5 - Senofane - Parmenide - Zenone - Melisso

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Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola
LA SCUOLA DI ELEA
SENOFANE - PARMENIDE - ZENONE - MELISSO
1. NOTE GENERALI
I maestri della scuola di Mileto, i pitagorici e in qualche misura lo stesso
Eraclito, avevano studiato la physìs, cioè la "natura", in cerca del suo principio
generativo, l’archè. Se i primi l’avevano individuato in una più o meno precisa
sostanza materiale, i secondi si erano soffermati principalmente sulla sua
caratteristica di legge, cioè sul modo in cui questo tanto ricercato principio
possa strutturare l’universo. In entrambi i casi al centro del loro interesse
c’era la natura, vista nella sua fisicità e nel suo manifestarsi ai sensi.
L’orizzonte di ricerca dell’eleatismo, che trova in PARMENIDE il massimo
rappresentante, è significativamente diverso. Egli infatti si interroga non
tanto sulla natura come complesso di forze e processi che riguardano cose
concrete, ma su qualcosa di assai più generale e astratto, compiendo un altro
fondamentale passo verso l’astrazione concettuale tipica della cultura
occidentale e che vedremo pienamente in opera con Platone e Aristotele.
Ciò su cui Parmenide si interroga è ciò che egli stesso, utilizzando un termine
destinato ad immensa fortuna, chiamò ESSERE (la branca della filosofia che si
occupa dell’Essere si chiama ontologia = “discorso sull’essere”).
Come vedremo, l’Essere di Parmenide è una realtà assoluta, slegata
dall’accadere dei fenomeni naturali e ad essi in qualche modo contrapposta.
Parmenide immagina e descrive tale realtà assoluta esclusivamente in
accordo a principi logico-razionali, senza riferimenti immediati alla realtà
empirica.
2. UNA PREMESSA: SENOFANE DA COLOFONE
Senofane nacque a Colofone, una delle più antiche colonie greche
dell’Asia Minore, fra il 580 ed il 565 ac (dunque è più vecchio di Eraclito il
quale, come abbiamo visto, lo criticò aspramente). Per molti secoli egli fu
indicato come il fondatore della scuola di Elea, anche se oggi questa tesi è
caduta. In effetti Senofane appare un pensatore, nel contesto dei
presocratici, isolato e anomalo. Alcuni studiosi hanno addirittura messo in
dubbio la sua definizione di filosofo, anche perché Senofane fu in primo luogo
un poeta.
Dalla scarsità dei frammenti rimasti, riusciamo comunque a intuire
l’ampiezza dei suoi interessi. Egli spaziava dai temi più tradizionali, come la
politica e le gare sportive, a questioni di critica religiosa, della natura del divino
e della costituzione dell’universo. In Senofane si prospetta chiaramente un
rifiuto del pessimismo tipico dell’età arcaica a favore di un embrionale
umanesimo, fiducioso nell’uomo e impegnato nell'affermare la razionalità e la
virtù contro miti e superstizioni:
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"Non mostrarono certo gli déi ai mortali tutte le cose fin dall’inizio, ma essi [i mortali, cioè gli esseri umani]
scoprono il meglio con una ricerca che dura nel tempo".
Egli, così, rifiutò esplicitamente le spiegazioni mitiche, le rivelazioni dei culti
misterici per dedicarsi esclusivamente alla ben più faticosa e concreta ricerca
razionale. Non è giusto, dice ancora, onorare i vincitori delle olimpiadi più dei
sapienti, perché sono questi ultimi che fanno progredire le civiltà. Anche questa
protesta era un modo di superare la concezione tradizionale, ancora legata ai
modelli agonistici della virtù omerica.
L’idea però che più di tutte le altre ha reso famoso Senofane è la critica
alla religione olimpica e al suo antropomorfismo. Gli déi non sono fatti a
guisa d’uomo, dice Senofane, e non hanno né sentimenti né altre caratteristiche
umane. Dice Senofane che, se potessero farlo, leoni e buoi
disegnerebbero i loro déi con l’aspetto di leoni e di buoi... Cosa intende
dire? Gli uomini hanno preso se stessi come modello per il divino, ma senza
ragione alcuna! Per Senofane i principali colpevoli di questa assurda visione
sono Omero ed Esiodo, i quali "cantarono degli déi opere empie quante possibili".
Senofane, al di là delle critiche alla tradizione, ha lasciato anche una sua
idea della divinità:
"Fra gli déi e gli uomini è un unico sommo Dio ai mortali simile in nulla, né figura o pensiero"
Questo Dio unico non nutre le passioni degli uomini, né compie le loro azioni,
infatti:
"Saldo sempre rimane nel medesimo stato, in nulla mosso né gli si addice trascorrere nello
spazio e nel tempo"
Non ha certo bisogno di mani per muovere, né di messaggeri per comunicare.
"Lontano dalla fatica agita tutte le cose con l’intimo del suo pensiero"
3. PARMENIDE: PRIME NOTE
Parmenide nacque e visse ad Elea (oggi Velia), colonia greca situata sulle
coste della Campania. Le fonti fanno oscillare la sua data di nascita di circa
trent’anni: diremo dunque che la sua vita si svolse fra la metà del VI secolo
ac e la metà del V ac. Pare anche assodato che occupò un ruolo politico di
rilievo nella sua città e che forse ebbe il compito di redigerne le leggi.
Caduta l’ipotesi che sia stato allievo di Senofane, più solida è la possibilità che
abbia subito influenze pitagoriche: non mancano nella sua opera accenni a
teorie di questa scuola. Si ritiene anche che Parmenide abbia fondato nella sua
città una scuola filosofica aperta a suggestioni mediche e religiose.
Non sono chiari i rapporti di Parmenide con il suo grande contemporaneo
Eraclito. L’incertezza riguardo le date ci impedisce di dire chi dei due sia
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vissuto prima. Non manca chi ha ipotizzato che Parmenide abbia realizzato la
sua teoria in polemica con l’efesio, né chi ha ipotizzato l’inverso...
Dalle pagine di due dialoghi platonici, il Parmenide e il Sofista, emerge l’enorme
prestigio e la stima di cui l’eleate godeva nel mondo greco. Questi viene dipinto
come un “maestro venerando e terribile”. In effetti l’influenza di Parmenide sui
pensatori successivi è davvero grande.
4. PARMENIDE: LE DUE VIE
Parmenide ha consegnato la sua filosofia a un poema in esametri dal
titolo tradizionale di Sulla Natura. Di questo restano circa venti frammenti.
Nel proemio, il filosofo immagina di venire condotto su un carro fino alla dimora
di una dea la quale, dopo averlo accolto, gli rivela “l’immobile cuore della verità
perfettamente rotonda e le opinioni dei mortali, cui non si può concedere vera fiducia”.
Da qui in avanti, il contenuto concettuale viene proposto sotto forma di
rivelazione. L’uso di questa cornice potrebbe sembrare un passo indietro,
verso la mitologia, ma l’intenzione di Parmenide appare chiaramente simbolica.
Egli vuole dire che la verità è autoritaria ed univoca, verità che da sé medesima
si manifesta in modo certo, come se fosse si trattasse di una rivelazione divina!
La filosofia non è soltanto affermazione razionale, ma, soprattutto, ricerca.
La dea infatti comunica al discepolo quelle che sono le due vie di ricerca
della verità.
Il sentiero che effettivamente conduce alla verità è basato sulla ragione: esso,
appunto, ci porta a conoscere ciò che è vero: e ciò che è Vero è l’Essere.
Il secondo sentiero, invece, è basato sui sensi: esso ci porta a conoscere la
realtà solo in modo superficiale, tramite semplici opinioni (doxa) e in modo
addirittura apparente.
LA PRIMA VIA
Cosa ci dice la ragione, in che modo essa ci conduce alla conoscenza del
Vero? La ragione dice semplicemente questo: “l’essere è e non può non essere,
mentre il non essere non è e non può essere”. È questa la prima formulazione storica
del celebre principio di non contraddizione: una cosa non può comprendere,
contemporaneamente, due determinazioni opposte. Non è possibile, per
esempio, essere cane e gatto, uomo e donna, ricco e povero, animale e
vegetale nello stesso tempo! È impossibile affermare e negare
contemporaneamente la medesima cosa. In modo più radicale: non posso
esistere e non esistere, una cosa non può essere vera e falsa.
Questo è il punto di partenza della ragione, ma andiamo oltre: non solo il non
essere non esiste, appunto, ma neppure si può pensare o esprimere,
infatti: “È la stessa cosa pensare ed essere”.
Mondo, pensiero e linguaggio sono la stessa cosa: sono l’Essere.
Noi moderni potremmo immaginare che Parmenide, partendo dalla
considerazione dell’insieme di tutte le cose esistenti, si sia chiesto che cosa
tutte le cose abbiano in comune fra loro.
Egli avrebbe dovuto scartare tutte le caratteristiche specifiche dei singoli
oggetti e fenomeni, non trovandone nessuna che fosse davvero comune,
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ma facendo questo che cosa è rimasto? La cosa più semplice: il fatto che le
cose e i fenomeni della natura, ma anche i pensieri e le parole usate per
esprimerli, esistono, ci sono, sono essere, appunto!
Ciò che rimane non è più un singolo e determinato essere, questa o quella
singola cosa esistente, ma l’idea di Essere, il puro concetto di Essere.
È ormai chiaro che Parmenide non andò, come i filosofi a lui precedenti per lo
più fecero, alla ricerca di un principio naturale, fisico, un ente fra gli altri, per
quanto privilegiato e speciale, ma di un principio razionale, astratto, così
generale da potersi applicare all’intera realtà e a tutti i suoi aspetti.
La ricerca di un principio naturalistico può avere un certo grado di
verosimiglianza (l’acqua, in parte l’apeiron, l’aria), ma non può mai dare la
certezza assoluta che solo il ragionamento logico può fornire.
Essere e non essere, l’abbiamo detto, sono totalmente disgiunti: infatti l’uno,
appunto, esiste, l’altro no. Potrebbero forse essere più lontani di così?
Ma quali sono, quindi, le caratteristiche dell’Essere?
Esse derivano logicamente dal principio di non contraddizione di cui abbiamo
parlato (“l’essere è, il non essere non è”), anche se, per descriverle, Parmenide
fa ricorso a immagini sensibili e non puramente razionali.
Vediamo: l’Essere deve essere per forza ingenerato (se fosse generato
implicherebbe il non essere) ed incorruttibile (se si potesse corrompere
decadrebbe nel non essere, cosa impossibile). Deve essere, inoltre, omogeneo
(se possedesse qualità differenti, per un verso sarebbe e per l’altro no) e
immobile (se si muovesse non sarebbe più nel luogo precedente). Deve
essere anche fuori dal tempo (altrimenti ora non sarebbe come era prima, né
come sarà: nel tempo le cose mutano!) deve essere indivisibile e continuo
(non può avere parti, perché l’una non sarebbe l’altra, né contemplare vuoti: il
vuoto, appunto, non è!). Deve essere senza fine, ma non infinito (se finisse
dovrebbe darsi che, in qualche luogo l’essere non è, ma lo stesso se fosse
infinito, cioè non finito: implicherebbe un’idea di imperfezione). Parmenide lo
immagina come una sfera omogenea e perfettamente rotonda.
Vediamo chiaramente qui come Parmenide ancora non riesca a compiere la
propria riflessione su di un terreno del tutto astratto: nel momento stesso in
cui cerca di descriverci l’Essere, ce lo descrive come se fosse una cosa
concreta, una cosa fra le altre, un oggetto...
LA SECONDA VIA
La dea, come abbiamo visto, avrebbe detto a Parmenide che alle “opinioni dei
mortali […] non si può concedere fiducia.” Le opinioni si basano sui sensi e possono
essere al più verosimili, mai certe.
Ma i sensi, se ci pensate, cosa ci suggeriscono? Sembrano attestare il fatto che
essere e non essere sono continuamente mischiati, cioè riferiti al medesimo
soggetto.
“Perciò saranno tutte dei nomi, quante cose i mortali hanno posto, persuasi che fossero vere, il
nascere ed il perire, l’essere e il no, e cambiare luogo, e mutare lucente colore.”
Cosa vuol dire Parmenide con queste parole? Ecco: la realtà, per come essa
ci appare, è eternamente mutevole, le cose vengono create e poi distrutte
(ieri non erano, oggi sono, domani non saranno più), le persone cambiano (oggi
io sono ciò che ieri non ero e che domani non sarò più): tutto passa
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continuamente dall’essere al non essere, e viceversa! Ma abbiamo visto che
la ragione ci dice che essere e non essere sono del tutto separati, non
hanno alcun contatto, né possono averlo!
Gli uomini, sostiene Parmenide, vengono sedotti dalle apparenze dettate
dai sensi e non riescono a riconoscere ciò che invece la ragione
riconosce benissimo, cioè l’assoluta disgiunzione tra essere e non
essere.
Gli uomini parlano tranquillamente di essere e non essere nello stesso tempo:
dunque il loro discorso non è "vero", cioè non esprime il reale così come esso
è, ma si limita a dare dei nomi senza che a questi nomi corrisponda una
qualche realtà.
Ecco che da un lato abbiamo l’insieme formato dall’Essere, dal pensiero
che lo pensa e dal linguaggio che lo esprime, dall’altro abbiamo un
pensiero e un linguaggio slegati dall’essere vero, che si esprimono
dunque tramite puri nomi, mere opinioni sempre soggette al dubbio.
Il mondo sensibile, il divenire che accoglie il non essere, da cui traggono
origine queste pensieri e questo linguaggio, non possono essere detti e
pensati in modo rigoroso, corretto. Visto che la realtà sensibile non è né
pensabile né dicibile in termini rigorosi, non può essere posta sul piano
dell’Essere vero.
Proviamo a ripetere quanto abbiamo appena detto in altri termini. Parmenide
ritiene che ogni esperienza sensibile, cioè ogni sapere che deriva dai
sensi, non si possa definire Vero in senso stretto. Perché? Per lui la Verità
è qualcosa di eterno, qualcosa che non è soggetto ad alcuna possibilità di
mutazione, di cambiamento. Nella realtà fisica però, quella che conosciamo
tramite i nostri sensi, non c’è nulla che abbia tali caratteristiche!
La Verità, dunque, non deve essere ricercata a partire dai sensi,
dall’esperienza del mondo, ma essa può essere colta solo dal pensiero
razionale, dalla mente. Ricordate che anche Eraclito – pur sottolineando,
contrariamente a Parmenide, l’importanza del divenire – esprimeva un’opinione
per qualche verso simile a questa.
I due pensatori appaiono a prima vista lontanissimi – l’uno sottolinea
l’onnipresenza del divenire, l’altro l’immutabilità dell’essere – ma entrambi
sembrano esaltare la forza conoscitiva della mente, del pensiero logico, a
scapito della mera conoscenza sensibile.
Ma tutto questo cosa vuol dire? Significa che i nostri sensi ci ingannano?
Che ci fanno conoscere una realtà finta (pensate, come esempio, al film
Matrix!)?
Il vero deve essere immutabile (Parmenide), ma la realtà fisica muta in
continuazione (Eraclito): come risolvere il problema? Possiamo accettare
che ciò che chiamiamo verità in senso stretto sia qualcosa di mutevole, di
relativo? Questo, su un piano puramente razionale, sembra inaccettabile. Allora
dobbiamo ammettere che il mondo che ci circonda, con le sue trasformazioni,
non è vero? Anche questo sembra inaccettabile!
Insomma: l’emergere del concetto astratto, del pensiero logico-razionale,
sembra porre un enorme problema. Il problema posto da Eraclito e ancor
meglio da Parmenide sarà affrontato dai filosofi successivi in diverse maniere.
La soluzione che darà il definitivo avvio alla Civiltà occidentale e che renderà
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possibile la nascita della scienza sarà, come vedremo, quella proposta da
Platone e Aristotele.
5. ZENONE: LA DIMOSTRAZIONE PER ASSURDO
Discepolo di Parmenide, probabilmente gli successe nella direzione della
scuola. Nacque ad Elea a cavallo fra il VI ed il V secolo. Della sua opera, la
tradizionale Sulla Natura, rimangono pochissimi frammenti e testimonianze.
Se diamo retta alle testimonianze, dobbiamo credere che lo scopo principale
di Zenone fu quello di difendere la dottrina parmenidea dai suoi critici,
anche se non sappiamo con precisione chi fossero questi critici.
In che modo Zenone cercò di difendere le idee di Parmenide?
Egli non propose argomenti utili a rinforzare le idee di Parmenide ma, al
contrario, rivolse contro i critici le loro stesse obiezioni. Questi,
fondamentalmente, dicevano che la dottrina di Parmenide andava contro
l’evidenza, ed era per questo motivo inaccettabile. Ciò che i sensi mostrano è
evidente, sostenevano costoro, e non si può mettere in dubbio.
Zenone analizzò le presunte “evidenze” cui i critici facevano appello e
dimostrò, da un punto di vista puramente logico-razionale, come queste
portino all’assurdo, alla contraddizione.
Questo procedimento ha fatto dire ad Aristotele che Zenone fu l’inventore
della dialettica ("dialettica" intesa come controversia fra due posizioni che si
vogliono demolire a vicenda), mentre oggi possiamo dire che egli si avvicina
alla dimostrazione per assurdo, uno dei procedimenti maggiormente usati
(ancora oggi!) nelle dimostrazioni in campo matematico.
Zenone vuole dimostrare che assumendo il movimento e il molteplice come
fatti reali – e in effetti la realtà sensibile indica proprio questo – si giunge a
risultati logicamente assurdi.
Contro il movimento la storia ci tramanda quattro paradossi di Zenone.
Vediamone solo due, a mo’ di esempio. Un qualunque corpo, per percorrere
una distanza, dovrà prima percorrerne la metà, e prima la metà della metà,
e prima ancora la metà della metà della metà, e così via. Ora, poiché una
distanza è divisibile all’infinito, in segmenti sempre minori, si ha che per
percorrere una distanza finita il nostro corpo impiegherebbe un tempo infinito,
dovendo percorrere infiniti segmenti.
Del tutto analogo a questo, ma molto più famoso per la sua struttura narrativa
assai fantasiosa, è il paradosso di Achille e della tartaruga. I due decidono di
gareggiare fra loro e alla tartaruga viene accordato, sulla linea di partenza, un
certo vantaggio: diciamo cento metri. Per percorrere questi cento metri Achille
impiegherà un certo tempo (diciamo il tempo t). In questo tempo t la tartaruga
percorrerà, per esempio, dieci metri, quindi sarà ancora in vantaggio... Questo
procedimento può essere, però, ripetuto all’infinito e, se questo è vero,
parrebbe di dover concludere razionalmente che Achille non raggiungerà mai la
tartaruga!
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Parmenide, con la sua teoria, negò anche la molteplicità: anche a questo
riguardo Zenone si premurò di difenderlo. Vediamo dunque i paradossi contro
il molteplice.
Ammettiamo che ogni grandezza sia divisibile in parti. Tali parti
inevitabilmente hanno dimensione nulla (sono cioè pari a 0) oppure hanno
una loro grandezza definita (pari, diciamo, al valore g). Zenone, a questo
punto, argomenta che è impossibile che tali parti siano di dimensione nulla
(infatti la somma di tanti zero non dà una grandezza finita, ma dà sempre zero,
cosa che impedirebbe di ritornare alla grandezza di partenza), ma le parti non
possono avere neppure una grandezza finita, perché sarebbero ancora
suddivisibili e avremmo così che la grandezza iniziale debba essere formata da
infinite grandezze finite: ma la somma di infinite grandezze finite dà luogo
sempre e solo ad una grandezza infinita, certo non alla grandezza finita che
avevamo in partenza!
La divisione all'infinito di Zenone sta alla base del fondamentale calcolo
infinitesimale, che naturalmente egli non poteva conoscere (questo
importantissimo procedimento di calcolo matematico sarà inventato, molti secoli
dopo, da altri grandi filosofi: Leibniz e Newton). In effetti quando la divisione di
uno spazio tende ad infinito la dimensione dei singoli segmenti tende ad
annullarsi, diversamente da quanto ipotizzava Zenone. In questo modo, la loro
somma non sarà l’infinito, ma lo spazio iniziale...
Fate molta attenzione a questo punto! Con i suoi paradossi Zenone non
intendeva dire che le cose non si muovono, né che non esiste la molteplicità!
Ciò che voleva dimostrare è, invece, che queste cose che appaiono ovvie,
scontate ai nostri sensi sono, se sottoposte all’analisi della ragione,
problematiche e difficili a comprendersi! Questo vuol dire che le presunte
evidenze su cui i critici di Parmenide si basavano... non erano affatto così
evidenti!
Come abbiamo visto, Parmenide aveva distinto la "via della verità", quella che
porta alla conoscenza certa dell’Essere, contrapponendola alla "via delle
opinioni", quella che si basa sulla superficiale conoscenza sensibile, al massimo
verosimile. A quest’ultima Parmenide attribuisce una realtà inferiore, di opinione
appunto, del tutto staccata dalla la realtà vera.
La vera ragione a suo parere non può occuparsi dei fenomeni sensibili:
essi sono soggetti alla sola opinione.
RAGIONE
FENOMENI INTELLIGIBILI
(razionali, astratti: per esempio i teoremi della matematica)
-----------------separati!--------------I 5 SENSI
-----------------separati!--------------FENOMENI SENSIBILI
(tutte le cose che ci vengono fatte conoscere dai nostri cinque sensi)
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Zenone, pur rimanendo nella scia del maestro, istituisce dei paragoni fra
la via della verità e quella dell’opinione. Pensa cioè gli eventi del mondo
reale in rapporto a principi logici. Con i suoi esempi concreti Zenone non fa altro
che sottolineare il contrasto fra i principi logici esposti e la realtà. La logica e
l’esperienza si mettono così in crisi a vicenda.
Parmenide ha posto le due vie, verità logica e opinione, su binari paralleli
e inconciliabili. L’Essere, la logica, ha una sua libertà e non concerne il
mondo sensibile. Questa concezione però non appare soddisfacente e, se
pure Zenone vuole riaffermare la verità contro l’opinione, i confronti da lui
istituiti hanno come effetto di far apparire i principi razionali ancora più
contrastanti con il mondo sensibile.
La filosofia successiva si occuperà di conciliare la razionale logica di
Parmenide con le attestazioni dei sensi.
6. MELISSO
Melisso di Samo fu il secondo discepolo della scuola di Elea e fu un
contemporaneo di Zenone. Svolse compiti militari e politici per la sua città e,
fra le altre cose, sconfisse gli ateniesi in una battaglia navale. Della sua opera,
Della natura o dell’essere, rimangono pochi frammenti e testimonianze.
L’intento di Melisso era sia quello di difendere i principi parmenidei
attraverso la strada battuta da Zenone, sia di dare, proprio per i contrasti
messi in luce dallo stesso Zenone, una migliore sistemazione teorica alla
dottrina del maestro.
Riguardo al principio di ingenerabilità, dato da Parmenide come autoevidente (cioè non bisognoso di alcuna dimostrazione), Melisso porta
un’argomentazione, una dimostrazione: se l’Essere fosse stato generato,
prima di nascere doveva essere nulla, ma dal nulla niente può venire...
Direttamente contro Parmenide, poi, Melisso sostiene che l’Essere è infinito.
Egli infatti ritiene che se fosse finito avrebbe appunto un inizio e una fine, come
tutte le cose che noi conosciamo, e dunque non potrebbe essere
completamente eterno e ingenerato.
Da ultimo, dall’infinità dell’Essere si deduce anche la sua unità. Infatti se
l’Essere è infinito deve essere uno, perché se fossero due dovrebbero limitarsi
a vicenda.
Melisso parla anche del vuoto: “E non c’è vuoto alcuno: perché il vuoto non è nulla;
dunque non può esistere ciò che appunto non è nulla.”
Anche per Parmenide era così, ma l’esplicita menzione del vuoto fisico fa
comprendere la distanza di Melisso da Parmenide. Melisso infatti non si muove
più su di un piano puramente logico, ma su quello fisico, campo già aperto per
Zenone. Zenone sottolinea l’insufficienza del mondo fenomenico, mentre
Melisso precisa meglio, in modo più sistematico e rigoroso, le caratteristiche
dell’Essere.
Melisso dice anche che, se esistessero molteplici cose, queste
dovrebbero avere le medesime caratteristiche dell’Essere. Ma, dice
Melisso, vediamo come le cose appaiano mutare in continuazione e
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Prof. Monti – Filosofia III – a.s. 2016-2017 – Parmenide e la sua scuola
trasformarsi l’una nell’altra, dunque noi non vediamo né conosciamo la
realtà vera.
Questa idea di Melisso, dei molteplici come aventi le stesse caratteristiche
dell’Essere, funzionerà da suggerimento per i filosofi posteriori, i cosiddetti "fisici
pluralisti", che pure con diverse precisazioni ammetteranno l’esistenza di
molteplici esseri, in modo da spiegare meglio anche il mondo dei fenomeni.
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