Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola LA SCUOLA DI ELEA SENOFANE - PARMENIDE - ZENONE - MELISSO 1. NOTE GENERALI I maestri della scuola di Mileto, i pitagorici e in qualche misura lo stesso Eraclito, avevano studiato la physìs, cioè la "natura", in cerca del suo principio generativo, l’archè. Se i primi l’avevano individuato in una più o meno precisa sostanza materiale, i secondi si erano soffermati principalmente sulla sua caratteristica di legge, cioè sul modo in cui questo tanto ricercato principio possa strutturare l’universo. In entrambi i casi al centro del loro interesse c’era la natura, vista nella sua fisicità e nel suo manifestarsi ai sensi. L’orizzonte di ricerca dell’eleatismo, che trova in PARMENIDE il massimo rappresentante, è significativamente diverso. Egli infatti si interroga non tanto sulla natura come complesso di forze e processi che riguardano cose concrete, ma su qualcosa di assai più generale e astratto, compiendo un altro fondamentale passo verso l’astrazione concettuale tipica della cultura occidentale e che vedremo pienamente in opera con Platone e Aristotele. Ciò su cui Parmenide si interroga è ciò che egli stesso, utilizzando un termine destinato ad immensa fortuna, chiamò ESSERE (la branca della filosofia che si occupa dell’Essere si chiama ontologia = “discorso sull’essere”). Come vedremo, l’Essere di Parmenide è una realtà assoluta, slegata dall’accadere dei fenomeni naturali e ad essi in qualche modo contrapposta. Parmenide immagina e descrive tale realtà assoluta esclusivamente in accordo a principi logico-razionali, senza riferimenti immediati alla realtà empirica. 2. UNA PREMESSA: SENOFANE DA COLOFONE Senofane nacque a Colofone, una delle più antiche colonie greche dell’Asia Minore, fra il 580 ed il 565 ac (dunque è più vecchio di Eraclito il quale, come abbiamo visto, lo criticò aspramente). Per molti secoli egli fu indicato come il fondatore della scuola di Elea, anche se oggi questa tesi è caduta. In effetti Senofane appare un pensatore, nel contesto dei presocratici, isolato e anomalo. Alcuni studiosi hanno addirittura messo in dubbio la sua definizione di filosofo, anche perché Senofane fu in primo luogo un poeta. Dalla scarsità dei frammenti rimasti, riusciamo comunque a intuire l’ampiezza dei suoi interessi. Egli spaziava dai temi più tradizionali, come la politica e le gare sportive, a questioni di critica religiosa, della natura del divino e della costituzione dell’universo. In Senofane si prospetta chiaramente un rifiuto del pessimismo tipico dell’età arcaica a favore di un embrionale umanesimo, fiducioso nell’uomo e impegnato nell'affermare la razionalità e la virtù contro miti e superstizioni: 1 Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola "Non mostrarono certo gli déi ai mortali tutte le cose fin dall’inizio, ma essi [i mortali, cioè gli esseri umani] scoprono il meglio con una ricerca che dura nel tempo". Egli, così, rifiutò esplicitamente le spiegazioni mitiche, le rivelazioni dei culti misterici per dedicarsi esclusivamente alla ben più faticosa e concreta ricerca razionale. Non è giusto, dice ancora, onorare i vincitori delle olimpiadi più dei sapienti, perché sono questi ultimi che fanno progredire le civiltà. Anche questa protesta era un modo di superare la concezione tradizionale, ancora legata ai modelli agonistici della virtù omerica. L’idea però che più di tutte le altre ha reso famoso Senofane è la critica alla religione olimpica e al suo antropomorfismo. Gli déi non sono fatti a guisa d’uomo, dice Senofane, e non hanno né sentimenti né altre caratteristiche umane. Dice Senofane che, se potessero farlo, leoni e buoi disegnerebbero i loro déi con l’aspetto di leoni e di buoi... Cosa intende dire? Gli uomini hanno preso se stessi come modello per il divino, ma senza ragione alcuna! Per Senofane i principali colpevoli di questa assurda visione sono Omero ed Esiodo, i quali "cantarono degli déi opere empie quante possibili". Senofane, al di là delle critiche alla tradizione, ha lasciato anche una sua idea della divinità: "Fra gli déi e gli uomini è un unico sommo Dio ai mortali simile in nulla, né figura o pensiero" Questo Dio unico non nutre le passioni degli uomini, né compie le loro azioni, infatti: "Saldo sempre rimane nel medesimo stato, in nulla mosso né gli si addice trascorrere nello spazio e nel tempo" Non ha certo bisogno di mani per muovere, né di messaggeri per comunicare. "Lontano dalla fatica agita tutte le cose con l’intimo del suo pensiero" 3. PARMENIDE: PRIME NOTE Parmenide nacque e visse ad Elea (oggi Velia), colonia greca situata sulle coste della Campania. Le fonti fanno oscillare la sua data di nascita di circa trent’anni: diremo dunque che la sua vita si svolse fra la metà del VI secolo ac e la metà del V ac. Pare anche assodato che occupò un ruolo politico di rilievo nella sua città e che forse ebbe il compito di redigerne le leggi. Caduta l’ipotesi che sia stato allievo di Senofane, più solida è la possibilità che abbia subito influenze pitagoriche: non mancano nella sua opera accenni a teorie di questa scuola. Si ritiene anche che Parmenide abbia fondato nella sua città una scuola filosofica aperta a suggestioni mediche e religiose. Non sono chiari i rapporti di Parmenide con il suo grande contemporaneo Eraclito. L’incertezza riguardo le date ci impedisce di dire chi dei due sia 2 Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola vissuto prima. Non manca chi ha ipotizzato che Parmenide abbia realizzato la sua teoria in polemica con l’efesio, né chi ha ipotizzato l’inverso... Dalle pagine di due dialoghi platonici, il Parmenide e il Sofista, emerge l’enorme prestigio e la stima di cui l’eleate godeva nel mondo greco. Questi viene dipinto come un “maestro venerando e terribile”. In effetti l’influenza di Parmenide sui pensatori successivi è davvero grande. 4. PARMENIDE: LE DUE VIE Parmenide ha consegnato la sua filosofia a un poema in esametri dal titolo tradizionale di Sulla Natura. Di questo restano circa venti frammenti. Nel proemio, il filosofo immagina di venire condotto su un carro fino alla dimora di una dea la quale, dopo averlo accolto, gli rivela “l’immobile cuore della verità perfettamente rotonda e le opinioni dei mortali, cui non si può concedere vera fiducia”. Da qui in avanti, il contenuto concettuale viene proposto sotto forma di rivelazione. L’uso di questa cornice potrebbe sembrare un passo indietro, verso la mitologia, ma l’intenzione di Parmenide appare chiaramente simbolica. Egli vuole dire che la verità è autoritaria ed univoca, verità che da sé medesima si manifesta in modo certo, come se fosse si trattasse di una rivelazione divina! La filosofia non è soltanto affermazione razionale, ma, soprattutto, ricerca. La dea infatti comunica al discepolo quelle che sono le due vie di ricerca della verità. Il sentiero che effettivamente conduce alla verità è basato sulla ragione: esso, appunto, ci porta a conoscere ciò che è vero: e ciò che è Vero è l’Essere. Il secondo sentiero, invece, è basato sui sensi: esso ci porta a conoscere la realtà solo in modo superficiale, tramite semplici opinioni (doxa) e in modo addirittura apparente. LA PRIMA VIA Cosa ci dice la ragione, in che modo essa ci conduce alla conoscenza del Vero? La ragione dice semplicemente questo: “l’essere è e non può non essere, mentre il non essere non è e non può essere”. È questa la prima formulazione storica del celebre principio di non contraddizione: una cosa non può comprendere, contemporaneamente, due determinazioni opposte. Non è possibile, per esempio, essere cane e gatto, uomo e donna, ricco e povero, animale e vegetale nello stesso tempo! È impossibile affermare e negare contemporaneamente la medesima cosa. In modo più radicale: non posso esistere e non esistere, una cosa non può essere vera e falsa. Questo è il punto di partenza della ragione, ma andiamo oltre: non solo il non essere non esiste, appunto, ma neppure si può pensare o esprimere, infatti: “È la stessa cosa pensare ed essere”. Mondo, pensiero e linguaggio sono la stessa cosa: sono l’Essere. Noi moderni potremmo immaginare che Parmenide, partendo dalla considerazione dell’insieme di tutte le cose esistenti, si sia chiesto che cosa tutte le cose abbiano in comune fra loro. Egli avrebbe dovuto scartare tutte le caratteristiche specifiche dei singoli oggetti e fenomeni, non trovandone nessuna che fosse davvero comune, 3 Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola ma facendo questo che cosa è rimasto? La cosa più semplice: il fatto che le cose e i fenomeni della natura, ma anche i pensieri e le parole usate per esprimerli, esistono, ci sono, sono essere, appunto! Ciò che rimane non è più un singolo e determinato essere, questa o quella singola cosa esistente, ma l’idea di Essere, il puro concetto di Essere. È ormai chiaro che Parmenide non andò, come i filosofi a lui precedenti per lo più fecero, alla ricerca di un principio naturale, fisico, un ente fra gli altri, per quanto privilegiato e speciale, ma di un principio razionale, astratto, così generale da potersi applicare all’intera realtà e a tutti i suoi aspetti. La ricerca di un principio naturalistico può avere un certo grado di verosimiglianza (l’acqua, in parte l’apeiron, l’aria), ma non può mai dare la certezza assoluta che solo il ragionamento logico può fornire. Essere e non essere, l’abbiamo detto, sono totalmente disgiunti: infatti l’uno, appunto, esiste, l’altro no. Potrebbero forse essere più lontani di così? Ma quali sono, quindi, le caratteristiche dell’Essere? Esse derivano logicamente dal principio di non contraddizione di cui abbiamo parlato (“l’essere è, il non essere non è”), anche se, per descriverle, Parmenide fa ricorso a immagini sensibili e non puramente razionali. Vediamo: l’Essere deve essere per forza ingenerato (se fosse generato implicherebbe il non essere) ed incorruttibile (se si potesse corrompere decadrebbe nel non essere, cosa impossibile). Deve essere, inoltre, omogeneo (se possedesse qualità differenti, per un verso sarebbe e per l’altro no) e immobile (se si muovesse non sarebbe più nel luogo precedente). Deve essere anche fuori dal tempo (altrimenti ora non sarebbe come era prima, né come sarà: nel tempo le cose mutano!) deve essere indivisibile e continuo (non può avere parti, perché l’una non sarebbe l’altra, né contemplare vuoti: il vuoto, appunto, non è!). Deve essere senza fine, ma non infinito (se finisse dovrebbe darsi che, in qualche luogo l’essere non è, ma lo stesso se fosse infinito, cioè non finito: implicherebbe un’idea di imperfezione). Parmenide lo immagina come una sfera omogenea e perfettamente rotonda. Vediamo chiaramente qui come Parmenide ancora non riesca a compiere la propria riflessione su di un terreno del tutto astratto: nel momento stesso in cui cerca di descriverci l’Essere, ce lo descrive come se fosse una cosa concreta, una cosa fra le altre, un oggetto... LA SECONDA VIA La dea, come abbiamo visto, avrebbe detto a Parmenide che alle “opinioni dei mortali […] non si può concedere fiducia.” Le opinioni si basano sui sensi e possono essere al più verosimili, mai certe. Ma i sensi, se ci pensate, cosa ci suggeriscono? Sembrano attestare il fatto che essere e non essere sono continuamente mischiati, cioè riferiti al medesimo soggetto. “Perciò saranno tutte dei nomi, quante cose i mortali hanno posto, persuasi che fossero vere, il nascere ed il perire, l’essere e il no, e cambiare luogo, e mutare lucente colore.” Cosa vuol dire Parmenide con queste parole? Ecco: la realtà, per come essa ci appare, è eternamente mutevole, le cose vengono create e poi distrutte (ieri non erano, oggi sono, domani non saranno più), le persone cambiano (oggi io sono ciò che ieri non ero e che domani non sarò più): tutto passa 4 Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola continuamente dall’essere al non essere, e viceversa! Ma abbiamo visto che la ragione ci dice che essere e non essere sono del tutto separati, non hanno alcun contatto, né possono averlo! Gli uomini, sostiene Parmenide, vengono sedotti dalle apparenze dettate dai sensi e non riescono a riconoscere ciò che invece la ragione riconosce benissimo, cioè l’assoluta disgiunzione tra essere e non essere. Gli uomini parlano tranquillamente di essere e non essere nello stesso tempo: dunque il loro discorso non è "vero", cioè non esprime il reale così come esso è, ma si limita a dare dei nomi senza che a questi nomi corrisponda una qualche realtà. Ecco che da un lato abbiamo l’insieme formato dall’Essere, dal pensiero che lo pensa e dal linguaggio che lo esprime, dall’altro abbiamo un pensiero e un linguaggio slegati dall’essere vero, che si esprimono dunque tramite puri nomi, mere opinioni sempre soggette al dubbio. Il mondo sensibile, il divenire che accoglie il non essere, da cui traggono origine queste pensieri e questo linguaggio, non possono essere detti e pensati in modo rigoroso, corretto. Visto che la realtà sensibile non è né pensabile né dicibile in termini rigorosi, non può essere posta sul piano dell’Essere vero. Proviamo a ripetere quanto abbiamo appena detto in altri termini. Parmenide ritiene che ogni esperienza sensibile, cioè ogni sapere che deriva dai sensi, non si possa definire Vero in senso stretto. Perché? Per lui la Verità è qualcosa di eterno, qualcosa che non è soggetto ad alcuna possibilità di mutazione, di cambiamento. Nella realtà fisica però, quella che conosciamo tramite i nostri sensi, non c’è nulla che abbia tali caratteristiche! La Verità, dunque, non deve essere ricercata a partire dai sensi, dall’esperienza del mondo, ma essa può essere colta solo dal pensiero razionale, dalla mente. Ricordate che anche Eraclito – pur sottolineando, contrariamente a Parmenide, l’importanza del divenire – esprimeva un’opinione per qualche verso simile a questa. I due pensatori appaiono a prima vista lontanissimi – l’uno sottolinea l’onnipresenza del divenire, l’altro l’immutabilità dell’essere – ma entrambi sembrano esaltare la forza conoscitiva della mente, del pensiero logico, a scapito della mera conoscenza sensibile. Ma tutto questo cosa vuol dire? Significa che i nostri sensi ci ingannano? Che ci fanno conoscere una realtà finta (pensate, come esempio, al film Matrix!)? Il vero deve essere immutabile (Parmenide), ma la realtà fisica muta in continuazione (Eraclito): come risolvere il problema? Possiamo accettare che ciò che chiamiamo verità in senso stretto sia qualcosa di mutevole, di relativo? Questo, su un piano puramente razionale, sembra inaccettabile. Allora dobbiamo ammettere che il mondo che ci circonda, con le sue trasformazioni, non è vero? Anche questo sembra inaccettabile! Insomma: l’emergere del concetto astratto, del pensiero logico-razionale, sembra porre un enorme problema. Il problema posto da Eraclito e ancor meglio da Parmenide sarà affrontato dai filosofi successivi in diverse maniere. La soluzione che darà il definitivo avvio alla Civiltà occidentale e che renderà 5 Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola possibile la nascita della scienza sarà, come vedremo, quella proposta da Platone e Aristotele. 5. ZENONE: LA DIMOSTRAZIONE PER ASSURDO Discepolo di Parmenide, probabilmente gli successe nella direzione della scuola. Nacque ad Elea a cavallo fra il VI ed il V secolo. Della sua opera, la tradizionale Sulla Natura, rimangono pochissimi frammenti e testimonianze. Se diamo retta alle testimonianze, dobbiamo credere che lo scopo principale di Zenone fu quello di difendere la dottrina parmenidea dai suoi critici, anche se non sappiamo con precisione chi fossero questi critici. In che modo Zenone cercò di difendere le idee di Parmenide? Egli non propose argomenti utili a rinforzare le idee di Parmenide ma, al contrario, rivolse contro i critici le loro stesse obiezioni. Questi, fondamentalmente, dicevano che la dottrina di Parmenide andava contro l’evidenza, ed era per questo motivo inaccettabile. Ciò che i sensi mostrano è evidente, sostenevano costoro, e non si può mettere in dubbio. Zenone analizzò le presunte “evidenze” cui i critici facevano appello e dimostrò, da un punto di vista puramente logico-razionale, come queste portino all’assurdo, alla contraddizione. Questo procedimento ha fatto dire ad Aristotele che Zenone fu l’inventore della dialettica ("dialettica" intesa come controversia fra due posizioni che si vogliono demolire a vicenda), mentre oggi possiamo dire che egli si avvicina alla dimostrazione per assurdo, uno dei procedimenti maggiormente usati (ancora oggi!) nelle dimostrazioni in campo matematico. Zenone vuole dimostrare che assumendo il movimento e il molteplice come fatti reali – e in effetti la realtà sensibile indica proprio questo – si giunge a risultati logicamente assurdi. Contro il movimento la storia ci tramanda quattro paradossi di Zenone. Vediamone solo due, a mo’ di esempio. Un qualunque corpo, per percorrere una distanza, dovrà prima percorrerne la metà, e prima la metà della metà, e prima ancora la metà della metà della metà, e così via. Ora, poiché una distanza è divisibile all’infinito, in segmenti sempre minori, si ha che per percorrere una distanza finita il nostro corpo impiegherebbe un tempo infinito, dovendo percorrere infiniti segmenti. Del tutto analogo a questo, ma molto più famoso per la sua struttura narrativa assai fantasiosa, è il paradosso di Achille e della tartaruga. I due decidono di gareggiare fra loro e alla tartaruga viene accordato, sulla linea di partenza, un certo vantaggio: diciamo cento metri. Per percorrere questi cento metri Achille impiegherà un certo tempo (diciamo il tempo t). In questo tempo t la tartaruga percorrerà, per esempio, dieci metri, quindi sarà ancora in vantaggio... Questo procedimento può essere, però, ripetuto all’infinito e, se questo è vero, parrebbe di dover concludere razionalmente che Achille non raggiungerà mai la tartaruga! 6 Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola Parmenide, con la sua teoria, negò anche la molteplicità: anche a questo riguardo Zenone si premurò di difenderlo. Vediamo dunque i paradossi contro il molteplice. Ammettiamo che ogni grandezza sia divisibile in parti. Tali parti inevitabilmente hanno dimensione nulla (sono cioè pari a 0) oppure hanno una loro grandezza definita (pari, diciamo, al valore g). Zenone, a questo punto, argomenta che è impossibile che tali parti siano di dimensione nulla (infatti la somma di tanti zero non dà una grandezza finita, ma dà sempre zero, cosa che impedirebbe di ritornare alla grandezza di partenza), ma le parti non possono avere neppure una grandezza finita, perché sarebbero ancora suddivisibili e avremmo così che la grandezza iniziale debba essere formata da infinite grandezze finite: ma la somma di infinite grandezze finite dà luogo sempre e solo ad una grandezza infinita, certo non alla grandezza finita che avevamo in partenza! La divisione all'infinito di Zenone sta alla base del fondamentale calcolo infinitesimale, che naturalmente egli non poteva conoscere (questo importantissimo procedimento di calcolo matematico sarà inventato, molti secoli dopo, da altri grandi filosofi: Leibniz e Newton). In effetti quando la divisione di uno spazio tende ad infinito la dimensione dei singoli segmenti tende ad annullarsi, diversamente da quanto ipotizzava Zenone. In questo modo, la loro somma non sarà l’infinito, ma lo spazio iniziale... Fate molta attenzione a questo punto! Con i suoi paradossi Zenone non intendeva dire che le cose non si muovono, né che non esiste la molteplicità! Ciò che voleva dimostrare è, invece, che queste cose che appaiono ovvie, scontate ai nostri sensi sono, se sottoposte all’analisi della ragione, problematiche e difficili a comprendersi! Questo vuol dire che le presunte evidenze su cui i critici di Parmenide si basavano... non erano affatto così evidenti! Come abbiamo visto, Parmenide aveva distinto la "via della verità", quella che porta alla conoscenza certa dell’Essere, contrapponendola alla "via delle opinioni", quella che si basa sulla superficiale conoscenza sensibile, al massimo verosimile. A quest’ultima Parmenide attribuisce una realtà inferiore, di opinione appunto, del tutto staccata dalla la realtà vera. La vera ragione a suo parere non può occuparsi dei fenomeni sensibili: essi sono soggetti alla sola opinione. RAGIONE FENOMENI INTELLIGIBILI (razionali, astratti: per esempio i teoremi della matematica) -----------------separati!--------------I 5 SENSI -----------------separati!--------------FENOMENI SENSIBILI (tutte le cose che ci vengono fatte conoscere dai nostri cinque sensi) 7 Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola Zenone, pur rimanendo nella scia del maestro, istituisce dei paragoni fra la via della verità e quella dell’opinione. Pensa cioè gli eventi del mondo reale in rapporto a principi logici. Con i suoi esempi concreti Zenone non fa altro che sottolineare il contrasto fra i principi logici esposti e la realtà. La logica e l’esperienza si mettono così in crisi a vicenda. Parmenide ha posto le due vie, verità logica e opinione, su binari paralleli e inconciliabili. L’Essere, la logica, ha una sua libertà e non concerne il mondo sensibile. Questa concezione però non appare soddisfacente e, se pure Zenone vuole riaffermare la verità contro l’opinione, i confronti da lui istituiti hanno come effetto di far apparire i principi razionali ancora più contrastanti con il mondo sensibile. La filosofia successiva si occuperà di conciliare la razionale logica di Parmenide con le attestazioni dei sensi. 6. MELISSO Melisso di Samo fu il secondo discepolo della scuola di Elea e fu un contemporaneo di Zenone. Svolse compiti militari e politici per la sua città e, fra le altre cose, sconfisse gli ateniesi in una battaglia navale. Della sua opera, Della natura o dell’essere, rimangono pochi frammenti e testimonianze. L’intento di Melisso era sia quello di difendere i principi parmenidei attraverso la strada battuta da Zenone, sia di dare, proprio per i contrasti messi in luce dallo stesso Zenone, una migliore sistemazione teorica alla dottrina del maestro. Riguardo al principio di ingenerabilità, dato da Parmenide come autoevidente (cioè non bisognoso di alcuna dimostrazione), Melisso porta un’argomentazione, una dimostrazione: se l’Essere fosse stato generato, prima di nascere doveva essere nulla, ma dal nulla niente può venire... Direttamente contro Parmenide, poi, Melisso sostiene che l’Essere è infinito. Egli infatti ritiene che se fosse finito avrebbe appunto un inizio e una fine, come tutte le cose che noi conosciamo, e dunque non potrebbe essere completamente eterno e ingenerato. Da ultimo, dall’infinità dell’Essere si deduce anche la sua unità. Infatti se l’Essere è infinito deve essere uno, perché se fossero due dovrebbero limitarsi a vicenda. Melisso parla anche del vuoto: “E non c’è vuoto alcuno: perché il vuoto non è nulla; dunque non può esistere ciò che appunto non è nulla.” Anche per Parmenide era così, ma l’esplicita menzione del vuoto fisico fa comprendere la distanza di Melisso da Parmenide. Melisso infatti non si muove più su di un piano puramente logico, ma su quello fisico, campo già aperto per Zenone. Zenone sottolinea l’insufficienza del mondo fenomenico, mentre Melisso precisa meglio, in modo più sistematico e rigoroso, le caratteristiche dell’Essere. Melisso dice anche che, se esistessero molteplici cose, queste dovrebbero avere le medesime caratteristiche dell’Essere. Ma, dice Melisso, vediamo come le cose appaiano mutare in continuazione e 8 Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola trasformarsi l’una nell’altra, dunque noi non vediamo né conosciamo la realtà vera. Questa idea di Melisso, dei molteplici come aventi le stesse caratteristiche dell’Essere, funzionerà da suggerimento per i filosofi posteriori, i cosiddetti "fisici pluralisti", che pure con diverse precisazioni ammetteranno l’esistenza di molteplici esseri, in modo da spiegare meglio anche il mondo dei fenomeni. 9