1 24.2.2006 GIUSEPPE RICONDA LA RELIGIONE IN KANT 1. Dio

24.2.2006
GIUSEPPE RICONDA
LA RELIGIONE IN KANT
1. Dio nella Critica della Ragion pura
La Religione nei limiti della semplice ragione è, come si sa, opera tardiva (1793,1794) e del
resto alle domande cui l’uomo non può sottrarsi e in cui si articola l’esigenza critica -Che cosa
posso conoscere? Che cosa debbo fare? Che cosa mi è lecito sperare? - essa risponde all’ultima e
già presuppone che si sia risposto alle prime. Ma occorre notare che ciò non vuol dire che essa sia
l’ultima a sorgere: la preoccupazione religiosa è sempre sullo sfondo del pensiero kantiano come
suo momento condizionante nell’attesa di un definitivo approfondimento, e nell’opera di Kant
appaiono costantemente riferimenti ad essa. Del resto le tre domande enunciate si riassumono
nell’unica domanda di fondo -Cos’è l’uomo?- e in ognuna di esse le altre sono contenute. Si deve
poi aggiungere che la teoria filosofica della religione di Kant è già tutta contenuta in una celebre
lettera al teologo svizzero Lavater del 1775 e in una nota della Critica della ragione pratica (1788,
cap. II, §4, nota a), opera che talvolta si è voluta separare dalla Religione nei limiti della semplice
ragione come contenente tutto il vero pensiero etico-religioso di Kant nei confronti di quello che fu
considerato spesso come un lavoro marginale o addirittura tale da risultare infedele allo spirito più
profondo dell’etica dell’illuminismo esposta nella prima.
Nell’impossibilità nel tempo concessomi di seguire il complesso sviluppo del pensiero kantiano
su questo punto, mi limiterò a qualche accenno alla Critica della Ragion pura e alla Critica della
ragion pratica.
La risposta data della Critica della ragione pura (1781,1787) alla domanda su che cosa
possiamo conoscere è ben nota e qui basterà qualche accenno ad essa per quel che riguarda il
nostro problema. Essa consiste in una riflessione sui limiti e le possibilità della nostra conoscenza
che fissa questi limiti nell’esperienza, sicché non sono valide le conoscenze che pretendono
oltrepassare l’esperienza. Ma occorre spiegare come la conoscenza che si tiene nei limiti
dell’esperienza abbia quella validità oggettiva (nel senso di universale e necessaria) cui pretende.
Ora la risposta di Kant è che la nostra conoscenza inizia dall’esperienza ed ha in essa il suo limite
ma non si esaurisce in essa. Una conoscenza oggettiva delle cose implica la loro collocazione in un
tempo unitario e in uno spazio unitario: il che significa che ogni cosa per essere conosciuta deve
essere posta in un complesso di relazioni. Ora l’esperienza ci fornisce un complesso di impressioni,
ma non le loro relazioni, che sono un prodotto dello spirito umano in risposta all’esigenza di una
conoscenza oggettiva. Lo spazio e il tempo unitario in cui noi collochiamo le cose costituiscono
costruzioni dello spirito umano, dello spirito cioè che è in ognuno di noi e costituisce la nostra
comune radice. Kant ritiene che spazio e tempo siano forme a priori (cioè non derivate
dall’esperienza) della nostra intuizione sensibile nel senso che, essendo condizioni di ogni possibile
esperienza, non derivano da essa. Nulla possiamo così intuire o percepire se non collocandolo nello
spazio-tempo; ma spazio e tempo ricevono la loro unità dalla spontaneità dell’intelletto umano che
per unificarli si avvale di certe forme di pensiero (sostanza, causa, relazione reciproca, etc..) che
non sono necessariamente connesse con la nostra sensibilità e le sue forme sicché possiamo anche
usarle al di fuori di questo rapporto.
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Da tutto ciò si debbono trarre due conclusioni: 1) noi non conosciamo le cose come sono in sé,
ma solo come appaiono al nostro spirito ( dal fatto che non possiamo intuire le cose nello spaziotempo non ne deriva che siano realmente nello spazio tempo (è la celebre distinzione kantiana fra
cosa in sé o noumeno e sua apparizione o fenomeno); 2) le forme non necessariamente connesse
con la sensibilità ci spingono, direi quasi naturalmente, a oltrepassare l’esperienza alla ricerca di
un’unità ultima capace di raccogliere in sé la totalità dell’esperienza. Per rendere tutto quel che ho
detto in maniera facile e intuitiva mi esprimerò così: conoscere per Kant vuol dire unificare un
complesso di impressioni o sensazioni date che costituiscono il momento primo passivo della nostra
vita spirituale, una prima unificazione si ha nello spazio e tempo, che a sua volta sono unificati dalle
forme dell’intelletto in uno spazio-tempo unitario (in cui cioè si diano delle relazioni oggettive), ma
la ragione umana non si ferma qui, cerca un’unità ultima e totale che le sfugge, e le sfugge
necessariamente perché la totalità dell’esperienza non può mai essere un’esperienza. Impossibile
fare tacere questa tensione verso l’unità, impossibile soddisfarla. La ragione, nel tentativo di
soddisfarla, mette capo a tre idee (quella dell’anima come totalità dei fenomeni interni, quella del
cosmo come totalità dei fenomeni esterni, quella di Dio come totalità assoluta, fondamento ultimo
di ogni fenomeno e noumeno), ma si tratta di tre idee nei confronti delle quali non è possibile
affermare una realtà esterna né per via intuitiva, né per via argomentativa (Kant, com’è noto, svolge
un’aspra critica delle prove dell’esistenza di Dio elaborate da quella che per lui è la metafisica
tradizionale). Questo movimento dialettico attraversa lo spirito umano: in esso è la tendenza ad
un’unità ultima impiantata nella nostra stessa ragione che però ci sfugge, che non può essere
obiettivata. Il che è come dire che l’uomo porta seco inevitabilmente la domanda su Dio anche se
non ha i mezzi teoretici per soddisfarla. Insisto su quest’ineliminabilità: troppo spesso i lettori di
Kant dall’impossibilità di soddisfare la domanda hanno argomentato l’insignificanza della domanda
stessa, che è quanto di più antitkantiano ci possa essere.
2. La religione nella Critica della ragion pratica
La ragione umana non ha soltanto un uso teoretico, sibbene anche un uso pratico. Essa non solo
conosce ma è anche in grado di determinare la volontà ed è in grado di determinarla di per sé,
indipendentemente dalla sensibilità: questo è il senso della celebre espressione kantiana “ragion
pura di per sé stessa pratica”. In questo senso la ragione porta seco una legge, è legislatrice.
“Agisci in modo che la massima della tua azione possa essere elevata a norma di una legge
universale”, dice Kant. E’ la ragione a dare la forma della legge alla mia massima, cioè al principio
in base a cui agisco; essa è pertanto in grado di fondare la legge di una comunità ordinata
escludendo tutto quello che la può turbare. Occorre distinguere la ragion pratica da quella che sarà
chiamata ragion strumentale: la ragion strumentale è sempre subordinata ad un fine empirico e al
raggiungimento di tale fine, la ragione pratica ha invece un valore assoluto, determina la volontà
secondo la legge universale che esprime senza alcuna considerazione di fini pragmatici. Kant ritiene
che basti analizzare la nostra vita interiore per accorgersi di questo potere che l’uomo ha di agire
disinteressatamente, di essere spettatore disinteressato di se stesso e degli altri nell’applicazione di
una legge universale. Se questa formulazione appare troppo formale, si ricordi l’altra che gli è
equivalente: “agisci in modo da trattare l’umanità in te e negli altri sempre anche come fine e mai
solo come mezzo”. Qui emerge veramente il significato della distinzione fra ragion pura pratica e
ragione strumentale. Se non vi fosse che ragion strumentale o se prendessimo la ragione strumentale
come norma di vita gli altri non potrebbero essere considerati che come strumenti ai nostri fini,
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l’emergenza di un’etica del rispetto che oggi ci sembra l’unica possibile da applicarsi alle relazioni
umane sarebbe una chimera.
Di più, data la difficoltà della ragione pragmatica-strumentale a raggiungere i fini che si pone
progettati sempre in riferimento a un futuro, che non può che essere incerto, e data la chiarezza
indiscutibile con cui la ragion pratica formula il nostro dovere, Kant si domanda se non si debba
dire che la ragione ci sia data proprio per il suo uso pratico-morale (domanda che, come vedremo,
troverà una risposta affermativa). “Dovere! Nome sublime!”. L’uomo è un essere razionale finito,
ha la razionalità ma non è la razionalità; oltre che ragione è sensibilità e la sensibilità è qualcosa di
anarchico nei cui confronti la legge deve farsi valere. La ragione acquista perciò il carattere di
dovere e si pone come espressione di un imperativo, cose tutte che hanno senso solo se l’uomo è
libero. Sul piano della ragion pratica è affermata la libertà umana che per Kant ha un duplice senso:
essa consiste nel determinarsi secondo la forma pura della legge trascendendo ogni impulso
sensibile che la rinchiuderebbe in una necessità impostagli dal di fuori, ed è la stessa capacità di
determinarsi per la legge o per gli impulsi sensibili. Ma c’è di più, l’oggetto di una volontà
determinata dalla legge è la realizzazione del Sommo Bene, la somma di virtù e felicità
condizionata dalla virtù. Il Sommo Bene così concepito è un Sommo Bene derivato, perché radicato
nella volontà razionale dell’uomo come suo compito. Ma, si domanda Kant, avrebbe senso un
sommo bene derivato senza un sommo bene originario? Se non vi fosse a fondamento dell’universo
un Bene originario, così mi pare di potere interpretare Kant, il nostro impegno morale, i nostri
sforzi morali, non potrebbero certo sfuggire alla loro nullificazione, collocandosi ed ergendosi sullo
sfondo di un universo di insignificanza. L’assunzione della possibilità di un Sommo Bene derivato,
di un mondo in cui regni incontrastata la virtù e la felicità da essa condizionata, implica quella di un
Sommo Bene originario. da cui dipenda un mondo che non è lasciato al caso, ma orientato verso il
bene come sua somma possibilità. Se condizione della validità della legge morale come
determinante la volontà è la libertà, condizioni del Sommo Bene come oggetto di una volontà
determinata dalla legge morale, quindi “praticamente necessario”, sono l’esistenza di Dio e
l’immortalità dell’anima umana. Libertà, esistenza di Dio e immortalità dell’anima sono postulati
della ragione pratica, cioè proposizioni teoretiche, ma come tali non dimostrabili, che ineriscono
necessariamente a una legge valida a priori, cioè alla legge morale inscritta come si è vista nella
nostra ragione. Tenendo ferma questa destinazione ultima pratica della ragione, Kant giungerà a
parlare di un ordinamento saviamente predisposto delle nostre facoltà razionali: se ad es. la
dimostrazione dell’esistenza di Dio fosse possibile, poiché una dimostrazione necessaria equivale
ad un’intuizione, la “tremenda maestà di Dio” ci sarebbe sempre dinnanzi e come allora parlare di
libertà umana? Qui si ha l’idea pascaliana di un Deus absconditus, l’idea vivissima nella nostra
tradizione filosofica d’un Dio che si ritrae per lasciarci liberi.
E’ possibile ammettere la realtà oggettiva dei postulati che l’unione di virtù e felicità richiede e
quella della libertà, solo se si riconosce che l’esistenza sensibile possa anche non essere l’unica
esistenza per l’essere razionale finito (cosa che come si è visto la Critica della Ragion pura
ammetteva, in quanto riconosceva la distinzione fra fenomeni e cose in sé). La legge morale cui è
soggetto lo rende così membro di un mondo intelligibile (solo in esso può essere collocata la
libertà), la cui causa (l“Autore intelligibile della natura”) può subordinare la natura alle esigenze
della moralità, commisurando la felicità degli esseri finiti alla loro virtù.
Questa dottrina dei postulati è stata tante volte considerata come un’aggiunta indebita all’etica
kantiana, qualcosa che tradisce il suo carattere di etica autonoma. Ora il senso del carattere di
autonomia dell’etica kantiana riguarda a mio parere la necessaria subordinazione del sensibile
all’intelligibile (motivo della grande etica occidentale da Platone in poi), non come tante volte è
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assunto la separatezza dell’etica dalla religione. Un’etica senza religione per Kant non ha senso:
affermare l’impossibilità del Sommo Bene sarebbe per lui “considerare la legge morale fantastica e
diretta a fini vani e immaginari, e quindi falsa in sé medesima”. Del resto già nella Critica della
Ragion pura, nella parte metodologica dove schizza il senso del suo intero lavoro scrive: “Io
crederò inevitabilmente nell’esistenza di Dio e in una vita futura, e sarò sicuro che nulla può fare
vacillare questa fede, poiché altrimenti risulterebbero rovesciati i miei stessi principi morali, ai quali
non posso rinunciare, senza diventare spregevole ai miei stessi occhi”. Un’etica senza religione per
Kant non ha senso, ma anche non ha senso una religione senza etica, e non v’è altra via d’accesso
alla religione che quella etica. In questo senso mi pare più seria la critica che è stata rivolta a Kant
di riassorbire la religione dell’etica, di non considerare la religione se non come un’insieme di
condizioni che rendono possibile la vita morale: ci sarebbe insomma in Kant, piuttosto che un’etica
separata dalla religione o viceversa, un’identificazione fra etica e religione. In realtà parlare di
identificazione tout court mi pare troppo: resta invece vero che l’unica via di avvicinamento alla
religione, che le impedisca di rovesciarsi nella superstizione, è quella della ragion pratica. In un bel
saggio sul Fallimento di ogni tentativo in teodicea (1791), Giobbe, quello che la tradizione ha
sempre considerato come l’eroe religioso per eccellenza, è considerato invece come eroe morale.
Gli argomenti con cui gli amici si rivolgono a Giobbe, come quelli con cui Giobbe risponde agli
amici, hanno secondo Kant poco di notevole, ma un punto è importante: quando gli amici
consigliano Giobbe di dichiararsi colpevole e riconoscere che il castigo di Dio è giusto, Giobbe
rifiuta, perché questo non è il suo convincimento interiore, e cadrebbe allora nella massima
abiezione morale, la falsità. C’è nell’oscurità del mondo in cui ci troviamo (tutto il saggio è
percorso da un senso dell’inaudita potenza di Dio e del mistero, che si accentua proprio quando Dio
parla direttamente a Giobbe) qualcosa che splende in noi, la legge morale; tradire questa legge
vorrebbe dire tradire quello che solo in questo mondo parla di Dio, precludendosi così l’unica
ragione di credere in Lui anche se non si riesce a comprendere le vie attraverso cui si manifesta la
sua saggezza nel corso del mondo. “Con questo suo atteggiamento egli mostrava di non fondare la
sua moralità sulla fede, ma la fede sulla moralità; e in questo caso la fede per quanto debole possa
essere è d’una specie più pura e autentica d’ogni altra, tale cioè da fondare una religione, che
consiste non nella ricerca di favori, ma nella buona condotta”. La fede in Dio nonostante la
presenza del male nel mondo è tutta fondata sulla legge morale e sul suo carattere imperativo, che
qui è vissuto (come sempre avviene in Kant quando parla del trapasso dalla morale alla religione
come atteggiamento vissuto) nella pienezza delle sue conseguenze esistenziali. La presenza della
legge morale in noi e il comando del Sommo Bene sono l’unico motivo per sperare che il male, che
pure ci attanaglia e ci circonda da ogni parte, non è ultimativo, anche se la sua presenza e il modo
del suo accordarsi con la Saggezza morale di un Creatore del mondo restano per noi insondabili.
Ma il problema del male e del male come falsità non può non portarci alla Religione nei limiti della
semplice ragione, dove quel che è peculiare alla religione, il “di più” di essa nei confronti della
moralità, emerge a mio parere in modo indiscutibile
3. La religione nei limiti della semplice ragione e la dottrina del male radicale.
L’opera nelle intenzioni di Kant rispondeva certo alla terza domanda, che cosa posso sperare? Essa
indubbiamente si pone come un prolungamento di motivi critici svolti nelle tre critiche precedenti
ed è una risposta alla terza domanda in termini di criticismo, ma c’è a mio parere qualcosa in più:
essa mostra il potere che i risultati a cui il criticismo è giunto -con la sua enucleazione delle
strutture trascendentali che rendono possibile la vita conoscitiva e pratica dell’uomo- hanno di
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illuminare la situazione umana nella sua concretezza. Kant non rifiuta certo la definizione della
religione“come considerazione di tutti i doveri come comandamenti divini” a cui era giunto nella
Critica della ragion pratica, ma la considera in un contesto più ampio che ha i suoi termini (è qui
la novità che scandalizzò anche i suoi amici) nelle tesi del male radicale e della sua redenzione. Di
più questo orientamento verso la concretezza della situazione umana, che raggiunge anche i suoi
momenti storico-sociali, lo porta ad un confronto diretto e approfondito con il Cristianesimo.
Vediamo anzitutto il significato del titolo. Kant ci dice che con esso non indica una religione
costruita sulla base della pura ragione, tratta da essa, con esclusione della rivelazione divina, ma
piuttosto una religione situata nei suoi limiti. Kant cioè non contesta la possibilità e neanche la
necessità di una rivelazione “come mezzo divino per introdurre la vera religione”. In ciò il suo
programma è ben diverso da quello fichtiano di critica ad ogni rivelazione. C’è però una religione
della pura ragione che consiste in quanto della religione può essere affermato stando nei limiti della
pura ragione e stando entro questi limiti è possibile sviluppare una dottrina filosofica della
religione. Dice Kant: “in quest’opera io volevo presentare, in un quadro coerente, solo ciò che nel
testo della religione ritenuta rivelata per fede, nel testo della Bibbia, può essere riconosciuto anche
attraverso la pura ragione”. Nella prefazione alla seconda edizione del libro (1794) enuclea quello
che per lui è il rapporto fra la “religione ritenuta rivelata per fede” e la religione della pura ragione
come un rapporto fra due sfere concentriche; poiché la rivelazione può comprendere in sé anche la
religione della pura ragione, ma questa non può contenere l’elemento storico della rivelazione, si
potrà considerare la rivelazione come la sfera più ampia che include in sé la sfera più ristretta della
religione della pura ragione, a cui il filosofo teologo, come “insegnante della ragion pura” deve
attenersi. Egli potrà astrarre da ogni esperienza ed attenersi ad essa, ma anche potrà, prendendo
come punto di partenza una rivelazione ammessa come tale, far astrazione dalla ragion pura come
un sistema di per sé sussistente, e considerare la religione in quanto sistema rivelato nei suoi
concetti morali, “frammentariamente”, per vedere se in questo modo si è condotti al medesimo
sistema razionale puro di religione: il risultato di questa indagine sarà che fra la Scrittura e la
ragione non solo c’è compatibilità, ma anche accordo. L’idea dei due cerchi concentrici implica
ovviamente che nella religione rivelata, che pure contiene in sé la religione puramente razionale, vi
sia qualcosa di più di quello di quanto si ritrova in quest’ultima. Ora questo “di più” riguarda sia la
forma che il contenuto della religione rivelata. La forma, perché la religione rivelata si rivolge
all’uomo tutto intero, che non è soltanto ragione ma anche sensibilità, e servendosi di analogie tratte
dal mondo della natura e dei sensi si sforza di rendere comprensibile il soprannaturale e il
soprasensibile ( per esempio l’amore di Dio per l’uomo è illustrato con la rappresentazione del
sacrificio del suo unico figlio). In base a questa dottrina Kant interpreta istituzioni e dogmi della
Chiesa rivelata. In realtà questi schemi o simboli che la religione rivelata usa sono dalla ragione
indeducibili ma le si aggiungono senza violarla anzi soddisfacendola. Egli però ondeggia fra la
considerazione di questi schemi come necessari per l’uomo che, in quanto essere razionale finito è
dotato di sensibilità, e l’assumerli invece come legati ad una situazione fattuale dell’umanità, che
potrebbe anche essere anche provvisoria, secondo il principio illuministico in base al quale
un’umanità veramente matura potrebbe anche fare a meno di essi. Ma c’è un di più di maggior
interesse che riguarda il contenuto, che Kant afferma dicendo che la religione rivelata può servire a
colmare la manchevolezza teorica della fede razionale su certe questioni rispetto a cui confessa la
sua indigenza ( per es. sull’origine del male, sul passaggio dal male al bene, etc..). La fede
razionale pura riflettendo su di sé esperisce dunque certe manchevolezze, e a questo proposito trova
lumi nella rivelazione, che a sua volta illumina dal di dentro. Con questo voglio dire che la religione
anche nei confronti di questi problemi avrà un potere discriminativo, potrà accettare quel che dalla
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rivelazione le viene solo distinguendo forme autentiche da forme superstiziose di religione, quali
sarebbero quelle che tendono a negare o anche solo ad attenuare lo sforzo morale. Compito della
ragione è qui quello di delineare una zona di credenze possibili e nel discriminare da quelle
superstiziose. Con ciò ancora una volta è affermata la funzione purificatrice che la ragion pratica
può avere nei confronti della rivelazione, ma ancora una volta è esclusa l’idea di una ragione
ripiegata su se stessa, esclusiva di ogni rivelazione. Kant parla di Parerga della religione della pura
ragione, alla lettera aggiunte, ma aggiunte necessarie, alla religione nei limiti della semplice
ragione, sussidi attigui, elementi supplementari che fungono da sostegno, che trattano di questi
problemi che sorgono ai limiti fra le esigenze della ragione e l’ambito della rivelazione, religione
razionale e religione rivelata. La loro trattazione mostra come per Kant la religione si articoli sulla
base delle esigenze della ragione senza peraltro ridursi ad essa. Si tratta di idee che la rivelazione
custodisce, come quelle di mistero e grazia, che Kant chiama trascendenti, di cui non posiamo fare
nessun uso né conoscitivo né pratico, ma di cui la ragione non può contestare né la realtà né la
possibilità, che anzi deve ammetterle come termini di quella che Kant chiama fede riflettente, una
fede che, a differenza di quella morale o razionale ( la fede dei postulati) che nasce dalla ragion
pratica di per sé presa, nasce invece dalla riflessione che la ragione esercita sulla situazione
umana nella sua concretezza, sulla moralità nel suo esercizio concreto, sulla sua possibilità in un
contesto fattuale che sembra minacciarla o addirittura frustrarla. Sembra così che le due sfere
concentriche non manchino di punti di contatto: come quello che Kant chiama “il teologo biblico”
difficilmente può fare a meno della ragione, il “teologo filosofo” nello svolgimento della sua
problematica trova motivi che lo aprono ad una rivelazione trascendente, nei cui confronti non
cesserà di fare valere le esigenze della ragione, ma che intanto non può negare e dalla quale le
vengono aiuti a colmare le sue lacune teoretiche. Occorrerebbe al proposito un approfondimento
teorico che qui non posso fare: cercherò però di illustrare questo punto in modo spero criticamente
soddisfacente riportandolo all’intero discorso kantiano.
Al centro della dottrina kantiana è il tema del male radicale: già nella citata lettera a Lavater
Kant aveva parlato di una fragilità umana, di un “male insuperabile” del cuore umano; ora riprende
questo motivo, approfondendolo e facendone il fondamento della sua meditazione, a cui tutte le
altre parti del libro si riattaccano e che ne costituisce la novità e l’originalità non soltanto rispetto
alla produzione kantiana precedente, ma rispetto alla stessa filosofia del secolo.
La tesi kantiana è che l’uomo sia cattivo per natura, dove però per “natura” intende la natura
dell’uomo come essere razionale finito dotato di libertà: con un atto originario, che precede ogni
atto che si svolge nel tempo e di cui si ha esperienza, l’uomo si è collocato nel male, ha scelto cioè
la deviazione dalla legge morale. Il riportare il male ad un atto di libertà, in una sorta di trascrizione
razionalistica del racconto biblico del peccato, a cui Kant si rifà, gli serve a sottolineare sin da
principio la sua contingenza (in nessun modo, egli sottolinea, il male può essere fatto coincidere
con la semplice finitezza umana). Occorre distinguere la tendenza al male, che c’è in ciascuno di
noi come effetto di questa scelta primordiale, dalla disposizione al bene che è tratto essenziale della
nostra natura e con cui questa tendenza può convivere ma che in nessun modo può distruggere. In
che cosa consiste questo male radicale, questa “macchia putrida” dell’umanità? Kant risponde
“nella falsità”. Il bene consiste nella volontà buona, nell’azione che non solo è conforme alla legge
morale, ma motivata da essa, al punto che, come si sa, la presenza di ogni motivo che non sia la
legge stessa inquina la moralità nella sua purezza, rovinandola. Ora il male radicale non consiste
solo nel lasciare che nello spazio riservato alla motivazione morale entrino altri motivi, com’ è
proprio della fragilità umana, che si mescolino con la motivazione umana com’ è proprio della
impurità umana, ma in una vera e propria perversione per cui la motivazione morale è subordinata a
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motivi tratti dagli impulsi sensibili. Si noti che non si tratta neppure di un’azione che non sia
conforme alla legge, di un disconoscere la legge, ma di un’azione che, pure nella conformità alla
legge, subordina l’obbedienza della legge a motivazioni altre che il rispetto della legge. La
perversione si spinge allora sino a presentare come morali azioni che, lungi dall’essere motivate
dalla legge, sono soltanto vagamente nella sua direzione, a cercare di giustificare azioni che oltre
che essere non motivate dalla legge non le sono conformi, aggirando la legge; sempre riconoscendo
l’autorità ma trovando motivi sofistici che nell’atto di questo riconoscimento ne giustifichino la
disobbedienza. Si ha allora un mentire non solo agli altri, ma innanzi tutto a noi stessi. Il male di cui
Kant parla non ha il manto scarlatto della ribellione che tende alla negazione alla distruzione della
legge morale (un tal male Kant lo considera diabolico) ma è il male che si insinua nella nostra
quotidianità, che mostra come direbbe Gogol quanto poco bene ci sia in quello che noi facciamo
passare per bene. Tutte le volte che leggo le pagine di Kant su questo punto non posso non pensare
a Gogol, alla sua commedia Il revisore. In una cittadina si attende un revisore dei conti pubblici:
arriva un ometto simpatico, lo si accoglie lo si porta di qua e di là raggirandolo in tutti modi, poi la
commedia finisce con l’entrata in scena di due gendarmi che annunziano: “è arrivato il revisore!”.
Si dice che alla prima rappresentazione un gelo accompagnò nella sala queste parole. Certo ci si può
comportare con la legge morale come con il revisore, ma verrà il momento in cui saremo posti di
fronte a noi stessi alla luce di una verità non più aggirabile …e sarà momento tremendo.
L’effetto terribile della falsità è che essa impedisce l’istituirsi di una comunità etica genuina,
fondata non sulla contingenza degli affetti ( paura, allettamento etc… sempre riportabili all’unico
motivo dell’egoismo), ma sulla stabilità dell’”intenzione” come ferma “convinzione” interiore -il
termine tedesco Gesinnung veicolo entrambi i significati, intenzione e convinzione. Ad essa Kant
riserva il nome di Chiesa. In realtà Kant insiste molto di più sul potere inquinante che la tendenza al
male ha nei confronti della comunità costituita (che del resto per lui nasce già inquinata): celebre è
la sua polemica contro il falso culto che consiste, sul piano teoretico, nell’ispessimento dei simboli
religiosi sino a dimenticare la loro simbolicità assumendoli per realtà, e, sul piano pratico, nella
obbedienza a leggi statutarie esterne; anche qui si ha un’inversione di principi e una sorta di
autoinganno che annulla l’impegno morale, il vero culto, che consiste nella consapevolezza che
solo la condotta morale può renderci graditi a Dio e mantiene i simboli nella loro trasparenza.
4. La religione nei limiti della semplice ragione: la conversione e la grazia.
La tendenza al male così delineata è invincibile? Essa, come si è visto, non cancella la
disposizione al bene che in noi con essa coesiste e che ci comanda di vincerla con il “tu devi,
quindi tu puoi”, della legge morale. Se è vero che ci siamo collocati nel male, con un atto di libertà,
con un atto di libertà posiamo uscirne. Kant giunge a dire, quando parla come ho detto del mito di
Adamo, de te fabula narratur, in quanto il nostro permanere nel peccato è come un passare
continuo dall’innocenza al peccato, perché in ogni momento lo ratifichiamo non compiendo quel
che la legge morale esige, perché in ogni momento ci si può liberare dalla tendenza al male,
instaurata dall’atto originario di libertà, con un atto altrettanto originario, perché da nulla
preceduto. La conversione si configura, secondo Kant, come un atto unico e fondamentale che
consiste in una specie di rinascita, di rivoluzione interiore, di cangiamento di cuore: esso avviene
fuori del tempo e si traduce nel tempo in una riforma continua di costumi, in un progresso che non
cessa mai di impegnare l’uomo convertito, il quale agli occhi di Dio che sa leggere le intenzioni
nell’intimo nei cuori, ha già con il suo atto di conversione realizzato un’umanità gradita a Dio, è
divenuto soggetto suscettibile di bene, un uomo fondamentalmente buono. Agli occhi di Dio
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dicevo, ché agli occhi del convertito la conversione è continuamente problematica, continuamente
messa in forse sicché egli non può che pensare che se mai si compirà pienamente, si compirà
nell’eschaton, quando Dio lo accoglierà nel suo seno.
Si è visto come dal male radicale fosse travagliata la stessa Chiesa, la comunità etica che Dio
chiede agli uomini di instaurare e organizzare. L’uomo, come essere razionale finito, ha bisogno di
simboli e di istituzioni quali “sostegni sensibili” di più altri principi razionali, e la Chiesa ha un
aspetto per cui è Chiesa visibile, ma simboli e istituzioni debbono esseri valutati per il loro accordo
con la pura religione morale e la Chiesa sarà tanto più pura quanto più saprà rispondere a questa
esigenza, sino a fare delle leggi statutarie che la caratterizzano un mezzo per la sua conservazione e
diffusione, qualcosa che vale solo se ravviva la nostra fede e le nostre convinzioni morali. Il criterio
di valutazione della Chiesa visibile è la Chiesa invisibile, l’idea della Chiesa nella sua purezza (al
di là di ogni ispessimento dei simboli e di quello che si è visto essere il falso culto), alla
realizzazione della quale dobbiamo mirare ma rispetto alla quale egli talvolta afferma che siamo
ancora a una distanza infinita tanto che sembra che anche qui essa potrebbe anche solo avvenire
nell’eschaton.
Non posso qui approfondire l’esame delle difficoltà teoretiche di questa teoria della conversione,
che richiede, da parte del lettore di Kant, un supplemento interpretativo che deve prendere a suo
rischio.
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Kant è tuttavia giunto a un tal senso della profondità del male che è portato ad aggiungere a
queste considerazioni sulla conversione le parole seguenti: dobbiamo metterci sulla via del bene
“anche se ciò che possiamo fare dovesse essere per sé insufficiente e ci rendesse soltanto capaci di
ricevere un concorso inesplicabile”. L’uomo deve sforzarsi di divenire migliore, di realizzare in sé
un’umanità gradita a Dio e fare tutto ciò che è in suo potere a questo fine, nell’assunzione che se ciò
non basterà Dio lo aiuterà a realizzare il bene a cui mira: la moralità pura. Entra qui il tema della
grazia, che Kant non nega ma intende collocare nel suo giusto posto, ché la vita buona non è quella
di andare “dalla giustificazione per la grazia alla virtù, ma dalla virtù alla giustificazione per la
grazia”. Alla lotta per la purezza dell’intenzione morale si accompagna così un atteggiamento di
“umile fiducia” in un aiuto dall’alto o dal profondo dell’essere, là dove i nostri sforzi non bastano,
che è apertura ad una trascendenza genuina ed è atteggiamento religioso. Certo sarebbe una
concezione spuria e superstiziosa della grazia quella che, in base ad essa, portasse a negare o anche
solo a diminuire lo sforzo morale, donde anche la diffidenza di Kant verso la preghiera (che non
risulti in una vivificazione del sentimento morale) e l’invocazione, che rende la sua teoria della
religione, anche solo da un punto di vista fenomenologico, incompleta Ma è estremamente
importante che la grazia, pur ridotta per così dire al suo minimo, non venga da Kant negata, anzi
risulti imprescindibile. Si ha un passo ulteriore rispetto alla Critica della ragion pratica e alla
dottrina dei postulati: Dio è qui considerato più che altro come colui a cui l’uomo si apre nella
propria indigenza per il compimento della sua moralità, e non soltanto come il garante del sommo
bene, quasi la condizione metafisica di esso. Ma c’è di più: queste riflessioni kantiane non indicano
una correlazione fra esperienza del male e apertura genuina alla trascendenza religiosa? E’ proprio
l’idea del male radicale e d’una possibile liberazione da esso che spinge Kant in quella zona
dell’insondabile, del mistero, che urge ai limiti della ragione in una sorta di insistito rimando. In tal
modo Kant, pur senza rinunciare all’intenzione di fare valere sino in fondo i diritti della ragione, si
pone veramente ai limiti di essa, e il senso del mistero non è ignoto alla sua filosofia. Del resto
anche più in generale essa è una filosofia dei limiti della natura umana e della trascendenza, come
tale conosce l’umiltà, sentimento religioso per eccellenza di fronte ad un realtà che mai giunge a
piena trasparenza, che non è possibile dominare con il pensiero. Si aggiunga la sua teoria del male e
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questa umiltà prenderà nell’uomo la sua forma religiosa radicale. Questa problematizzazione ultima
della ragione di fronte al male raccoglie un’inquietudine che percorre tutta la sua opera che
giustamente è stata qualificata come quella di un “illuminista insoddisfatto”.
5. Conclusione
Concluderò osservando che questa correlazione fra esperienza del male e trascendenza, è di
grande importanza per Kant per quel che riguarda lo stesso problema della teodicea, perché proprio
quel male che sembra costituire un ostacolo all’affermazione di Dio ci apre invece a Lui in un
orizzonte di mistero. Un punto che viene confermato dall’ateismo contemporaneo che, per potersi
affermare, ha dovuto espungere da sé la considerazione di tutti gli elementi negativi dell’esistenza,
che impediscono il sì incondizionato al mondo sino e un assorbimento dell’uomo in esso cui mira.
Il senso della presenza del male nell’universo non permette all’uomo una piatta accettazione
dell’universo stesso, lo apre in qualche modo ad un orizzonte trascendente.
Questo mi pare un motivo di forte attualità, a cui ne aggiungerei due altri.
In primo luogo l’idea di una realtà positiva del male nella sua negatività. Il male non è soltanto
privazione, mancanza, ecc.., né si riduce alla finitezza umana: non è lo zero di virtù, ma la presenza
del vizio, che impedisce alla virtù di venire all’essere, forza negativa. Qui Kant avanza l’idea del
male come sovversione di principi che apre una via nuova al pensiero occidentale.
In secondo luogo l’insistenza del male come falsità, falsificazione del bene. La sua analisi su
questo punto, che ci porta di fronte al male quotidiano, alla sua diffusione e gravità, in quanto è
presente anche quando si veste dei panni dell’innocenza o addirittura del bene, è particolarmente
attuale. Contro il male non basta la non violenza: occorre anche la non-falsità. Soffriamo
inequivocabilmente del male in entrambe le forme: le considerazioni di Kant su questo ci invitano
a riconsiderare il problema del nesso necessario violenza-falsità e la meditazione del suo pensiero
può aiutarci a riportare al centro della nostra attenzione il grande problema della filosofia
d’Occidente, quello della verità, contro il tradimento che opera chi troppo irresponsabilmente
giunge a negarla negando con ciò la stessa falsità (chi nega la verità è costretto a risolvere il male
nella violenza, lasciando l’uomo disarmato contro la falsità, che nel nostro tempo a livello sempre
più macroscopico ci si riversa addosso). Un grande russo, Soloviev, ha rappresentato l’Anticristo
come la falsificazione del bene, anche Kant come si è visto è su questa via: l’Anticristo con la sua
imposizione della morale la riduce alla sfera del diritto, impedisce il passaggio dell’uomo da un
semplice ordine giuridico a un più altro ordine morale, estinguendo in lui ogni idealità,
ricacciandolo in forme banali di vita che non vanno oltre quella situazionalità che è la vita
quotidiana governata da norme giuridiche e consuetudinarie immanenti, riducendo la moralità ad
un insieme di norme coattive capaci tutt’al più di garantire una superficiale coesistenza estrinseca,
impedendo così quella pratica della virtù sgorgante dall’interiorità che pone fra gli uomini legami
ben più intimi e saldi, distruggendo il bene stesso degradato a forza materiale. Alla base dell’opera
dell’Anticristo è per Kant il riassorbimento della moralità nella legalità, fatta passare per moralità,
e la diffusione quindi di una falsità universale. Se mai l’Anticristo prevalesse, la fine del “breve
regno dell’Anticristo”, “considerato come il precursore dell’ultimo giorno”, sarebbe allora la fine
dell’umanità per una sorta di esaustione morale.
Per questi motivi oserei dire che questa dottrina della religione che ha il suo centro nella
considerazione del male radicale ha un’attualità che è lungi dall’essere esaurita. I suoi limiti, che
certo esistono, e che forse possono ridursi all’unica ma decisiva obiezione, che l’ispirazione
fondamentalmente etica del suo filosofare, l’appassionata concentrazione sul momento morale che
ne è il centro, lo porta a discutere la religione sempre in riferimento all’imprescindibile e
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intrascendibile esigenza morale, a mantenere e giudicare le rappresentazioni religiose sempre e
soltanto per il rapporto che hanno con la nostra vita morale, non deve farci dimenticare la sua
grande rilevanza.
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