Amedeo Ciotti 1914-1918 PERCHÉ QUELLA GUERRA L’Italia nel conflitto ARMANDO EDITORE Sommario Capitolo primo: Le premesse Perché quella guerra? Cenni sulla letteratura delle origini Economia ed ethos Lo sviluppo scientifico-tecnico e la non capita accelerazione della Storia Quanto durerà la guerra? Sarajevo Capitolo secondo: L’atipica premessa italiana, da maggio ’14 a maggio ’15, dal discorso nazionalformativo alla guerra Il discorso nazionalformativo e l’atipica premessa italiana La dichiarazione di neutralità Stampa e opinione pubblica Le prime pattuglie dell’interventismo. I garibaldini del 1914 Chi erano e quanti? Sante Repubblicani e social-riformisti: “per la democrazia, e non per l’Italia” I sindacalisti rivoluzionari dell’Unione Sindacale Italiana L’ultima guerra del Risorgimento? I nazionalisti Dimostrazioni pro e contro la guerra, “Le patriottiche giornate del 20 settembre” L’internazionalismo pacifista dei socialisti Il vario neutralismo I cattolici italiani e il primo conflitto mondiale 7 7 11 17 32 34 43 43 54 63 67 76 77 83 90 96 98 104 112 120 125 La vigile neutralità condizionata di Giovanni Giolitti La Germania vuole l’Italia neutrale 150 157 Capitolo terzo: “Il maggio radioso” e la guerra L’incontro Giolitti Salandra del marzo 1915 La più intensa attività dell’interventismo La cronaca: Mussolini a Tivoli? Una parentesi tiburtina Le dimissioni del governo Salandra, “il maggio radioso” e l’assalto a Montecitorio La conclusione della crisi e la dichiarazione di guerra all’Austria 163 163 168 171 Capitolo quarto: L’anno decisivo Il 1917 Dalle manifestazioni e sommosse femminili spontanee in Italia a Vittorio Veneto 197 197 Bibliografia 211 Indice dei nomi 220 Abbreviazioni ACS = Archivio Centrale dello Stato, Roma. ASR = Archivio di Stato di Roma. b. = busta; fasc. = fascicolo; s. fasc. = sotto fascicolo; ins. = inserto. M I = Ministero dell’Interno. A5G I G.M. = A5G Prima Guerra Mondiale. DGPS = Direzione Generale della Pubblica Sicurezza. DAGR = Direzione Affari Generali e Riservati. AC = Affari di Culto. 175 188 200 Capitolo primo Le premesse Perché quella guerra? Cenni sulla letteratura delle origini Non solo è oggettivamente molto difficile dare una risposta convincente al quesito, ma farlo sinteticamente, come qui sarebbe necessario, è veramente quasi impossibile. E non mi riferisco all’aspetto diplomatico del problema. Ormai Federico Curato, nel suo saggio: La letteratura sulle origini della prima guerra mondiale, dopo aver sgombrato il campo dalla confusione tra origini e responsabilità del conflitto, concludendo ha scritto: Ma se tanto chiaro risulta il problema dall’osservatorio diplomatico, bisogna pur dire che gli aspetti sociali, economici, finanziari delle cause della guerra sono rimasti molto poco illuminati dagli studi finora fatti1. Una prima edizione dello studio di Curato comparve nel 19522 e James Joll nella Prefazione della sua importante opera Le Origini della Prima Guerra Mondiale3 del 1985, faceva questa considerazione: L’elenco dei libri e degli articoli che trattano delle cause della prima guerra mondiale è apparentemente infinito e occorrerebbe una vita per leggerli tutti. Anche il solo tenersi aggiornato con la nuova letteratura che via via si pubblica sull’argomento può tenere occupata una persona a tempo pieno. Io non ho certamente letto tutti quei libri; e la mia sola scusa di aggiungervi il mio è che forse è giunto il momento di compendiare, su base internazionale e comparativa, qualcuna delle tesi e delle spiegazioni fornite dagli storici negli ultimi venti anni4. 1 F. Curato, La letteratura sulle origini della prima guerra mondiale, in Nuove Questioni di Storia Contemporanea, t. 2, Milano 1972, p. 885. 2 F. Curato, La storiografia delle origini della prima guerra mondiale, in Nuove Questioni di Storia Contemporanea, t. 1, Milano 1952. 3 J. Joll, Le Origini della Prima Guerra Mondiale, ed. it. Bari 1985, traduzione di M. Monicelli. 4 Ivi, p. VII. 7 Rispondere all’invito di Federico Curato, cercando una linea di causalità diretta, sarebbe per gli storici e studiosi facile e bello; esempio: i fabbricanti di armi avevano grande influenza sulla politica, per vendere ancor più i loro prodotti spinsero i governi a fare la guerra. Se così fosse sarebbe tanto semplice che finirebbe per essere semplicistico e, ahimé!, la concezione materialistica della storia è ben più complessa. Federico Engels chiarì contro i facili entusiasmi, che secondo la concezione materialistica della storia il fattore che “in ultima istanza” è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale […]. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. Infatti se, per esempio, si guarda all’economia come l’unica causa della caduta dell’Impero Romano d’Occidente non si riesce a dare una spiegazione del tutto convincente. È fuor di dubbio che l’ethos cristiano gradatamente sostituì la pietas romana, senza che quel cambiamento fosse accompagnato da un sistema economico, giuridico e sociale in armonia con la nuova etica, mentre a oriente riuscirono a farlo anche attraverso la straordinaria alleanza di cultura pagano-cristiana che comportò l’immissione nella vita politica di forze sociali nuove come avvocati, retori e uomini di grande cultura e l’Impero visse ancora mille anni5. Dopo aver chiarito che devono indagarsi e studiare i rapporti dialettici tra struttura e sovrastrutture, Engels conclude: Se non fosse così, l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la soluzione d’una semplice equazione di primo grado6. Però la necessità – come egli ci ha insegnato – di considerare tutti insieme fattori come: le formazioni sociali, le istituzioni politiche, gli individui dirigenti, con il sostrato della storia ovvero: i rapporti della produzione, ossia le condizioni economiche dei singoli Stati coinvolti e dei loro rapporti7, ha fatto scrivere a Joll: La difficoltà che incontra lo storico è quella di collegare il generale al particolare; ed è una difficoltà che io non ho risolto8. Se non l’ha risolta lui, certo non posso essere così presuntuoso 5 L. Cracco Ruggini, Esperienze economiche e sociali nel mondo romano, in Nuove Questioni di Storia Antica, Milano 1973, pp. 787-790. 6 C. Marx, F. Engels, La concezione Materialistica della Storia, a cura di F. Codino, V edizione, Roma 1969, n. 1, pp. 43-44. 7 B. Croce, Materialismo Storico ed Economia Marxistica, rist., Roma-Bari 1973, pp. 9-10. 8 J. Joll, op. cit., p. VII. 8 da pensare che la possa risolvere io, posso solo cercare di dare un’idea di quanto sia arduo dare una risposta convincente a quel mio perché. Certo il problema, tanto a lungo dibattuto, delle responsabilità del conflitto non ha facilitato, né giovato molto a far luce sulle origini. Non erano ancora iniziate le operazioni militari che le varie potenze si preoccuparono di far ricadere la colpa sugli avversari. Lo fecero tramite la pubblicazione di libri che presero il nome dal colore della copertina e tutti insieme furono detti “libri di colore”. Si tratta della pubblicazione di scelte di documenti diplomatici. Cominciarono i tedeschi con la pubblicazione del loro libro bianco il 3 agosto 1914, il 6 agosto seguirono gli inglesi con il libro azzurro, il 7 agosto vide la luce quello arancione dei russi, quello grigio dei belgi il 7 ottobre, l’azzurro dei serbi il 18 novembre, il 1° dicembre fu la volta di quello giallo dei francesi; la serie si concluse, il 3 febbraio 1915, con quello rosso degli austriaci, mentre quello italiano sarà verde. Dopo il conflitto, a seguito delle polemiche sorte per l’articolo 231 del trattato di Versailles, la discussione intorno al problema della responsabilità e delle colpe si riaccese e furono pubblicate una quantità di opere che attribuivano la responsabilità ai soli Imperi centrali. Un’altra serie di autori scaricarono la responsabilità sulle potenze dell’Intesa, in particolare sull’Inghilterra. Alberto Lumbroso, riprese le conclusioni a cui erano quasi contemporaneamente giunti T. Palamenghi Crispi e i francesi Marchand e Pevet (i francesi rifiutavano le amichevoli proposte del Kaiser, i russi erano bellicosi perché volevano Costantinopoli, l’Inghilterra compiva l’“accerchiamento” della Germania). Lumbroso pose l’accento sul fatto che l’Inghilterra per i suoi interessi e per la sua sicurezza aveva sempre impedito di alterare l’equilibrio europeo alle più potenti nazioni continentali: avvenne così per la Spagna, poi per l’Olanda e per la Francia di Napoleone e infine per la Germania. Lo scopo degli inglesi era quello di ridimensionare, se non proprio rovinare, la Germania, ormai la nazione più potente del continente e in aperta concorrenza con loro, sotto ogni punto di vista e soprattutto quello navale. Partendo da queste premesse Lumbroso ritiene che né R. Poincaré né S.D. Sazonoff furono l’anima nera, lo fu E. Grey e a lui solo accolla tutte le responsabilità del conflitto9. Che la tesi sia intrigante non lo 9 A. Lumbroso, Le origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale, vol. 2, Milano 1926-1928. Citato in F. Curato, La letteratura sulle origini della prima Guerra Mondiale, cit., p. 847. 9 si può negare, né si può negare che quel problema ci sia stato, ma da lì a far scoppiare deliberatamente quella guerra il passo è lungo e la colpevolezza di Grey non ha molti riscontri oggettivi. Anche se cercò di promuovere la conferenza di pace, ma i tedeschi risposero negativamente, mi sembra che gli storici siano abbastanza concordi sul fatto che l’Inghilterra non avrebbe potuto intervenire se la Germania non avesse aggredito il Belgio neutrale, perché l’opinione pubblica era contraria alla guerra. Altri attribuirono la responsabilità a tutti, ma quella maggiore alla Germania. La letteratura revisionista moderata si divise tra la colpevolezza di tutti e quella di nessuno. Insomma la discussione che era nata durante la guerra, che si riaccese dopo il trattato di pace, rimase viva fino al 1939 ed ebbe una ripresa dopo il II conflitto mondiale. Già nel 1932 Benedetto Croce ci invitava ad abbandonare l’inutile esercizio della ricerca delle colpe e non sono punto d’accordo con coloro che hanno sostenuto che il nostro filosofo ritenne responsabili i tedeschi, per aver scritto che la Germania conforme a certe sue tradizioni, carezzasse in particolare l’etnicismo o razzismo, e attribuisse l’attivismo10 al germanesimo, onde l’interessamento e il favore col quale accolse alcuni prodotti letterari che di cotali tendenze e immaginazioni costruivano la filosofia della storia e la metafisica11. In realtà Croce, nella stessa opera, sosteneva che la ricerca della responsabilità della guerra era operazione disperata riferita agli individui o ai popoli, i quali tutti possono, sillogizzando, rigettare su altri la colpa che si vuol far pesare sopr’essi, di altri in altri riportarla all’autore del mondo […]12. E ancora nel dare il suo giudizio sul trattato di Versailles: La coscienza umana fu dolorosamente offesa dallo spettacolo dei vincitori che traevano al loro tribunale l’eroico avversario, […] e si ergevano sopra lui giudici di moralità ed esecutori di giustizia, e lo costringevano ad ammettere la sua colpa, essi colpevoli a loro volta, se pure di colpa si 10 Croce intende quelle concezioni della vita nuove e ardite, un nuovo romanticismo che si ispirava all’ideale attivistico […] e divenne attivistico o “dinamico” nella forma stessa dell’arte, e si chiamò “futurismo”. I giovani, rapiti, come spesso avviene, invaghiti dalle novità che li sollecitavano a buttar via il passato, si fecero in gran numero nazionalisti, imperialisti, dinamici, sportivi e futuristi, o tutte queste cose insieme. E ciò accadeva in ogni parte d’Europa e anche fuori dell’Europa. 11 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Bari 1932, ed. Milano 1999, a cura di G. Galasso, p. 419. 12 Ibidem. 10 vuol parlare, e non piuttosto, come a noi sembra, di comune errore che chiedeva comune espiazione13. Passata la tempesta, rasserenatisi gli animi, gli storici chiarirono che la responsabilità è concetto morale e non storico. Così cominciarono a uscire studi che puntavano l’attenzione esclusivamente sulle origini, tra i primi si devono ricordare le opere di Luigi Albertini14 e Mario Toscano15. Il primo scrisse un’opera di storia diplomatica e politica nel senso classico, tradizionale del termine16. Toscano distinse le origini diplomatiche e politiche da quelle economiche-sociali, auspicando che queste ultime avessero un adeguato approfondimento; l’invito, come visto, fu ripreso da Federico Curato. Per completezza, a questo sintetico quadro si devono aggiungere le pubblicazioni delle memorie degli uomini che ebbero la responsabilità politica17. Economia ed ethos Pur rimanendo convinto che ogni vera storia è storia contemporanea18, tuttavia non credo sia contraddittorio riprendere la tesi di Geoffry Barraclough, che propone una diversa periodizzazione della Storia moderna e contemporanea19. Egli, considerando che la divisione del mondo in due grandi blocchi, determinatasi dopo il secondo conflitto mondiale, non può trovare una convincente spiegazione se si parte dal Congresso di Vienna, perché ne viene fuori una storia eurocentrica, che inevitabilmente lascia ai margini, se non proprio fuori, il divenire e l’affermarsi di due grandi nazioni, USA ed URSS, sostiene che sia più 13 Ivi, p. 424. L. Albertini, Le origini della guerra 1914, vol. 3, Milano 1942-1943. 15 M. Toscano, Le cause della grande guerra ed i residui bellici del Trattato di Versaglia, in Problemi e orientamenti storiografici, a cura di E. Rota, Como 1942, pp. 1139-1153. 16 L. Valiani, Le origini della grande guerra del 1914 e dell’intervento italiano nelle ricerche e nelle pubblicazioni dell’ultimo ventennio, «Rivista Storica Italiana», settembre 1966, p. 585. 17 Per tutta questa parte della letteratura sulle origini, si veda F. Curato, La letteratura sulle origini della prima guerra mondiale, cit., pp. 817-888. 18 B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1917, a cura di G. Galasso, Milano 2001, p. 14. 19 G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Harmondsworth 1967, Bari 1975, trad. it. M. Andreose, p. 8. 14 11 corretto considerare la Storia moderna fino alla fine della cosiddetta grande depressione del secolo XIX, 1890 circa, e di cominciare a parlare di Storia contemporanea solo dopo il 1960, quando si percepiscono chiaramente i mutamenti avvenuti nel costume. Tra le due epoche, sostiene, si frappone un periodo di transizione. Barraclough avverte di considerare le date proposte con discernimento per non incorrere nella ingenuità di quel professore di Liceo, il quale raccontava ai suoi allievi che nell’anno 476 calava il sipario sulla recita della Storia antica e si alzava quello della Storia medioevale20. Infatti: È necessario – scrive – un lungo periodo di transizione prima che l’ethos di un periodo sia sopravanzato dall’ethos di un altro […], siamo ampiamente coinvolti in un’epoca di transizione nella quale due periodi, il “contemporaneo” e il “moderno”, coesistono poco agevolmente. Solo adesso sembra che stiamo uscendo da questa transizione21. Giova ricordare che Barraclough scriveva nei primi successivi anni al 1960, ma oggi non saprei dire se la transizione sia stata superata o sia ancora in corso, poiché se qualcuno mi chiedesse qual è l’ethos della società contemporanea io non saprei rispondere. Ora tralasciando le rigide, comode divisioni didattiche della Storia, intorno alle quali si può sempre discutere, è necessario dire che io non so se Barraclough conoscesse la grande lezione di Federico Chabod sul Rinascimento, in particolare, e sulle età della Storia, in generale, è certo però che quanto da lui sostenuto trova la più solare conferma nel pensiero del grande storico italiano: Quando parliamo di “periodi” storici, – sosteneva Chabod – di mondo classico e di mondo medioevale, di Rinascimento, di Illuminismo e di Romanticismo, a che altro intendiamo noi riferirci se non alle idee politiche, morali, culturali e alle istituzioni in cui quelle idee si sono incarnate, idee e istituzioni che caratterizzano le singole età? L’uomo del Settecento ama, cerca il proprio comodo e il lusso, canta la donna e il vino, né più né meno di quel che avesse fatto l’uomo del Trecento: ma è mutato il “modo” con cui si canta l’amore, si esalta la ricchezza, si appetisce il potere politico, ed è precisamente questo “modo” che interessa. Il “modo” è dato dal pensiero e solo a questo dobbiamo rivolgere l’attenzione22. 20 B. Croce, Teoria e storia della storiografia, cit., p. 125. G. Barraclough, op. cit., p. 18. 22 F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, II ed., Torino 1967,pp. 83-84. 21 12 È fin troppo evidente che il pensiero etico non può cambiare improvvisamente e che gli uomini per modificare il senso che danno alla loro vita hanno bisogno di tempo e che ci sono periodi in cui il nuovo convive con il vecchio, ma se l’economia della Storia è il sostrato e noi ci troviamo di fronte a un periodo in cui vecchia e nuova coscienza convivono, ciò significa che il sostrato che ha prodotto il vecchio ethos, certo nelle forme indicate da Engels, o non esiste più, o è in fase di forte declino e che nuove forme economiche e di produzione o si sono già affermate, o si stanno affermando, aprendo, comunque, un nuovo processo dialettico economico, culturale, giuridico e sociale. Guardando la questione delle origini da quest’ottica si può dire che l’imperialismo-colonialismo ha sicuramente delle responsabilità, ma non per la sua concezione economica (ogni singola nazione cercava la supremazia economico-politica su tutte le altre), ormai superata o quasi nella realtà effettuale, quanto per la sua morale ancora viva nella coscienza degli uomini all’inizio del 1900. Dunque, se Barraclough ha ragione, i due conflitti mondiali si collocano in un periodo di transizione, ed è facile capire che accelerarono molto il cambiamento, quello che è meno facile è capire quanto furono conseguenza del vecchio pensiero e quanto del nuovo in fieri. In questo contesto l’Europa dell’inizio del XX secolo si trovò di fronte a vecchi problemi da risolvere per cercare un nuovo equilibrio in sintonia con la nuova realtà. Colui che ha affermato: Non basta enunciare la concezione materialistica della storia, bisogna applicarla, ha sicuramente detto una gran verità, ma non è facile e in questa circostanza lo è ancora di meno. Sarà forse inutile ricordarlo, ma l’imperialismo non fu la classica dialettica tra ceti sociali diversi, la lotta di classe fu solo la premessa a una competizione tra nazioni, quindi una lotta della borghesia imprenditoriale e finanziaria con se stessa: come ben si sa il XIX fu il secolo in cui la borghesia si affermò come classe dirigente negli Stati nazione d’Europa. Le lotte e le rivendicazioni salariali operaie e contadine, le leggi che regolarono gli orari di lavoro e l’impiego di donne e bambini nella produzione non vi è dubbio che aumentarono il costo del capitale variabile. Ne conseguì che per mantenere il profitto gli imprenditori dovettero aumentare la produzione, ecco allora la necessità dell’investimento per le innovazioni tecniche applicate dopo il 1870, che portarono alla seconda rivoluzione industriale e proseguirono per tutto il 1900; 13 oggi non mi sembra sia ancora così. Quanto detto rese anche necessario reperire nuovi mercati, nuove fonti di materie prime e nuovi consumatori, ed è fin troppo evidente che per trarre profitto non basta produrre, è necessario collocare le merci. Non sarà stato solo un caso se quella forma di imperialismo o neo imperialismo, se così lo si vuole definire, caratterizzato dalla forte ripresa coloniale, si affermò dopo il 1870, dopo quasi un secolo di intervallo, rispetto al vecchio, e si protrasse fino al 1914: la sua nascita e il suo sviluppo, dal punto di vista economico, coincidono con gli anni della cosiddetta grande depressione. Eppure soltanto pochi anni prima (1859-60) sembrava che i popoli europei si avviassero verso forme di amicizia e alleanza come premessa all’ideale mazziniano degli Stati Uniti d’Europa, ma poi, dopo il 1870, quel progetto, se pur dai contorni ancora vaghi, fu relegato tra le utopie23. Forse ci si illuse di poter risolvere il problema, non attraverso la collaborazione, ma tramite politiche neo mercantiliste, che comportavano una strategia economica chiusa in un rapporto preferenziale tra territorio metropolitano e colonie. Proprio negli anni immediatamente successivi al 1870 gli Stati tornarono al protezionismo doganale, con l’eccezione dell’Inghilterra e con la resistenza di Bismark finché gli fu possibile. La notevole diminuzione dei costi di trasporto aveva reso fortemente concorrenziali sul mercato europeo i prodotti agricoli e in particolare i cereali provenienti dall’America, ma l’aumento delle importazioni di tali prodotti non veniva compensato da un parallelo aumento delle esportazioni di manufatti, soprattutto a causa della politica protezionistica degli Stati Uniti24; così per difendere le produzioni agricole nazionali, non solo fu introdotta una politica protezionista nei confronti degli Stati Uniti, ma anche tra gli Stati europei. Si deve inoltre considerare che il fenomeno della accelerazione della Storia, sebbene al suo esordio, determinato dalle innovazioni e dal continuo aumento della diffusione delle industrie e quindi della produzione, ne contrassegnò il periodo; ciò consigliò agli europei di cercare nuovi mercati in Africa e in Asia, sia per rifornirsi di materie prime o semilavorati, sia per collocare i propri prodotti. Nel periodo della grande depressione (che cominciò 23 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., pp. 395-396. Storia Economica Cambridge, a cura di M.M. Postan e P. Mathias, vol. 8, Le economie industriali: Lo sviluppo delle politiche economiche e sociali (I), a cura di P. Mathias e S. Pollard, Cambridge 1989, ed. it. a cura di V. Castronovo, Torino 1992, p. 54. 24 14 anch’essa come l’attuale crisi con il fallimento di una banca, in quella circostanza austriaca, nel 1873)25 è vero che diminuirono molto i prezzi dei prodotti agricoli e la rendita degli investimenti finanziari, ma ci fu anche, come detto, una continua diminuzione dei costi di produzione, nonostante l’aumento dei salari, e le industrie andarono talmente poco in crisi che aumentarono considerevolmente di numero26. L’aumento delle aziende e della produzione non fu un fenomeno solo dell’Inghilterra, ma in generale delle economie industriali tanto che gli inglesi si trovarono a fronteggiare la concorrenza dello spettacolare decollo industriale germanico e degli USA, dell’industrializzazione austro-ungarica, della Russia, del Giappone e dell’Italia, sebbene queste ultime di minor peso. Ciò dimostra che aumentando la produzione e diminuendo i costi per la maggiore quantità di beni d’uso immessi sul mercato, il profitto, se non aumenta, certo non diminuisce. L’apogeo della colonizzazione avvenne nei decenni 1880 e 1900 e la partecipazione dell’Africa e dell’Asia al commercio europeo passò, fra il 1880 e il 1910, dall’11 al 14 per cento per le esportazioni, e dal 10,8 al 14,5 per cento per le importazioni27, ma i migliori clienti di ogni economia europea rimanevano le altre nazioni industrializzate28. L’elenco potrebbe continuare, ma basterà qui ricordare il forte aumento della popolazione; la considerevole diminuzione dei lavoratori agricoli e l’aumento della manodopera impiegata nell’industria, da cui l’urbanizzazione, e la nascita della società di massa e dei partiti socialisti. L’aumento dell’alfabetizzazione, conseguente alla obbligatorietà della scuola primaria, consentì la diffusione di giornali quotidiani e periodici, oltre alla diminuzione dei costi di produzione per le innovazioni tecnologiche (la rotativa è di questo periodo). L’imperialismo-colonialismo ebbe grande sostegno dalla cultura e dalle ideologie nazionaliste, che si sostituirono al principio di nazionalità, idee diffuse appunto dai media; quasi ogni popolo si convinse di essere il popolo eletto, naturalmente in senso biblico, e di avere una grande missione da compiere. 25 J. Keegan, La Prima Guerra Mondiale. Una storia politico-militare, Hutchinson 1998, ed. italiana, Roma 2001, trad. it. F. Maiello, p. 18. 26 Si veda M. Dobb, Problemi di storia del capitalismo, 1946; II ed. it. Roma 1970, trad. it. A. Mazzone, pp. 341-361. 27 Storia economica Cambrdge, cit., p. 55. 28 M. Silvestri, La decadenza dell’Europa occidentale, Torino 1978, ed. 2002, vol. 1, p. 8. 15 Nell’età degli imperi – scrive Eric J. Hobsbawm – la politica e l’economia si erano fuse29. Mi riesce difficile convincermi che precedentemente non lo fossero e che non lo siano tuttavia ma, a parte la considerazione, importa sottolineare che all’economia e alla politica si fuse la cultura attraverso uno stretto rapporto dialettico e trovò nell’imperialismo coloniale ad un tempo uno scopo e uno stimolo, la poesia, la narrativa, la filosofia dettero un contributo determinante alla formazione della coscienza imperiale che contribuì ad accrescere in maniera esponenziale le rivalità dei nazionalismi. Le concezioni di Nietzsche, opportunamente travisate e applicate, influirono in modo essenziale nel dirigere la coscienza europea in quella determinata direzione e così l’uomo, che aveva l’animo del poeta, fu trasformato nel profeta dell’attivismo, sebbene non trasse conseguenze politiche dalle sue teorie e si rifiutò di diventare il filosofo dell’imperialismo guglielmino. Il razzismo non era teoria del tutto nuova in Europa, ma in quel periodo ebbe diversi autori che la diffusero poggiando sull’uso spregiudicato delle teorie biologiche darwiniane a giustificazione e incentivazione dell’imperialismo. È vero che le interpretazioni del “darwinismo sociale” non puntarono tutte in quell’unica direzione, tuttavia […] una serie di libri, di articoli di periodici e di quotidiani, di conferenze e di dibattiti, rese accettabile e familiare all’opinione pubblica occidentale l’idea che la teoria della selezione naturale rendeva inevitabile fra popoli e individui una lotta senza quartiere per la sopravvivenza in cui avrebbero prevalso i più “adatti” (fittest). Queste interpretazioni, questi sviluppi recarono un contributo fondamentale all’imperialismo razzistico: giacché, una volta ammessa la fatalità della “lotta per l’esistenza” e della “sopravvivenza del più capace”, si arrivava facilmente a stabilire, partendo dalla constatazione dei successi imperialistici dei vari popoli, l’idea della superiorità della razza30. Proprio per il tramite delle giustificazioni pseudo evoluzioniste saranno commessi i più gravi crimini contro l’umanità, a cominciare dal genocidio dei pellerossa, per finire, speriamo che sia così, con la Shoah. 29 E.J. Hobsbawm, Il Secolo Breve 1914/1991, 1994, XI ed. it. Milano 2006, trad. it. B. Lotti, p. 43. Si veda anche dello stesso: L’Età degli imperi 1875-1914, London 1987, ed. it. Bari 2007, trad. it. F. Salvatorelli. 30 O. Barié, Imperialismo e colonialismo, in Storia Delle Idee Politiche Economiche e Sociali, diretta da Luigi Firpo, vol. 5, Torino 1972, p. 666. 16 Il resto lo fece la scuola, ben coadiuvata da associazioni all’uopo create e di cui si accennerà più avanti. Quando James Joll scrive che i teorici e i retori del nazionalismo-imperialismo, prima del 1914, ebbero influenza solo su gruppi importanti ma esigui di persone, può anche avere ragione, ma sicuramente non sbaglia nel sostenere che la maniera in cui la gente comune reagì alla crisi del 1914 fu la logica conseguenza del modo in cui le avevano insegnato la storia a scuola, dei miti delle favole sul passato della nazione che avevano ascoltato da bambini […]. In tutti i paesi – o quasi – ai bambini erano stati inculcati i doveri del patriottismo, le glorie nazionali e le imprese del passato31. Se è vero, come è vero, che la Pedagogia è una filosofia morale non ci si deve meravigliare se i governi presero provvedimenti per indirizzare l’educazione verso le finalità non solo patriottiche ma soprattutto imperialiste perché quello era il costume. Fu fatto attraverso opportuni inviti agli insegnanti, furono scritti e prodotti libri di testo conseguenziali e i maestri ebbero a disposizione lo strumento didattico per conseguire il fine della formazione della “coscienza nazionalista”. Sebbene in ogni Paese vi fossero riformatori dell’educazione e politici socialisti che cercavano di far prevalere valori diversi, il modo in cui la gente si comportò nel 1914 dimostra che ebbero ben poco successo. Come accennato, le associazioni coadiuvarono l’educazione durante l’età scolare e oltre la scuola. A parte le ben note leghe navali inglesi e tedesche, nacquero diverse associazioni e a incontrare i maggiori favori nell’Inghilterra edoardiana fu quella dei Boy Scouts, fondata da Robert Baden-Powell eroe della guerra sudafricana. In Germania, per contrastare l’associazionismo umanitario e socialista, il Kaiser nel 1910 emanò disposizioni perché fosse costituito una sorta di esercito giovanile (Jugendwehr) simile ai Boy Scouts. Un anno dopo venne fondata un’organizzazione che riuniva tutte le associazioni nazionalistiche giovanili tedesche. Lo sviluppo scientifico-tecnico e la non capita accelerazione della Storia Dalla fine degli anni ’80 del sec. XIX, il continuo sviluppo tecnologico migliorò ancora il sistema di produzione di merci, ma tra la fine 31 J. Joll, op. cit., p. 270. 17 del secolo XIX e l’inizio del XX le innovazione tecnologiche, che si avvalsero della ricchezza dei risultati conseguiti dalla ricerca scientifica realizzati lungo tutto il corso del 1800, produssero un’ulteriore forte accelerazione come mai si era vista, il rapido cambiamento della vita pose nuovi problemi e nuove sfide al mondo economico, in poco tempo, rese inattuale il protezionismo e tutte le teorie neo mercantiliste. Le applicazioni elettriche dettero l’avvio alla palingenesi, che diede vita a migliorativi mutamenti in continuo, sempre più veloce divenire, tanto che scorre ancora sotto i nostri occhi e noi stessi, sebbene siamo stati culturalmente formati a seguire la continua evoluzione, spesso ci rendiamo conto che prendiamo coscienza dei mutamenti anche del costume solo con ritardo e osservando le nuove generazioni, quindi nessuna meraviglia se gli uomini che vissero l’inizio di tale processo non sempre se ne avvidero. Fino a quel punto e purtroppo per diversi anni ancora, l’educazione fungeva da cinghia di trasmissione della cultura da una generazione a un’altra, i mutamenti erano pochi e assai lenti. Rifare la storia della esplosione tecnologica dei venticinque anni precedenti il 1914, mi sembra superfluo. L’argomento è ben conosciuto e la definizione di seconda rivoluzione industriale, o, meglio, rivoluzione industriale dell’energia elettrica, della chimica, dei metalli, del motore a combustione interna con le sue applicazioni, delle onde radio, ecc., ben compendia quanto avvenne. Penso basti ricordare che in quei pochi anni, per il tramite delle innovazioni leggere che seguirono quelle pesanti, nacque la società dei consumi. L’uso del telefono e la frequentazione delle sale cinematografiche fu una vera esplosione. L’industria leggera cominciò a produrre un numero sempre maggiore di beni d’uso quotidiano, a prezzi sempre più accessibili per le possibilità della massa; del loro lungo elenco ricordo il fornello a gas, l’illuminazione elettrica pubblica e privata, l’aspirapolvere (USA 1908), l’impianto idraulico nei privati appartamenti, la nascita del termosifone per il riscaldamento e, da non trascurare, la elettrificazione dei tranvai e l’umile bicicletta, testimoni della rivoluzione dei trasporti pubblici e privati. In effetti tale fu il cambiamento, nel breve volgere di qualche anno, che Barraclough così ha scritto per esplicarlo: Tuttavia si può ben dire che a livello puramente pratico della vita d’ogni giorno, una persona del presente che fosse improvvisamente trasportata nel mondo del 1900, si troverebbe in un ambiente a lei familiare, mentre, tornando indietro al 1870, anche nell’industrializzata Inghilterra, troverebbe da 18 stupirsi più per le differenze che per le somiglianze. Di fronte a tali mutamenti poteva l’economia, che tutto aveva generato, non aver subito innovazioni e avvertire nuove esigenze? Mi si potrebbe obiettare che il capitale continuava e continua ad appropriarsi del plus prodotto e quindi del profitto, ma intendo parlare della circolazione di merci e dell’utilizzo del capitale finanziario, degli scambi tra sistemi economici nazionali, tra industrie di diversi settori per migliorare la produzione e per immettere sul mercato nuovi e diversi generi di consumo. Per quelle attività produttive, per acquisire i diritti e sfruttare i giacimenti di petrolio in Persia, per le piantagioni di caucciù da cui deriva la gomma, erano necessari tanti e tali capitali che non potevano provenire da una sola economia nazionale, nessuna nazione, nessun Impero, dal punto di vista economico, poteva pensare di essere autosufficiente. Infatti il grande aumento della produzione, ottenuto tramite le nuove tecniche, obbligò l’organizzazione capitalistica ad adeguarsi; per farlo mise in atto una rapida trasformazione (significativa la crescente razionalizzazione del lavoro) e, dall’inizio del sec. XX, il processo di concentrazione capitalistica ebbe un’eccezionale, mai vista intensificazione. Per poter produrre seguendo la continua evoluzione delle nuove tecniche e macchine occorrevano enormi mezzi finanziari che solo le grandi imprese potevano mettere a disposizione, poiché le banche erano disposte a sovvenzionare, tramite prestiti o investimenti azionari, solo le aziende più grandi e più sicure. Venivano penalizzate le medie e piccole imprese che non potendo tenere il passo delle innovazioni – che consentivano l’aumento della produzione e di conseguenza la diminuzione dei prezzi – non erano più concorrenziali sul mercato. Sopravviveva solo chi poteva soddisfare la produzione di massa. Lo sviluppo dell’industria favorì la concentrazione delle banche, anche con la formazione di cartelli32 e di trust33, e il capitale finanziario raggiunse una grande potenza. Così le grandi concentrazioni capitalistiche, realizzatesi dalla interconnessione tra industrie e banche, assunsero la nuova caratteristi- 32 La fusione in senso orizzontale di imprese dello stesso ramo produttivo. sotto un’unica direzione unificata, di una serie d’imprese interessate a tutta la gamma di trasformazioni di un prodotto, col risultato di pervenire a una struttura verticale. 33 Assorbimento, 19 ca internazionale. È vero, come ha sottolineato Massimo L. Salvatori34, che ognuna di esse solitamente mantenne il centro dei propri affari in uno Stato determinato, ma questo sembra essere solo un aspetto del problema. Effettivamente i banchieri internazionali si trovarono in una situazione che sembra essere paradossale: Da un lato, attraverso la stretta collaborazione coi governi, essi convalidarono con la politica degli investimenti il sistema delle alleanze e l’aumento della competizione coloniale; dall’altro, ricavando benefici dal flusso dei traffici internazionali, ebbero tutto l’interesse a che quel flusso non fosse interrotto dalle tensioni in campo internazionale35. Proprio per gli ottimi affari che già conducevano su un fronte e sull’altro e che corrispondevano alla logica del profitto, obiettivo di qualsiasi uomo d’affari, la guerra non era desiderabile. Non ne avevano bisogno neppure i fabbricanti d’armi che si arricchivano non solo grazie ai contratti stipulati coi rispettivi governi, ma anche con le vendite ai governi degli altri paesi (un mercato questo che andò perduto durante la guerra). Inoltre, in parecchi casi, essi già stavano al massimo delle capacità produttive36. Forse non si resero ben conto, né loro né gli uomini politici, dei rischi che comportava la gara agli armamenti. Per i banchieri e gli imprenditori tutto andava bene finché potevano condurre i loro affari, ma in quanto alla guerra il discorso era diverso: grandi sforzi fece il capo dei Rothschild di Londra per evitare la guerra durante la crisi di luglio, Edward Grey dichiarò il 31 luglio che la situazione commerciale e finanziaria era estremamente seria, e che c’era il rischio che un collasso totale portasse tutti in rovina37. L’economia era diventata in breve tempo interdipendente e ormai storici e studiosi sembrano essere concordi; così Mario Silvestri: Dal 1897 l’interdipendenza delle nazioni era enormemente aumentata e la sola interruzione dei traffici avrebbe creato danni irreparabili all’economia mondiale38. Significativo quanto al riguardo ha affermato Lucio Villari: Scontri doganali, provocazioni tra gruppi finanziari, industriali, concorrenza sì, ma guerra tra eserciti mai39. Anche uno storico di 34 M.L. Salvadori, Storia dell’età contemporanea dalla restaurazione all’eurocomunismo, vol. 1, Torino 1977, pp. 398-404. 35 J. Joll, op. cit., p. 197. 36 Ivi, p. 205. 37 Ivi, p. 197. 38 M. Silvestri, op. cit., p. 218. 39 L. Villari, L’insonnia del Novecento, Milano 2002, p. 61. 20 formazione marxista come Eric J. Hobsbawm, dopo aver detto che si era affermata una economia capitalistica industriale mondiale, si chiede: Perché infatti i capitalisti […] avrebbero dovuto desiderare di turbare la pace internazionale, condizione essenziale della loro prosperità e espansione, dato che da essa dipendeva l’andamento delle libere operazioni internazionali commerciali e finanziarie?40. Per sostenere la tesi che le potenze, nonostante rendessero, con le loro rivalità, bellicosa l’opinione pubblica, erano strettamente legate dai vincoli del libero scambio e dell’interdipendenza industriale, Martin Gilbert si sofferma su qualche interessante, esplicativo aspetto: Nel giugno 1914 fu una società finanziaria a capitale misto anglo-tedesco ad assicurarsi il diritto esclusivo di sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Mesopotamia. Navi di tutte le nazioni europee solcavano i mari con le stive colme di prodotti agricoli e industriali provenienti dai più svariati paesi. Automobili e autocarri tedeschi, francesi, inglesi e russi, che in caso di guerra avrebbero dovuto trasportare truppe e vettovaglie, funzionavano grazie al magnete Bosch, costruito unicamente in Germania e importato dalle fabbriche di veicoli di tutti gli Stati europei. Continua con il sostenere che l’acetone, solvente necessario per la fabbricazione della cordite, l’esplosivo per i proiettili, costituisce un altro esempio della interdipendenza, perché veniva prodotto quasi esclusivamente in Germania e in Austria. Poi i binocoli di cui la Germania deteneva l’assoluto monopolio: nell’agosto del 1915 la Gran Bretagna fu costretta a ricorrere a un intermediario svizzero per acquistarne 32.000 da inviare sul fronte occidentale41. Quanto sopra detto non fu una scoperta degli ultimi decenni del ’900, il giovane economista John Maynard Keynes si dichiarò contrario alla guerra non solo perché avrebbe ucciso i suoi amici, ma anche perché avrebbe interrotto il flusso dei traffici internazionali e quindi degli affari42. Il premio Nobel per la pace Norman Angell nella sua opera La grande illusione43, avvertì anche dei danni che essa avrebbe provocato a tutti, con la tesi – così un contemporaneo come Croce riassunse il suo pensiero – che la guerra, se in altri tempi 40 E.J. Hobsbawm, L’Età degli imperi 1875-1914, cit., p. 360. M. Gilbert, La Grande Storia Della Prima Guerra Mondiale, Milano 2008, rist. 1998 trad. it. Carla Lazzari, pp. 26-27. 42 Citato in E.J. Hobsbawm, L’Età degli imperi, cit., p. 360. 43 N. Angell, La grande illusione, 1910, l’opera fu preceduta da un opuscolo pubblicato nel 1909, ed. it. Bari 1913, versione di L.S., proemio di Arnaldo Cervesato. L’opera di Angell ebbe larghissima diffusione, fu tradotta in molte lingue. 41 21 aveva potuto procacciare terre e dominio a popoli conquistatori, ora era inetta all’uopo, perché l’eventuale vincitore non avrebbe potuto […] impossessarsi delle ricchezze di un altro popolo, giacché per l’interdipendenza economica mondiale queste sarebbero sfumate appena toccate e avrebbero fatto sfumare quelle stesse del vincitore […]44. Inoltre, non mancarono lungimiranti, illuminate previsioni intorno agli esiti di una eventuale guerra, combattuta da eserciti di massa, con armi moderne, sempre più perfezionate che aumentavano costantemente la potenza e il volume di fuoco. Cominciò nel 1890 il feldmaresciallo Hellmuth von Moltke, ad avvertire di una molto probabile lunga durata di un eventuale conflitto. Più preciso e circostanziato il banchiere polacco Ivan Blioch. Con un’opera in sei volumi: La guerra del futuro nelle sue implicazioni tecniche, politiche e militari, pubblicata in Russia nel 1897, non solo si sforzò di far capire che con la guerra nessuno dei belligeranti avrebbe fatto un affare e che tutti avrebbero avuto da rimettere, ma soprattutto fece delle previsioni, ben argomentate, sulla durata e sull’immane strage che essa avrebbe provocato45. Malgrado la grande diffusione di quelle opere, le loro giuste conclusioni, che scaturivano dalla corretta analisi della realtà effettuale, furono patrimonio solo di una ristretta élite di intellettuali, così come lo furono le teorie di Einstein, di Max Plance o la scoperta del subconscio di Freud, perché l’opinione pubblica, ben influenzata dai media, e le menti di tutti coloro che avevano la responsabilità del governo degli Stati, rese impermeabili dalla cultura e dai preconcetti della morale nazional-imperialista, non furono minimamente scalfite da quelle previsioni, come non si accorsero che quelle teorie e scoperte avrebbero cambiato il mondo. Di ciò non le possiamo colpevolizzare, poiché riusciamo a vedere solo ciò che il nostro pensiero ritiene possibile che sia e finché ciò non avviene non vediamo quel che è dinanzi ai nostri occhi, tale è la nostra umana condizione perché tale è la base del nostro processo gnoseologico. Così le politiche nazionali e internazionali continuarono a essere ispirate alla logica nazionalista e di conseguenza si accentuarono le rivalità imperialiste e le ripicche. Dopo l’uscita dalla scena politica di Bismark, nel 1890, ci fu anzi un salto di “qualità”, per la politica dell’impulsivo e irrequieto imperatore Guglielmo. Il “Cancelliere di 44 45 22 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., pp. 411-412. M. Silvestri, op. cit., p. 215. ferro”, come ben noto, non fu mai favorevole all’espansione coloniale tedesca, anche se cedette per l’occupazione del Togo, del Camerum e dell’Africa del Sud-Ovest. Egli era ancora meno disponibile ad ascoltare le sollecitazioni dei teorici e professori nazionalisti e imperialisti, che invece trovarono un entusiasta fautore in Guglielmo II. Nel breve volgere di due decenni la Germania da nazione a economia agricola era diventata una delle maggiori potenze industriali con un grande aumento della popolazione (salita nel 1892 a cinquanta milioni, arriverà a 68 milioni nel 1914) e l’idea che quella nazione, divenuta così potente in così breve volgere di tempo, dovesse conquistare e dominare, in rapporto al suo ruolo di potenza mondiale, sopravanzò qualsiasi altra. Il Kaiser nel 1895 reclamò il famoso, mitico posto al sole: dietro questa espressione c’era il progetto di creare un Impero nell’Europa centrale e uno coloniale nell’Africa centrale. Il concerto europeo dell’età di Bismark, divenuto ormai anacronistico, fu sostituito dal sistema dei blocchi di alleanza o di intesa, da una parte la vecchia Triplice, scricchiolante per la posizione dell’Italia, dall’altra l’Intesa franco-russa alla quale si aggregò la Gran Bretagna. Fieramente contrapposte riuscirono a mantenere la pace fino al ’14 ma solo con l’equilibrio del terrore, nel senso che ognuno temeva la potenza militare dell’altro e nessuno si arrischiava a provocare una guerra, poiché, per il sistema delle reciproche garanzie e soccorso, fare la guerra con uno stato dell’Intesa o della Triplice significava farla anche con tutti gli altri. La Gran Bretagna, uscendo dal tradizionale isolamento, secondo alcuni, creò un fatto nuovo con la garanzia data a Francia e Russia e fu tra le principali cause del conflitto. Ma se i tedeschi si illusero, fino al 4 agosto 1914, che gli inglesi sarebbe rimasti neutrali, è evidente che la loro diplomazia non era così decisa a soccorrere Francia e Russia in caso di guerra, o almeno lo dettero a intendere; le speranze tedesche non erano del tutto prive di fondamento, infatti non si deve credere che all’interno dei due blocchi regnassero la concordia e l’armonia, anzi tutt’altro, i giri di valzer non furono solo di Giolitti. Gli anni a cavaliere tra i secoli XIX e XX videro ancora ormai inutili contese e guerre coloniali: le tardive pretese tedesche e italiane, l’incidente di Fashoda, la guerra anglo-boera, il conflitto russo-giapponese, la prima e la seconda crisi marocchina, la ripresa coloniale italiana in Libia, le guerre balcaniche e il precario equilibrio che lasciarono nella penisola e nell’Est, dove sobbollivano le aspirazioni nazionali dei popoli sottoposti alla duplice monarchia, la mai digerita dagli slavi, in 23 particolare dai serbi e dai russi, annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina. Quasi tutti gli eventi elencati provocarono delle crisi preoccupanti che non sfociarono nella guerra poiché, da parte di chi ne aveva la responsabilità, furono date ancora risposte razionali, ma ognuna di esse lasciò delle ruggini che si accumularono nel tempo. La Germania dovette assorbire la brutta débâcle delle sue pretese e della sua diplomazia subita alla conferenza di Algeciras, convocata nel 1906 per risolvere la prima crisi marocchina, dove rimase completamente isolata perché i suoi alleati o si schierarono apertamente con l’Intesa come l’Italia, o la sostennero solo formalmente come l’Austria. I tedeschi riuscirono, per volere di Francia e Gran Bretagna, bontà loro, appena a salvare la faccia; scottati, decisero che non avrebbero più partecipato ad altre conferenze del genere. Se Algeciras acuì, non v’è dubbio, il complesso di inferiorità tedesco, e avrà il suo peso, la posizione che prese il primo ministro, principe von Bulow, nei confronti della Russia nel 1909, ebbe ben altre conseguenze. L’Austria, nel 1908, dopo aver trattato con la Russia (ma poi non mantenne le promesse; è appena il caso di ricordare che i russi si erano eretti a protettori degli slavi) decise unilateralmente di annettere la Bosnia e l’Erzegovina, già da lei amministrate, ma ancora sotto la sovranità turca. Guglielmo II, in linea con gli interessi tedeschi, ebbe una reazione dura perché temeva che si interrompessero i buoni rapporti con la Turchia. Bulow fece una politica niente affatto coerente con la linea del Kaiser, ben sapendo che la Russia, dopo la sconfitta con il Giappone e la rivoluzione interna, era in difficoltà e non avrebbe potuto affrontare un conflitto, e siccome si rifiutava di riconoscere il fatto compiuto dagli austriaci, obbligò il governo dello Zar a riconoscerlo minacciando di dare il consenso all’Austria di marciare contro la Serbia che protestava, scoprendo così tutte le debolezze russe del momento. La spiegazione all’inutile prepotenza la si può trovare solo nella volontà di conseguire un facile successo diplomatico a conferma della potenza germanica che poteva lenire il complesso dei tedeschi di non essere considerati come la loro folgorante potenza industriale avrebbe meritato, tuttavia non evitò che la Francia e la Russia si premunissero per il futuro: La vittoria – scrive Winston Churchill – fu guadagnata ad un costo pericoloso: la Francia, dopo il trattamento subito nel 1905, aveva dato inizio ad un’accurata riorganizzazione militare. Ed ora la Russia, nel 1910, impresse un enorme aumento al suo grande esercito; sia la Russia che la Francia, scaltrite da analoghe esperienze, serra24 rono le file, cementarono l’alleanza e intrapresero la costruzione, con lavoro russo e denaro francese, di una nuova ferrovia a fini strategici, di cui la frontiera occidentale russa aveva urgente bisogno46. Tra molti altri esempi che avrei potuto addurre, ho scelto i due eventi sopra accennati perché, a mio parere, significativi di quanto il clima ideologico-culturale fosse in antinomia soprattutto con gli interessi economici europei. Alcuni tentativi, che poi si riveleranno inutili, di prendere delle posizioni in linea con gli interessi economici e con il nuovo éthos in fieri ci furono. Dopo la pubblicazione di Blioch, lo Zar Nicola II promosse la convocazione di una conferenza sulla pace all’Aia (1899). Le potenze, a parte la Russia, tutte sospettose che sotto ci fosse chi sa quale manovra, parteciparono di mala voglia e lo fecero solo perché spinte dai pacifisti e dalle organizzazioni umanitarie47. Non si andò oltre questo generico auspicio: per il beneficio morale e materiale delle nazioni era altamente desiderabile una limitazione degli armamenti e dell’invenzione e introduzione di nuove armi”48. La seconda conferenza convocata sempre all’Aia nel 1907 non produsse effetti migliori, si riuscì soltanto a stabilire che, caso mai fosse scoppiata, si sarebbe combattuta una buona guerra, ma sappiamo tutti come finirono quei buoni propositi. All’inizio del secolo XX i tedeschi consci del limite geopolitico della base tedesca tentarono di creare una Unione economica centroeuropea tramite la formazione di associazioni di categoria. Inizialmente il progetto riguardò solo la Germania e l’Austria-Ungheria, in seguito fu allargato ad associazioni affini delle altre nazioni e fu anche attuato. Il vero obiettivo tedesco, come dichiarò il direttore della “Disconto – Gesellschaft”, era quello di creare una “più larga base in Europa […] indispensabile”, se si volevano “gettare le fondamenta etnico-economiche della politica mondiale tedesca”49. Ciò era in palese contraddizione con il proclama istitutivo delle associazioni del 1904 che negava si volessero perseguire finalità politiche50. Per la verità il discorso non era del tutto nuovo, una necessità del 46 W. Churchill, The world crisis, 1923-1932, p. 29, citato in M. Silvestri, op. cit., p. 161. 47 Per le associazioni umanitarie e pacifiste si veda J. Keegan, op. cit., pp. 20-27. 48 M. Silvestri, op. cit., p. 217. 49 F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914, Dusseldorf 1961, IV ed. it. a cura E. Collotti, Torino 1965, p. 12. 50 Ibidem. 25 genere fu avvertita in Austria dal principe Schwarzenberg, succeduto a Metternich, e dal suo ministro del commercio barone von Bruck. Quando la Prussia, nel 1850, sbarrò loro la porta, impedendo all’Austria di entrare nell’unione doganale, si prefissero di trasformare quella unione in un’unione doganale centroeuropea, naturalmente dominata dall’Austria e a orientamento protezionista51. Il difetto non era nei progetti ma nelle loro finalità, una volta avrebbe dovuto dominare l’Austria, una seconda la Germania e in realtà non se ne fece alcunché. Già era rimasto “nel mondo delle idee” il tentativo che aveva fatto Bismarck nel 1879 di formare una federazione mitteleuropea. Non poteva avere miglior fortuna il progetto del Kaiser Guglielmo II e di Walther Rathenau, mirante all’unificazione economica del continente per difendersi dalle rappresaglie protezionistiche degli americani “Stati uniti d’Europa contro America”52. Il progetto fu poi esteso da Rathenau, ma non era certo quello di un europeista, improntato come era alla realizzazione degli interessi politici di quella Germania ma, come già era accaduto a Bismarck, si avvertì l’esigenza di sottoporre quelle idee all’approvazione preventiva dell’Inghilterra. Rathenau divenne europeista dopo la guerra e per questo fu assassinato da un estremista di destra perché, per quelle sue opinioni, fu ritenuto traditore53. Sia Bismarck che Guglielmo II avvertirono dunque l’esigenza di sottoporre all’approvazione preventiva della Gran Bretagna i loro progetti, non possiamo sapere se gli inglesi l’avrebbero concessa poiché, in realtà, non si arrivò mai a richiederla. Tuttavia si può essere ragionevolmente pessimisti sulla loro posizione, a giudicare dal comportamento che ebbero nel 1911. Pensiero decisamente e sinceramente europeista lo espresse il francese Joseph Caillaux, divenuto presidente del consiglio proprio nel 1911; quel pensiero non fu solo una dichiarazione di intenti, ma ispirò la sua azione di governo e fu la sua rovina. Egli, proprio quando la seconda crisi marocchina toccava l’acme e mentre gli animi erano ancora accesi, con il suo discorso programmatico sorprese l’intero parlamento dichiarando che intendeva comporre definitivamente tutti i contrasti con la Germania, come era avvenuto con la Gran Bretagna dopo l’incidente di Fashoda. Per raggiungere il suo scopo cercò di aggirare tutte le difficoltà che frapponeva la diplomazia ufficiale, scavalcando perfino 51 Storia Economica Cambridge, cit., vol. 8, p. 188. F. Fischer, op. cit., p. 28. 53 M. Silvestri, op. cit., 231. 52 26 il suo ministro degli esteri, segretamente fece sapere ai tedeschi di essere disposto a trattare sotto banco […] questioni più importanti ed ampie del Marocco e del Camerun54. Il problema dei suoi interlocutori tedeschi, nella circostanza, fu quello di trovarsi in una tale condizione psicologica che proprio non consentiva loro di capirlo; equivocarono in maniera tanto grossolana da pensare di aver trovato poco meno che una spia al massimo livello: l’ambasciatore tedesco a Parigi informò, baldanzoso, il suo governo utilizzando un codice conosciuto dai francesi, il messaggio fu intercettato e recapitato al ministro degli esteri facendo fare al primo ministro la bella figura del quasi traditore. Per conto loro gli inglesi non rimasero alla finestra e aggiunsero un bel carico a una situazione che già di per sé si era fatta delicata. Il 21 luglio 1911, il cancelliere dello scacchiere Lloyd George, d’accordo con il primo ministro Asquith, in un suo discorso, fece chiaramente intendere che, se la Francia e la Germania fossero arrivate allo show-down, l’Inghilterra avrebbe preso posizione a fianco della Francia senza attendere la chiamata. L’improvvida, non richiesta uscita di Lloyd George ebbe l’effetto di preoccupare e irritare l’opinione pubblica e la stampa tedesca e imbaldanzì oltre misura i nazionalisti francesi, già esaltati per proprio conto, tanto che farei torto a Jean Jaurès, altro sincero europeista francese e figura carismatica socialista, se non ricordassi che fu assassinato proprio da un estremista nazionalista nelle ore in cui la Francia entrava in guerra. Completarono l’opera sia il successivo accordo franco-tedesco (mano libera ai francesi in Marocco e la cessione alla Germania di una fetta del Camerun) che in Francia lasciò tutti scontenti, sia l’intenzione di Caillaux di introdurre la tassazione diretta progressiva che non solo gli alienò le simpatie del ceto abbiente, ma anche quella della sua base costringendolo a rassegnare le dimissioni. Così abortì l’unico tentativo per risolvere le vertenze europee, avviando un processo di unità continentale. […] Il suo posto fu preso dal lorenese Raymond Poincaré, meglio conosciuto come “Poincaré la Guerre” 55. Fu anche vanificata tutta l’opera diplomatica di distensione dei rapporti tra le potenze, iniziata dopo la conferenza di Algeciras, e la conseguenza fu la ripresa accentuata dei contrasti nei rapporti diplomatici. Le ragioni del contendere si spostarono dal campo coloniale ai 54 55 Ivi, p. 232. Tutta la vicenda del governo Caillaux è tratta da M. Silvestri, op. cit., pp. 232- 234. 27 Balcani e al vicino oriente. Nell’autunno del 1913 la Germania perse largamente la posizione costruita in decenni di lavoro in Romania, in Grecia, in Serbia e in Turchia a vantaggio della Francia, che seppe garantire alla sua iniziativa politica un massiccio appoggio di capitali56, che la Germania non poteva garantire. Di conseguenza si accentuò il suo isolamento e si aggravò il complesso tedesco dell’“accerchiamento”, solo la Bulgaria rimase nell’orbita degli Imperi centrali, i cui rapporti non erano più tanto idilliaci a seguito delle divergenze di opinione sorte dopo la pace di Bucarest (agosto 1913) che concludeva la seconda guerra balcanica. Poiché i tedeschi consideravano l’Austria l’unico alleato affidabile che avevano, e quindi assolutamente da non perdere, furono costretti a sostenerne le pretese. Nell’ottobre successivo, il tentativo serbo di trovare uno sbocco al mare attraverso l’Albania, inasprì i rapporti austro-serbi a tal punto da far temere un conflitto europeo; il ministro degli esteri tedesco, Arthur Zimmerman, per legare gli austriaci alla politica del Reich, appoggiò il loro interesse di mantenere l’esistenza di un’Albania vitale mettendo sul piatto della bilancia, come nel 1908-09, la potenza militare germanica57. Un bel preludio per la garanzia che il Kaiser avrebbe dato agli austriaci per il loro ultimatum alla Serbia dopo Sarajevo. Tutto ciò in antitesi con quanto accadde nella primavera del ’14, quando i finanzieri francesi, inglesi e tedeschi, alla fine riuscirono a trovare un accordo per il completamento della ferrovia Berlino-Baghdad, per i porti del Golfo Persico e per gli impianti di irrigazione. Nel giugno una società a capitale misto anglo-tedesco si assicurò l’esclusiva per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Mesopotamia. Norman Angell, dopo aver dimostrato che dalla guerra nessuno avrebbe tratto guadagni, ma tutti ci avrebbero rimesso, come già riportato nella sintesi che aveva fatto Croce, e aver chiarito che l’economia era divenuta interdipendente, tramite il grande sviluppo dei mezzi di trasporto e di comunicazione, da cui si sviluppò la divisione internazionale del lavoro e quindi della produzione di merci agricole e industriali58, si chiese: Le idee degli uomini sono immutabili?59. Attraverso una rapida storicizzazione del problema e soffermandosi soprattutto sulle 56 F. Fischer, op. cit., p. 42. Ivi, pp. 43-44. 58 N. Angell, op. cit., p. 54. 59 Ivi, pp. 245-258. 57 28 rinascimentali guerre di religione a seguito della riforma protestante, arrivò facilmente a concludere che le idee degli uomini immutabili proprio non sono. Calcolati i tempi attraverso i quali l’uomo passò dall’intolleranza religiosa alla tolleranza, che consentì di non uccidere più il suo vicino per divergenze di credo, o per le diverse interpretazioni delle sacre scritture o di culto, ottimisticamente stimò che gli uomini del suo tempo avrebbero potuto cambiare costume nel breve volgere di qualche lustro per la diffusione, in atto, dei mezzi di comunicazione di massa, stampa e cinematografo. Purtroppo non era così, infatti non si trattava solo di una questione economica, ma anche di un forte desiderio di supremazia nazionale, così radicato perché così antico che, se ne volessimo rintracciare l’origine, dovremmo riavvolgere il filo della Storia fino all’età della formazione delle monarchie nazionali. I fatti dimostrarono che non poteva essere sufficiente qualche lustro, ma più di qualche decennio e i disastri provocati da due conflitti mondiali, prima che gli europei, in linea con l’economia mondiale, si convincessero della necessità della cooperazione, pur nell’ambito della libera concorrenza. Doveva passare ancora molta acqua sotto molti ponti perché quelle idee trovassero applicazione pratica nell’Unione Europea, per la quale, a oggi, molto è stato fatto, ma molto c’è ancora da fare per la completa integrazione; esempio: per i problemi di politica estera l’Europa ancora non parla una sola lingua. Chiusa la breve parentesi e tornando all’argomento, proprio la stampa quotidiana, sulla quale maggiormente puntava Angell, per la rapida affermazione del nuovo ethos, diffondeva più le vecchie convinzioni che non le nuove attraverso le cronache politiche. Per l’uomo medio di quell’età, scrive John Maynard Keynes: I progetti e la politica del militarismo e dell’imperialismo, delle rivalità razziali e culturali, di monopoli, restrizioni ed esclusioni, destinati a fare la parte del serpente in questo paradiso, erano poco più che i passatempi del suo giornale quotidiano, e sembravano essere quasi del tutto ininfluenti sul corso ordinario della vita sociale ed economica, la cui internazionalizzazione era in pratica pressoché completa60. Sembravano, appunto, ma lo erano? Che i giornali riportassero le cronache dei progetti e della politica del militarismo e dell’imperialismo, ecc. è perfettamente normale, resta da vedere la posizione critica che prendevano nei confronti di quegli eventi. A giudicare da quanto accadde, è facile dedurre 60 J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, 1919, ed. it. Milano 2007, trad. it. F. Salvatorelli, p. 25. 29 che contribuì ad alimentare nell’opinione pubblica il sentimento imperialista. Il problema sta nel fatto che tutti avevano ricevuto la stessa educazione, erano stati formati alle finalità nazional-imperialiste, tutti erano ormai convinti dell’equazione più potere economico più potere politico, fino al punto che non fu più tanto una questione economica, se mai lo fu interamente, quanto il desiderio di egemonia e dominio. Pazzi di gioia è il titolo che Martin Gilbert61 dà a un capitolo della sua opera, riferendosi alle manifestazioni di giubilo: Il 1° agosto nell’Odeonsplatz di Monaco una folla strabocchevole accolse con grida di giubilo la notizia che la Germania era entrata in guerra62. Il 29 luglio a Berlino, di fronte al palazzo del principe ereditario, dalla folla scrosciarono applausi frenetici. L’aria vibrava di un’eccitazione incredibile63. L’ambasciatore inglese a Vienna riferiva al suo governo che il rinvio o la prevenzione della guerra contro la Serbia avrebbe sicuramente costituito una grande delusione per [quel] paese, che è letteralmente impazzito di gioia alla prospettiva del conflitto […]. In Francia la mobilitazione fu accolta con grande entusiasmo64. Anche a Parigi il 1° agosto ci furono manifestazioni di giubilo, il pittore francese Paul Maze sentì risuonare ovunque il grido: “a Berlino”, si fermò a Place de la Concorde a osservare un reggimento di cavalleria che sfilava con “grande eleganza” sulla piazza […] e “lo scalpiccio dei cavalli mescolato al clamore della folla che lanciava fiori”. […] “Quando passò l’artiglieria, i cannoni erano ornati di fiori e le donne si arrampicavano sugli avantreni per baciare i ragazzi”65. Se solo avessero potuto immaginare a quale guerra andavano incontro sarebbero stati tutti meno pazzi di gioia e i responsabili più accorti nel valutare le conseguenze. Nella presunzione che la guerra sarebbe stato un affare se non di settimane, certamente di qualche mese, non avevano nessuna cognizione di quanto la situazione era cambiata rispetto ai conflitti ottocenteschi e sul fatto che la nuova guerra sarebbe stata una guerra di logoramento, che avrebbe coinvolto le popolazioni e avrebbero vinto coloro che avevano da mangiare. I militari, che avrebbero potuto, certo non aiutarono a capire, non vollero neppure prendere in considerazione l’ipotesi di una guerra lunga, vol61 M. Gilbert, op. cit., pp. 31-52. Ivi, p. 46. 63 Ivi, p. 42. 64 Ivi, pp. 40-45. 65 Ivi, p. 46. 62 30 lero convincersi della brevità del conflitto e più in alto si saliva nella gerarchia più la brevità diveniva un atto di fede, eppure Blioch li aveva avvertiti, di conseguenza tutti gli Stati maggiori prepararono piani convincenti in quella direzione66, vollero ingannarsi e ingannarono gli altri. Così facendo portarono il loro bel contributo a rendere probabile la guerra. Tutti i governi europei coinvolti erano preoccupati e titubanti solo per la reazione che avrebbe potuto avere l’opinione pubblica di fronte al conflitto, si ingannavano anche lì, ebbero la gradita sorpresa di trovarla non solo concorde ma addirittura entusiasta67. Ciò dimostrò anche l’inefficienza della didattica pacifista e socialista che non seppe conseguire le finalità pedagogiche; a eccezione dell’Italia, i socialisti aderirono, con diverse motivazioni, alla guerra delle loro nazioni, completamente dimenticando l’internazionalismo proletario68. Significativo, a questo riguardo, il comportamento dei vincitori alla conferenza di pace di Versailles. Al consiglio dei quattro nessuno pensò al bene generale, ma ognuno al proprio particulare: Clemenceau intese la mitica revanche come la definitiva rovina della Germania schiacciandone la vita economica. Lloyd George di giungere a un accordo e di riportare in patria qualcosa che riscuotesse plauso per una settimana – naturalmente a fini elettorali –, il presidente Wilson di non far niente che non fosse giusto e retto. È straordinario come il fondamentale problema economico di un’Europa che languiva di fame e si sgretolava davanti ai loro occhi sia la sola questione su cui fu impossibile suscitare l’interesse dei Quattro69. Se gli uomini politici non capirono nel 1919, dopo il disastro umano ed economico della guerra, che il bene delle loro nazioni lo avrebbero potuto ottenere solo dal bene generale europeo, come avrebbero potuto intenderlo nel 1914? Nel clima delle tensioni, delle gelosie, delle picche e ripicche imperiali, come un rovinosissimo terremoto si abbatté 66 Dei piani militari si trova un quadro completo in B.H. Liddell Hart, La Prima Guerra Mondiale 1914-1918, Milano 1968, IV ed. Milano 2006, trad. it. V. Ghinelli, pp. 59-80. 67 Oltre al più volte citato M. Gilbert, si veda: E.J. Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914, cit., pp. 371-372. Ampio spazio dedica all’argomento J. Joll in op. cit., pp. 241-282. 68 Per la posizione dei socialisti oltre a J. Joll, op. cit., pp. 250 -259, si veda il citato E.J. Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914, cit. 69 J.M. Keynes, op. cit., p. 181. 31 sull’Europa il disgraziato fatto di Sarajevo e se vogliamo capire perché ebbe tanto peso se ne devono ricercare le ragioni non nell’economia, ma nel pensiero, ricordando, nella logica della concezione materialistica della Storia, che l’eccezione non fa la regola. Non sarà stato solo un caso se soltanto dopo la disastrosa guerra, a partire dagli anni Venti dello scorso secolo, si cominciò ad avere coscienza della necessità di dare una finalità in linea con la realtà effettuale e cioè della necessità non solo di informare i giovani ma di formarli a sviluppare, certo attraverso le indispensabili conoscenze, quelle categorie dell’intelletto che sole consentono di seguire lo sviluppo della scienza e della tecnica e i conseguenti, incessanti cambiamenti che si realizzano in maniera sempre più veloce. Al riguardo il filosofo pedagogista Francesco Cafaro ha scritto: Sotto l’incalzare dello sviluppo della civiltà industriale, e per superare le tensioni sociali e politiche che erano sfociate nella crisi della 1ª guerra mondiale, da molte parti [in Francia, in Germania, in Austria, nell’URSS, ecc.] si auspicava una riforma delle strutture sociali, educative e scolastiche dei rispettivi sistemi nazionali, ispirata ad una riforma generale dell’educazione, cioè ad una visione rinnovata dei fini e dei mezzi dell’educazione, premessa di ogni generale rinnovamento sociale70. Però il secondo conflitto mondiale ci dice che quell’auspicato rinnovamento dell’educazione rimase un desiderio di uomini illuminati. Quanto durerà la guerra? Solo dopo che trascorsero alcuni mesi tutti, a tutti i livelli cominciarono a chiedersi: Quanto durerà la guerra? Ma in pochissimi riuscirono a darsi una risposta che si avvicinasse al vero e quei pochissimi non furono creduti. L’evento decisivo, sorprendente e inatteso, che allungò smisuratamente i tempi della conflagrazione, fu la battaglia della Marna del settembre 1914 e se ancora oggi si discute se a vincerla fu il Foch o Joffre o Galliéni o altri generali71, è certo che fu lo scoglio contro il quale cozzarono e furono affondate tutte le illusioni della guerra lam70 F. Cafaro, Pedagogia idealista e pedagogia organicistica: Giovanni Gentile ed A. North Whitehead, Estratto da Enciclopedia [Italiana] ’76-77, p. 142. 71 Liddell Hart B.H., op. cit., p. 120. 32 po create dai piani militari a cominciare dal più famoso, lo Schlieffen Plan. Ma se Atene piangeva, Sparta non poteva ridere poiché la vittoria franco-inglese consistette semplicemente nell’aver impedito una rapida vittoria tedesca e nel conseguente passaggio dalla guerra lampo a una lunga e logorante guerra di posizione, certo con il vantaggio da parte dell’Intesa dell’accerchiamento economico degli Imperi centrali, vista la loro superiorità navale che sarebbe stata poi una componente importante per l’esito finale. Ma tra il definitivo tramonto della speranza che tutto si concludesse in tempi rapidi e avere la visione della realtà e cioè di un conflitto della durata di quattro anni e tre mesi, passano diversi gradi, tanto è vero che si passò, dopo gli eventi della Marna, a previsioni di sei mesi o al massimo di un anno. È infatti ormai assai noto che la conoscenza degli uomini è possibile solo tramite l’esperienza, ma in un mondo che, per la prima volta nella Storia, cambiava con una grande velocità allora sconosciuta, solo gli intellettuali più illuminati se ne potevano rendere conto. Accadde che gli uomini dell’epoca non ebbero il tempo di adeguarsi e avvenne che si rappresentarono una realtà diversa da quella effettuale proprio perché di quest’ultima non avevano esperienza. Tutti gli uomini ai vertici delle nazioni più potenti d’Europa, non avendo neppure la percezione del cambiamento avvenuto, credevano ancora di essere i padroni della Terra e ognuno pensava egoisticamente di accaparrarsi ancora le parti migliori del mondo per divenire la nazione più potente. Fu questa la causa dei tanti errori e di quel comportamento degli uomini che avevano la responsabilità politica e militare e a noi oggi appare come la più elementare imprevidenza, ma in realtà non avevano ancora sviluppate quelle categorie dell’intelletto che consentono di adeguarsi ai continui, incessanti cambiamenti, conseguenza dello sviluppo scientifico e delle sue applicazioni tecniche. Ovviamente non parlo solo della conoscenza dell’oggetto, ma soprattutto della conoscenza dell’uso che se ne può fare. A tale riguardo è particolarmente significativo l’utilizzo fatto per la prima volta delle automobili, proprio durante quella battaglia della Marna. Avvenne che arrivò a Parigi una divisione fresca che il comando militare francese aveva l’assoluta necessità di trasferire nel più breve tempo possibile da Parigi al fronte distante sessanta chilometri, se si fossero messi in marcia sarebbero arrivati sicuramente troppo tardi, i vagoni ferroviari disponibili potevano trasportare soltanto metà della divisione e allora la polizia bloccò i taxi nelle strade, ne radunò seicento che riuscirono con 33 due viaggi a trasportare tutti i seimila uomini in tempo utile. Galliéni commentò: Be’, almeno non è una soluzione banale, ma quel che qui più importa è il fatto che i taxi parigini furono i precursori delle future colonne motorizzate, dando un contributo importante alla causa francese durante la battaglia proprio per la sorpresa che gli avversari ebbero nel trovarsi di fronte quella fresca divisione. Non a torto si è creato un mito intorno a quell’evento72. Per i motivi sopra esposti si può concludere che l’Europa non decise improvvisamente di morire – come molti hanno sostenuto e sostengono tuttavia –73, fu un inconscio suicidio. Sarajevo Non v’è dubbio che il detonatore che fece esplodere le tensioni, vecchie e nuove, accumulate in Europa durante gli ultimi quarant’anni, sia stato l’attentato di Sarajevo. L’uccisione di Francesco Ferdinando e della moglie Maria Sofia fu diretta conseguenza dell’ambigua politica nazional-irredentista del governo di Belgrado: […] La diplomazia del 1906-1907 dimostrò che i rapporti poco chiari e informali fra il governo serbo e le reti che avevano il compito di promuovere una politica irredentista potessero essere sfruttati per alleggerire la responsabilità politica di Belgrado e massimizzare lo spazio di manovra del governo. L’élite politica belgradese si abituò ad un atteggiamento ambivalente basato sull’altalenante finzione che la politica estera della Serbia ufficiale e l’opera di liberazione nazionale al di fuori delle frontiere dello Stato fossero fenomeni separati74. Il 28 giugno 1914, in coincidenza delle manovre militari che si svolgevano intorno alla città (parteciparono settantamila soldati) l’arciduca Francesco Ferdinando assolveva la visita a Sarajevo, da tempo programmata e annunciata. Ma nel precedente mese di gennaio la temuta setta ultranazionalista La mano nera, temuta perfino dal governo di Belgrado, alla quale un gruppo di giovani bosniaci si era rivolto per compiere azioni clamorose contro l’Austria, organizzò una riunione presso l’hotel 72 Ivi, p. 133. Si veda L. Villari, L’insonnia del Novecento, cit., p. 60. 74 C. Clark, I sonnambuli, titolo originale The Sleepwalkers. How Europe Went to War in 1914, London 2012, ed. it. Bari 2013, trad. it. David Scaffei, p. 32. 73 34 St-Jerome di Tolosa; successivamente i congiurati rientrarono in Serbia per essere preparati, in attesa di poter cogliere l’occasione propizia. Quella fatale mattina, verso le ore dieci, mentre le quattro automobili del corteo dell’erede al trono imperiale si dirigevano verso il municipio, al ponte Cumuria sette terroristi75 (tra i quali Trifko Graber, Nedeljko Cabrinovic e Gavrilo Princip, precedentemente scelti e molto bene addestrati per l’operazione) divisi in due cellule, piazzati in più punti, aspettavano l’arciduca per compiere la loro opera. Uno riuscì a far esplodere una bomba che mancò il bersaglio, rimbalzò sullo sportello dell’auto dell’erede, provocando solo una scalfitura alla consorte, esplodendo contro l’auto che seguiva e di conseguenza ferendo due ufficiali del seguito. L’autore, Gabrinovic, fu subito arrestato. Francesco Ferdinando poté e volle comunque raggiungere la sede comunale, dove era atteso per il suo distensivo discorso verso gli slavi. Dopo gli interventi di rito, l’arciduca decise di modificare il programma, annullò la visita al museo della città per recarsi all’ospedale e portare il suo conforto agli ufficiali feriti. Con questo improvviso cambiamento di programma la coppia imperiale stava per salvarsi la vita, poiché lungo la strada che conduceva al museo vi era in agguato Gravilo Princip e presso il ponte successivo c’era un altro attentatore armato di pistola. La strada per l’ospedale era invece libera da insidie. Invece un errore dell’autista portò la coppia imperiale davanti alla canna della pistola di Gravilo Princip. Però non si capisce bene quanto sbagliò l’autista e quanto fu indotto a sbagliare dalla pessima organizzazione del trasferimento dalla casa comunale all’ospedale. È comunque certo che l’autista prese la strada sbagliata, cioè quella che conduceva al museo; avvisato in corsa si trovò nella condizione di dover invertire la marcia e per farlo fu costretto a rallentare proprio nel punto in cui li attendeva Gravilo Princip che si trovò così l’obiettivo a pochi passi: esplose due precisi colpi di pistola che lasciarono pochi minuti di vita all’arciduca e alla moglie che fu la prima a spirare. Secondo Silvestri, nonostante ci fossero sette assassini schierati lungo il percorso, il colpo riuscì per pura fatalità76. Ma veramente fu proprio opera solo del caso? Intanto lo stesso Silvestri ci racconta che il primo ministro serbo Nikola Pasic, che ben sapeva della congiura, preoccupato per le eventuali, prevedibili conseguenze, il 18 75 76 Ivi, p. 402. M. Silvestri, op. cit., vol. I, p. 250. 35 giugno cercò di avvertire cautamente i responsabili del governo austriaco. Dette il delicato incarico all’ambasciatore serbo a Vienna che svolse la sua opera diplomatica. Accennò vagamente del pericolo al ministro delle finanze e governatore della Bosnia, Leon Bilinski: costui – sostiene Silvestri – verso Francesco Ferdinando nutriva una forte antipatia e non si prese la briga di averne cura77. Più diplomatico Christopher Clark nell’esprimere il suo giudizio sul comportamento di Bilinski: Non era mai stato particolarmente vicino a Francesco Ferdinando, ma trovò difficile liberarsi dalla sensazione di non aver assolto il suo dovere di proteggere le vittime dell’assassinio78. Nelle numerose riunioni successive con l’imperatore e il ministro degli esteri Leopold Berchtold, che con Francesco Ferdinando aveva avuto un ottimo rapporto personale e familiare79, Bilinski pensò soprattutto a difendersi dall’accusa di essere stato negligente80. Un aiuto gli fu dato dall’agenzia Herzog che in un lungo dispaccio da Zagabria affermava che Francesco Ferdinando era stato più volte informato del grave rischio a cui andava incontro, ma era rimasto irremovibile. Soltanto cercò di indurre la Duchessa Hohenberg a rinunziare all’idea di accompagnarlo […]. Ma la duchessa dichiarò: Se la vita di mio marito è in pericolo, perché va a compiere il suo dovere, il mio posto è al suo fianco. E pregò l’Arciduca di condurla con sé sinché cedette81. Inoltre si dava notizia del comunicato di protesta della polizia di Sarajevo contro l’esercito per essere stata impedita dallo stesso di adempiere al suo servizio per la sicurezza82. Rispetto alla posizione di Silvestri, un altro autore, Basil H. Liddell Hart, non è proprio disposto a concedere al fato. Dopo aver raccontato che voci sulla congiura sembra fossero giunte all’orecchio di alcuni ministri che avevano preso solo inefficienti provvedimenti e del vano tentativo di Pasic, scrive: Quello che è certo è l’incredibile negligenza delle autorità austriache nel predisporre misure preventive per l’arciduca, nonché la loro cinica indifferenza per la sorte che incombeva su questo impopolare erede al trono. Potiorek, governatore militare della Bosnia e futuro comandante dell’offensiva contro la Serbia, non avrebbe potu77 Ivi, p. 255. C. Clark, op. cit., p. 427. 79 Ivi, p. 429. 80 Ivi, p. 427. 81 In “Corriere della Sera”, 29 giugno 1914, p. 2. 82 Ibidem. 78 36 to fare di più per agevolare il compito degli assassini se fosse stato loro complice. E ciò induce a sospettare che in realtà egli lo fosse. Dopo il fallimento di un primo tentativo, compiuto mentre l’arciduca si recava al palazzo del municipio, Potiorek organizzò il ritorno con tale negligenza che l’automobile dell’arciduca dovette fermarsi; echeggiarono due spari […]83. È ormai trascorso un secolo da quegli avvenimenti e, nonostante la gran quantità di opere pubblicate, ancora oggi non è possibile stabilire con assoluta certezza se furono conseguenza di un piano preordinato o se gli eventi che ne seguirono furono solo effetto del sentimento o se razionalità ed emotività si combinarono insieme. Allo stato delle conoscenze, in mancanza di documentazione, bisognerebbe dedurre che fu un piano predisposto, mettendo in campo l’esigenza degli inglesi di ridimensionare la grande flotta che i tedeschi stavano realizzando allo scopo di far perdere il primato navale all’Inghilterra che valeva il quasi monopolio del controllo delle vie di comunicazione marittima tra continenti, che le consentiva di controllare anche quasi tutti i commerci e magari, a seguire, anche la perdita della centralità della borsa di Londra, dopo che gli inglesi avevano dovuto cedere la preminenza della produzione industriale; tutto ciò combinato con la revanche e tutti gli interessi continentali francesi, ma – come già detto –, in mancanza di documenti che possano comprovare quanto sopra detto, varrebbe fare un discorso quasi metafisico che principia e finisce nella mente. Malgrado che la punizione inflitta alla Germania con il trattato di pace, con particolare riguardo alla flotta84; la correità alla quale Croce chiama i vincitori per le responsabilità del conflitto; le opere pubblicate dai contendenti a discarica delle colpe, che cominciarono a uscire fin dai primi mesi di guerra; quanto deducono alcuni storici slavi riguardo al rifiuto del governo di Belgrado di accettare quel punto dell’ultimatum, che prevedeva la partecipazione degli austriaci alle indagini per accertare le responsabilità, per timore che emergesse il suo diretto coinvolgimento85 – sebbene quanto detto e 83 B.H. Liddell Hart, op. cit., pp. 41-42. Il trattato di pace spazzò via la marina mercantile tedesca (in J.M. Keynes, op. cit., p. 64); il contrammiraglio von Reuter, che prevedeva l’obbligo di consegnare anche le navi da guerra, dette ordine agli equipaggi di affondarle (in M. Gilbert, op. cit., p. 622). 85 J. Joll, op. cit., p. 19. 84 37 il giudizio di Gioacchino Volpe86 facciano pensare, oltre il sospetto non si può andare. Se trascorsi novantasei anni ancora si torna sul problema, ciò significa che le cause, prese singolarmente e tutte insieme, non convincono, appaiono futili per giustificare tutti i grandi sacrifici umani e materiali che quella guerra comportò. L’Europa perse il primato morale ed economico che le garantiva sviluppo e prosperità, certo si può eccepire che l’alterna onnipotenza delle umane sorti prima o poi… ma a quest’appunto è tanto facile rispondere che basterebbe provvedere a li argini e li ripari se c’è la virtù, anziché volontariamente distruggerli, che sembra quasi di far concorrenza al signor de La Palisse. Forse non si riesce a comprendere e giustificare il rapporto cause ed effetti per un errore di prospettiva; senza considerare gli effetti bisognerebbe capire bene la realtà ante guerra e comprendere quanta importanza avevano: l’odio, la denigrazione, la gelosia, l’invidia, il desiderio di egemonia dei popoli e delle nazioni dell’epoca. E non è tutto, credo si debbano ben valutare i danni che produsse il mito della guerra breve, combinato con la mancanza di esperienza di una guerra moderna (fino ad allora i disastri, come i terremoti, i naufragi come quello del Titanic avevano prodotto poche migliaia di morti e così nessuno riusciva a convincersi della possibilità che la guerra avrebbe prodotto la tragedia di milioni di morti) fecero il resto. Della incongruità del rapporto tra cause ed effetti si è reso ben conto Eric J. Hobsbawn e le ha dedicato queste parole: Da allora si sono scritti circa cinquemila volumi per spiegare l’apparentemente inspiegabile: come mai, nel giro di poco più di cinque settimane da Saraievo, l’Europa si trovò in guerra. La risposta – è questo il punto – sembra oggi tanto chiara quanto banale: la Germania decise di dare all’Austria pieno appoggio, cioè di non “disinnescare” la situazione. Il resto seguì inesorabilmente. Perché nel 1914 qualsiasi confronto fra i blocchi, in cui l’uno o l’altro dovessero battere in ritirata, li portava sull’orlo della guerra87. Hobsbawn ha scritto anche: Nessun ministero degli Esteri prevedeva guai nel giugno del 1914, e personalità pubbliche erano state assassi86 G. Volpe, Il Popolo Italiano tra la Pace e La Guerra (1914-1915), Milano 1940, p. 19. Questo il giudizio di Volpe: E d’altra parte nulla si sapeva, allora, di quella oscura storia di alte connivenze e complicità nell’assassinio, che poi un po’ per volta venne alla luce o quasi luce. 87 E.J. Hobsbawm, L’età degli imperi, cit., p. 369. 38 nate a frequenti intervalli per decenni88. Qui, a mio avviso, quei ministeri degli esteri commisero un errore, che consiste nel non aver considerato che ogni accadimento ha la sua storia e le cause di quell’assassinio le ritroviamo nella acquisita indipendenza della Serbia dall’Impero turco (1829) e nella prepotente annessione all’Austria-Ungheria della Bosnia-Erzegovina. Tutto sta a capire quanto ogni evento possa influire sulle circostanze immediate e quanto sul futuro cammino umano; quel fatto specifico fu la causa della guerra e la guerra cambiò tutto89. Era in stretta connessione con la questione balcanica. In quel contesto non si può sottovalutare che gli austriaci si trovavano nella condizione di assistere passivamente al lento, inesorabile declino dell’Impero di Francesco Giuseppe o di reagire alle aspirazioni nazionali delle popolazioni sottoposte del multietnico, linguistico e religioso Impero, ben sapendo che quelle stesse aspirazioni lo avrebbero disgregato. Proprio gli slavi del Sud avevano da tempo progettato uno Stato unitario iugoslavo con la Serbia che era il loro naturale riferimento ed esempio di conquista di indipendenza e quell’aspirazione sarebbe divenuta realtà con il trattato di pace90. Gli austriaci erano convinti che qualsiasi concessione fosse stata fatta avrebbe provocato le rivendicazioni nazionali di polacchi, cechi e slovacchi, per loro era fondamentale il controllo dei Balcani. Da questa ottica considerarono l’attentato la provocazione giusta per regolare definitivamente i conti con la Serbia; esso era l’occasione se non per spazzarla via, certo per ridurla a un piccolo Stato satellite, per garantire così il futuro dell’Impero. Per conto loro gli alti gradi militari tedeschi ritenevano che la guerra, prima o poi, si sarebbe fatta e che quello era per loro il momento giusto. Le nazioni dell’Intesa andavano rinforzando i loro eserciti, la Francia aveva portato la ferma a tre anni, era previsto che entro il 1917 la Russia avrebbe avuto un grandissimo numero di soldati e i tedeschi avrebbero perso il vantaggio che in quel momento avevano. A saldare le posizioni degli austriaci a quelle dei militari tedeschi, per un’azione intransigente nei confronti del governo serbo, fu la linea 88 Ibidem. Al riguardo si veda E.J. Hobsbawm, Il secolo breve 19124/1991, cit., p. 33 e seguenti. 90 Con i trattati di pace di Saint-Germani e del Triaton, che sistemarono i territori già asburgici, fu creato il regno di Jugoslavia che comprendeva: la Serbia e il Montenegro, già indipendenti, la Croazia, la Bosnia Erzegovina, la Slovenia. 89 39 dura di Guglielmo II, che decise di dare pieno, totale appoggio all’Austria, anzi furono proprio i tedeschi a spingere perché fosse presentato quell’ultimatum. Però la vera intenzione era di contenere la crisi e di non allargarla al resto d’Europa; l’imperatore si era già messo in una brutta situazione, le critiche che i militari gli rivolgevano per i passi indietro fatti in occasione delle precedenti crisi, con particolare riferimento alla seconda crisi marocchina, condivise dai pangermanisti che si spinsero fino a progettare di sostituirlo, se avesse ancora dato segni di indecisione e debolezza, lo obbligarono a dimostrarsi tanto deciso, fino a dichiarare che se la Russia avesse mobilitato, lui le avrebbe dichiarato guerra91. Si compromise troppo e mentre i militari e i politici erano disposti ad affrontare il rischio di combattere una guerra su due fronti se non fossero riusciti a delimitare la crisi nella regione, illudendosi che l’Inghilterra sarebbe rimasta neutrale, il Kaiser cercò di evitare la guerra europea. All’ultimo istante chiese ai suoi generali se fosse possibile limitare la guerra nell’Europa orientale evitando di attaccare Russia e Francia, gli risposero che al punto in cui si trovavano era impossibile92. Ma valeva veramente la pena di correre quel rischio? Molto probabilmente è questa posizione del pensiero che non si riesce a razionalizzare93 e forse anche la Storia deve fare i conti con l’inconscio. Per capire quegli uomini e i loro sentimenti un aiuto ci viene dall’articolo Considerazioni attuali sulla guerra e la morte94 scritto da Freud nel 1915, ove sostenne: Filosofi e conoscitori d’uomini ci hanno da lungo tempo ammonito che andiamo errati quando consideriamo la nostra intelligenza una forza autonoma, trascurando la sua dipendenza dalla vita emotiva. Il nostro intelletto può lavorare efficacemente solo in quanto venga sottratto all’influenza di forti impulsi emotivi; in caso contrario si comporta semplicemente come uno strumento al servizio della volontà e produce quel risultato che essa gli impone. Gli argomenti logici sono privi di efficacia contro gli interessi affettivi e appunto per ciò la lotta a base di argomenti […] è così sterile nel mondo degli interessi95. 91 F. Fischer, op. cit., p. 58. E.J. Hobsbawm, L’Età degli imperi, cit., p. 347. 93 Sulla difficoltà di razionalizzare l’evento si veda L. Villari, L’insonnia del Novecento, cit., in particolare Il sentimento della morte, pp. 60-78. 94 S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, «Imago», vol. 4 (I), I-21, 1915, ora in S. Freud, Opere, vol. 1, Roma 2006, pp. 141-172. 95 Ivi, pp. 155-156. 92 40 Ma da dove potevano trarre origine gli interessi affettivi di quegli uomini se non da ideologie e propaganda del nazionalismo-imperialismo? Quanto accadde tra il 28 giugno e la dichiarazione di guerra è stato ampiamente ricostruito anche nei minimi particolari per tornarci sopra con un dettagliato racconto, mi limiterò a riassumere quanto accadde in estrema sintesi: l’Austria, dopo aver respinto, con la Germania, la proposta inglese di convocare una conferenza (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia) per mediare le posizioni, il 28 luglio gettò il sasso nello stagno e con il suo attacco alla Serbia causò una reazione a catena: il 30 mobilitò la Russia per soccorrere i serbi (lo si sapeva), la Germania le inviò un ultimatum che non ebbe soddisfazione, perché smobilitasse e il 1° agosto le dichiarò guerra. Per i rapporti di alleanza, la Francia mobilitò lo stesso giorno, ignorando l’intimazione germanica di dichiarare che sarebbe rimasta neutrale, e il 3 ricevette la dichiarazione di guerra. La Germania coinvolse immediatamente il neutrale Belgio al quale chiese di lasciar passare sul suo territorio le truppe, minacciando in caso contrario la guerra e così fu. L’attacco a una nazione neutrale permise agli inglesi di dichiarare guerra alla Germania il 4 agosto. Era cominciata la guerra europea che sarebbe divenuta mondiale. Non sarà inutile però ricordare che la situazione, almeno fino alla metà di luglio, fu sottovalutata, nessuno pensava che si fosse sull’orlo del baratro, tutti esternavano grande fiducia perché convinti che la diplomazia avrebbe compiuto ancora il miracolo di evitare il peggio e nessuno degli addetti ai lavori rinunciò alle programmate vacanze estive. 41