Friedrich Nietzsche A) Nella filosofia di Nietzsche troviamo elementi che già stavano alla base della reazione all’idealismo nella prima metà dell’Ottocento: il rifiuto della razionalità come strumento epistemico (cfr. Schopenhauer) e il conseguente appello all’esperienza vissuta, al mondo dei sentimenti, al flusso irriducibile a schemi, del divenire. Ma con Nietzsche viene in luce un atteggiamento del tutto nuovo, da parte dell’uomo, nei confronti di tale flusso irrazionale e imprevedibile: non si cerca più una realtà ulteriore (né di tipo filosofico né di tipo religioso - cfr. Kierkegaard) come via di liberazione rispetto ad esso, ma s’individua la realizzazione più profonda del pensiero e dell’esistenza umana proprio nell’accettazione incondizionata del divenire e della sua imprevedibilità: la “consolante certezza” di Zarathustra è che tutte le cose “preferiscono danzare sui piedi del caso”. B) Allievo, se pure indirettamente, di Schopenhauer, il giovane Nietzsche fa propria la visione catartica dell’arte, specie della musica vista come espressione diretta (e perciò punto supremo di consapevolezza) del movimento inarrestabile ed irrazionale che governa il mondo. Ma già nella prima grande opera, La nascita della tragedia, egli viene sviluppando certi spunti in modo originale: se l’essenza profonda della Volontà è dolore universale (Urschmerz), ancor più profondamente essa è gioia primordiale (Urlust). L’energia irrazionale che si rivela nel profondo dell’essere vivente è “Spirito Dionisiaco”, mentre la razionalità, la misura (espresse soprattutto nelle arti figurative, nella poesia) corrispondono allo “Spirito Apollineo”. La civiltà greca è stata un mirabile esempio di sintesi fra questi due principi, e la tragedia esprime proprio la capacità dell’uomo greco di guardare in faccia Dioniso senza soccombere al suo aspetto terribile, ed anzi: la sua capacità di conferire alla potenza dionisiaca un aspetto armonico, attraverso la luminosa chiarezza di Apollo. In questo periodo, Nietzsche mostra anche una profonda ammirazione per Wagner, che con la sua musica avrebbe riproposto, in età moderna, una sintesi analoga a quella attuata dalla cultura greca. Anche la vera grande filosofia deve essere unione dei due principi fondamentali, ma ciò è possibile solo se il momento razionale non soffoca, non nasconde la spontaneità di Dioniso (che resta pur sempre il livello più profondo). Socrate, il campione del razionalismo, ha invece cercato di ridurre ogni realtà a schemi comprensibili dall’uomo: con lui è quindi iniziata una progressiva decadenza della cultura ed il pensiero si è andato allontanando dalle sue fonti originarie1. Nietzsche propone quindi un ritorno al grande pensiero presocratico (egli è in effetti uno dei primi a rivalutare tale periodo della filosofia) in vista del superamento dell’intera impostazione metafisica della cultura europea, culminata nella decadenza razionalistica (idealismo, positivismo, pensiero scientifico) del XIX secolo. C) In un secondo tempo, tuttavia, Nietzsche si distacca da Wagner e dall’estetismo romantico che vede espresso nelle sue opere: egli individua il carattere retorico ed individualistico della cultura romantica (v. l’esaltazione dell’eroe solitario che si colloca al di sopra di tutto e di tutti). 1 L’influsso negativo del razionalismo socratico è già presente nelle opere di Euripide, in cui il divino è di continuo ricondotto e ridotto all’umano. All’opposto, è chiaro fin da adesso che al centro dell’interesse di Nietzsche sta l’umanità intera: il sapere che il filosofo cerca riguarda tutti gli uomini, il loro destino comune. Si può dire che l’intera dottrina dell’Übermensch2 elaborata in seguito, sarà a suo modo espressione di un profondo amore per l’umanità, assai distante dall’accento sul “singolo” che possiamo trovare in Kierkegaard. Tale amore, tuttavia, appare tutt’altro che consolatorio, ha in sé qualcosa di terribile, che forse i destinatari non avranno la forza di sostenere (v. il “dono” di Zarathustra): Nietzsche presenta il proprio pensiero come l’annuncio della più radicale catastrofe della storia umana. Per cominciare a sviluppare questo punto, vediamo come Nietzsche spiega l’affermarsi, nel corso della storia, delle dottrine metafisiche e religiose: come già avevano sostenuto Feuerbach e Marx, ideologie e religioni sarebbero creazioni dell’uomo che in tal modo proietterebbe fuori di sé la propria realtà concreta. Ma secondo Nietzsche neanche il pensiero dialettico sfugge a questa regola: esso pure propone schemi ed astrazioni che misconoscono l’autentica natura dell’uomo e del mondo. Ma perché sono nate tali astrazioni illusorie? Semplicemente perché l’uomo, atterrito dall’irrazionalità, dall’imprevedibilità dell’accadere (ossia dal lato doloroso, terrificante, di Dioniso), ha cercato un “rimedio” in entità e principi eterni, posti al di fuori del tempo. Ma è ora che l’uomo assuma le proprie responsabilità e compia un passo supremo accettando l’inevitabilità del divenire e dell’imprevedibile, fino a viverlo gioiosamente e a disfarsi così di ogni “rimedio”: solo in questo modo l’uomo potrà affrancarsi dalle catene che egli stesso si è imposto, fino a raggiungere la sua completa, illimitata libertà3. Casualità assoluta dell’accadere, assenza di fini e di schemi immutabili nel movimento dell’universo e nella vita terrena; fallimento, cioè, di ogni verità definitiva. Già il filosofo greco Epicuro aveva, in qualche modo, anticipato quest’ottica, propugnando l’indipendenza dell’umanità dall’autorità divina (“autarchia”): la scoperta della mancanza di senso del mondo non deve indurre l’uomo alla disperazione, bensì all’euforia per la sua assoluta libertà. Se ogni morale si fonda sulla realtà fisica dell’uomo, tutte le norme etiche, politiche etc. hanno solo validità relativa, sono produzioni storiche, di per sé precarie, determinate alla base da istanze assai diverse dal loro apparente contenuto (cfr. il concetto di “sublimazione” in psicoanalisi, e del resto anche il concetto marxiano di “sovrastruttura”). Nella sfera etica l’uomo sacrifica, in realtà, una parte di sé in nome di un’altra, smarrisce la sua completezza, si “aliena”, come già rilevavano Feuerbach o Marx. Ma l’analogia con le tesi della sinistra hegeliana si ferma qui: la negazione dell’esistenza di realtà immutabili di carattere metafisico porta infatti Nietzsche a vanificare non solo ogni distinzione kantiana (o schopenhaueriana) tra “fenomeno” e “noumeno”, o le pretese idealistiche di riportare tutto ad una realtà “in sé e per sé”, ma lo stesso progetto marxiano di fondare l’unità razionale di tutte le cose nella materia, vista ancora come insieme di strutture e leggi eterne. A questo punto l’ unità di tutto ciò che esiste non può essere altro che unità dell’apparenza (v. Aurora, Umano troppo umano). 2 Il termine in questione, solitamente tradotto con “superuomo”, ha ben poco in comune con la sua accezione da parte di certo estetismo edonistico e decadente (v. mitologia dannunziana): anche per questo è forse preferibile, come propone tra gli altri G. Vattimo, tradurre Übermensch con “oltre-uomo”. 3 Il discorso di Nietzsche è qui alquanto più radicale di quello di Marx: intanto perché il carattere alienante e costrittivo attribuito da quest’ultimo ai rapporti di produzione di certe età storiche (ed alle ideologie relative) è qui esteso a qualunque legge immutabile - dialettica compresa - che pretenda di guidare la storia. Poi, soprattutto, perché queste tesi portano a rimettere in discussione gli stessi modelli antropologici della cultura occidentale, modelli a cui il marxismo resta sostanzialmente fedele. 2 D) Dopo il tramonto delle verità “intelligibili” (dopo la “morte di Dio”, per usare un termine ricorrente nelle opere di Nietzsche) l’umanità si trova sola con sé stessa, padrona di sé: ma questa che dovrebbe essere la sua suprema vittoria è, nel contempo, il supremo pericolo. Infatti, nella cultura moderna, non sono ancora state elaborate forme di pensiero adeguate alla nuova condizione dell’uomo: questi sta prendendo possesso della terra senza essere preparato al compito, senza essersi addirittura reso conto della completa rivoluzione che sta vivendo (v. l’aforisma 125 della Gaia Scienza, in cui l’”uomo folle” parla appunto della “morte di Dio”). La crisi dei vecchi valori dà luogo, nell’età contemporanea, al “nichilismo incompiuto”, che spopola il cielo dell’intelligibile senza però mutare ottica, senza volgere altrove lo sguardo: questa forma di nichilismo, cioè, continua a credere di poter distinguere il reale dall’apparente, ossia crede ancora in una verità in senso forte. Esso si manifesta ad es. nella cultura scientifica (sempre alla ricerca di un “modello oggettivo” della realtà), o nel pensiero politico (democrazia, nazionalismo, socialismo, anarchismo), che pensa di poter individuare leggi storiche e valori definitivi. Al “nichilismo incompiuto” deve sostituirsi il “nichilismo compiuto” che, rovesciando l’essenza stessa dei valori, riporti lo sguardo alla Terra, e fondi nella dimensione temporale e materiale il nuovo, assoluto “contro-valore”4. La filosofia, in questo quadro, non appare più “fondata” della scienza (che ha, per Nietzsche, solo valore pratico, serve alla sopravvivenza della specie umana, come volevano anche Hume, Mill, Spencer): né l’una né l’altra sono ormai più in grado di offrire certezze. Ma la scienza, si è visto, resta legata all’illusione di aver a che fare con “fatti oggettivi” (sia pure nel ristretto contesto della realtà empirica), mentre invece la filosofia ha ora preso coscienza del carattere provvisorio di ogni realtà e del fatto che ogni conoscenza è un’interpretazione, e rappresenta perciò il punto di vista più lucido, più consapevole. Stando così le cose, qualsiasi dottrina, dunque anche la stessa concezione di Nietzsche che vuol ricondurre la morale alla “realtà naturale”, non può valere più altro che come interpretazione, come volontà-di-credere. E non esiste, come realtà stabile e fondante, neanche un “soggetto” che interpreti un “mondo oggettivo”: non c’è alcuna sostanza dietro il “gioco delle maschere”, cioè dietro l’attività interpretante (né un fondo assoluto della “rappresentazione” come pensava Schopenhauer, né una irriducibile “coscienza del singolo” di stampo kierkegaardiano). Tutto è ricondotto al libero gioco dell’apparire in cui la coscienza umana non è più centro e punto di riferimento (come voleva Cartesio), ma appare essa stessa dissolta in una molteplicità di momenti, che possono anche apparire talvolta in contrasto reciproco5. 4 Heidegger proporrà di superare anche questa tesi nicciana: la Metafisica non può esser oltrepassata dal rovesciamento dei valori proprio perché la sua essenza consiste appunto nel pensare per valori: Nietzsche, più che aprire una nuova età del pensiero, avrebbe compiuto l’ultimo passo necessario al compimento della metafisica, intesa come il progressivo affermarsi del Soggetto in un mondo dominato dalla dimenticanza dell’Essere: in questi termini sono interpretati la “Volontà di potenza” e l’Übermensch. Tutto questo niente toglie, secondo Heidegger, alla statura filosofica di Nietzsche, che resta comunque il profeta di una radicale svolta del pensiero. 5 Sono anticipati qui motivi e sviluppi della dottrina psicoanalitica: l’unità della personalità non è un punto di partenza, ma caso mai un compito da realizzare. Perché ciò avvenga l’Io (figura virtuale o comunque di superficie) deve entrare in contatto con la forza vitale che sta al suo fondo, l’Es (cfr. il detto di Nietzsche: cogito ergo est). Un problema apertosi fra i seguaci del pensiero freudiano riguarda, appunto, il ruolo del soggetto cosciente in questo processo di integrazione, ovvero l’interpretazione corretta di quello che Lacan considera il “testamento” di Freud, contenuto nella a celebre frase che chiude la 31 delle Neue Vorlesungen : Wo Es war, soll Ich werden. 3 Ormai il “soggetto cosciente”, l’uomo com’era tradizionalmente inteso, non può più esser considerato il protagonista di un possibile, radicale mutamento dell’esistenza sulla terra: all’urgenza di una rifondazione di tale esistenza non fa riscontro nessun progetto compiuto. L’esperienza stessa è un gigantesco enigma, una sorta di “puzzle” da ricomporre senza l’aiuto di modelli già pronti; tanto più che qualunque aspirante solutore dell’enigma appare, egli stesso, come una figura fra le altre del gioco: le cose, non meno delle parole che le designano, sono forme convenzionali, momenti di un fluire inafferrabile di relazioni fra simboli6. Lo stesso linguaggio di chi cerchi di testimoniare questa situazione deve mostrarsi provvisorio, giacché non rispecchia una realtà data stabilmente, ma al più indica, da lontano, una realtà da costruire. Io stesso - scrive Nietzsche - mi appaio come una scrittura illeggibile, un arabesco che una potenza misteriosa traccia sulla carta per provare una nuova penna. E) Interpretazione è dunque, come si è visto, la medesima dottrina dell’Übermensch: non una verità da scoprire, bensì una verità da costruire, da volere7. Tuttavia non è certo la vecchia umanità che può assumersi il compito di questa costruzione, né può dirigerla l’”oltre-uomo” che ancora non è apparso. Allora, chi si assumerà il compito? Zarathustra è, a sua volta, una figura enigmatica, un “avvocato” di ciò che ancora è da venire: dell’Übermensch; egli prepara una strada su cui altri dovranno camminare. In qualche modo Zarathustra è l’immagine idealizzata dello stesso Nietzsche (che rappresenta forse sé stesso, sempre enigmaticamente, nella figura dell’”Ombra di Zarathustra”) ma i criteri tradizionali che fissano l’identità personale in termini di “realtà” e “idealità” non sono qui più praticabili: Zarathustra parla delle metamorfosi che attendono lo spirito e del passaggio che porta all’oltre-uomo: il passaggio è irto di pericoli, e niente garantisce a priori che si compirà con successo: si tratta, secondo quanto scrive ancora Nietzsche, di un “esperimento con la verità”, che potrebbe anche condurre all’estinzione del genere umano. Tra i pericoli in questione può esser compreso anche quello del fraintendimento di ciò che Zarathustra annuncia (v. “un libro per tutti e per nessuno”): l’autore stesso appare lucidamente consapevole dell’uso aberrante che in futuro si potrebbe fare delle sue idee, conosce il loro potenziale distruttivo, ma è determinato a correre il rischio. Ma Zarathustra è anzitutto il profeta dell’Eterno Ritorno (Ewige Wiederkehr; Ewige Wiedergeburt): questa dottrina riprende il tema stoico dei cicli cosmici, per cui tutto ciò che appare nel mondo sarebbe apparso, identicamente, infinite volte in passato ed apparirà ancora infinite volte in futuro. Ma stavolta non si tratta di un modello metafisico: anche l’eterno ritorno è una interpretazione del divenire, è la pura volontà, da parte dell’oltre-uomo, di dare il proprio senso al divenire, liberandosi da ogni categoria e da ogni schema estranei all’assoluta irrazionalità del caso: ma in che senso il ripetersi infinito di questa vita può realizzare quella suprema libertà? 6 Ha origine di qui anche l’impostazione “ermeneutica” di pensatori come Heidegger e Gadamer: proprio perché tutto è interpretazione, ogni atto interpretativo è una via alla conoscenza, mentre il Linguaggio cessa di essere visto come produzione umana per divenire manifestazione diretta dell’essere (“il linguaggio - dice Heidegger - è la casa dell’essere”). La vicinanza ad Eraclito (o a Hegel) è più formale che di sostanza: infatti qui il Linguaggio o l’Essere non possono più avere quella portata fondante, epistemica, che rivestivano in ambito metafisico. 7 Cfr. Kierkegaard: la fede come strumento di comprensione della storia. 4 L’ultimo condizionamento che l’oltre-uomo deve eliminare è il proprio passato, la sua impotenza di fronte a ciò che è stato prima d’ora8: ma proprio accettandolo fino in fondo, fino a identificarlo con la sua stessa libera volontà, e volendone la ripetizione infinita, egli può imparare a “volere a ritroso”, trasformando il “così fu” nel “così io volli che fosse”: amor fati. Questo è ciò che Zarathustra chiama il suo “pensiero più abissale”: la definitiva rinuncia a dare uno scopo al divenire, l’accettazione gioiosa della casualità priva di significato dell’esistenza, con ogni suo aspetto di dolore e di miseria. Si deve accettare anche l’eterno ritorno dell’ultimo uomo, cioè dell’umanità nei suoi aspetti più meschini e superficiali, l’umanità moderna, convinta di aver raggiunto la felicità, che non si rende neanche conto degli sconvolgimenti che avvengono nel profondo: “Zarathustra - dice Nietzsche - vuole gettare tutto nel crogiuolo”. Ma è proprio in questa suprema accettazione che viene alla luce l’oltre-uomo, è a questo punto che appare il “ponte” che conduce al di là. Sia l’uomo redento dalla vendetta... ecco il ponte verso la speranza suprema... l’arcobaleno dopo lunghi uragani. Lo Spirito di Vendetta è il rifiuto del passato, la volontà disperata di dare un senso ulteriore a ciò che è accaduto: placando tale spirito, l’esistente si pacifica, fino a coincidervi, con la sua più profonda dimensione vitale. Appendice: Nietzsche e Hegel Se il pensiero di Nietzsche rappresenta uno dei momenti più significativi della distruzione dell’epistéme (cioè della distruzione di quel progetto filosofico che ha in Hegel l’ultimo grande esponente), non si deve peraltro ignorare che tra i due pensatori esistono anche legami profondi. Nietzsche riconosce a Hegel soprattutto il merito di aver posto il divenire (cioè il processo dinamico della produzione degli enti) al di sopra dell’essere (cioè delle strutture statiche che la tradizione filosofica attribuiva alla realtà). Anche Nietzsche, come Hegel, ritiene in definitiva che la realtà sia prodotta da un “Soggetto creatore” (certo ben diverso dal “soggetto cosciente”, dall’Io in cui si riconosce l’uomo occidentale) il quale, dimenticando la propria libera attività, vede nell’Oggetto (nella fissità “indurita” del mondo) qualcosa di indipendente da sé e, in questo senso, di assolutamente inalterabile, indominabile. Nella Fenomenologia dello Spirito l’oggettività irrigidita del mondo è concepita appunto come visione erronea da parte dell’Intelletto astraente (cioè come dimenticanza di sé da parte del vero Soggetto). Sennonché, l’affermazione della superiorità del processo dinamico (cioè dialettico) sulla fissità illusoria dell’astratto, si risolve per Hegel nella formulazione di una suprema Struttura razionale che - appunto in quanto struttura - fonda e dirige il divenire degli enti, e quindi rende necessario lo sviluppo della loro storia. Nell’ottica di Nietzsche, tutto questo rappresenta il tentativo di riproporre un nuovo Immutabile, come oggettività assoluta, limitando la libertà del Soggetto creatore (e tale oggettività è appunto il Dio che secondo Nietzsche la nostra epoca ha, di fatto, già ucciso). Ossia, la Ragione hegeliana fa al divenire quello stesso “torto” che Hegel imputa all’Intelletto astraente. 8 Tale impotenza deriva dallo Spirito di Gravità (che in un celebre passo di Così parlò Zarathustra è rappresentato da un nano deforme che grava sulle spalle dello stesso Zarathustra): esso consiste nel considerare “seriamente” il passato, nel sottomettersi alla sua autorità, accogliendolo come una realtà irrevocabile, altra dalla nostra volontà, su cui non possiamo aver più alcun potere. 5 Distruggere Dio significa, per Nietzsche, ritrovare la libertà assolutamente priva di schemi del divenire, cioè l’innocenza originaria del mondo. “Innocente” è appunto il fanciullo (che appare con l’ultima metamorfosi dello spirito): dato che la “colpa” dell’uomo consisteva nell’infrangere le leggi assolute della tradizione morale, religiosa... se nessuna legge, verità assoluta si impone più all’uomo, svanisce di conseguenza anche ogni colpa, e sorge quell’oltre-uomo che pone il proprio agire “al di là del bene e del male”. Nel confronto col pensiero di Nietzsche appare insomma una duplice vocazione dell’idealismo hegeliano (i cui momenti sono destinati ad entrare in contrasto tra di loro): da un lato Hegel compie lo sforzo (che è poi il più gigantesco sforzo del pensiero occidentale) di stabilire legami necessari, immutabili tra le cose (v. le strutture razionali dell’Idea). Dall’altro lato (come ben si avvede Nietzsche) egli sviluppa l’esigenza di riportare tutto l’essere a divenire, proprio individuando nel divenire, cioè nel processo storico, la concretezza di quelle strutture immutabili. Ma è proprio il modo in cui l’Occidente intende il divenire (un uscire dal nulla ed un ritornare nel nulla da parte delle cose) che rende impossibile l’esistenza di qualsiasi struttura o legge eterna, immutabile: se infatti si desse una struttura del genere (come ancora ritiene di poter stabilire Hegel) l’emergere dal nulla da parte delle cose sarebbe illusorio (in quanto da sempre e per sempre previsto); e quindi sarebbe illusorio anche il dominio esercitato dall’uomo sulle cose. Ma questo dominio - come rileva Nietzsche facendosi interprete dell’intera cultura occidentale - non è illusorio. Se esistessero gli Dei l’uomo non potrebbe creare alcunché, dunque gli Dei non esistono9. Per quel secondo lato, cioè per l’affermazione del divenire come ambito concreto dell’essere, non solo la filosofia hegeliana non resta superata dal pensiero contemporaneo, ma addirittura ne costituisce il fondamentale (anche se non sempre visibile) criterio guida. La netta distinzione di quei due lati dello hegelismo (e la necessaria risoluzione del primo nel secondo) viene esplicitata in modo particolarmente lucido nell’idealismo di G. Gentile, i cui punti di contatto con le tesi di Nietzsche sono molto più consistenti di quanto solitamente si riconosca. 9 Cfr. Così parlò Zarathustra - Parte II, Sulle isole beate. 6