1 I. Sulla “Premessa” alla Fenomenologia della percezione Nella

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I. Sulla “Premessa” alla Fenomenologia della percezione
Nella “Premessa” alla Fenomenologia della percezione MerleauPonty inaugura il suo scritto affermando che la fenomenologia è lo
studio delle essenze, delle cose stesse; studio delle essenze della
coscienza e della percezione; filosofia fenomenologica come una
filosofia in grado di ricollocare le essenze nell’esistenza e quindi una
filosofia all’altezza del gesto husserliano, che alle essenze e alle cose
che
trascendevano
la
loro
fenomenicità
fenomenologica
nell’adombramento già si rivolgeva, ma rinunciando a qualsiasi
pretesa di una filosofia come scienza rigorosa e per certi versi
paradossale; si tratta di capire l’uomo e il mondo a partire
dall’evenemenziale, o meglio dalla effettività, e a partire da una
intenzionalità non più propriamente intesa come noetico-noematica –
e quindi intersoggettiva – , avanzare verso una nuova intenzionalità
dalla caratura corporea, restituita soprattutto nell’ iper-dialettica – e
non in una cattiva e oppositiva dialettica – di “figura-sfondo” (che
oltrepassa
senza
residui
l’intercorporeità
dell’ultimo
giungendo all’ambiguità, al chiasma della percezione).
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Husserl
Un tipo di fenomenologia come fenomenologia della percezione,
scrive Merleau-Ponty, è una filosofia in grado di essere una riflessione
concretamente radicale e in grado di inaugurarsi perpetuamente in una
epochè degli atteggiamenti naturali e astrattamente al quadrato delle
scienze e in una ulteriore epochè di tipo eidetico, riscoprendo il
mondo che precede ogni riflessione e cercando di offrire uno statuto
filosofico nel resoconto di un mondo sempre vissuto e di un
riconquistato contatto con le cose stesse. La fenomenologia è una
descrizione diretta – bisogna rammentare poi come nella prima parte
de Il visibile e l’invisibile sarà indiretta – della esperienza,
indipendentemente dalle impostazioni delle scienze naturali e umane.
Una descrizione diretta in grado di scioglierci da quelle contraddizioni
che Husserl presentava con se stesso – e attraverso i quali inciamperà
più volte su se stesso e di cui gli esiti heideggeriani non sono altro che
esplicitazioni a potenza – una teoria non astratta ma concreta della
percezione. Scoprire, dunque, la fenomenologia come uno stile e come
un particolare movimento dell’esperienza medesima, che non deve
essere costruito, realizzato, spiegato o analizzato ma riconosciuto e
descritto nell’intreccio dei temi fenomenologici: questo è l’opera che
si prefigge Merleau-Ponty. Secondo Merleau-Ponty bisogna muovere
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dall’impegno descrittivo della prima fenomenologia husserliana per
ritornare alle cose stesse. Questo ritorno alle cose stesse può essere
inaugurato solo a partire da una messa tra parentesi, una messa fuori
circuito, una riduzione trascendentale dell’atteggiamento naturale e
naturalmente a potenza della scienza esatta che riducono l’esperienza
a un comportamento, come totalità di meccanismi fisiologici, e ad
attività elettro-chimicamente cerebrospinali e il mio corpo a duale
individualità di una pura coscienza e di un puro oggetto,
determinazioni possibili a partire da incroci di catene causali o come
reale esterno intellettualmente restituito da uno sguardo disinteressato,
da uno sguardo senza pupilla. L’esperienza scientifica è una
esperienza definita come “l’espressione seconda” di una esperienza
sempre vissuta, l’esperienza di un mondo di senso d’essere percepito
ma in contemporanea occultato da una sua spiegazione e
determinazione.
Io non sono il riportato di una proiezione oggettiva caratterizzata
dalla portata sociologica, psicologica, biologica e di tutte quelle
stratificazioni e atteggiamenti scientifici (espressioni seconde) ma più
originariamente “la fonte assoluta” che sostiene e sussume queste
ultime e le eclissa o le rinsalda a partire dall’attraversamento ad opera
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del mio sguardo effettivo di un corpo impegnato. La mia effettiva
“visione” è sempre la mia esperienza del mondo, un punto di vista
incarnato, una esperienza e una visione sempre nascoste dalle
scenografie dell’atteggiamento scientifico e di quella conoscenza che
non può parlare di altro che di se stessa; ma questa conoscenza, che ci
riduce a “manichini mossi da molle”, è nutrita da un’altra veduta,
quella della coscienza, di cui la declinazione criticisticamente pura e
la scienza medesima è una mera astrazione e una traccia;
diversamente, il mondo della percezione è quel mondo che si
sventaglia intorno a me e diviene sensato per me; lo stile della
fenomenologia e il movimento di questa ultima verso le cose stesse,
ovvero verso quei paesaggi in relazione ai quali ogni geografia è
espressione ulteriore, non è però un ritorno all’idealismo della
coscienza kantiana o un indietreggiamento
all’autocoscienza
hegeliana e quindi un ritorno a una analisi riflessiva o a una
spiegazione scientifico-matematica. L’andare alle cose stesse è per
Merleau-Ponty un risalire alla sorgente, un risalire l’originarietà
dell’ambiguo, sospendendo l’abbaglio cartesiano e della rivoluzione
copernicana di Kant, che definiva la sintesi universale del pensiero e
della rappresentazione intellettuale dello stesso, una condizione di
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possibilità autonoma dell’esistenza di un mondo. In altre parole le
astrazioni e i segni della “miope visione” della scienza e della filosofia
della coscienza costruisce un mondo invece di viverlo e di muovere a
esso e in esso.
Secondo Merleau-Ponty, Husserl sindaca proprio su questo nei
confronti di Kant e mette tra parentesi la sintesi e la sua attività
universale del Soggetto, sostituisce all’analisi noetica, «la sua
riflessione noematica» che prende atto della promiscuità e degli
involgimenti delle relazioni tra le cose stesse, anziché pensare di
costituirla e di costruirla e quindi generarla. La spiegazione scientifica
come del resto l’analisi riflessiva, secondo Merleau-Ponty, rendono la
percezione introvabile e riducono il mondo, i corpi e le cose a meri
oggetti di tematizzazione e di de-finizione. Ridurre la percezione a
sintesi predicative o a sintesi intellettive di sensazioni vuol dire per
Merleau-Ponty ridurre la percezione a astrazioni, dunque a dei
cammini a ritroso di una «costituzione preliminare» verso un «uomo
interiore» e una “antropologia psicologica del profondo” e quindi
all’identità e “coincidenza” della costituzione con se stessa. Fino a
quando si persevererà nella visione che ignora se stessa e il suo punto
cieco e il mondo nel quale è sempre presa e catturata, secondo
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Merleau-Ponty non recupereremo mai l’effettività dell’esperienza e
l’andare alle cose stesse. La riflessione ignora il proprio evento ma
deve riconoscere che esso è solo una operazione al di là della quale vi
è un mondo irriflesso e irriducibile. Il reale «è da descrivere, e non da
costruire o costituire», ed è per questo che esso non può essere ridotta
all’ordine dei giudizi che le regionalità disciplinari, gli ambiti
scientifico-disciplinari
della
riflessione
e
della
spiegazione
restituiscono, ma è «campo percettivo», il polposo campo dal quale
sono segregati e dal quale irrompono tutti gli atti, tutte le mie
percezioni. La verità, la realtà non abita le profondità di un
agostiniano uomo interiore, a dire di Merleau-Ponty, perché
considerare una tale possibilità non è che un chimerizzare della pura
coscienza, una fantasticheria che maschera e deruba l’essere-nelmondo e l’essere-al-mondo dell’uomo di un aperto campo di
esperienza.
È per questo motivo che Merleau-Ponty in questa premessa
recupera o cerca di recuperare il vero senso della “celebre riduzione
fenomenologica” husserliana, che secondo il filosofo francese è il
grande e immenso lavoro sul quale Husserl ritornerà più volte lungo
tutta la sua opera. La riduzione trascendentale è restituita dallo
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Husserl delle Meditazioni e della Krisis come il ritorno trascendentale
di fronte al quale il mondo, direbbe ad esempio Barbaras, “si dispiega
in una trasparenza assoluta, da parte a parte animato da una serie di
appercezioni che il filosofo avrebbe il compito di ricostruire a partire
dal loro risultato”. Il fenomenologo, secondo Husserl, deve prendere
atto del binario e sinusoidale movimento verso l’essere e verso la
soggettività, quindi, prendere atto di quel movimento che lo stesso
Husserl descrive nella Krisis come
«l’apriori universale della
correlazione».
Secondo
Barbaras
l’epochè
fenomenologica,
la
riduzione
trascendentale, la messa entro parentesi è una inibizione, una
sospensione ontologica senza eliminazione di una tesi di esistenza
particolare del mondo, che riduca l’essere a fisica e oggetto fisico, a
un In-sé restituito sinteticamente, colto e predicato da un Per-sé
interiore e opposto al primo, lasciando essere solo il suo fenomeno. Il
fenomeno è ciò che non veniva percepito dalla tesi naturale del mondo
ma tuttavia resisteva alla sua riduzione. La messa tra parentesi
dell’ipnotica proiezione dell’uomo interiore, della coscienza pura,
rischiara la fenomenicità fenomenologica della coscienza concreta
come senso d’essere di quest’ ultima e l’intenzionalità come continua
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donazione di senso, come continuo trasalimento di senso alla
coscienza intersoggettivamente trascendentale. L’apertura al mondo
non è uno spettacolo immanente alla coscienza o trascendente
nell’immanenza dell’autocoscienza ma è trascendente e irriducibile a
quest’ ultima. La donazione del senso d’essere come Lebenswelt non
riposa su una rappresentazione universale e necessaria del mondo ma
su un essere per una coscienza, una coscienza che è coscienza in
quanto continuamente rapportata a qualcosa, intenzionata, e quindi
aperta e impegnata a ciò che la trascende e che rimane
“trascendentalmente” Altro e altro. L’intenzionalità è l’essenza stessa
della coscienza, è continua coscienza di qualcosa, è continua
donazione – e non costituzione – di senso.
Il trascendersi della coscienza verso il mondo e la trascendenza
come mondo, la fenomenicità fenomenologica dell’apertura della
coscienza a un mondo è l’intenzionalità. La coscienza non è però
privilegiata polarità opposta a un oggetto ma un movimento stesso
della percezione e un involgimento simultaneo nella ambiguità che è
la
corporeità
della
esperienza;
il
mondo
è
appresentato
intenzionalmente e intercorporeamente e in questo senso con-fuso, coimplicato ma non puramente incluso e esaurito a coscienza.
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Nella percezione, secondo Merleau-Ponty, una soggettività si apre
al mondo senza ridurre questa trascendenza del mondo, degli altri e
delle cose stesse. Una filosofia come “scienza rigorosa e per certi versi
paradossale” è in grado di mettere fuori circuito il mondo
naturalmente supposto esistente per poi ritrovarlo nella sua stessa
trascendenza, al di là del realismo ingenuo e della sua fede percettiva,
come psichicità; questa psichicità molto particolare, al di là quindi
della psicologia empirica e critico-associazionistica o brentaniana,
della psichicità come vissuti intenziona sempre qualcosa. La riduzione
ci libera dal mondo rappresentato e consegnatoci dall’analisi e dalla
spiegazione riflessiva e ingenua del mondo e al contempo libera la
“generosità” della vita trascendentale. Il fenomeno trascendentale
stesso non è messa in scacco dell’esistenza di più soggetti incarnati e
della comunicazione di queste tra queste ma transitività simultanea tra
coscienza e altri, tramata di un fitto intreccio di relazioni
pesantemente corporee. Merleau-Ponty sostiene, ad un certo punto
della Premessa, che:
perché l’altro non sia una parola vana, occorre che la mia esistenza non si
riduca alla coscienza che io ho di esistere, ma che involga anche la coscienza
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che si può avere e dunque la mia incarnazione in una natura e la possibilità
di una situazione tipica
(Merleau-Ponty, 2005, p. 21).
Solo nel momento in cui ci riveliamo sempre in situazione, solo nel
momento in cui l’ego trascendentale ci scopre non più come assoluti
Per-sé, coscienze come oggetti tra oggetti, psico-soma o grumi di
relazioni di causalità agglutinate, possiamo recuperarci come aperture
a un mondo inalienabile e inesauribile al suo pensiero e all’insieme
dei suoi significati; ergo solo quando rinnoviamo l’epochè, esso potrà
essere “nuovamente” intersoggettività, intercorporeità, intenzionalità
fungente, una trascendentale sfera d’essere come Lebenswelt, sul cui
sfondo e dal cui sfondo i corpi ex-sistono nel tessuto dei fenomeni.
L’epochè riscopre il mondo in me come «l’orizzonte permanente di
tutte le mie cogitationes» (Merleau-Ponty, 2005, p. 22) in relazione al
quale io non termino mai di situarmi. La soggettività trascendentale
husserliana non è però l’Io penso kantiano, in quanto essa non fa il
mondo immanente alla e nella coscienza, ma essa è sempre una
progettualità volta verso il mondo. Tutti i fraintendimenti o i nodi
problematici che Husserl riporta con se stesso e con i “dissidenti
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esistenziali” (vedi Heidegger) sono per Merleau-Ponty le dirette
conseguenze della convinzione husserliana della necessità di
mantenere l’interrogazione sulla possibilità stessa della riduzione. È
un fatto consolidato e che si impone da sé quello secondo cui l’andare
alle cose stesse non può mai essere completo e che a questo titolo
corrisponda, in prima istanza, a un rapporto di familiarità col mondo
che non può essere continuamente mantenuto. Confermando,
Merleau-Ponty ha scritto che: «Il più grande insegnamento della
riduzione è l’impossibilità di una riduzione completa» (MerleauPonty, 2005, p. 23); ma cosa significa questo per Merleau-Ponty?
Vuol dire che la riflessione, quella che sarà poi la super-riflessione
fenomenologica è l’espressione, husserlianamente parlando, nel
medesimo flusso temporale che la riduzione cerca di riagganciare. La
riflessione radicale riconosce il debito nei confronti di uno sfondo
irriflesso della vita percettiva e di un cominciamento sempre
rinnovato. La filosofia fenomenologica non può ab-solutamente
abbracciarsi in se stessa e completamente, in quanto questa
incompletezza
è
una
incompletezza
radicale,
radicata
nella
intenzionalità stessa e nel movimento simultaneo della percezione di
cui l’intenzionalità è una vettorialità concreta, singolare e incompleta.
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In altre parole la percezione, il “campo” dei campi percettivi non è
per
Merleau-Ponty
un
altro
modo
di
dire
semplicemente
intenzionalità; infatti per l’Husserl delle Idee, secondo Barbaras «la
percezione è (…) una specie particolare di intuizione, si tratta di una
intuizione donatrice originaria» (Barbaras, 2002, p. 73), cioè una
presentazione (intuizione) “in carne e ossa” dell’ “oggetto
individuale”, l’atto primordinale e “fondamentale” che restituisce
l’essere. Essa secondo Husserl differisce, ad esempio, dalla intuizione
presentificatrice come quella immaginativa e mnestica e dagli atti
signitivi o significativi, dove l’oggetto è intenzionato attraverso un
media segnico
presentificano
–
senza
e tra questi i linguistici sono quelli che
figurazione
dell’oggetto
individuale,
costituiscono una intuizione a vuoto servendosi di categorie – .
Il termine percezione, in altre parole, in Husserl è come se
estensivamente raccogliesse l’intuizione in senso “strettamente
sensibile” o originaria, e quella categoriale che come una “realtà
ideale” pone una “realtà individuale”; dunque «le intenzioni rinviano
(…) insomma a una percezione che è come il sostrato della vita
intenzionale» (Barbaras, 2002, p. 74) di cui un corpo è «differenza
ontologica cardinale».
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Merleau-Ponty sottolineando un chiaro richiamo all’Husserl della V
Meditazione, chiarisce che il Leib, il corpo organico, il sostrato
primordinale dell’intenzionalità è l’originarietà stessa, l’appartentività
appaiatamente trascendentale e intersoggettivamente determinata – la
quale a sua volta radica l’intersoggettività e l’esperienza reale ed
effettiva nella corporeità e nel punto “finale, costante, iniziale”
dell’epochè fenomenologica – . L’epochè rinnova e ritaglia, per
Merleau-Ponty sulla scia di Husserl, lo sfondo del mondo-della-vita,
che nutre ogni vissuto riflessivo del mondo. Parafrasando Husserl,
Merleau-Ponty scrive nella Premessa che «ogni riduzione (…) oltre
che trascendentale è necessariamente eidetica»; dunque ogni riduzione
non può avvenire senza che vi sia un attuale impegno da parte dei
soggetti concreti, quali noi siamo. La percezione è sempre la mia
percezione e in quanto sempre impegnati al mondo non possiamo mai
scollarci da noi stessi e sorvolarci e quindi convertirci da Dasein a
“spettatori disinteressati” o “uomini interiori”; per questo a dire di
Merleau-Ponty, l’auto-comprensione e la riconquista di se stessi nella
pur sempre fluente, contingente e fatta effettività – alla quale i corpi
sono impegnati – nella e della percezione, ci è donata per il tramite
delle essenze, ovvero non di quegli In-sé e Per-sé come oggetti, ma
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per il tramite di un campo di idealità, quei che i quali proprio in
quanto ciò che si dà come differenza e eccedente in relazione al
vissuto, non riposano su se stessi. Le essenze “nutano”, sfasano la
percezione rispetto alla “coincidenza con se stessa”, in quanto pur
sempre vissuta. A tale proposito Merleau-Ponty cita l’Husserl delle
Meditazioni e afferma che: «è l’esperienza… ancora muta che ora per
la prima volta deve essere portata all’espressione pura del suo senso
proprio» (Merleau-Ponty, 2005, p. 24) e quindi a quella espressione, a
quella singolarità di senso che riconduce con sé «tutti i rapporti
viventi dell’esperienza, come la rete porta dal fondo del mare i pesci e
le alghe palpitanti» (Merleau-Ponty, 2005, p. 24); ma come, appunto,
si danno le cose e non i meri oggetti completi, puri e immediatamente
consegnati, nella differenziazione dei vissuti stessi rispetto a se stessi?
Per l’Husserl delle Meditazioni – come del resto per il MerleauPonty della Fenomenologia della percezione – le cose stesse si danno
per adombramenti. Qualsiasi atto intenzionale (in senso riflessivo) o
percettivo (in senso originario), dalle essenze come “intuizioni
silenziose” alle essenze come parole o intuizioni presentificazioniste
che ex-sistono – e cioè che vengono espresse a partire da un suolo di
vita ante-predicativa che le nutre – non sono mai le cose stesse, non
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sono mai un possesso totale della cosa. L’andare alle cose stesse,
l’epochè trascendentale – che è già sin dall’inizio eidetica – non è mai
completa; le essenze sono sempre cose adombrate, trascendentalmente
trascendenti a esse stesse; infatti come afferma anche Barbaras nel suo
Saggio sul sensibile:
ammesso che una cosa (un “qualche cosa”) sia proprio una realtà
trascendente, cioè distinta dai miei vissuti, essa non sarà presente come cosa
che a condizione di non esserlo interamente, di differire una donazione
adeguata, di resistere all’appropriazione
(Barbaras, 2002, p. 75).
Le cose stesse, in quanto essenze, nella riduzione non vengono mai
avvicinate completamente ma esse sono sempre prossime, si danno
sempre come adombramenti, abbozzi di cose, sia perché la mia
percezione, la mia corporeità rimane sempre un punto di vista
incarnato, sia perché la percezione ad un certo punto differisce se
stessa e quindi il vissuto medesimo eccede il suo esser-vissuto – il
quale non è mai possesso di sé – .
Questo è il mistero e l’enigma della percezione, una continua,
simultanea e ambigua differenza, eccedenza e non-differenza rispetto
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a se stessa, uno sfasamento, un differimento e non-differimento nel
suo stesso cuore. Ogni cosa è sempre adombrata e mai posseduta.
Ogni cosa è sempre donata di vissuto in vissuto e il passato non è mai
lo stesso, ma come un passato gravido di futuro ritorna in un “mai il
medesimo”. La cosa non è mai una rappresentazione riflessivamente
abbracciata e completamente priva di residui ma sempre donata mai
completamente; essa rimane sempre mancata e a questo titolo non
appare mai pienamente. L’adombramento è la presentazione di un che
di altro dalla sua presenza e in quanto tale la cosa stessa si trascende
sempre. La presentazione di una cosa è sempre la sua non-presenza
compiuta, in quanto pur sempre in un aspetto di sé donata, in quanto
sempre adombrata; ergo la cosa adombrata è sempre mancata, è
continuamente non posseduta e baluginantesi in una apparenza
parziale. La cosa non è mai puro oggetto. L’andare alle cose stesse
essendo sempre interrotto, “chiasmicamente” mai completo in questa
effettività non è però il risultato di una deficienza del “calcolo e della
misura” ma il “battimento” della esperienza percettiva stessa.
Merleau-Ponty, citando l’Husserl delle Meditazioni, in opposizione
ai dogmatismi e agli scetticismi scrive che: «non dobbiamo dunque
chiederci se percepiamo veramente un mondo, dobbiamo invece dire:
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il mondo è ciò che percepiamo» (Merleau-Ponty, 2005, p. 25), il
mondo è ciò a cui siamo sempre dischiusi. Noi siamo esseri-al-mondo
e esseri-nel-mondo e, in quanto tali, intercorporeità involte e coimplicate. Se dunque noi siamo “nella verità e l’evidenza è
l’esperienza della verità”, per Merleau-Ponty è ingenuo interrogarsi su
una verità platonicamente ideale ma la verità è l’esperienza stessa,
l’essere assegnati a un mondo di Altro, di altri e di cose inalienabili.
L’esperienza deve essere incessantemente interrogata non per il
ritrovamento di una sua legge di tipo fisico-chimica o per la
teorizzazione di una sua forza metafisica che la sostiene da tergo –
contemplabile solo da un pensiero obiettivante e riflessivo – ma per
rintracciare la sua “formula” in relazione con l’altro, con la Natura,
col Tempo, con la progettualità e con il fare umano; per questo la
fenomenologia non è intellezione – classicamente intesa – ma una
nozione di “intenzionalità allargata” che cerca di comprendere la
“genesi” che avviene tutti i giorni, e quella “struttura dell’essere”
implicita in ogni sua relazione. Merleau-Ponty ci conferma che ogni
veduta è vera a condizione che non la si edulcori, non la si
metafisicizzi, non la si esprima isolandola dalla sua complessità e dal
suo intreccio, dal suo tessuto di relazioni portatrici, per ogni
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prospettiva incarnata, di un nucleo di “significato esistenziale”;
quindi:
è vero come dice Marx, che la storia non cammina sulla testa, ma e
altresì vero che non pensa con i piedi. O meglio, non dobbiamo occuparci né
della sua «testa» né dei suoi «piedi», bensì del suo corpo
(Merleau-Ponty, 2005, p. 28).
Ogni discorso intorno al mondo è essenzialmente un punto di vista
radicato all’interno di una determinata struttura di esistenza e situata
nella complessità di un tessuto di fenomeni, di un intreccio di una
genesi del senso, Sinngenesis, rinnovata sempre in adombramenti, in
presentazioni fenomeniche e mai in “presenze intellettuali” o esatte.
Noi, come dice Merleau-Ponty, siamo condannati al senso e non può
essere fatto o detto nulla che non assuma un “nome nella storia”, che
non sia determinato e figlio del suo Tempo, della sua effettività
intercorporeamente tramata, la quale non è né Spirito assoluto né
l’esatto mondo della scienza ma il farsi dell’esperienza e della verità
come percezione; infatti:
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in ogni istante assistiamo al prodigio della connessione delle esperienze,
e nessuno sa meglio di noi come esso avviene, giacche noi siamo questo
nodo di relazioni
(Merleau-Ponty, 2005, p. 30).
Il sorvolo di un soggetto ab-solutus, di una coscienza pura e lo
sguardo di uno spettatore disinteressato o il mito dell’oggetto di una
tematizzazione possibile, come abbiamo detto sopra, sono mere
chimere. Il mondo e la sua razionalità sono l’enigma e il mistero
dell’esperienza che una filosofia fenomenologica della percezione
interroga secondo un movimento mai completo e risoluto. Il gesto del
fenomenologo è un fare educativo che tenta di re-imparare a vedere e
di ri-educarci a vedere il mondo in virtù di una riflessione e di una
decisione o di una progettualità militante che agisce nella nostra
esistenza.
È per tutti questi motivi che la fenomenologia trascendentale, come
recupero del contatto originario con le cose, sconfessa «l’astrattezza
del sapere riflessivo e l’illusione della semplice fede percettiva,
tentando un contatto con l’essere tramite un pensiero che non sorvoli
ma che si inserisca» (Delogu, 1980, p. 91) nella percezione.
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Sulla
scia
della
interrogazione
del
cogito
husserliano,
l’interrogazione non di un Soggetto puro o di una coscienza
solipsistica ma cogito come “essere-al-mondo”, e quindi come
corporeità, Leib, rilievo sullo sfondo della Lebenswelt, trascendente a
se stesso e squadernato a un mondo e all’essere, è per Merleau-Ponty
“un dialogo o una meditazione infinita”, una filosofia sempre mancata
ma mai vacua.
La fenomenologia prima di essere filosofia è già sempre un
movimento della percezione e per questo motivo mai un pensiero di
mondo o una ulteriore teoresi sulla percezione stessa ma un andare e
ritrarsi alle e dalle cose stesse, un risalire l’origine del senso nel suo
stato nascente. Questa filosofia che interroga “l’intersoggettività come
compartecipazione intenzionale” tende a farci ritrovare la vita
originaria della percezione e la sua dimensione come una struttura alla
quale ci deve condurre la riduzione fenomenologica. Questo ultimo è
però costantemente un «risultato da riconquistare contro ogni fatale, e
talvolta utile e necessaria astrazione e schematizzazione» ( Paci, a
cura di Invitto 1982, p. 152).
In altre parole la fenomenologia interroga, come direbbe Carbone,
la “storicità primordiale”, l’irruzione e il trasalimento dell’ordine del
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senso e della Kultur. Il «corpo è il «perno» della Lebenswelt»
(Carbone, a cura di Invitto, 1982, p. 93) e a questo titolo un
interrogante sempre in debito.
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