Sara Della giovampaola: Considerazioni di una bioesistenzialista sul tema dell’alienazione umana: dallo sfruttamento all’investimento della forza al servizio dell’Io. Practica Psicofisiologica, vol. 4, gennaio-giugno 2005, 24-29. Remarks of a Bioexistentialist on the issue of human alienation: from exploitation to investment of the Ego’s strength. The article rivisits the ancient concept of alienation in a psychological and psychophysiological perspective, highlighting how the philosophical and political use of term has its origins in the sphere of corporeal experiences. This tangible dimension of the concept makes it relevant to this day within Psychology. The act of renouncing to libidinal investment in the Ego and the passive proneness of the individual to the expectations of the other, deprives human existence of dignity and of the right to exist, laying the foundations of a downright psychological exploitation. Considerazioni di una bioesistenzialista sul tema dell’alienazione umana: dallo sfruttamento all’investimento della forza al servizio dell’Io. A oggi quello dell’alienazione sia in termini psicologici che politico-sociali sembra un termine fuori moda. In Psicologia è stato usato storicamente per indicare la cosiddetta “follia progressiva”. Più recentemente gli esistenzialisti hanno definito alienato l’individuo che sotto la spinta del conformismo, delle pressioni sociali, delle aspettative altrui e delle motivazioni provenienti dall’esterno andrebbe incontro ad un processo di separazione dal Sé reale, dalla parte più profonda del Sé. Ma il concetto di alienazione deve la sua più ampia diffusione nel contesto filosofico e sociale agli studi di Karl Marx che individua nei rapporti capitalistici di produzione il nucleo dell’estraniazione del lavoratore da Se stesso. Il meccanismo studiato da Marx è stato descritto da lui in senso politico come fenomeno prodotto nel contesto della produzione, ma quello dell’alienazione è un fenomeno vero anche in senso psicologico. Tempo fa una signora accompagnò da me Carlotta la figlia di 8 anni la quale lentamente si era come “spenta” perdendo interesse per il gioco, per la scuola, per gli amici, per il cibo. La bambina in realtà andava tranquillamente a scuola e svolgeva le mansioni richieste anche bene. Era anche normopeso e infatti a tavola pur lentamente e senza appetito mangiava ciò che le veniva messo nel piatto. E anche nel contatto con me non mostrò nessuna particolare chiusura. Solo che alla mia domanda su chi fosse Carlotta mi rispose “la figlia di lei” indicando la madre. Avrei potuto immaginare che nel suo periodo di latenza, la bambina avesse disinvestito l’interesse dal Sé a favore dell’apprendimento sociale. Ma non trovavo traccia di vivo interesse o di impegno attivo nelle sue parole e nei suoi gesti verso niente e nessuno. Dal punto di vista clinico si trattava di definire una depressione infantile. Ma ciò che quello sguardo senza luce mi suggeriva era proprio una sorta di estraniazione da se stessa a favore dell’obbedienza cieca alla madre. In quella condizione che precede la cronicizzazione del processo di estraniazione dal sé, la bambina non aveva trovato ancora un’identità seppur fittizia di falso sé, ma l’originale struttura narcisistica sembrava fortemente inibita. Appariva piuttosto come una docile marionetta sotto la volontà della madre. Con lei ho lavorato alla possibilità di curare un piccolo segreto nonostante l’ostinazione con cui la madre valorizzava il fatto che la figlia le raccontasse tutto e che con lei non dovesse avere segreti. Lo sguardo, il colorito, la voce, la postura in genere si sono animate di una nuova forza vitale, quella che noi chiamiamo piacere narcisistico, quando la bambina si è autorizzata a porre dei foglietti di carta in cui neanch’io sapevo cosa c’era scritto, dentro uno scrignetto chiuso a chiave. Ritornando alla tematica sociale marxista, gli oggetti prodotti dall’uomo, resi merci, non hanno più ragion d’essere nel soddisfacimento stesso dei bisogni del produttore ma seguono leggi estranee a questi bisogni e il valore di scambio è sostituito col valore d’uso. Come nel caso di Carlotta, il soggetto non è più attore di un processo, ma fonte di energia sfruttabile da parte di una controparte socialmente più forte. L’estraniazione (Entfremdung) del lavoratore dal prodotto del suo lavoro, dalla tecnica di produzione, dai mezzi di produzione, dagli altri lavoratori e dalla sua stessa natura umana nel contesto capitalistico dei rapporti di produzione si baserebbe sull’alienazione (Entausserung) al capitalista del valore del lavoro prodotto dal lavoratore. Il lavoro si colloca con questo complesso gioco di forze come una tra le componenti più importanti della vita sociale dell’essere umano. La nostra è stata e tenta di essere ancora oggi una società fondata sul lavoro. Il lavoro come componente fondamentale dell’esistenza dell’individuo diventa così il luogo indispensabile del suo mantenimento in vita nonché il luogo in cui si struttura gran parte della vita sociale dell’individuo coi suoi sogni, le sue modalità di relazione, le sue aspettative sociali, le sue aspirazioni. E su questo snodo si concentrano i nuclei evolutivi o involutivi e coercitivi che sono la misura dell’emancipazione o del sottosviluppo di intere culture e epoche storiche. Lo sfruttamento di molti a favore di pochi è ancora a oggi la forma lavorativa più conosciuta sotto il sole. Tantopiù che al fenomeno spurio dell’alienazione del lavoratore come ce l’aveva descritta Marx si aggiungono nuove forme di alienazione. I nuovi temi sociali della flessibilità e le nuove formule contrattuali lavorative al fine di salvaguardare e sostenere la crisi di interi settori produttivi hanno precarizzato l’esistenza di milioni di lavoratori. Ecco che un aspetto fondante del piacere di stare al mondo che è quello della progettualità viene improvvisamente a mancare. L’impossibilità di immaginare un futuro sostenibile in cui dispiegare il proprio esistere è a oggi una nuova forma di distacco da se stessi, dai sogni, dalle aspettative, da aspirazioni come prolificare, evolvere, stanziarsi, sedimentare delle abitudini, delle usanze, magari anche divertirsi. Ecco che se una classe sociale prende coscienza della propria alienazione e della leva storica che può rappresentare la sua stessa emancipazione allora potrebbe accadere un cambiamento sociale di grossa portata tale da ridefinire la qualità-dignità della vita degli esseri umani facendo crescere l’intera comunità e ridistribuendo la ricchezza del pianeta. Ma ciò che come bioesistenzilisti ci interessa ancor di più è che il singolo individuo recuperi (quando non è possibile altrimenti, anche attraverso l’azione mirata di un bravo riabilitatore) la molla narcisistica della propria esistenza come base del sentimento del diritto di essere al mondo. Queste brevi considerazioni di ordine sociale ci permettono di cogliere pienamente la portata anche attuale del fenomeno dell’alienazione dal momento che il lavoro è una componente fondamentale della vita umana, ma come accennavo riportando il caso di Carlotta, ritengo, come psicofisiologa, che la condizione di estraniazione e di espropriazione del sé nel contesto dei rapporti di forza fra individui sia una variabile umana caratteristica non solo dell’organizzazione lavorativa. E’ possibile infatti che anche in contesti apparentemente più protetti di quello lavorativo si creino gerarchie di potere tali da produrre alienazione. La famiglia stessa se da un lato è il nucleo indispensabile alla sana maturazione dell’Io, dall’altro può essere il luogo del conflitto in cui le relazioni da contenitive possono diventare coercitive e alienanti. E’ il caso delle madri padrone della vita dei figli, dei loro segreti, dei loro cassetti, dei loro diari. E’ il caso dei figli, talvolta anche adolescenti, che non hanno appreso a riconoscere le emozioni e non sanno, senza l’indicazione della madre, cosa provano, se sono felici, se sono affamati, arrabbiati o innamorati. E’ il caso di molti rapporti di coppia in cui uno è l’autore dell’altro. A volte ho avuto l’immagine dell’alienazione nei corridoi delle scuole materne nello sguardo di qualche bambino in fila per qualche attività. Uno sguardo che non si può confondere né con l’atteggiamento riflessivo, né con lo sguardo introspettivo o arrabbiato o assonnato e tantomeno con quella condizione apparentemente passiva legata all’apprendimento in cui i bambini paiono quasi sperimentare una forma di trance e che, tutt’altro che alienante, sta alla base dei processi di introiezione fondamentali per l’apprendimento e per la maturazione narcisistica. Sto parlando invece di un atteggiamento psicofisico di distacco dagli eventi emotivi, siano essi evocati da stimoli interni che esterni. Un distacco che l’Io crea attivamente mediante precisi meccanismi inibitori che dall’innalzamento delle soglie recettive sensoriali, alla sintesi delle afferenze a livello corticale, all’elaborazione centrale delle informazioni sullo stato dell’organismo nello spazio, fino al comportamento messo in atto nonché al vissuto subiettivo seguono una sorta di automatismo anaffettivo. Non c’è bisogno di andare in miniera per vedere quello sguardo. E’ lo sguardo di molti umani in metropolitana che hanno perso il senso di quello che stanno facendo. E’ lo sguardo di molti studenti all’esame in cui dopo aver studiato frammenti di libri come è loro richiesto dal piano di studi appaiono smarriti di fronte alla materia considerata nel suo insieme. Rimangono smarriti di fronte ad un’identità professionale che contempli un’immagine di sé integrata. Ecco che temerariamente abbiamo sfiorato diverse dimensioni dell’alienazione anche al di fuori dei luoghi di lavoro. Prima di Marx il processo di depauperamento del Sé era già stato osservato nei termini che come psicologi potremmo avvicinare ai meccanismi proiettivi. L’idea dell’estraniazione dell’individuo da se stesso compare infatti già come alienazione dei diritti individuali presso i giusnaturalisti. Per Rousseau per esempio “ciascuno di noi mette in comune la propria persona e tutto il proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale” (Contratto Sociale I, 6). Da un punto di vista bioesistenzialista cominciamo a intravedere dunque l’essere umano non solo come elemento passivo soggiogato alle leggi della società, ma come organismo in grado di inventare un assetto sociale, fosse anche nella misura della sua stessa prigionia, in cui proiettare parti di se stesso come investimento al fine di riceverne in cambio qualcos’altro. Un essere umano che attivamente si pone sotto la cosiddetta “volontà generale”. Secondo Hegel questo processo di alienazione si verificherebbe perché la realtà spirituale si pone come oggetto staccato dall’uomo. Potremmo dire che l’uomo si trova in una condizione di distacco dalla idee che esso stesso ha prodotto. Tale condizione per Hegel deve essere dialetticamente superata dall’attività con cui lo spirito si appropria del mondo. Praticamente ciò avverrebbe attraverso il lavoro e teoricamente attraverso l’arte, la religione, la filosofia. Dalla sinistra hegeliana Feuerbach sposta l’attenzione sulla religione come luogo elettivo di produzione di alienazione. Nella sua “teoria dell’alienazione religiosa” considera Dio come l’oggettivizzazione delle istanze di assoluto e di perfezione che sono in ogni essere umano e la religione tutt’altro che negata è considerata una prima forma di esperienza cognitiva dell’uomo. Nella sua opera “Essenza del cristianesimo” dice che quando l’uomo interpreta certi caratteri della divinità come la perfezione, la bontà, il provvidenzialismo, la giustizia come se appartenessero oggettivamente alla divinità allora la divinità stessa acquisisce un’esistenza autonoma. Questo processo priverebbe l’uomo dei tratti che in origine appartenevano ad esso. Già per la psicodinamica classica è conosciuto il bisogno umano nella sua fase infantile di proiettare all’esterno (in genere sulla madre o su aspetti di essa) istanze troppo angosciose e esperienze ingestibili al proprio interno. Mi riferisco per esempio alla teoria Kleiniana dell’identificazione proiettiva attraverso cui il bambino percepisce aspetti aggressivi e terrifici di Sé come appartenenti alla “madre cattiva” e potendone così sperimentare la paura. Come psicofisiologi e facendo tesoro delle scoperte psicodinamiche abbiamo inquadrato il fenomeno della proiezione spiegandolo nel suo processo di trasformazione di eventi interni (modulati da specifiche strutture neurali attraverso giochi di tensione muscolare) in eventi esterni. In tal senso abbiamo scoperto che il meccanismo della proiezione è una componente sempre presente nei processi percettivi. Lo stimolo percepito infatti diventa un vissuto esperienziale attraverso componenenti imitativo-riproduttive del processo di decodificazione dello stimolo stesso (nel caso di una nostra ricerca – Ruggieri, Petruzziello; 1988 - la percezione visiva attraverso filtri colorati veniva decodificata denotativamente attraverso il sistema visivo e connotativamente coinvolgendo il sistema di termoregolazione). Le informazioni sintetizzate centralmente sottoforma di eccitazione vengono ri-proiettate alla periferia del corpo e in ultima analisi allo stimolo. Ecco che possiamo dire che un certo colore è caldo come se veramente lo fosse quando invece ad aumentare è proprio la temperatura corporea dell’osservatore! Questa operazione di proiettare aspetti individuali all’esterno del proprio Sé è una caratteristica biologica protomentale comune agli esseri umani, e utilizzabile più o meno massicciamente come meccanismo di difesa capace di evacuare emozioni troppo destabilizzanti per l’Io. “Sto benissimo!” gridava una ragazza psicotica mordendosi la mano nei momenti di crisi “qualcuno mi vuole buttare di sotto?”. Feuerbach pare così spiegarci un meccanismo umano legato in parte alla difficoltà di accedere all’esperienza di onnipotenza e grandiosità al punto da doverla ricreare proiettivamente su un feticcio totemico. Ma senza inoltrarci in sterili dichiarazioni che possono apparire ideologiche possiamo affermare secondo nostri dati laboratoristici che l’essere umano ha bisogno di prendere le distanze da se stesso proiettandosi altrove e il sacro, il divino, così come il padre buono che ci guarda benignamente dall’alto dei cieli, sono esperienze psicofisiche di cui l’essere umano ha fortemente bisogno e di cui si sente manchevole individualmente. Ma la dipendenza da Dio che sottende per Feuerbach la dipendenza dell’essere umano dalla natura e in cui Dio è istituito per appagare ansie e bisogni, prepara ad altri tipi di dipendenza perché se Dio è amore, padre, giustizia ecc., è anche potenza, autorità. “(…) che c’è di strano se, sotto la santa protezione e col pretesto della podestà del padre celeste, un padre spirituale o un padre del paese s’impadroniscono della mia volontà e della mia intelligenza in vista dei loro scopi? A che pro ho una volontà, un’intelligenza, un occhio sopra di me, nel cielo, se non perché io stesso posso fare a meno di avere una volontà, un’intelligenza, un occhio per conto mio?” Il brano è tratto da “L’essenza della religione”, testo col quale Feuerbach propone alla riflessione filosofica il rapporto fra alienazione religiosa e alienazione politica che prepara le future tesi di Marx. Se per Feuerbach infatti l’alienazione è l’atto con cui l’uomo si crea un Altro a cui sottomettersi risolvendo così illusoriamente i conflitti e i limiti della propria condizione sia in senso spirituale che politico-comportamentale, per Marx il problema si radica nel contesto capitalistico attraverso lo sfruttamento di pochi individui che si appropriano delle materie prime sfruttando le grosse masse di popolazione. E questo è un tipo di alienazione, forse il più diffuso e talmente massificato da far parte della normalità. Abbiamo dunque osservato diversi tipi di alienazione, di cui alcuni ancora poco studiati, altri più investigati socialmente. Ritengo che questi tipi di alienazione, siano essi a base proiettiva, o legati a meccanismi di delega o innescati da precisi risvolti dell’organizzazione della vita nella società capitalistica, vadano considerati nel loro specifico come in relazione al disagio o al benessere che essi producono. In termini bioesistenziali la questione in generale può essere ridefinita sulla base di alcuni processi protomentali legati al senso di espropriazione/alienazione e di investimento/acquisizione. La proiezione sul divino, entro certi limiti (senza considerare il tema della struttura ecclesiastica né delle guerre di religione) passando dall’espropriazione di aspetti dal sé che l’individuo investe sentimentalmente all’esterno oggettivandoli, in qualche modo permette in un secondo momento di acquisire/guadagnare da tale investimento libidico gratificazioni importanti ai fini del piacere narcisistico. Pensiamo per esempio al piacere mistico, o più banalmente alla promessa ultraterrena. I meccanismi di espropriazione di aspetti del sé e la loro conseguente proiezione all’esterno possono essere osservati come polo di un continuum esperienziale in cui all’altro capo troviamo l’ acquisizione e l’introiezione. Il lavoratore aliena la sua forza lavoro, la sua fatica, il suo prezioso tempo impoverendosi. Di contro c’è qualcuno che beneficia di tale espropriazione arricchendosi sempre più. Su questo rapporto di sfruttamento si produce l’estraniazione del lavoratore da se stesso. Ma condizioni lavorative che garantissero al lavoratore di realizzarsi potrebbero trasformare l’alienazione in investimento narcisistico. Non si tratterà come nel caso di alcune pratiche asiatiche di motivare il lavoratore a sentirsi parte dell’azienda potenziando così il suo sfruttamento da parte del capitalista. Né come nelle pratiche occidentale di inserire lo psicologo in fabbrica perché il lavoratore produca di più. Né di sovvertire qui ora l’assetto lavorativo attuale. Si tratta piuttosto di riflettere sul significato bioesistenziale che può avere la collocazione della volontaria rinuncia del lavoratore ad una certa quantità di energia (in termini di eccitazione motoria) a vantaggio non solo del profitto dell’azienda ma anche delle aspettative esistenziali del lavoratore stesso. Si tratta pur sempre della definizione dei rapporti di forza secondo una sostenibile gestione del conflitto da parte degli attori del processo. Interessante per noi psicofisiologi è comprendere come l’individuo in relazione con la madre, con la famiglia, con dio, coi colleghi, con il capoufficio, coi sindacati, possa investire narcisisticamente sul Sé riconoscendo Se stesso e l’Altro in un rapporto dialettico sulla base di un pari livello di dignità. Interessante è la comprensione di come il singolo individuo possa trovare un equilibrio fra il senso di appartenenza e il piacere di sentirsi parte attiva dell’assetto sociale in cui è cittadino originale e creativo. In quest’ottica ai nostri predecessori esistenzialisti possiamo dire che non contemplando la dimensione biologica dell’umano si sono fatti trascinare dal versante ideologico perdendo di vista che alla luce dei fatti variabili come “il conformismo”, “l’ambizione” sono dimensioni umane da studiare e non feticci da abbattere. Non si tratterà quindi di fare una battaglia ideologica contro il conformismo, né contro le pressioni sociali, né contro il capitalismo, ma di ristudiare alcune componenti esistenziali da un’ottica integrata che ci permetta di mettere a fuoco il significato della realizzazione dell’essere umano nel suo mutevole contesto sociale al di là dei luoghi comuni. Questo sforzo di messa a fuoco è inoltre importante non solo per il dibattito che potrebbe aprire in senso multidisciplinare ma anche come psicologi clinici di fronte al paziente. Ecco che anche un ipotetico psicoanalista che proponga ad un impiegato depresso di recarsi tre volte alla settimana presso il suo studio, secondo una formula adatta forse alla borghesia dell’inizio del ‘900 ma non alle esigenze moderne, può alienare parte del paziente a sé stesso. E’ chiaro che ben conosciamo i bisogni di dipendenza che il paziente attraversa in alcune fasi del trattamento ma riteniamo che questi possano essere garantiti con modalità che come abbiamo approfonditamente studiato e trattato altrove (Ruggieri, Fabrizio, Della Giovampaola; 2004) tengano conto della dignità e del valore di ogni singolo individuo nella sua avventura di vita in relazione al suo contesto sociale. Stiamo parlando di quel delicato equilibrio fra libertà e controllo, di quella meravigliosa stabilità dinamica fra esperienza di libertà e bisogno di contenimento. Di quel complesso processo che Hegel definiva di riappropriazione del mondo da parte dello spirito attraverso il lavoro e la teoria. Di quel complesso processo che oggi possiamo ridefinire dialetticamente come riappropriazione dell’investimento di forza psicofisica a fini narcisistici esistenziali. Ruggieri V.: L’identità in psicologia e taetro. Ed. Scientifiche Magi, Roma, 2001 Ruggieri V., Fabrizio M. E., Della Giovampaola S.: Il trattamento psicofisiologico in Psicologia e Riabilitazione. E.U.R., Roma 2004. Ruggieri V., Petruzziello M.G. : Psychophysiology of analysis of connotative decodification: the role of thermic and some esthetic system in Decodification of chromatic stimuli. Perceptual and Motor Skills, 66, 1988, pp. 583-589.