1914-1918 PERCHÉ QUELLA GUERRA

Amedeo Ciotti
1914-1918
PERCHÉ QUELLA GUERRA
L’Italia nel conflitto
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Capitolo primo: Le premesse
Perché quella guerra? Cenni sulla letteratura delle origini
Economia ed ethos
Lo sviluppo scientifico-tecnico e la non capita accelerazione
della Storia
Quanto durerà la guerra?
Sarajevo
Capitolo secondo: L’atipica premessa italiana, da maggio ’14
a maggio ’15, dal discorso nazionalformativo alla guerra
Il discorso nazionalformativo e l’atipica premessa italiana
La dichiarazione di neutralità
Stampa e opinione pubblica
Le prime pattuglie dell’interventismo. I garibaldini del 1914
Chi erano e quanti?
Sante
Repubblicani e social-riformisti: “per la democrazia, e non
per l’Italia”
I sindacalisti rivoluzionari dell’Unione Sindacale Italiana
L’ultima guerra del Risorgimento?
I nazionalisti
Dimostrazioni pro e contro la guerra, “Le patriottiche giornate
del 20 settembre”
L’internazionalismo pacifista dei socialisti
Il vario neutralismo
I cattolici italiani e il primo conflitto mondiale
7
7
11
17
32
34
43
43
54
63
67
76
77
83
90
96
98
104
112
120
125
La vigile neutralità condizionata di Giovanni Giolitti
La Germania vuole l’Italia neutrale
150
157
Capitolo terzo: “Il maggio radioso” e la guerra
L’incontro Giolitti Salandra del marzo 1915
La più intensa attività dell’interventismo
La cronaca: Mussolini a Tivoli? Una parentesi tiburtina
Le dimissioni del governo Salandra, “il maggio radioso”
e l’assalto a Montecitorio
La conclusione della crisi e la dichiarazione di guerra
all’Austria
163
163
168
171
Capitolo quarto: L’anno decisivo
Il 1917
Dalle manifestazioni e sommosse femminili spontanee
in Italia a Vittorio Veneto
197
197
Bibliografia
211
Indice dei nomi
220
Abbreviazioni
ACS = Archivio Centrale dello Stato, Roma.
ASR = Archivio di Stato di Roma.
b. = busta; fasc. = fascicolo; s. fasc. = sotto fascicolo; ins. = inserto.
M I = Ministero dell’Interno.
A5G I G.M. = A5G Prima Guerra Mondiale.
DGPS = Direzione Generale della Pubblica Sicurezza.
DAGR = Direzione Affari Generali e Riservati.
AC = Affari di Culto.
175
188
200
Capitolo primo
Le premesse
Perché quella guerra? Cenni sulla letteratura delle origini
Non solo è oggettivamente molto difficile dare una risposta convincente al quesito, ma farlo sinteticamente, come qui sarebbe necessario,
è veramente quasi impossibile. E non mi riferisco all’aspetto diplomatico del problema. Ormai Federico Curato, nel suo saggio: La letteratura
sulle origini della prima guerra mondiale, dopo aver sgombrato il campo dalla confusione tra origini e responsabilità del conflitto, concludendo ha scritto: Ma se tanto chiaro risulta il problema dall’osservatorio
diplomatico, bisogna pur dire che gli aspetti sociali, economici, finanziari delle cause della guerra sono rimasti molto poco illuminati dagli
studi finora fatti1. Una prima edizione dello studio di Curato comparve
nel 19522 e James Joll nella Prefazione della sua importante opera Le
Origini della Prima Guerra Mondiale3 del 1985, faceva questa considerazione: L’elenco dei libri e degli articoli che trattano delle cause
della prima guerra mondiale è apparentemente infinito e occorrerebbe
una vita per leggerli tutti. Anche il solo tenersi aggiornato con la nuova
letteratura che via via si pubblica sull’argomento può tenere occupata
una persona a tempo pieno. Io non ho certamente letto tutti quei libri; e
la mia sola scusa di aggiungervi il mio è che forse è giunto il momento
di compendiare, su base internazionale e comparativa, qualcuna delle
tesi e delle spiegazioni fornite dagli storici negli ultimi venti anni4.
1 F. Curato, La letteratura sulle origini della prima guerra mondiale, in Nuove
Questioni di Storia Contemporanea, t. 2, Milano 1972, p. 885.
2 F. Curato, La storiografia delle origini della prima guerra mondiale, in Nuove
Questioni di Storia Contemporanea, t. 1, Milano 1952.
3 J. Joll, Le Origini della Prima Guerra Mondiale, ed. it. Bari 1985, traduzione di
M. Monicelli.
4 Ivi, p. VII.
7
Rispondere all’invito di Federico Curato, cercando una linea di causalità diretta, sarebbe per gli storici e studiosi facile e bello; esempio: i
fabbricanti di armi avevano grande influenza sulla politica, per vendere
ancor più i loro prodotti spinsero i governi a fare la guerra. Se così fosse
sarebbe tanto semplice che finirebbe per essere semplicistico e, ahimé!,
la concezione materialistica della storia è ben più complessa. Federico
Engels chiarì contro i facili entusiasmi, che secondo la concezione materialistica della storia il fattore che “in ultima istanza” è determinante
nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale […]. Se
ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione
in una frase vuota, astratta, assurda. Infatti se, per esempio, si guarda all’economia come l’unica causa della caduta dell’Impero Romano
d’Occidente non si riesce a dare una spiegazione del tutto convincente.
È fuor di dubbio che l’ethos cristiano gradatamente sostituì la pietas romana, senza che quel cambiamento fosse accompagnato da un sistema
economico, giuridico e sociale in armonia con la nuova etica, mentre
a oriente riuscirono a farlo anche attraverso la straordinaria alleanza di
cultura pagano-cristiana che comportò l’immissione nella vita politica
di forze sociali nuove come avvocati, retori e uomini di grande cultura
e l’Impero visse ancora mille anni5.
Dopo aver chiarito che devono indagarsi e studiare i rapporti dialettici tra struttura e sovrastrutture, Engels conclude: Se non fosse così, l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la soluzione d’una semplice equazione di primo grado6. Però la
necessità – come egli ci ha insegnato – di considerare tutti insieme fattori
come: le formazioni sociali, le istituzioni politiche, gli individui dirigenti, con il sostrato della storia ovvero: i rapporti della produzione, ossia
le condizioni economiche dei singoli Stati coinvolti e dei loro rapporti7,
ha fatto scrivere a Joll: La difficoltà che incontra lo storico è quella di
collegare il generale al particolare; ed è una difficoltà che io non ho
risolto8. Se non l’ha risolta lui, certo non posso essere così presuntuoso
5 L. Cracco Ruggini, Esperienze economiche e sociali nel mondo romano, in Nuove
Questioni di Storia Antica, Milano 1973, pp. 787-790.
6 C. Marx, F. Engels, La concezione Materialistica della Storia, a cura di F. Codino,
V edizione, Roma 1969, n. 1, pp. 43-44.
7 B. Croce, Materialismo Storico ed Economia Marxistica, rist., Roma-Bari 1973,
pp. 9-10.
8 J. Joll, op. cit., p. VII.
8
da pensare che la possa risolvere io, posso solo cercare di dare un’idea di
quanto sia arduo dare una risposta convincente a quel mio perché.
Certo il problema, tanto a lungo dibattuto, delle responsabilità del
conflitto non ha facilitato, né giovato molto a far luce sulle origini.
Non erano ancora iniziate le operazioni militari che le varie potenze
si preoccuparono di far ricadere la colpa sugli avversari. Lo fecero
tramite la pubblicazione di libri che presero il nome dal colore della
copertina e tutti insieme furono detti “libri di colore”. Si tratta della
pubblicazione di scelte di documenti diplomatici. Cominciarono i tedeschi con la pubblicazione del loro libro bianco il 3 agosto 1914, il 6
agosto seguirono gli inglesi con il libro azzurro, il 7 agosto vide la luce
quello arancione dei russi, quello grigio dei belgi il 7 ottobre, l’azzurro
dei serbi il 18 novembre, il 1° dicembre fu la volta di quello giallo dei
francesi; la serie si concluse, il 3 febbraio 1915, con quello rosso degli
austriaci, mentre quello italiano sarà verde.
Dopo il conflitto, a seguito delle polemiche sorte per l’articolo 231
del trattato di Versailles, la discussione intorno al problema della responsabilità e delle colpe si riaccese e furono pubblicate una quantità di
opere che attribuivano la responsabilità ai soli Imperi centrali. Un’altra
serie di autori scaricarono la responsabilità sulle potenze dell’Intesa, in
particolare sull’Inghilterra. Alberto Lumbroso, riprese le conclusioni a
cui erano quasi contemporaneamente giunti T. Palamenghi Crispi e i
francesi Marchand e Pevet (i francesi rifiutavano le amichevoli proposte del Kaiser, i russi erano bellicosi perché volevano Costantinopoli,
l’Inghilterra compiva l’“accerchiamento” della Germania). Lumbroso
pose l’accento sul fatto che l’Inghilterra per i suoi interessi e per la sua
sicurezza aveva sempre impedito di alterare l’equilibrio europeo alle
più potenti nazioni continentali: avvenne così per la Spagna, poi per
l’Olanda e per la Francia di Napoleone e infine per la Germania. Lo
scopo degli inglesi era quello di ridimensionare, se non proprio rovinare, la Germania, ormai la nazione più potente del continente e in aperta
concorrenza con loro, sotto ogni punto di vista e soprattutto quello navale. Partendo da queste premesse Lumbroso ritiene che né R. Poincaré
né S.D. Sazonoff furono l’anima nera, lo fu E. Grey e a lui solo accolla
tutte le responsabilità del conflitto9. Che la tesi sia intrigante non lo
9 A. Lumbroso, Le origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale, vol. 2,
Milano 1926-1928. Citato in F. Curato, La letteratura sulle origini della prima Guerra
Mondiale, cit., p. 847.
9
si può negare, né si può negare che quel problema ci sia stato, ma da
lì a far scoppiare deliberatamente quella guerra il passo è lungo e la
colpevolezza di Grey non ha molti riscontri oggettivi. Anche se cercò
di promuovere la conferenza di pace, ma i tedeschi risposero negativamente, mi sembra che gli storici siano abbastanza concordi sul fatto che
l’Inghilterra non avrebbe potuto intervenire se la Germania non avesse
aggredito il Belgio neutrale, perché l’opinione pubblica era contraria
alla guerra. Altri attribuirono la responsabilità a tutti, ma quella maggiore alla Germania. La letteratura revisionista moderata si divise tra la
colpevolezza di tutti e quella di nessuno. Insomma la discussione che
era nata durante la guerra, che si riaccese dopo il trattato di pace, rimase
viva fino al 1939 ed ebbe una ripresa dopo il II conflitto mondiale.
Già nel 1932 Benedetto Croce ci invitava ad abbandonare l’inutile esercizio della ricerca delle colpe e non sono punto d’accordo con
coloro che hanno sostenuto che il nostro filosofo ritenne responsabili i
tedeschi, per aver scritto che la Germania conforme a certe sue tradizioni, carezzasse in particolare l’etnicismo o razzismo, e attribuisse l’attivismo10 al germanesimo, onde l’interessamento e il favore col quale
accolse alcuni prodotti letterari che di cotali tendenze e immaginazioni
costruivano la filosofia della storia e la metafisica11. In realtà Croce,
nella stessa opera, sosteneva che la ricerca della responsabilità della
guerra era operazione disperata riferita agli individui o ai popoli, i quali tutti possono, sillogizzando, rigettare su altri la colpa che si vuol far
pesare sopr’essi, di altri in altri riportarla all’autore del mondo […]12.
E ancora nel dare il suo giudizio sul trattato di Versailles: La coscienza
umana fu dolorosamente offesa dallo spettacolo dei vincitori che traevano al loro tribunale l’eroico avversario, […] e si ergevano sopra
lui giudici di moralità ed esecutori di giustizia, e lo costringevano ad
ammettere la sua colpa, essi colpevoli a loro volta, se pure di colpa si
10 Croce intende quelle concezioni della vita nuove e ardite, un nuovo romanticismo
che si ispirava all’ideale attivistico […] e divenne attivistico o “dinamico” nella forma
stessa dell’arte, e si chiamò “futurismo”. I giovani, rapiti, come spesso avviene, invaghiti dalle novità che li sollecitavano a buttar via il passato, si fecero in gran numero
nazionalisti, imperialisti, dinamici, sportivi e futuristi, o tutte queste cose insieme. E ciò
accadeva in ogni parte d’Europa e anche fuori dell’Europa.
11 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari 1932, ed. Milano 1999,
a cura di G. Galasso, p. 419.
12 Ibidem.
10
vuol parlare, e non piuttosto, come a noi sembra, di comune errore che
chiedeva comune espiazione13.
Passata la tempesta, rasserenatisi gli animi, gli storici chiarirono che
la responsabilità è concetto morale e non storico. Così cominciarono
a uscire studi che puntavano l’attenzione esclusivamente sulle origini,
tra i primi si devono ricordare le opere di Luigi Albertini14 e Mario
Toscano15. Il primo scrisse un’opera di storia diplomatica e politica nel
senso classico, tradizionale del termine16. Toscano distinse le origini
diplomatiche e politiche da quelle economiche-sociali, auspicando che
queste ultime avessero un adeguato approfondimento; l’invito, come
visto, fu ripreso da Federico Curato. Per completezza, a questo sintetico quadro si devono aggiungere le pubblicazioni delle memorie degli
uomini che ebbero la responsabilità politica17.
Economia ed ethos
Pur rimanendo convinto che ogni vera storia è storia contemporanea18, tuttavia non credo sia contraddittorio riprendere la tesi di Geoffry Barraclough, che propone una diversa periodizzazione della Storia
moderna e contemporanea19. Egli, considerando che la divisione del
mondo in due grandi blocchi, determinatasi dopo il secondo conflitto
mondiale, non può trovare una convincente spiegazione se si parte dal
Congresso di Vienna, perché ne viene fuori una storia eurocentrica,
che inevitabilmente lascia ai margini, se non proprio fuori, il divenire e
l’affermarsi di due grandi nazioni, USA ed URSS, sostiene che sia più
13
Ivi, p. 424.
L. Albertini, Le origini della guerra 1914, vol. 3, Milano 1942-1943.
15 M. Toscano, Le cause della grande guerra ed i residui bellici del Trattato di
Versaglia, in Problemi e orientamenti storiografici, a cura di E. Rota, Como 1942, pp.
1139-1153.
16 L. Valiani, Le origini della grande guerra del 1914 e dell’intervento italiano
nelle ricerche e nelle pubblicazioni dell’ultimo ventennio, «Rivista Storica Italiana»,
settembre 1966, p. 585.
17 Per tutta questa parte della letteratura sulle origini, si veda F. Curato, La letteratura sulle origini della prima guerra mondiale, cit., pp. 817-888.
18 B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1917, a cura di G. Galasso,
Milano 2001, p. 14.
19 G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Harmondsworth 1967, Bari
1975, trad. it. M. Andreose, p. 8.
14
11
corretto considerare la Storia moderna fino alla fine della cosiddetta
grande depressione del secolo XIX, 1890 circa, e di cominciare a parlare di Storia contemporanea solo dopo il 1960, quando si percepiscono chiaramente i mutamenti avvenuti nel costume. Tra le due epoche,
sostiene, si frappone un periodo di transizione. Barraclough avverte di
considerare le date proposte con discernimento per non incorrere nella
ingenuità di quel professore di Liceo, il quale raccontava ai suoi allievi
che nell’anno 476 calava il sipario sulla recita della Storia antica e si
alzava quello della Storia medioevale20. Infatti: È necessario – scrive –
un lungo periodo di transizione prima che l’ethos di un periodo sia sopravanzato dall’ethos di un altro […], siamo ampiamente coinvolti in
un’epoca di transizione nella quale due periodi, il “contemporaneo” e
il “moderno”, coesistono poco agevolmente. Solo adesso sembra che
stiamo uscendo da questa transizione21. Giova ricordare che Barraclough scriveva nei primi successivi anni al 1960, ma oggi non saprei
dire se la transizione sia stata superata o sia ancora in corso, poiché se
qualcuno mi chiedesse qual è l’ethos della società contemporanea io
non saprei rispondere.
Ora tralasciando le rigide, comode divisioni didattiche della Storia,
intorno alle quali si può sempre discutere, è necessario dire che io non
so se Barraclough conoscesse la grande lezione di Federico Chabod sul
Rinascimento, in particolare, e sulle età della Storia, in generale, è certo
però che quanto da lui sostenuto trova la più solare conferma nel pensiero del grande storico italiano: Quando parliamo di “periodi” storici,
– sosteneva Chabod – di mondo classico e di mondo medioevale, di Rinascimento, di Illuminismo e di Romanticismo, a che altro intendiamo
noi riferirci se non alle idee politiche, morali, culturali e alle istituzioni
in cui quelle idee si sono incarnate, idee e istituzioni che caratterizzano
le singole età? L’uomo del Settecento ama, cerca il proprio comodo e il
lusso, canta la donna e il vino, né più né meno di quel che avesse fatto
l’uomo del Trecento: ma è mutato il “modo” con cui si canta l’amore,
si esalta la ricchezza, si appetisce il potere politico, ed è precisamente
questo “modo” che interessa.
Il “modo” è dato dal pensiero e solo a questo dobbiamo rivolgere
l’attenzione22.
20
B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 125.
G. Barraclough, op. cit., p. 18.
22 F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, II ed., Torino 1967,pp. 83-84.
21
12
È fin troppo evidente che il pensiero etico non può cambiare improvvisamente e che gli uomini per modificare il senso che danno alla
loro vita hanno bisogno di tempo e che ci sono periodi in cui il nuovo
convive con il vecchio, ma se l’economia della Storia è il sostrato e
noi ci troviamo di fronte a un periodo in cui vecchia e nuova coscienza
convivono, ciò significa che il sostrato che ha prodotto il vecchio ethos,
certo nelle forme indicate da Engels, o non esiste più, o è in fase di
forte declino e che nuove forme economiche e di produzione o si sono
già affermate, o si stanno affermando, aprendo, comunque, un nuovo
processo dialettico economico, culturale, giuridico e sociale. Guardando la questione delle origini da quest’ottica si può dire che l’imperialismo-colonialismo ha sicuramente delle responsabilità, ma non per la
sua concezione economica (ogni singola nazione cercava la supremazia
economico-politica su tutte le altre), ormai superata o quasi nella realtà
effettuale, quanto per la sua morale ancora viva nella coscienza degli
uomini all’inizio del 1900.
Dunque, se Barraclough ha ragione, i due conflitti mondiali si collocano in un periodo di transizione, ed è facile capire che accelerarono
molto il cambiamento, quello che è meno facile è capire quanto furono
conseguenza del vecchio pensiero e quanto del nuovo in fieri. In questo
contesto l’Europa dell’inizio del XX secolo si trovò di fronte a vecchi
problemi da risolvere per cercare un nuovo equilibrio in sintonia con la
nuova realtà. Colui che ha affermato: Non basta enunciare la concezione materialistica della storia, bisogna applicarla, ha sicuramente detto
una gran verità, ma non è facile e in questa circostanza lo è ancora di
meno.
Sarà forse inutile ricordarlo, ma l’imperialismo non fu la classica
dialettica tra ceti sociali diversi, la lotta di classe fu solo la premessa a
una competizione tra nazioni, quindi una lotta della borghesia imprenditoriale e finanziaria con se stessa: come ben si sa il XIX fu il secolo
in cui la borghesia si affermò come classe dirigente negli Stati nazione
d’Europa. Le lotte e le rivendicazioni salariali operaie e contadine, le
leggi che regolarono gli orari di lavoro e l’impiego di donne e bambini
nella produzione non vi è dubbio che aumentarono il costo del capitale
variabile. Ne conseguì che per mantenere il profitto gli imprenditori
dovettero aumentare la produzione, ecco allora la necessità dell’investimento per le innovazioni tecniche applicate dopo il 1870, che portarono
alla seconda rivoluzione industriale e proseguirono per tutto il 1900;
13
oggi non mi sembra sia ancora così. Quanto detto rese anche necessario
reperire nuovi mercati, nuove fonti di materie prime e nuovi consumatori, ed è fin troppo evidente che per trarre profitto non basta produrre,
è necessario collocare le merci. Non sarà stato solo un caso se quella
forma di imperialismo o neo imperialismo, se così lo si vuole definire, caratterizzato dalla forte ripresa coloniale, si affermò dopo il 1870,
dopo quasi un secolo di intervallo, rispetto al vecchio, e si protrasse fino
al 1914: la sua nascita e il suo sviluppo, dal punto di vista economico,
coincidono con gli anni della cosiddetta grande depressione. Eppure
soltanto pochi anni prima (1859-60) sembrava che i popoli europei si
avviassero verso forme di amicizia e alleanza come premessa all’ideale
mazziniano degli Stati Uniti d’Europa, ma poi, dopo il 1870, quel progetto, se pur dai contorni ancora vaghi, fu relegato tra le utopie23. Forse
ci si illuse di poter risolvere il problema, non attraverso la collaborazione, ma tramite politiche neo mercantiliste, che comportavano una
strategia economica chiusa in un rapporto preferenziale tra territorio
metropolitano e colonie. Proprio negli anni immediatamente successivi
al 1870 gli Stati tornarono al protezionismo doganale, con l’eccezione
dell’Inghilterra e con la resistenza di Bismark finché gli fu possibile. La
notevole diminuzione dei costi di trasporto aveva reso fortemente concorrenziali sul mercato europeo i prodotti agricoli e in particolare i cereali provenienti dall’America, ma l’aumento delle importazioni di tali
prodotti non veniva compensato da un parallelo aumento delle esportazioni di manufatti, soprattutto a causa della politica protezionistica
degli Stati Uniti24; così per difendere le produzioni agricole nazionali,
non solo fu introdotta una politica protezionista nei confronti degli Stati
Uniti, ma anche tra gli Stati europei. Si deve inoltre considerare che
il fenomeno della accelerazione della Storia, sebbene al suo esordio,
determinato dalle innovazioni e dal continuo aumento della diffusione
delle industrie e quindi della produzione, ne contrassegnò il periodo;
ciò consigliò agli europei di cercare nuovi mercati in Africa e in Asia,
sia per rifornirsi di materie prime o semilavorati, sia per collocare i
propri prodotti. Nel periodo della grande depressione (che cominciò
23
B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., pp. 395-396.
Storia Economica Cambridge, a cura di M.M. Postan e P. Mathias, vol. 8, Le
economie industriali: Lo sviluppo delle politiche economiche e sociali (I), a cura di P.
Mathias e S. Pollard, Cambridge 1989, ed. it. a cura di V. Castronovo, Torino 1992, p.
54.
24
14
anch’essa come l’attuale crisi con il fallimento di una banca, in quella
circostanza austriaca, nel 1873)25 è vero che diminuirono molto i prezzi
dei prodotti agricoli e la rendita degli investimenti finanziari, ma ci fu
anche, come detto, una continua diminuzione dei costi di produzione,
nonostante l’aumento dei salari, e le industrie andarono talmente poco
in crisi che aumentarono considerevolmente di numero26. L’aumento
delle aziende e della produzione non fu un fenomeno solo dell’Inghilterra, ma in generale delle economie industriali tanto che gli inglesi si
trovarono a fronteggiare la concorrenza dello spettacolare decollo industriale germanico e degli USA, dell’industrializzazione austro-ungarica,
della Russia, del Giappone e dell’Italia, sebbene queste ultime di minor
peso. Ciò dimostra che aumentando la produzione e diminuendo i costi
per la maggiore quantità di beni d’uso immessi sul mercato, il profitto,
se non aumenta, certo non diminuisce.
L’apogeo della colonizzazione avvenne nei decenni 1880 e 1900 e
la partecipazione dell’Africa e dell’Asia al commercio europeo passò,
fra il 1880 e il 1910, dall’11 al 14 per cento per le esportazioni, e dal
10,8 al 14,5 per cento per le importazioni27, ma i migliori clienti di
ogni economia europea rimanevano le altre nazioni industrializzate28.
L’elenco potrebbe continuare, ma basterà qui ricordare il forte aumento
della popolazione; la considerevole diminuzione dei lavoratori agricoli
e l’aumento della manodopera impiegata nell’industria, da cui l’urbanizzazione, e la nascita della società di massa e dei partiti socialisti.
L’aumento dell’alfabetizzazione, conseguente alla obbligatorietà della
scuola primaria, consentì la diffusione di giornali quotidiani e periodici,
oltre alla diminuzione dei costi di produzione per le innovazioni tecnologiche (la rotativa è di questo periodo). L’imperialismo-colonialismo
ebbe grande sostegno dalla cultura e dalle ideologie nazionaliste, che si
sostituirono al principio di nazionalità, idee diffuse appunto dai media;
quasi ogni popolo si convinse di essere il popolo eletto, naturalmente in
senso biblico, e di avere una grande missione da compiere.
25 J. Keegan, La Prima Guerra Mondiale. Una storia politico-militare, Hutchinson
1998, ed. italiana, Roma 2001, trad. it. F. Maiello, p. 18.
26 Si veda M. Dobb, Problemi di storia del capitalismo, 1946; II ed. it. Roma 1970,
trad. it. A. Mazzone, pp. 341-361.
27 Storia economica Cambrdge, cit., p. 55.
28 M. Silvestri, La decadenza dell’Europa occidentale, Torino 1978, ed. 2002, vol.
1, p. 8.
15
Nell’età degli imperi – scrive Eric J. Hobsbawm – la politica e
l’economia si erano fuse29. Mi riesce difficile convincermi che precedentemente non lo fossero e che non lo siano tuttavia ma, a parte la
considerazione, importa sottolineare che all’economia e alla politica si
fuse la cultura attraverso uno stretto rapporto dialettico e trovò nell’imperialismo coloniale ad un tempo uno scopo e uno stimolo, la poesia,
la narrativa, la filosofia dettero un contributo determinante alla formazione della coscienza imperiale che contribuì ad accrescere in maniera
esponenziale le rivalità dei nazionalismi.
Le concezioni di Nietzsche, opportunamente travisate e applicate,
influirono in modo essenziale nel dirigere la coscienza europea in quella determinata direzione e così l’uomo, che aveva l’animo del poeta, fu
trasformato nel profeta dell’attivismo, sebbene non trasse conseguenze
politiche dalle sue teorie e si rifiutò di diventare il filosofo dell’imperialismo guglielmino.
Il razzismo non era teoria del tutto nuova in Europa, ma in quel
periodo ebbe diversi autori che la diffusero poggiando sull’uso spregiudicato delle teorie biologiche darwiniane a giustificazione e incentivazione dell’imperialismo. È vero che le interpretazioni del “darwinismo
sociale” non puntarono tutte in quell’unica direzione, tuttavia […] una
serie di libri, di articoli di periodici e di quotidiani, di conferenze e di
dibattiti, rese accettabile e familiare all’opinione pubblica occidentale l’idea che la teoria della selezione naturale rendeva inevitabile fra
popoli e individui una lotta senza quartiere per la sopravvivenza in
cui avrebbero prevalso i più “adatti” (fittest). Queste interpretazioni,
questi sviluppi recarono un contributo fondamentale all’imperialismo
razzistico: giacché, una volta ammessa la fatalità della “lotta per l’esistenza” e della “sopravvivenza del più capace”, si arrivava facilmente
a stabilire, partendo dalla constatazione dei successi imperialistici dei
vari popoli, l’idea della superiorità della razza30.
Proprio per il tramite delle giustificazioni pseudo evoluzioniste saranno commessi i più gravi crimini contro l’umanità, a cominciare dal
genocidio dei pellerossa, per finire, speriamo che sia così, con la Shoah.
29 E.J. Hobsbawm, Il Secolo Breve 1914/1991, 1994, XI ed. it. Milano 2006, trad. it.
B. Lotti, p. 43. Si veda anche dello stesso: L’Età degli imperi 1875-1914, London 1987,
ed. it. Bari 2007, trad. it. F. Salvatorelli.
30 O. Barié, Imperialismo e colonialismo, in Storia Delle Idee Politiche Economiche
e Sociali, diretta da Luigi Firpo, vol. 5, Torino 1972, p. 666.
16
Il resto lo fece la scuola, ben coadiuvata da associazioni all’uopo
create e di cui si accennerà più avanti. Quando James Joll scrive che i
teorici e i retori del nazionalismo-imperialismo, prima del 1914, ebbero
influenza solo su gruppi importanti ma esigui di persone, può anche
avere ragione, ma sicuramente non sbaglia nel sostenere che la maniera in cui la gente comune reagì alla crisi del 1914 fu la logica conseguenza del modo in cui le avevano insegnato la storia a scuola, dei
miti delle favole sul passato della nazione che avevano ascoltato da
bambini […]. In tutti i paesi – o quasi – ai bambini erano stati inculcati
i doveri del patriottismo, le glorie nazionali e le imprese del passato31.
Se è vero, come è vero, che la Pedagogia è una filosofia morale non ci
si deve meravigliare se i governi presero provvedimenti per indirizzare
l’educazione verso le finalità non solo patriottiche ma soprattutto imperialiste perché quello era il costume. Fu fatto attraverso opportuni inviti
agli insegnanti, furono scritti e prodotti libri di testo conseguenziali e
i maestri ebbero a disposizione lo strumento didattico per conseguire il fine della formazione della “coscienza nazionalista”. Sebbene in
ogni Paese vi fossero riformatori dell’educazione e politici socialisti
che cercavano di far prevalere valori diversi, il modo in cui la gente si
comportò nel 1914 dimostra che ebbero ben poco successo.
Come accennato, le associazioni coadiuvarono l’educazione durante
l’età scolare e oltre la scuola. A parte le ben note leghe navali inglesi
e tedesche, nacquero diverse associazioni e a incontrare i maggiori favori nell’Inghilterra edoardiana fu quella dei Boy Scouts, fondata da
Robert Baden-Powell eroe della guerra sudafricana. In Germania, per
contrastare l’associazionismo umanitario e socialista, il Kaiser nel 1910
emanò disposizioni perché fosse costituito una sorta di esercito giovanile (Jugendwehr) simile ai Boy Scouts. Un anno dopo venne fondata
un’organizzazione che riuniva tutte le associazioni nazionalistiche giovanili tedesche.
Lo sviluppo scientifico-tecnico e la non capita accelerazione
della Storia
Dalla fine degli anni ’80 del sec. XIX, il continuo sviluppo tecnologico migliorò ancora il sistema di produzione di merci, ma tra la fine
31
J. Joll, op. cit., p. 270.
17
del secolo XIX e l’inizio del XX le innovazione tecnologiche, che si
avvalsero della ricchezza dei risultati conseguiti dalla ricerca scientifica
realizzati lungo tutto il corso del 1800, produssero un’ulteriore forte accelerazione come mai si era vista, il rapido cambiamento della vita pose
nuovi problemi e nuove sfide al mondo economico, in poco tempo, rese
inattuale il protezionismo e tutte le teorie neo mercantiliste.
Le applicazioni elettriche dettero l’avvio alla palingenesi, che diede
vita a migliorativi mutamenti in continuo, sempre più veloce divenire,
tanto che scorre ancora sotto i nostri occhi e noi stessi, sebbene siamo
stati culturalmente formati a seguire la continua evoluzione, spesso ci
rendiamo conto che prendiamo coscienza dei mutamenti anche del costume solo con ritardo e osservando le nuove generazioni, quindi nessuna meraviglia se gli uomini che vissero l’inizio di tale processo non
sempre se ne avvidero. Fino a quel punto e purtroppo per diversi anni
ancora, l’educazione fungeva da cinghia di trasmissione della cultura
da una generazione a un’altra, i mutamenti erano pochi e assai lenti.
Rifare la storia della esplosione tecnologica dei venticinque anni
precedenti il 1914, mi sembra superfluo. L’argomento è ben conosciuto
e la definizione di seconda rivoluzione industriale, o, meglio, rivoluzione industriale dell’energia elettrica, della chimica, dei metalli, del
motore a combustione interna con le sue applicazioni, delle onde radio, ecc., ben compendia quanto avvenne. Penso basti ricordare che in
quei pochi anni, per il tramite delle innovazioni leggere che seguirono quelle pesanti, nacque la società dei consumi. L’uso del telefono e
la frequentazione delle sale cinematografiche fu una vera esplosione.
L’industria leggera cominciò a produrre un numero sempre maggiore
di beni d’uso quotidiano, a prezzi sempre più accessibili per le possibilità della massa; del loro lungo elenco ricordo il fornello a gas, l’illuminazione elettrica pubblica e privata, l’aspirapolvere (USA 1908),
l’impianto idraulico nei privati appartamenti, la nascita del termosifone
per il riscaldamento e, da non trascurare, la elettrificazione dei tranvai
e l’umile bicicletta, testimoni della rivoluzione dei trasporti pubblici e
privati. In effetti tale fu il cambiamento, nel breve volgere di qualche
anno, che Barraclough così ha scritto per esplicarlo: Tuttavia si può
ben dire che a livello puramente pratico della vita d’ogni giorno, una
persona del presente che fosse improvvisamente trasportata nel mondo
del 1900, si troverebbe in un ambiente a lei familiare, mentre, tornando
indietro al 1870, anche nell’industrializzata Inghilterra, troverebbe da
18
stupirsi più per le differenze che per le somiglianze. Di fronte a tali
mutamenti poteva l’economia, che tutto aveva generato, non aver subito innovazioni e avvertire nuove esigenze? Mi si potrebbe obiettare
che il capitale continuava e continua ad appropriarsi del plus prodotto
e quindi del profitto, ma intendo parlare della circolazione di merci e
dell’utilizzo del capitale finanziario, degli scambi tra sistemi economici
nazionali, tra industrie di diversi settori per migliorare la produzione e
per immettere sul mercato nuovi e diversi generi di consumo. Per quelle
attività produttive, per acquisire i diritti e sfruttare i giacimenti di petrolio in Persia, per le piantagioni di caucciù da cui deriva la gomma,
erano necessari tanti e tali capitali che non potevano provenire da una
sola economia nazionale, nessuna nazione, nessun Impero, dal punto di
vista economico, poteva pensare di essere autosufficiente.
Infatti il grande aumento della produzione, ottenuto tramite le nuove
tecniche, obbligò l’organizzazione capitalistica ad adeguarsi; per farlo
mise in atto una rapida trasformazione (significativa la crescente razionalizzazione del lavoro) e, dall’inizio del sec. XX, il processo di
concentrazione capitalistica ebbe un’eccezionale, mai vista intensificazione.
Per poter produrre seguendo la continua evoluzione delle nuove tecniche e macchine occorrevano enormi mezzi finanziari che solo le grandi imprese potevano mettere a disposizione, poiché le banche erano disposte a sovvenzionare, tramite prestiti o investimenti azionari, solo le
aziende più grandi e più sicure. Venivano penalizzate le medie e piccole
imprese che non potendo tenere il passo delle innovazioni – che consentivano l’aumento della produzione e di conseguenza la diminuzione
dei prezzi – non erano più concorrenziali sul mercato. Sopravviveva
solo chi poteva soddisfare la produzione di massa. Lo sviluppo dell’industria favorì la concentrazione delle banche, anche con la formazione
di cartelli32 e di trust33, e il capitale finanziario raggiunse una grande
potenza. Così le grandi concentrazioni capitalistiche, realizzatesi dalla
interconnessione tra industrie e banche, assunsero la nuova caratteristi-
32
La fusione in senso orizzontale di imprese dello stesso ramo produttivo.
sotto un’unica direzione unificata, di una serie d’imprese interessate a tutta la gamma di trasformazioni di un prodotto, col risultato di pervenire a una
struttura verticale.
33 Assorbimento,
19
ca internazionale. È vero, come ha sottolineato Massimo L. Salvatori34,
che ognuna di esse solitamente mantenne il centro dei propri affari in
uno Stato determinato, ma questo sembra essere solo un aspetto del problema. Effettivamente i banchieri internazionali si trovarono in una situazione che sembra essere paradossale: Da un lato, attraverso la stretta collaborazione coi governi, essi convalidarono con la politica degli
investimenti il sistema delle alleanze e l’aumento della competizione
coloniale; dall’altro, ricavando benefici dal flusso dei traffici internazionali, ebbero tutto l’interesse a che quel flusso non fosse interrotto
dalle tensioni in campo internazionale35. Proprio per gli ottimi affari
che già conducevano su un fronte e sull’altro e che corrispondevano
alla logica del profitto, obiettivo di qualsiasi uomo d’affari, la guerra
non era desiderabile. Non ne avevano bisogno neppure i fabbricanti
d’armi che si arricchivano non solo grazie ai contratti stipulati coi rispettivi governi, ma anche con le vendite ai governi degli altri paesi (un
mercato questo che andò perduto durante la guerra). Inoltre, in parecchi casi, essi già stavano al massimo delle capacità produttive36. Forse
non si resero ben conto, né loro né gli uomini politici, dei rischi che
comportava la gara agli armamenti. Per i banchieri e gli imprenditori
tutto andava bene finché potevano condurre i loro affari, ma in quanto
alla guerra il discorso era diverso: grandi sforzi fece il capo dei Rothschild di Londra per evitare la guerra durante la crisi di luglio, Edward
Grey dichiarò il 31 luglio che la situazione commerciale e finanziaria
era estremamente seria, e che c’era il rischio che un collasso totale
portasse tutti in rovina37.
L’economia era diventata in breve tempo interdipendente e ormai
storici e studiosi sembrano essere concordi; così Mario Silvestri: Dal
1897 l’interdipendenza delle nazioni era enormemente aumentata e la
sola interruzione dei traffici avrebbe creato danni irreparabili all’economia mondiale38. Significativo quanto al riguardo ha affermato Lucio
Villari: Scontri doganali, provocazioni tra gruppi finanziari, industriali, concorrenza sì, ma guerra tra eserciti mai39. Anche uno storico di
34 M.L. Salvadori, Storia dell’età contemporanea dalla restaurazione all’eurocomunismo, vol. 1, Torino 1977, pp. 398-404.
35 J. Joll, op. cit., p. 197.
36 Ivi, p. 205.
37 Ivi, p. 197.
38 M. Silvestri, op. cit., p. 218.
39 L. Villari, L’insonnia del Novecento, Milano 2002, p. 61.
20
formazione marxista come Eric J. Hobsbawm, dopo aver detto che si
era affermata una economia capitalistica industriale mondiale, si chiede: Perché infatti i capitalisti […] avrebbero dovuto desiderare di turbare la pace internazionale, condizione essenziale della loro prosperità e espansione, dato che da essa dipendeva l’andamento delle libere
operazioni internazionali commerciali e finanziarie?40. Per sostenere la
tesi che le potenze, nonostante rendessero, con le loro rivalità, bellicosa l’opinione pubblica, erano strettamente legate dai vincoli del libero
scambio e dell’interdipendenza industriale, Martin Gilbert si sofferma
su qualche interessante, esplicativo aspetto: Nel giugno 1914 fu una
società finanziaria a capitale misto anglo-tedesco ad assicurarsi il diritto esclusivo di sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Mesopotamia. Navi di tutte le nazioni europee solcavano i mari con le stive colme di prodotti agricoli e industriali provenienti dai più svariati paesi.
Automobili e autocarri tedeschi, francesi, inglesi e russi, che in caso
di guerra avrebbero dovuto trasportare truppe e vettovaglie, funzionavano grazie al magnete Bosch, costruito unicamente in Germania e
importato dalle fabbriche di veicoli di tutti gli Stati europei. Continua
con il sostenere che l’acetone, solvente necessario per la fabbricazione
della cordite, l’esplosivo per i proiettili, costituisce un altro esempio
della interdipendenza, perché veniva prodotto quasi esclusivamente in
Germania e in Austria. Poi i binocoli di cui la Germania deteneva l’assoluto monopolio: nell’agosto del 1915 la Gran Bretagna fu costretta a
ricorrere a un intermediario svizzero per acquistarne 32.000 da inviare
sul fronte occidentale41. Quanto sopra detto non fu una scoperta degli
ultimi decenni del ’900, il giovane economista John Maynard Keynes
si dichiarò contrario alla guerra non solo perché avrebbe ucciso i suoi
amici, ma anche perché avrebbe interrotto il flusso dei traffici internazionali e quindi degli affari42. Il premio Nobel per la pace Norman
Angell nella sua opera La grande illusione43, avvertì anche dei danni
che essa avrebbe provocato a tutti, con la tesi – così un contemporaneo
come Croce riassunse il suo pensiero – che la guerra, se in altri tempi
40
E.J. Hobsbawm, L’Età degli imperi 1875-1914, cit., p. 360.
M. Gilbert, La Grande Storia Della Prima Guerra Mondiale, Milano 2008, rist.
1998 trad. it. Carla Lazzari, pp. 26-27.
42 Citato in E.J. Hobsbawm, L’Età degli imperi, cit., p. 360.
43 N. Angell, La grande illusione, 1910, l’opera fu preceduta da un opuscolo pubblicato nel 1909, ed. it. Bari 1913, versione di L.S., proemio di Arnaldo Cervesato.
L’opera di Angell ebbe larghissima diffusione, fu tradotta in molte lingue.
41
21
aveva potuto procacciare terre e dominio a popoli conquistatori, ora
era inetta all’uopo, perché l’eventuale vincitore non avrebbe potuto
[…] impossessarsi delle ricchezze di un altro popolo, giacché per l’interdipendenza economica mondiale queste sarebbero sfumate appena
toccate e avrebbero fatto sfumare quelle stesse del vincitore […]44.
Inoltre, non mancarono lungimiranti, illuminate previsioni intorno
agli esiti di una eventuale guerra, combattuta da eserciti di massa, con
armi moderne, sempre più perfezionate che aumentavano costantemente la potenza e il volume di fuoco. Cominciò nel 1890 il feldmaresciallo
Hellmuth von Moltke, ad avvertire di una molto probabile lunga durata
di un eventuale conflitto.
Più preciso e circostanziato il banchiere polacco Ivan Blioch. Con
un’opera in sei volumi: La guerra del futuro nelle sue implicazioni tecniche, politiche e militari, pubblicata in Russia nel 1897, non solo si
sforzò di far capire che con la guerra nessuno dei belligeranti avrebbe
fatto un affare e che tutti avrebbero avuto da rimettere, ma soprattutto
fece delle previsioni, ben argomentate, sulla durata e sull’immane strage che essa avrebbe provocato45.
Malgrado la grande diffusione di quelle opere, le loro giuste conclusioni, che scaturivano dalla corretta analisi della realtà effettuale, furono patrimonio solo di una ristretta élite di intellettuali, così come lo furono le teorie di Einstein, di Max Plance o la scoperta del subconscio di
Freud, perché l’opinione pubblica, ben influenzata dai media, e le menti
di tutti coloro che avevano la responsabilità del governo degli Stati,
rese impermeabili dalla cultura e dai preconcetti della morale nazional-imperialista, non furono minimamente scalfite da quelle previsioni,
come non si accorsero che quelle teorie e scoperte avrebbero cambiato
il mondo. Di ciò non le possiamo colpevolizzare, poiché riusciamo a
vedere solo ciò che il nostro pensiero ritiene possibile che sia e finché
ciò non avviene non vediamo quel che è dinanzi ai nostri occhi, tale è la
nostra umana condizione perché tale è la base del nostro processo gnoseologico. Così le politiche nazionali e internazionali continuarono a
essere ispirate alla logica nazionalista e di conseguenza si accentuarono
le rivalità imperialiste e le ripicche. Dopo l’uscita dalla scena politica
di Bismark, nel 1890, ci fu anzi un salto di “qualità”, per la politica
dell’impulsivo e irrequieto imperatore Guglielmo. Il “Cancelliere di
44
45
22
B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., pp. 411-412.
M. Silvestri, op. cit., p. 215.
ferro”, come ben noto, non fu mai favorevole all’espansione coloniale
tedesca, anche se cedette per l’occupazione del Togo, del Camerum e
dell’Africa del Sud-Ovest. Egli era ancora meno disponibile ad ascoltare le sollecitazioni dei teorici e professori nazionalisti e imperialisti,
che invece trovarono un entusiasta fautore in Guglielmo II. Nel breve
volgere di due decenni la Germania da nazione a economia agricola era
diventata una delle maggiori potenze industriali con un grande aumento
della popolazione (salita nel 1892 a cinquanta milioni, arriverà a 68 milioni nel 1914) e l’idea che quella nazione, divenuta così potente in così
breve volgere di tempo, dovesse conquistare e dominare, in rapporto
al suo ruolo di potenza mondiale, sopravanzò qualsiasi altra. Il Kaiser
nel 1895 reclamò il famoso, mitico posto al sole: dietro questa espressione c’era il progetto di creare un Impero nell’Europa centrale e uno
coloniale nell’Africa centrale. Il concerto europeo dell’età di Bismark,
divenuto ormai anacronistico, fu sostituito dal sistema dei blocchi di alleanza o di intesa, da una parte la vecchia Triplice, scricchiolante per la
posizione dell’Italia, dall’altra l’Intesa franco-russa alla quale si aggregò la Gran Bretagna. Fieramente contrapposte riuscirono a mantenere
la pace fino al ’14 ma solo con l’equilibrio del terrore, nel senso che
ognuno temeva la potenza militare dell’altro e nessuno si arrischiava a
provocare una guerra, poiché, per il sistema delle reciproche garanzie e
soccorso, fare la guerra con uno stato dell’Intesa o della Triplice significava farla anche con tutti gli altri. La Gran Bretagna, uscendo dal tradizionale isolamento, secondo alcuni, creò un fatto nuovo con la garanzia
data a Francia e Russia e fu tra le principali cause del conflitto. Ma se i
tedeschi si illusero, fino al 4 agosto 1914, che gli inglesi sarebbe rimasti
neutrali, è evidente che la loro diplomazia non era così decisa a soccorrere Francia e Russia in caso di guerra, o almeno lo dettero a intendere;
le speranze tedesche non erano del tutto prive di fondamento, infatti non
si deve credere che all’interno dei due blocchi regnassero la concordia e
l’armonia, anzi tutt’altro, i giri di valzer non furono solo di Giolitti.
Gli anni a cavaliere tra i secoli XIX e XX videro ancora ormai inutili
contese e guerre coloniali: le tardive pretese tedesche e italiane, l’incidente di Fashoda, la guerra anglo-boera, il conflitto russo-giapponese,
la prima e la seconda crisi marocchina, la ripresa coloniale italiana in
Libia, le guerre balcaniche e il precario equilibrio che lasciarono nella penisola e nell’Est, dove sobbollivano le aspirazioni nazionali dei
popoli sottoposti alla duplice monarchia, la mai digerita dagli slavi, in
23
particolare dai serbi e dai russi, annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina. Quasi tutti gli eventi elencati provocarono delle crisi preoccupanti che non sfociarono nella guerra poiché, da parte di chi ne aveva la
responsabilità, furono date ancora risposte razionali, ma ognuna di esse
lasciò delle ruggini che si accumularono nel tempo. La Germania dovette assorbire la brutta débâcle delle sue pretese e della sua diplomazia
subita alla conferenza di Algeciras, convocata nel 1906 per risolvere
la prima crisi marocchina, dove rimase completamente isolata perché
i suoi alleati o si schierarono apertamente con l’Intesa come l’Italia, o
la sostennero solo formalmente come l’Austria. I tedeschi riuscirono,
per volere di Francia e Gran Bretagna, bontà loro, appena a salvare
la faccia; scottati, decisero che non avrebbero più partecipato ad altre
conferenze del genere. Se Algeciras acuì, non v’è dubbio, il complesso
di inferiorità tedesco, e avrà il suo peso, la posizione che prese il primo
ministro, principe von Bulow, nei confronti della Russia nel 1909, ebbe
ben altre conseguenze. L’Austria, nel 1908, dopo aver trattato con la
Russia (ma poi non mantenne le promesse; è appena il caso di ricordare
che i russi si erano eretti a protettori degli slavi) decise unilateralmente
di annettere la Bosnia e l’Erzegovina, già da lei amministrate, ma ancora
sotto la sovranità turca. Guglielmo II, in linea con gli interessi tedeschi,
ebbe una reazione dura perché temeva che si interrompessero i buoni
rapporti con la Turchia. Bulow fece una politica niente affatto coerente
con la linea del Kaiser, ben sapendo che la Russia, dopo la sconfitta con
il Giappone e la rivoluzione interna, era in difficoltà e non avrebbe potuto affrontare un conflitto, e siccome si rifiutava di riconoscere il fatto
compiuto dagli austriaci, obbligò il governo dello Zar a riconoscerlo
minacciando di dare il consenso all’Austria di marciare contro la Serbia
che protestava, scoprendo così tutte le debolezze russe del momento.
La spiegazione all’inutile prepotenza la si può trovare solo nella volontà di conseguire un facile successo diplomatico a conferma della
potenza germanica che poteva lenire il complesso dei tedeschi di non
essere considerati come la loro folgorante potenza industriale avrebbe
meritato, tuttavia non evitò che la Francia e la Russia si premunissero
per il futuro: La vittoria – scrive Winston Churchill – fu guadagnata ad
un costo pericoloso: la Francia, dopo il trattamento subito nel 1905,
aveva dato inizio ad un’accurata riorganizzazione militare. Ed ora la
Russia, nel 1910, impresse un enorme aumento al suo grande esercito;
sia la Russia che la Francia, scaltrite da analoghe esperienze, serra24
rono le file, cementarono l’alleanza e intrapresero la costruzione, con
lavoro russo e denaro francese, di una nuova ferrovia a fini strategici,
di cui la frontiera occidentale russa aveva urgente bisogno46.
Tra molti altri esempi che avrei potuto addurre, ho scelto i due eventi
sopra accennati perché, a mio parere, significativi di quanto il clima
ideologico-culturale fosse in antinomia soprattutto con gli interessi economici europei. Alcuni tentativi, che poi si riveleranno inutili, di prendere delle posizioni in linea con gli interessi economici e con il nuovo
éthos in fieri ci furono. Dopo la pubblicazione di Blioch, lo Zar Nicola II promosse la convocazione di una conferenza sulla pace all’Aia
(1899). Le potenze, a parte la Russia, tutte sospettose che sotto ci fosse
chi sa quale manovra, parteciparono di mala voglia e lo fecero solo perché spinte dai pacifisti e dalle organizzazioni umanitarie47. Non si andò
oltre questo generico auspicio: per il beneficio morale e materiale delle
nazioni era altamente desiderabile una limitazione degli armamenti e
dell’invenzione e introduzione di nuove armi”48. La seconda conferenza convocata sempre all’Aia nel 1907 non produsse effetti migliori, si
riuscì soltanto a stabilire che, caso mai fosse scoppiata, si sarebbe combattuta una buona guerra, ma sappiamo tutti come finirono quei buoni
propositi.
All’inizio del secolo XX i tedeschi consci del limite geopolitico della base tedesca tentarono di creare una Unione economica centroeuropea tramite la formazione di associazioni di categoria. Inizialmente il
progetto riguardò solo la Germania e l’Austria-Ungheria, in seguito fu
allargato ad associazioni affini delle altre nazioni e fu anche attuato. Il
vero obiettivo tedesco, come dichiarò il direttore della “Disconto – Gesellschaft”, era quello di creare una “più larga base in Europa […] indispensabile”, se si volevano “gettare le fondamenta etnico-economiche
della politica mondiale tedesca”49. Ciò era in palese contraddizione
con il proclama istitutivo delle associazioni del 1904 che negava si volessero perseguire finalità politiche50.
Per la verità il discorso non era del tutto nuovo, una necessità del
46 W. Churchill, The world crisis, 1923-1932, p. 29, citato in M. Silvestri, op. cit.,
p. 161.
47 Per le associazioni umanitarie e pacifiste si veda J. Keegan, op. cit., pp. 20-27.
48 M. Silvestri, op. cit., p. 217.
49 F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914, Dusseldorf
1961, IV ed. it. a cura E. Collotti, Torino 1965, p. 12.
50 Ibidem.
25
genere fu avvertita in Austria dal principe Schwarzenberg, succeduto a
Metternich, e dal suo ministro del commercio barone von Bruck. Quando la Prussia, nel 1850, sbarrò loro la porta, impedendo all’Austria di
entrare nell’unione doganale, si prefissero di trasformare quella unione
in un’unione doganale centroeuropea, naturalmente dominata dall’Austria e a orientamento protezionista51. Il difetto non era nei progetti ma
nelle loro finalità, una volta avrebbe dovuto dominare l’Austria, una
seconda la Germania e in realtà non se ne fece alcunché. Già era rimasto
“nel mondo delle idee” il tentativo che aveva fatto Bismarck nel 1879 di
formare una federazione mitteleuropea. Non poteva avere miglior fortuna il progetto del Kaiser Guglielmo II e di Walther Rathenau, mirante
all’unificazione economica del continente per difendersi dalle rappresaglie protezionistiche degli americani “Stati uniti d’Europa contro
America”52. Il progetto fu poi esteso da Rathenau, ma non era certo
quello di un europeista, improntato come era alla realizzazione degli
interessi politici di quella Germania ma, come già era accaduto a Bismarck, si avvertì l’esigenza di sottoporre quelle idee all’approvazione
preventiva dell’Inghilterra. Rathenau divenne europeista dopo la guerra
e per questo fu assassinato da un estremista di destra perché, per quelle
sue opinioni, fu ritenuto traditore53. Sia Bismarck che Guglielmo II avvertirono dunque l’esigenza di sottoporre all’approvazione preventiva
della Gran Bretagna i loro progetti, non possiamo sapere se gli inglesi
l’avrebbero concessa poiché, in realtà, non si arrivò mai a richiederla.
Tuttavia si può essere ragionevolmente pessimisti sulla loro posizione,
a giudicare dal comportamento che ebbero nel 1911.
Pensiero decisamente e sinceramente europeista lo espresse il francese Joseph Caillaux, divenuto presidente del consiglio proprio nel
1911; quel pensiero non fu solo una dichiarazione di intenti, ma ispirò
la sua azione di governo e fu la sua rovina. Egli, proprio quando la seconda crisi marocchina toccava l’acme e mentre gli animi erano ancora
accesi, con il suo discorso programmatico sorprese l’intero parlamento dichiarando che intendeva comporre definitivamente tutti i contrasti
con la Germania, come era avvenuto con la Gran Bretagna dopo l’incidente di Fashoda. Per raggiungere il suo scopo cercò di aggirare tutte
le difficoltà che frapponeva la diplomazia ufficiale, scavalcando perfino
51
Storia Economica Cambridge, cit., vol. 8, p. 188.
F. Fischer, op. cit., p. 28.
53 M. Silvestri, op. cit., 231.
52
26
il suo ministro degli esteri, segretamente fece sapere ai tedeschi di essere disposto a trattare sotto banco […] questioni più importanti ed
ampie del Marocco e del Camerun54. Il problema dei suoi interlocutori
tedeschi, nella circostanza, fu quello di trovarsi in una tale condizione
psicologica che proprio non consentiva loro di capirlo; equivocarono in
maniera tanto grossolana da pensare di aver trovato poco meno che una
spia al massimo livello: l’ambasciatore tedesco a Parigi informò, baldanzoso, il suo governo utilizzando un codice conosciuto dai francesi,
il messaggio fu intercettato e recapitato al ministro degli esteri facendo
fare al primo ministro la bella figura del quasi traditore. Per conto loro
gli inglesi non rimasero alla finestra e aggiunsero un bel carico a una
situazione che già di per sé si era fatta delicata. Il 21 luglio 1911, il cancelliere dello scacchiere Lloyd George, d’accordo con il primo ministro
Asquith, in un suo discorso, fece chiaramente intendere che, se la Francia e la Germania fossero arrivate allo show-down, l’Inghilterra avrebbe preso posizione a fianco della Francia senza attendere la chiamata.
L’improvvida, non richiesta uscita di Lloyd George ebbe l’effetto di
preoccupare e irritare l’opinione pubblica e la stampa tedesca e imbaldanzì oltre misura i nazionalisti francesi, già esaltati per proprio conto,
tanto che farei torto a Jean Jaurès, altro sincero europeista francese e
figura carismatica socialista, se non ricordassi che fu assassinato proprio da un estremista nazionalista nelle ore in cui la Francia entrava in
guerra. Completarono l’opera sia il successivo accordo franco-tedesco
(mano libera ai francesi in Marocco e la cessione alla Germania di una
fetta del Camerun) che in Francia lasciò tutti scontenti, sia l’intenzione
di Caillaux di introdurre la tassazione diretta progressiva che non solo
gli alienò le simpatie del ceto abbiente, ma anche quella della sua base
costringendolo a rassegnare le dimissioni.
Così abortì l’unico tentativo per risolvere le vertenze europee, avviando un processo di unità continentale. […] Il suo posto fu preso
dal lorenese Raymond Poincaré, meglio conosciuto come “Poincaré la
Guerre” 55. Fu anche vanificata tutta l’opera diplomatica di distensione
dei rapporti tra le potenze, iniziata dopo la conferenza di Algeciras, e
la conseguenza fu la ripresa accentuata dei contrasti nei rapporti diplomatici. Le ragioni del contendere si spostarono dal campo coloniale ai
54
55
Ivi, p. 232.
Tutta la vicenda del governo Caillaux è tratta da M. Silvestri, op. cit., pp. 232-
234.
27
Balcani e al vicino oriente. Nell’autunno del 1913 la Germania perse
largamente la posizione costruita in decenni di lavoro in Romania, in
Grecia, in Serbia e in Turchia a vantaggio della Francia, che seppe garantire alla sua iniziativa politica un massiccio appoggio di capitali56,
che la Germania non poteva garantire. Di conseguenza si accentuò il
suo isolamento e si aggravò il complesso tedesco dell’“accerchiamento”, solo la Bulgaria rimase nell’orbita degli Imperi centrali, i cui rapporti non erano più tanto idilliaci a seguito delle divergenze di opinione
sorte dopo la pace di Bucarest (agosto 1913) che concludeva la seconda
guerra balcanica. Poiché i tedeschi consideravano l’Austria l’unico alleato affidabile che avevano, e quindi assolutamente da non perdere,
furono costretti a sostenerne le pretese. Nell’ottobre successivo, il tentativo serbo di trovare uno sbocco al mare attraverso l’Albania, inasprì
i rapporti austro-serbi a tal punto da far temere un conflitto europeo;
il ministro degli esteri tedesco, Arthur Zimmerman, per legare gli austriaci alla politica del Reich, appoggiò il loro interesse di mantenere
l’esistenza di un’Albania vitale mettendo sul piatto della bilancia, come
nel 1908-09, la potenza militare germanica57. Un bel preludio per la
garanzia che il Kaiser avrebbe dato agli austriaci per il loro ultimatum
alla Serbia dopo Sarajevo.
Tutto ciò in antitesi con quanto accadde nella primavera del ’14,
quando i finanzieri francesi, inglesi e tedeschi, alla fine riuscirono a trovare un accordo per il completamento della ferrovia Berlino-Baghdad,
per i porti del Golfo Persico e per gli impianti di irrigazione. Nel giugno
una società a capitale misto anglo-tedesco si assicurò l’esclusiva per lo
sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Mesopotamia.
Norman Angell, dopo aver dimostrato che dalla guerra nessuno
avrebbe tratto guadagni, ma tutti ci avrebbero rimesso, come già riportato nella sintesi che aveva fatto Croce, e aver chiarito che l’economia
era divenuta interdipendente, tramite il grande sviluppo dei mezzi di
trasporto e di comunicazione, da cui si sviluppò la divisione internazionale del lavoro e quindi della produzione di merci agricole e industriali58, si chiese: Le idee degli uomini sono immutabili?59. Attraverso una
rapida storicizzazione del problema e soffermandosi soprattutto sulle
56
F. Fischer, op. cit., p. 42.
Ivi, pp. 43-44.
58 N. Angell, op. cit., p. 54.
59 Ivi, pp. 245-258.
57
28
rinascimentali guerre di religione a seguito della riforma protestante,
arrivò facilmente a concludere che le idee degli uomini immutabili proprio non sono. Calcolati i tempi attraverso i quali l’uomo passò dall’intolleranza religiosa alla tolleranza, che consentì di non uccidere più il
suo vicino per divergenze di credo, o per le diverse interpretazioni delle
sacre scritture o di culto, ottimisticamente stimò che gli uomini del suo
tempo avrebbero potuto cambiare costume nel breve volgere di qualche
lustro per la diffusione, in atto, dei mezzi di comunicazione di massa,
stampa e cinematografo. Purtroppo non era così, infatti non si trattava
solo di una questione economica, ma anche di un forte desiderio di
supremazia nazionale, così radicato perché così antico che, se ne volessimo rintracciare l’origine, dovremmo riavvolgere il filo della Storia
fino all’età della formazione delle monarchie nazionali. I fatti dimostrarono che non poteva essere sufficiente qualche lustro, ma più di qualche
decennio e i disastri provocati da due conflitti mondiali, prima che gli
europei, in linea con l’economia mondiale, si convincessero della necessità della cooperazione, pur nell’ambito della libera concorrenza.
Doveva passare ancora molta acqua sotto molti ponti perché quelle
idee trovassero applicazione pratica nell’Unione Europea, per la quale,
a oggi, molto è stato fatto, ma molto c’è ancora da fare per la completa
integrazione; esempio: per i problemi di politica estera l’Europa ancora
non parla una sola lingua. Chiusa la breve parentesi e tornando all’argomento, proprio la stampa quotidiana, sulla quale maggiormente puntava
Angell, per la rapida affermazione del nuovo ethos, diffondeva più le
vecchie convinzioni che non le nuove attraverso le cronache politiche.
Per l’uomo medio di quell’età, scrive John Maynard Keynes: I progetti
e la politica del militarismo e dell’imperialismo, delle rivalità razziali e
culturali, di monopoli, restrizioni ed esclusioni, destinati a fare la parte
del serpente in questo paradiso, erano poco più che i passatempi del
suo giornale quotidiano, e sembravano essere quasi del tutto ininfluenti
sul corso ordinario della vita sociale ed economica, la cui internazionalizzazione era in pratica pressoché completa60. Sembravano, appunto, ma lo erano? Che i giornali riportassero le cronache dei progetti e
della politica del militarismo e dell’imperialismo, ecc. è perfettamente
normale, resta da vedere la posizione critica che prendevano nei confronti di quegli eventi. A giudicare da quanto accadde, è facile dedurre
60
J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, 1919, ed. it. Milano 2007,
trad. it. F. Salvatorelli, p. 25.
29
che contribuì ad alimentare nell’opinione pubblica il sentimento imperialista. Il problema sta nel fatto che tutti avevano ricevuto la stessa
educazione, erano stati formati alle finalità nazional-imperialiste, tutti
erano ormai convinti dell’equazione più potere economico più potere
politico, fino al punto che non fu più tanto una questione economica, se
mai lo fu interamente, quanto il desiderio di egemonia e dominio. Pazzi
di gioia è il titolo che Martin Gilbert61 dà a un capitolo della sua opera,
riferendosi alle manifestazioni di giubilo: Il 1° agosto nell’Odeonsplatz
di Monaco una folla strabocchevole accolse con grida di giubilo la
notizia che la Germania era entrata in guerra62. Il 29 luglio a Berlino, di fronte al palazzo del principe ereditario, dalla folla scrosciarono
applausi frenetici. L’aria vibrava di un’eccitazione incredibile63. L’ambasciatore inglese a Vienna riferiva al suo governo che il rinvio o la prevenzione della guerra contro la Serbia avrebbe sicuramente costituito
una grande delusione per [quel] paese, che è letteralmente impazzito di
gioia alla prospettiva del conflitto […]. In Francia la mobilitazione fu
accolta con grande entusiasmo64. Anche a Parigi il 1° agosto ci furono
manifestazioni di giubilo, il pittore francese Paul Maze sentì risuonare
ovunque il grido: “a Berlino”, si fermò a Place de la Concorde a osservare un reggimento di cavalleria che sfilava con “grande eleganza”
sulla piazza […] e “lo scalpiccio dei cavalli mescolato al clamore della
folla che lanciava fiori”. […] “Quando passò l’artiglieria, i cannoni erano ornati di fiori e le donne si arrampicavano sugli avantreni
per baciare i ragazzi”65. Se solo avessero potuto immaginare a quale
guerra andavano incontro sarebbero stati tutti meno pazzi di gioia e i
responsabili più accorti nel valutare le conseguenze. Nella presunzione
che la guerra sarebbe stato un affare se non di settimane, certamente di
qualche mese, non avevano nessuna cognizione di quanto la situazione
era cambiata rispetto ai conflitti ottocenteschi e sul fatto che la nuova
guerra sarebbe stata una guerra di logoramento, che avrebbe coinvolto
le popolazioni e avrebbero vinto coloro che avevano da mangiare. I
militari, che avrebbero potuto, certo non aiutarono a capire, non vollero
neppure prendere in considerazione l’ipotesi di una guerra lunga, vol61
M. Gilbert, op. cit., pp. 31-52.
Ivi, p. 46.
63 Ivi, p. 42.
64 Ivi, pp. 40-45.
65 Ivi, p. 46.
62
30
lero convincersi della brevità del conflitto e più in alto si saliva nella
gerarchia più la brevità diveniva un atto di fede, eppure Blioch li aveva avvertiti, di conseguenza tutti gli Stati maggiori prepararono piani
convincenti in quella direzione66, vollero ingannarsi e ingannarono gli
altri. Così facendo portarono il loro bel contributo a rendere probabile
la guerra.
Tutti i governi europei coinvolti erano preoccupati e titubanti solo
per la reazione che avrebbe potuto avere l’opinione pubblica di fronte al conflitto, si ingannavano anche lì, ebbero la gradita sorpresa di
trovarla non solo concorde ma addirittura entusiasta67. Ciò dimostrò
anche l’inefficienza della didattica pacifista e socialista che non seppe
conseguire le finalità pedagogiche; a eccezione dell’Italia, i socialisti
aderirono, con diverse motivazioni, alla guerra delle loro nazioni, completamente dimenticando l’internazionalismo proletario68.
Significativo, a questo riguardo, il comportamento dei vincitori alla
conferenza di pace di Versailles. Al consiglio dei quattro nessuno pensò
al bene generale, ma ognuno al proprio particulare: Clemenceau intese
la mitica revanche come la definitiva rovina della Germania schiacciandone la vita economica. Lloyd George di giungere a un accordo e di
riportare in patria qualcosa che riscuotesse plauso per una settimana
– naturalmente a fini elettorali –, il presidente Wilson di non far niente
che non fosse giusto e retto. È straordinario come il fondamentale problema economico di un’Europa che languiva di fame e si sgretolava davanti ai loro occhi sia la sola questione su cui fu impossibile suscitare
l’interesse dei Quattro69.
Se gli uomini politici non capirono nel 1919, dopo il disastro umano
ed economico della guerra, che il bene delle loro nazioni lo avrebbero
potuto ottenere solo dal bene generale europeo, come avrebbero potuto
intenderlo nel 1914? Nel clima delle tensioni, delle gelosie, delle picche e ripicche imperiali, come un rovinosissimo terremoto si abbatté
66 Dei piani militari si trova un quadro completo in B.H. Liddell Hart, La Prima
Guerra Mondiale 1914-1918, Milano 1968, IV ed. Milano 2006, trad. it. V. Ghinelli,
pp. 59-80.
67 Oltre al più volte citato M. Gilbert, si veda: E.J. Hobsbawm, L’età degli imperi
1875-1914, cit., pp. 371-372. Ampio spazio dedica all’argomento J. Joll in op. cit., pp.
241-282.
68 Per la posizione dei socialisti oltre a J. Joll, op. cit., pp. 250 -259, si veda il citato
E.J. Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914, cit.
69 J.M. Keynes, op. cit., p. 181.
31
sull’Europa il disgraziato fatto di Sarajevo e se vogliamo capire perché
ebbe tanto peso se ne devono ricercare le ragioni non nell’economia,
ma nel pensiero, ricordando, nella logica della concezione materialistica della Storia, che l’eccezione non fa la regola.
Non sarà stato solo un caso se soltanto dopo la disastrosa guerra, a
partire dagli anni Venti dello scorso secolo, si cominciò ad avere coscienza della necessità di dare una finalità in linea con la realtà effettuale e cioè della necessità non solo di informare i giovani ma di formarli
a sviluppare, certo attraverso le indispensabili conoscenze, quelle categorie dell’intelletto che sole consentono di seguire lo sviluppo della
scienza e della tecnica e i conseguenti, incessanti cambiamenti che si
realizzano in maniera sempre più veloce. Al riguardo il filosofo pedagogista Francesco Cafaro ha scritto: Sotto l’incalzare dello sviluppo
della civiltà industriale, e per superare le tensioni sociali e politiche
che erano sfociate nella crisi della 1ª guerra mondiale, da molte parti
[in Francia, in Germania, in Austria, nell’URSS, ecc.] si auspicava una
riforma delle strutture sociali, educative e scolastiche dei rispettivi sistemi nazionali, ispirata ad una riforma generale dell’educazione, cioè
ad una visione rinnovata dei fini e dei mezzi dell’educazione, premessa
di ogni generale rinnovamento sociale70. Però il secondo conflitto mondiale ci dice che quell’auspicato rinnovamento dell’educazione rimase
un desiderio di uomini illuminati.
Quanto durerà la guerra?
Solo dopo che trascorsero alcuni mesi tutti, a tutti i livelli cominciarono a chiedersi: Quanto durerà la guerra? Ma in pochissimi riuscirono a darsi una risposta che si avvicinasse al vero e quei pochissimi non
furono creduti.
L’evento decisivo, sorprendente e inatteso, che allungò smisuratamente i tempi della conflagrazione, fu la battaglia della Marna del
settembre 1914 e se ancora oggi si discute se a vincerla fu il Foch o
Joffre o Galliéni o altri generali71, è certo che fu lo scoglio contro il
quale cozzarono e furono affondate tutte le illusioni della guerra lam70 F. Cafaro, Pedagogia idealista e pedagogia organicistica: Giovanni Gentile ed A.
North Whitehead, Estratto da Enciclopedia [Italiana] ’76-77, p. 142.
71 Liddell Hart B.H., op. cit., p. 120.
32
po create dai piani militari a cominciare dal più famoso, lo Schlieffen
Plan. Ma se Atene piangeva, Sparta non poteva ridere poiché la vittoria
franco-inglese consistette semplicemente nell’aver impedito una rapida
vittoria tedesca e nel conseguente passaggio dalla guerra lampo a una
lunga e logorante guerra di posizione, certo con il vantaggio da parte
dell’Intesa dell’accerchiamento economico degli Imperi centrali, vista
la loro superiorità navale che sarebbe stata poi una componente importante per l’esito finale. Ma tra il definitivo tramonto della speranza
che tutto si concludesse in tempi rapidi e avere la visione della realtà
e cioè di un conflitto della durata di quattro anni e tre mesi, passano
diversi gradi, tanto è vero che si passò, dopo gli eventi della Marna,
a previsioni di sei mesi o al massimo di un anno. È infatti ormai assai
noto che la conoscenza degli uomini è possibile solo tramite l’esperienza, ma in un mondo che, per la prima volta nella Storia, cambiava con
una grande velocità allora sconosciuta, solo gli intellettuali più illuminati se ne potevano rendere conto. Accadde che gli uomini dell’epoca
non ebbero il tempo di adeguarsi e avvenne che si rappresentarono una
realtà diversa da quella effettuale proprio perché di quest’ultima non
avevano esperienza. Tutti gli uomini ai vertici delle nazioni più potenti
d’Europa, non avendo neppure la percezione del cambiamento avvenuto, credevano ancora di essere i padroni della Terra e ognuno pensava
egoisticamente di accaparrarsi ancora le parti migliori del mondo per
divenire la nazione più potente. Fu questa la causa dei tanti errori e di
quel comportamento degli uomini che avevano la responsabilità politica e militare e a noi oggi appare come la più elementare imprevidenza,
ma in realtà non avevano ancora sviluppate quelle categorie dell’intelletto che consentono di adeguarsi ai continui, incessanti cambiamenti,
conseguenza dello sviluppo scientifico e delle sue applicazioni tecniche. Ovviamente non parlo solo della conoscenza dell’oggetto, ma soprattutto della conoscenza dell’uso che se ne può fare. A tale riguardo
è particolarmente significativo l’utilizzo fatto per la prima volta delle
automobili, proprio durante quella battaglia della Marna. Avvenne che
arrivò a Parigi una divisione fresca che il comando militare francese
aveva l’assoluta necessità di trasferire nel più breve tempo possibile
da Parigi al fronte distante sessanta chilometri, se si fossero messi in
marcia sarebbero arrivati sicuramente troppo tardi, i vagoni ferroviari
disponibili potevano trasportare soltanto metà della divisione e allora la
polizia bloccò i taxi nelle strade, ne radunò seicento che riuscirono con
33
due viaggi a trasportare tutti i seimila uomini in tempo utile. Galliéni
commentò: Be’, almeno non è una soluzione banale, ma quel che qui
più importa è il fatto che i taxi parigini furono i precursori delle future
colonne motorizzate, dando un contributo importante alla causa francese durante la battaglia proprio per la sorpresa che gli avversari ebbero
nel trovarsi di fronte quella fresca divisione. Non a torto si è creato un
mito intorno a quell’evento72.
Per i motivi sopra esposti si può concludere che l’Europa non decise
improvvisamente di morire – come molti hanno sostenuto e sostengono
tuttavia –73, fu un inconscio suicidio.
Sarajevo
Non v’è dubbio che il detonatore che fece esplodere le tensioni, vecchie e nuove, accumulate in Europa durante gli ultimi quarant’anni,
sia stato l’attentato di Sarajevo. L’uccisione di Francesco Ferdinando e
della moglie Maria Sofia fu diretta conseguenza dell’ambigua politica
nazional-irredentista del governo di Belgrado: […] La diplomazia del
1906-1907 dimostrò che i rapporti poco chiari e informali fra il governo serbo e le reti che avevano il compito di promuovere una politica
irredentista potessero essere sfruttati per alleggerire la responsabilità
politica di Belgrado e massimizzare lo spazio di manovra del governo.
L’élite politica belgradese si abituò ad un atteggiamento ambivalente
basato sull’altalenante finzione che la politica estera della Serbia ufficiale e l’opera di liberazione nazionale al di fuori delle frontiere dello
Stato fossero fenomeni separati74.
Il 28 giugno 1914, in coincidenza delle manovre militari che si svolgevano intorno alla città (parteciparono settantamila soldati) l’arciduca
Francesco Ferdinando assolveva la visita a Sarajevo, da tempo programmata e annunciata. Ma nel precedente mese di gennaio la temuta setta
ultranazionalista La mano nera, temuta perfino dal governo di Belgrado, alla quale un gruppo di giovani bosniaci si era rivolto per compiere
azioni clamorose contro l’Austria, organizzò una riunione presso l’hotel
72
Ivi, p. 133.
Si veda L. Villari, L’insonnia del Novecento, cit., p. 60.
74 C. Clark, I sonnambuli, titolo originale The Sleepwalkers. How Europe Went to
War in 1914, London 2012, ed. it. Bari 2013, trad. it. David Scaffei, p. 32.
73
34
St-Jerome di Tolosa; successivamente i congiurati rientrarono in Serbia
per essere preparati, in attesa di poter cogliere l’occasione propizia.
Quella fatale mattina, verso le ore dieci, mentre le quattro automobili del corteo dell’erede al trono imperiale si dirigevano verso il municipio, al ponte Cumuria sette terroristi75 (tra i quali Trifko Graber,
Nedeljko Cabrinovic e Gavrilo Princip, precedentemente scelti e molto
bene addestrati per l’operazione) divisi in due cellule, piazzati in più
punti, aspettavano l’arciduca per compiere la loro opera. Uno riuscì a
far esplodere una bomba che mancò il bersaglio, rimbalzò sullo sportello dell’auto dell’erede, provocando solo una scalfitura alla consorte,
esplodendo contro l’auto che seguiva e di conseguenza ferendo due ufficiali del seguito. L’autore, Gabrinovic, fu subito arrestato. Francesco
Ferdinando poté e volle comunque raggiungere la sede comunale, dove
era atteso per il suo distensivo discorso verso gli slavi. Dopo gli interventi di rito, l’arciduca decise di modificare il programma, annullò
la visita al museo della città per recarsi all’ospedale e portare il suo
conforto agli ufficiali feriti. Con questo improvviso cambiamento di
programma la coppia imperiale stava per salvarsi la vita, poiché lungo
la strada che conduceva al museo vi era in agguato Gravilo Princip e
presso il ponte successivo c’era un altro attentatore armato di pistola.
La strada per l’ospedale era invece libera da insidie. Invece un errore
dell’autista portò la coppia imperiale davanti alla canna della pistola di
Gravilo Princip.
Però non si capisce bene quanto sbagliò l’autista e quanto fu indotto
a sbagliare dalla pessima organizzazione del trasferimento dalla casa
comunale all’ospedale. È comunque certo che l’autista prese la strada
sbagliata, cioè quella che conduceva al museo; avvisato in corsa si trovò nella condizione di dover invertire la marcia e per farlo fu costretto
a rallentare proprio nel punto in cui li attendeva Gravilo Princip che si
trovò così l’obiettivo a pochi passi: esplose due precisi colpi di pistola
che lasciarono pochi minuti di vita all’arciduca e alla moglie che fu la
prima a spirare. Secondo Silvestri, nonostante ci fossero sette assassini schierati lungo il percorso, il colpo riuscì per pura fatalità76. Ma
veramente fu proprio opera solo del caso? Intanto lo stesso Silvestri ci
racconta che il primo ministro serbo Nikola Pasic, che ben sapeva della
congiura, preoccupato per le eventuali, prevedibili conseguenze, il 18
75
76
Ivi, p. 402.
M. Silvestri, op. cit., vol. I, p. 250.
35
giugno cercò di avvertire cautamente i responsabili del governo austriaco. Dette il delicato incarico all’ambasciatore serbo a Vienna che svolse
la sua opera diplomatica. Accennò vagamente del pericolo al ministro
delle finanze e governatore della Bosnia, Leon Bilinski: costui – sostiene Silvestri – verso Francesco Ferdinando nutriva una forte antipatia e
non si prese la briga di averne cura77. Più diplomatico Christopher Clark
nell’esprimere il suo giudizio sul comportamento di Bilinski: Non era
mai stato particolarmente vicino a Francesco Ferdinando, ma trovò
difficile liberarsi dalla sensazione di non aver assolto il suo dovere di
proteggere le vittime dell’assassinio78. Nelle numerose riunioni successive con l’imperatore e il ministro degli esteri Leopold Berchtold, che
con Francesco Ferdinando aveva avuto un ottimo rapporto personale e
familiare79, Bilinski pensò soprattutto a difendersi dall’accusa di essere
stato negligente80. Un aiuto gli fu dato dall’agenzia Herzog che in un
lungo dispaccio da Zagabria affermava che Francesco Ferdinando era
stato più volte informato del grave rischio a cui andava incontro, ma era
rimasto irremovibile. Soltanto cercò di indurre la Duchessa Hohenberg
a rinunziare all’idea di accompagnarlo […]. Ma la duchessa dichiarò:
Se la vita di mio marito è in pericolo, perché va a compiere il suo dovere, il mio posto è al suo fianco. E pregò l’Arciduca di condurla con
sé sinché cedette81. Inoltre si dava notizia del comunicato di protesta
della polizia di Sarajevo contro l’esercito per essere stata impedita dallo
stesso di adempiere al suo servizio per la sicurezza82.
Rispetto alla posizione di Silvestri, un altro autore, Basil H. Liddell
Hart, non è proprio disposto a concedere al fato. Dopo aver raccontato
che voci sulla congiura sembra fossero giunte all’orecchio di alcuni ministri che avevano preso solo inefficienti provvedimenti e del vano tentativo di Pasic, scrive: Quello che è certo è l’incredibile negligenza delle autorità austriache nel predisporre misure preventive per l’arciduca,
nonché la loro cinica indifferenza per la sorte che incombeva su questo
impopolare erede al trono. Potiorek, governatore militare della Bosnia
e futuro comandante dell’offensiva contro la Serbia, non avrebbe potu77
Ivi, p. 255.
C. Clark, op. cit., p. 427.
79 Ivi, p. 429.
80 Ivi, p. 427.
81 In “Corriere della Sera”, 29 giugno 1914, p. 2.
82 Ibidem.
78
36
to fare di più per agevolare il compito degli assassini se fosse stato loro
complice. E ciò induce a sospettare che in realtà egli lo fosse.
Dopo il fallimento di un primo tentativo, compiuto mentre l’arciduca si recava al palazzo del municipio, Potiorek organizzò il ritorno
con tale negligenza che l’automobile dell’arciduca dovette fermarsi;
echeggiarono due spari […]83.
È ormai trascorso un secolo da quegli avvenimenti e, nonostante la
gran quantità di opere pubblicate, ancora oggi non è possibile stabilire
con assoluta certezza se furono conseguenza di un piano preordinato o
se gli eventi che ne seguirono furono solo effetto del sentimento o se
razionalità ed emotività si combinarono insieme. Allo stato delle conoscenze, in mancanza di documentazione, bisognerebbe dedurre che fu
un piano predisposto, mettendo in campo l’esigenza degli inglesi di ridimensionare la grande flotta che i tedeschi stavano realizzando allo scopo
di far perdere il primato navale all’Inghilterra che valeva il quasi monopolio del controllo delle vie di comunicazione marittima tra continenti,
che le consentiva di controllare anche quasi tutti i commerci e magari,
a seguire, anche la perdita della centralità della borsa di Londra, dopo
che gli inglesi avevano dovuto cedere la preminenza della produzione
industriale; tutto ciò combinato con la revanche e tutti gli interessi continentali francesi, ma – come già detto –, in mancanza di documenti che
possano comprovare quanto sopra detto, varrebbe fare un discorso quasi
metafisico che principia e finisce nella mente. Malgrado che la punizione inflitta alla Germania con il trattato di pace, con particolare riguardo
alla flotta84; la correità alla quale Croce chiama i vincitori per le responsabilità del conflitto; le opere pubblicate dai contendenti a discarica delle colpe, che cominciarono a uscire fin dai primi mesi di guerra; quanto
deducono alcuni storici slavi riguardo al rifiuto del governo di Belgrado
di accettare quel punto dell’ultimatum, che prevedeva la partecipazione
degli austriaci alle indagini per accertare le responsabilità, per timore
che emergesse il suo diretto coinvolgimento85 – sebbene quanto detto e
83
B.H. Liddell Hart, op. cit., pp. 41-42.
Il trattato di pace spazzò via la marina mercantile tedesca (in J.M. Keynes, op.
cit., p. 64); il contrammiraglio von Reuter, che prevedeva l’obbligo di consegnare anche
le navi da guerra, dette ordine agli equipaggi di affondarle (in M. Gilbert, op. cit., p.
622).
85 J. Joll, op. cit., p. 19.
84
37
il giudizio di Gioacchino Volpe86 facciano pensare, oltre il sospetto non
si può andare. Se trascorsi novantasei anni ancora si torna sul problema, ciò significa che le cause, prese singolarmente e tutte insieme, non
convincono, appaiono futili per giustificare tutti i grandi sacrifici umani
e materiali che quella guerra comportò. L’Europa perse il primato morale ed economico che le garantiva sviluppo e prosperità, certo si può
eccepire che l’alterna onnipotenza delle umane sorti prima o poi… ma
a quest’appunto è tanto facile rispondere che basterebbe provvedere a
li argini e li ripari se c’è la virtù, anziché volontariamente distruggerli,
che sembra quasi di far concorrenza al signor de La Palisse. Forse non
si riesce a comprendere e giustificare il rapporto cause ed effetti per un
errore di prospettiva; senza considerare gli effetti bisognerebbe capire
bene la realtà ante guerra e comprendere quanta importanza avevano:
l’odio, la denigrazione, la gelosia, l’invidia, il desiderio di egemonia
dei popoli e delle nazioni dell’epoca. E non è tutto, credo si debbano
ben valutare i danni che produsse il mito della guerra breve, combinato
con la mancanza di esperienza di una guerra moderna (fino ad allora i
disastri, come i terremoti, i naufragi come quello del Titanic avevano
prodotto poche migliaia di morti e così nessuno riusciva a convincersi
della possibilità che la guerra avrebbe prodotto la tragedia di milioni di
morti) fecero il resto.
Della incongruità del rapporto tra cause ed effetti si è reso ben conto
Eric J. Hobsbawn e le ha dedicato queste parole: Da allora si sono scritti circa cinquemila volumi per spiegare l’apparentemente inspiegabile:
come mai, nel giro di poco più di cinque settimane da Saraievo, l’Europa si trovò in guerra. La risposta – è questo il punto – sembra oggi
tanto chiara quanto banale: la Germania decise di dare all’Austria
pieno appoggio, cioè di non “disinnescare” la situazione. Il resto seguì
inesorabilmente. Perché nel 1914 qualsiasi confronto fra i blocchi, in
cui l’uno o l’altro dovessero battere in ritirata, li portava sull’orlo della
guerra87.
Hobsbawn ha scritto anche: Nessun ministero degli Esteri prevedeva
guai nel giugno del 1914, e personalità pubbliche erano state assassi86 G. Volpe, Il Popolo Italiano tra la Pace e La Guerra (1914-1915), Milano 1940,
p. 19. Questo il giudizio di Volpe: E d’altra parte nulla si sapeva, allora, di quella
oscura storia di alte connivenze e complicità nell’assassinio, che poi un po’ per volta
venne alla luce o quasi luce.
87 E.J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 369.
38
nate a frequenti intervalli per decenni88. Qui, a mio avviso, quei ministeri degli esteri commisero un errore, che consiste nel non aver considerato che ogni accadimento ha la sua storia e le cause di quell’assassinio le ritroviamo nella acquisita indipendenza della Serbia dall’Impero
turco (1829) e nella prepotente annessione all’Austria-Ungheria della
Bosnia-Erzegovina. Tutto sta a capire quanto ogni evento possa influire
sulle circostanze immediate e quanto sul futuro cammino umano; quel
fatto specifico fu la causa della guerra e la guerra cambiò tutto89. Era
in stretta connessione con la questione balcanica. In quel contesto non
si può sottovalutare che gli austriaci si trovavano nella condizione di
assistere passivamente al lento, inesorabile declino dell’Impero di Francesco Giuseppe o di reagire alle aspirazioni nazionali delle popolazioni
sottoposte del multietnico, linguistico e religioso Impero, ben sapendo
che quelle stesse aspirazioni lo avrebbero disgregato. Proprio gli slavi
del Sud avevano da tempo progettato uno Stato unitario iugoslavo con
la Serbia che era il loro naturale riferimento ed esempio di conquista di
indipendenza e quell’aspirazione sarebbe divenuta realtà con il trattato
di pace90. Gli austriaci erano convinti che qualsiasi concessione fosse
stata fatta avrebbe provocato le rivendicazioni nazionali di polacchi,
cechi e slovacchi, per loro era fondamentale il controllo dei Balcani.
Da questa ottica considerarono l’attentato la provocazione giusta per
regolare definitivamente i conti con la Serbia; esso era l’occasione se
non per spazzarla via, certo per ridurla a un piccolo Stato satellite, per
garantire così il futuro dell’Impero.
Per conto loro gli alti gradi militari tedeschi ritenevano che la guerra, prima o poi, si sarebbe fatta e che quello era per loro il momento
giusto. Le nazioni dell’Intesa andavano rinforzando i loro eserciti, la
Francia aveva portato la ferma a tre anni, era previsto che entro il 1917
la Russia avrebbe avuto un grandissimo numero di soldati e i tedeschi
avrebbero perso il vantaggio che in quel momento avevano.
A saldare le posizioni degli austriaci a quelle dei militari tedeschi,
per un’azione intransigente nei confronti del governo serbo, fu la linea
88
Ibidem.
Al riguardo si veda E.J. Hobsbawm, Il secolo breve 19124/1991, cit., p. 33 e
seguenti.
90 Con i trattati di pace di Saint-Germani e del Triaton, che sistemarono i territori già
asburgici, fu creato il regno di Jugoslavia che comprendeva: la Serbia e il Montenegro,
già indipendenti, la Croazia, la Bosnia Erzegovina, la Slovenia.
89
39
dura di Guglielmo II, che decise di dare pieno, totale appoggio all’Austria, anzi furono proprio i tedeschi a spingere perché fosse presentato
quell’ultimatum. Però la vera intenzione era di contenere la crisi e di
non allargarla al resto d’Europa; l’imperatore si era già messo in una
brutta situazione, le critiche che i militari gli rivolgevano per i passi
indietro fatti in occasione delle precedenti crisi, con particolare riferimento alla seconda crisi marocchina, condivise dai pangermanisti che
si spinsero fino a progettare di sostituirlo, se avesse ancora dato segni
di indecisione e debolezza, lo obbligarono a dimostrarsi tanto deciso,
fino a dichiarare che se la Russia avesse mobilitato, lui le avrebbe dichiarato guerra91. Si compromise troppo e mentre i militari e i politici
erano disposti ad affrontare il rischio di combattere una guerra su due
fronti se non fossero riusciti a delimitare la crisi nella regione, illudendosi che l’Inghilterra sarebbe rimasta neutrale, il Kaiser cercò di evitare
la guerra europea. All’ultimo istante chiese ai suoi generali se fosse
possibile limitare la guerra nell’Europa orientale evitando di attaccare
Russia e Francia, gli risposero che al punto in cui si trovavano era impossibile92.
Ma valeva veramente la pena di correre quel rischio? Molto probabilmente è questa posizione del pensiero che non si riesce a razionalizzare93 e forse anche la Storia deve fare i conti con l’inconscio. Per capire quegli uomini e i loro sentimenti un aiuto ci viene dall’articolo Considerazioni attuali sulla guerra e la morte94 scritto da Freud nel 1915,
ove sostenne: Filosofi e conoscitori d’uomini ci hanno da lungo tempo
ammonito che andiamo errati quando consideriamo la nostra intelligenza una forza autonoma, trascurando la sua dipendenza dalla vita
emotiva. Il nostro intelletto può lavorare efficacemente solo in quanto
venga sottratto all’influenza di forti impulsi emotivi; in caso contrario
si comporta semplicemente come uno strumento al servizio della volontà e produce quel risultato che essa gli impone. Gli argomenti logici
sono privi di efficacia contro gli interessi affettivi e appunto per ciò la
lotta a base di argomenti […] è così sterile nel mondo degli interessi95.
91
F. Fischer, op. cit., p. 58.
E.J. Hobsbawm, L’Età degli imperi, cit., p. 347.
93 Sulla difficoltà di razionalizzare l’evento si veda L. Villari, L’insonnia del
Novecento, cit., in particolare Il sentimento della morte, pp. 60-78.
94 S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, «Imago», vol. 4 (I),
I-21, 1915, ora in S. Freud, Opere, vol. 1, Roma 2006, pp. 141-172.
95 Ivi, pp. 155-156.
92
40
Ma da dove potevano trarre origine gli interessi affettivi di quegli uomini se non da ideologie e propaganda del nazionalismo-imperialismo?
Quanto accadde tra il 28 giugno e la dichiarazione di guerra è stato
ampiamente ricostruito anche nei minimi particolari per tornarci sopra
con un dettagliato racconto, mi limiterò a riassumere quanto accadde in
estrema sintesi: l’Austria, dopo aver respinto, con la Germania, la proposta inglese di convocare una conferenza (Francia, Germania, Gran
Bretagna, Italia) per mediare le posizioni, il 28 luglio gettò il sasso nello
stagno e con il suo attacco alla Serbia causò una reazione a catena: il
30 mobilitò la Russia per soccorrere i serbi (lo si sapeva), la Germania
le inviò un ultimatum che non ebbe soddisfazione, perché smobilitasse
e il 1° agosto le dichiarò guerra. Per i rapporti di alleanza, la Francia
mobilitò lo stesso giorno, ignorando l’intimazione germanica di dichiarare che sarebbe rimasta neutrale, e il 3 ricevette la dichiarazione di
guerra. La Germania coinvolse immediatamente il neutrale Belgio al
quale chiese di lasciar passare sul suo territorio le truppe, minacciando
in caso contrario la guerra e così fu. L’attacco a una nazione neutrale
permise agli inglesi di dichiarare guerra alla Germania il 4 agosto. Era
cominciata la guerra europea che sarebbe divenuta mondiale.
Non sarà inutile però ricordare che la situazione, almeno fino alla
metà di luglio, fu sottovalutata, nessuno pensava che si fosse sull’orlo del baratro, tutti esternavano grande fiducia perché convinti che la
diplomazia avrebbe compiuto ancora il miracolo di evitare il peggio
e nessuno degli addetti ai lavori rinunciò alle programmate vacanze
estive.
41