'atto di un comune destino che pesa su tutta
l'umanità, la certezza relativa alla tragicità e irredimibilità della sua condizione, a
spingere tanto Schopenhauer quanto Leopardi verso l'idea di una fondamentale e
necessaria solidarietà fra tutti gli esseri umani.
Ma se in Schopenhauer un tale punto di arrivo, reso esplicito nel quarto libro del
Mondo, si avvale degli apporti della letteratura cristiana, del buddismo e delle grandi
concezioni mistiche d'Oriente e d'Occidente, in Leopardi prevale un umanesimo
nutrito di universalismo illuministico. Tutta la nobiltà dell'uomo risiede nella sua
capacità di guardare con animo fermo alla tragica sorte che gli è stata assegnata,
non incolpandone i suoi simili, ma riconoscendone responsabile quella stessa natura
contro la quale occorre piuttosto unirsi che dividersi (come esprimono i bellissimi
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versi della Ginestra).
Filosofia della storia e impegno politico
Anche nel quadro di questo comune riconoscimento del valore del vincolo umano,
non mancano quindi elementi di divergenza. Essi furono puntualmente rilevati dal
De Sanctis, al quale dobbiamo i chiarimenti essenziali a questo proposito.
L’unilateralità con la quale, a conclusione del suo parallelo, il critico letterario
ha preso posizione a favore della moralità leopardiana, contro la negazione
schopenhaueriana della filosofia, della storia e dell'impegno politico-civile, può
essere compresa in una prospettiva storica. Secondo De Sanctis, la filosofia di
Schopenhauer è una filosofia «nemica della libertà e del progresso», e comporta la
fuga dal mondo e il rifiuto dell'azione politica come tale: per colui che si sia
persuaso della necessità di una completa negazione del volere, concetti come
libertà, umanità, nazione, patria, emancipazione, progresso, così presenti nelle
filosofie della storia e nelle ideologie politiche del XIX secolo, non sono che vuote
astrazioni, mere apparenze. Il pessimismo schopenhaueriano, in un quadro tutto
dominato dalle grandi sintesi filosofiche dell'idealismo e dagli ideali politicoculturali di un'età che si sentiva chiamata a trasformare il corso della storia, assume
inevitabilmente connotati decadenti. Leopardi invece consegue, per De Sanctis, un effetto opposto a quello che si propone: pur non prestando fede alle idee di libertà e
progresso, ne ispira in ultima analisi un vero e proprio desiderio in chi gli si accosta;
il suo sguardo di scettico disincantato non spinge alla rinuncia e all'inazione, ma,
inaspettatamente, può persino risvegliare una reazione contraria, fino alla denuncia
dell'ingiustizia e alla scoperta dell'impegno civile. Il pessimismo non sarebbe qui
rassegnazione mistica, ma rifiuto di una condizione disumana e consapevolezza
del carattere illusorio di ogni consolazione.
da L. Geymonat, La realtà e il pensiero, Vol. III, Garzanti scuola, 2012, pag. 24-25
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