Memorie politiche del sottosuolo. La monadologia utopica di Gabriel Tarde Gianluca Bonaiuti Università di Firenze (Italia) Riassunto L’immagine della caverna riveste un ruolo strategico decisivo nella formazione dell’immagine dell’uomo, e del filosofo, nella cultura occidentale. Non solo Platone col suo celebre mito nella Repubblica, ma l’intera stagione dell’antropologia filosofica novecentesca vi legge uno spazio caratteristico dell’antropogenesi umana. Nell’utopia di Tarde, Frammento di storia futura, si presenta un’immagine rovesciata del mito platonico, un vero e proprio platonismo dell’immanenza dove la rigenerazione dell’umanità, veicolata dal sapere della chimica e della psicologia, passa attraverso una sosta nello spazio sotterraneo della terra. La caverna risulta così non solo un rifugio per catastrofi climatiche, ma anche uno spazio dove l’uomo può risvegliarsi dal sonno ipnotico della sua vita in società. Gianluca Bonaiuti insegna Storia delle dottrine politiche, Storia dei media e Etica sociale presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la teoria politica, la teoria della società, il ruolo che le semantiche politiche rivestono nella comunicazione sociale contemporanea. Le sue pubblicazioni recenti sono: Corpo sovrano. Studi sul concetto di popolo (Roma, Meltemi, 2006); La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale (cur. con Alessandro Simoncini, Milano, Mimesis, 2004). Gianluca Bonaiuti L’uomo diventa sempre più indipendente dal suolo sul quale vive (...) Quando prima un uomo e una palude s’incontravavno, spariva l’uomo; ora, la palude. Otto Neurath L 1 Cfr. H. Blumenberg, Concetto di realtà e teoria dello stato, in B. Accarino, Daedalus. Le digressioni del male da Kant a Blumenberg, Milano, Mimesis, 2002, p. 123. Per Blumenberg si può venire a capo di questo problema definitorio solo ricorrendo ad una tautologia: “reale è ciò che non è non-reale”. Si tratta non tanto di una definizione teorica, piuttosto di una regola procedurale che indirizza l’attenzione dell’osservatore sui reperti nei quali la messa a nudo dell’irreale in quanto tale consente di vedere ciò che “residua”: “La realtà è il residuo di una procedura di eliminazione” (H. Blumenberg, Höhlenausgange, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1989, p. 806). Alla rottura dell’”assolutismo della realtà”, con valenze che sposano tesi altrimenti proprie dell’utopia, è dedicato lo studio sul mito: cfr. H. Blumenberg, Elaborazione del mito, Bologna, Il Mulino, 1986. 2 Ivi, p. 127. 3 Ivi, p. 128. 126 ’uomo è quel mammifero che, conquistata la posizione eretta, sta con i piedi ben piantati per terra, grazie anche a una forza di gravità che lo trattiene entro uno spazio atmosferico vivibile (e gli impedisce, dunque, di cadere nel vuoto). Dev’essere anche per questo che l’immagine del suolo ha costituito da sempre una metafora ovvia nel delimitare il campo di applicazione del concetto di realtà. Non solo nel senso che la metaforica del suolo è associata alla metaforica del fondamento, sul quale tutto sta e si muove, sul quale si costruisce e si edifica tutto ciò che deve avere durata e stabilità, secondo uno sperimentato stratagemma della ragione che asseconda la tentazione concettuale delle speculazioni metafisiche e degli assolutismi trascendentali. Ma anche perché il suolo sul quale poggiamo è, prima di ogni discorso sul fondamento, considerato una realtà ovvia, qualcosa di cui ci rendiamo conto solo quando questa ovvietà è in pericolo. In età moderna anche la teoria dello stato è condizionata dal suo riferimento alla realtà. In un duplice senso: anzitutto nel senso della realtà che lo stato rivendica per se stesso e che manifesta in atti politici, e poi della realtà che esso concede a ciò che esso stesso non è. Come molti altri concetti, anche il concetto di realtà è un concetto oppositivo: esso si sottrae alla definizione perché, come ricorda Nietzsche, “definibile è soltanto ciò che non ha storia”1. Teoria politica moderna significa, infatti, declino del Medioevo, ovvero riflessione critica, e conseguente presa di distanza, intorno alla formulazione sistematica di una teoria dello stato determinata dalla ricezione della Politica di Aristotele nel XIII secolo. Per essa natura e stato erano correlati ad un concetto omogeneo di realtà, a cui corrispondeva un ideale altrettanto omogeneo di “teoria”. La stessa cosa valeva per Platone: al centro della sua Politeia era la dottrina delle idee, e la famosa allegoria della caverna rendeva visibile la necessità di legare lo stato alla conoscenza della realtà assoluta. “L’agire politico doveva poggiare sull’evidenza del riferimento alla realtà: questa evidenza poteva essere raggiunta alla fine dell’ascesa dalle ombre della caverna al cosmo delle idee”2. Ad un primo livello di sviluppo della teoria, il disincanto realistico di Machiavelli e la proiezione utopica di Tommaso Moro hanno in comune un momento che separa entrambi dai presupposti tanto della teoria platonica dello Stato quanto da quella aristotelica: esse non sono più riferite al cosmo naturale, né a quello delle idee né alla sua riproduzione nei fenomeni né alla teologia di una natura umana realizzantesi nello Stato. “La realtà politica, quale se la rappresentano i due autori del XVI secolo, non è la continuazione della realtà fisica ‘con altri mezzi’”3. La mancata comprensione di questo distacco ha ingenerato l’equivoco illuministico, tutt’oggi non superato, che colloca l’utopia esclusivamente nella tradizione platonica (equivoco la cui conseguenza polemica è l’antimachiavellismo dichiarato degli stessi illuministi e di molti postilluministi). A partire da questa premessa, Memorie politiche del sottosuolo d’altra parte, nel pensiero moderno topica e utopica vengono riorganizzate in una dimensione di artificialità incomprensibile per la tradizione4 (modernità, dal punto di vista della cultura, può significare dunque progressione nella coscienza dell’artificiale: la teoria risulta moderna nella misura in cui rende esplicite le tappe di questa progressione). L’utopia, come recita il nome, non ha luogo. Per essa dunque non si può, come invece accade nell’allegoria platonica della caverna, indicare una topografia attraverso la quale una via porti all’evidenza delle idee5. La sua funzione è di altro tipo, è cioè indirizzata criticamente contro la fatticità dell’esistente. Ma essa non definisce ciò che deve subentrare al suo posto, anche se potrebbe farlo: essa mobilita la possibilità contro la realtà, sia pure per dare contorni più netti alla realtà stessa6. Nel trattamento fondamentale della realtà, dunque, rientra il fatto che la teoria, in quanto rischiaramento, mette in campo la scientia possibilium contro ciò che è divenuto ed è presentemente dato. Questa è al tempo stesso la debolezza dell’utopia; allarga bensì l’orizzonte del possibile, ma non trova l’evidenza del suo superamento, abbandona, cioè, il luogo senza raggiungere la necessità della localizzazione. Si può dire, con una semplice battuta, che abbandona il suolo per evocarne un frammento alternativo in linea orizzontale. Questo difetto di necessità, cui corrisponde l’espansione del campo enorme della possibilità, è un tarlo che la erode: ed è proprio qui che si annida, come suggerisce Blumenberg, il “residuo di bisogni platonici” che rimane in modo vistoso nella teoria moderna dello Stato7. 1. Uterotopia: ritorno alla caverna Una cosa è certa: dall’apparizione della Politeia platonica, gli europei hanno ammesso che gli uomini sono delle creature che hanno qualche cosa a che fare con le caverne. A partire, infatti, dall’uscita esemplare del filosofo che riesce a spezzare le catene che trattengono i suoi compagni nell’antro terreno, la caverna è servita alla revisione delle definizioni della realtà sulla superficie terrestre. S’inaugura così una lunga e persistente carriera della metafora8 che, passando da Aristotele, Cicerone e Lucrezio, Arnobio, arriva fino ai giorni nostri e, dopo aver rianimato una polemica puntuale sulla scienza tra Weber e Rickert9, ricompare nell’antropologia novecentesca come dispositivo esplicativo, spazialmente determinato, dell’antropogenesi dell’umano. Con la sua allegoria, infatti, Platone richiama l’attenzione sull’asimmetria delle relazioni tra suolo e sottosuolo. La cultura sotterranea e l’esistenza alla luce del sole sono, l’una rispetto all’altra, ciò che la regola è per l’eccezione – e il primato dell’eccezione si afferma, a partire da lì, in modo duraturo. L’asimmetria profonda tra un’esistenza condotta passivamente rispetto alla proiezioni di ombre credute vere e l’uscita eccezionale del filosofo che contempla l’evidenza illuminante delle idee ha sancito una delle prime e più influenti versioni di quella differenza tra l’alto e il basso, tra la luce e l’ombra, tra il rischiaramento razionale e l’ottundimento naturale che si fisserà successivamente come paradigma ascensionale, 4 Nell’Utopia di Moro, il libro capostipite di un genere letterario che avrà straordinaria fortuna, questa apertura della possibilità in termini di incremento dell’artificialità si esprime in modo, come dire, tecnico: l’isola degli abitanti di Utopia non è una formazione naturale, ma è nata con una separazione artificiale dalla terraferma. Il prezzo di questo distacco è percepito in modo ambiguo dallo stesso autore se è vero che il racconto, che comincia con un atto di incisiva trasformazione della natura, si conclude con un lamento sull’arroganza dell’uomo. 5 “La differenza della tradizione utopica da quella platonica diventa subito chiara nel prototipo del genere, l’Utopia di Tommaso Moro. Nel testo è esplicitata la negazione dell’evidenza del modello in essa esibito. Verso la fine del racconto sull’isola Utopia viene descritto il culto dei suoi abitanti, che termina con una grande preghiera finale, nella quale sacerdoti e popolo ringraziano insieme per il fatto che possono vivere nel migliore Stato. Ma subito circoscrivono la certezza di questa coscienza dello Stato: rivolgono infatti alla divinità la preghiera di fargli sapere se per caso non potrebbe esserci una comunità politica migliore. Questa relativizzazione è una forma di umiltà, ma non a caso compare alla fine di una esposizione di teoria dello Stato che pretende di entrare in concorrenza con la Politeia platonica e che è stata anche recepita in base a questa pretesa” (H. Blumenberg, Concetto di realtà, cit., pp. 128-129). 6 “In questo inizio del moderno pensiero filosofico politico sullo Stato si conferma che la “realtà” è concepita sempre in una relazione di contrasto. Le realtà si qualificano in quanto tali proprio perché possono essere difese dall’accusa 127 Gianluca Bonaiuti d’irrealtà. Platonismo, vale a dire: l’idea come istanza contro ciò che è ‘solo apparenza’. Machiavellismo, vale a dire: l’apparenza come istanza contro ciò che è ‘solo idea’. Utopia, vale a dire: la finzione della possibilità come istanza contro ciò che è ‘solo fatto contingente’ e perciò è meno dei suoi superamenti razionali” (Ivi, p. 130). 7 Come testimoniato, in anni recenti, dall’emersione di utopie mediocri soprattutto di lingua inglese. 8 La più completa ricostruzione di questo itinerario si trova in H. Blumenberg, Holehneaugange, cit., passim. 9 Sul punto si veda B. Accarino, Chiarezza senza amore. Scienza e leadership politica tra Max Weber e Hans Blumenberg, in La ragione insufficiente, Roma, Manifestolibri, 1995, pp. 127 e sg. Il riferimento weberiano è alla conferenza sulla Scienza come professione, per Rickert, invece, va visto H. Rickert, Max Weber und seine Stellung zur Wissenschaft, in “Logos”, XV, 1926, pp. 222-237. 10 “C’era un tempo in cui esistevano gli dèi, ma non esistevano le stirpi mortali. Quando anche per queste giunse il tempo segnato dal destino per la loro generazione, nell’interno della terra gli dèi le plasmarono, facendo mescolanza di terra e di fuoco, e degli altri elementi che si possono unire col fuoco e colla terra”. 11 H. Blumenberg, Licht als Metapher der Wahrheit. Im Vorfeld der philosophischen Begriffsbildung, in “Studium generale”, 1957, p. 437. 12 Per l’intera questione si veda H. Blumenberg, Höhlenausgange, cit.. Per una riformulazione della 128 o di elevazione, della cultura che combatte contro la propria possibilità di essere negata (o dichiarata inutile). Non bisogna dimenticare d’altra parte che sempre nella caverna la “coscienza greca” vedeva il momento originario della genesi dell’umano. Già nel Protagora (321 c) Platone, illustrando il mito di Prometeo, aveva rappresentato gli esseri viventi mortali come esseri fatti dagli dèi, nell’interno della terra, di terra e fuoco, e li aveva fatti uscire alla luce10. Ma l’emersione dal buio del grembo sotterraneo alla luce della realtà non si presenta come una occasione banale, accolta da tutti. In Platone, osserva sempre Blumenberg, “lo spazio all’esterno della caverna è il soggiorno extra-ordinario del saggio, mentre la situazione nella caverna indica il nostro stato “normale”; gli uomini nella caverna non sono strani, come dice Glaucone, ma simili a me, come lo corregge Socrate”11. A partire dalle pagine di Platone, il tema “caverna” emerge come un tema a se stante, capace di convogliare intorno a sé, non solo in forma mitica o mitopoietica, argomenti relativi alla spiegazione della genesi dell’umano e delle sue possibilità di conoscenza12. La stessa razionalizzazione della struttura del mondo ad opera dei cosmologi antichi, quella per cui, con una serietà concettuale inedita, la totalità degli esseri si dispone in spazi sferici concentrici che hanno i propri vertici di perfezione nella sfera esterna del cielo (che tutto contiene) e il punto più basso di perfezione in quel centro dell’universo che è la terra. A partire da qui l’ontologia classica ha offerto alla trattazione degli intellettuali questa immagine edificante dell’ordine, come geometria sublime, in cui l’uomo si definisce per quello che è nella misura in cui si rende capace di un movimento che dal basso, o meglio dal sottosuolo bruto in cui è stato forgiato, lo porta verso l’alto, la contemplazione del cielo e della sfera celeste (fino alla contemplazione delle divinità ultra-mondane). In questa topologia classica, il centro della terra figura come il luogo più basso possibile, il centro dei movimenti imperfetti, e si predispone all’ubicazione cristiana dell’inferno13. Nell’immagine del cosmo degli antichi la terra veniva paradossalmente presentata come il centro marginale di un universo14 la cui periferia celeste, l’involucro che tutto contiene e non è contenuto da niente15, veniva misurata dal pensiero e usata come modello e paradigma della perfezione. L’utopia di Tarde, contenuta nel breve testo a stampa del Frammento di storia futura (1896)16, rovescia esplicitamente questa rappresentazione, conferendo alle “viscere della terra” il significato anti-idealistico di ubicazione protettiva dell’umanità. In questo rovesciamento Tarde esprime, con una consapevolezza non banale per l’epoca, la direzione e il senso che la storia moderna hanno impresso alla moderna concezione del mondo: nel corso degli ultimi secoli la terra è emersa come l’unica vera sfera alla base dell’intero insieme del vivente, mentre tutto ciò che sino ad allora era valso come immagine d’insieme, sublime e immaginaria, di un cosmo carico di senso, va incontro a uno svuotamento. La proposizione di Tarde va perfino oltre: in condizioni di emergenza climatica particolare, è proprio quel centro della terra, quella caverna “originaria”, che nella geometria della sicurezza classica figurava come il luogo da cui l’uomo doveva uscire, che può riproporsi come l’unica antroposfera capace di proteggere l’insieme della Memorie politiche del sottosuolo vita umana. La salvezza dell’umanità futura viene raggiunta, nel racconto di Tarde, in un sottosuolo non metaforico. Occorre però a questo punto prendere in esame i passaggi del testo. La storia presentata da Tarde ha il seguente andamento. In un futuro molto lontano (XXV secolo) in cui le condizioni di vita dell’uomo sono mutate profondamente rispetto al presente, una catastrofe climatica, prodotta dal progressivo spegnimento del sole, costringe gli uomini in condizioni di sopravvivenza limite. La glaciazione che ha fatto seguito all’affievolirsi dei raggi solari ha ucciso quasi l’intera popolazione terrestre e ha costretto i sopravvissuti a ripiegare in poche aree della penisola arabica protette dai ghiacci. Lì, un condottiero il cui nome, Milziade, richiama ironicamente alla mente imprese d’altri tempi, avanza il progetto di abbandonare la superficie terrestre e ricostruire la civiltà umana nel sottosuolo, in caverne e cunicoli artificialmente riadattati alle condizioni di vita umane. Grazie alla forza e all’ingegno degli uomini sopravvissuti all’impresa si genera un secondo ciclo di civilizzazione umana sotterranea, in cui le condizioni di vita dell’uomo, tecnicamente garantite da una scienza sviluppata allo scopo, raggiungono una soglia di perfezione e felicità sconosciuta alla civiltà di superficie. In un mondo sotterraneo in cui una civiltà climatizzata artificialmente, i “trogloditi” del terzo millennio, possono dedicarsi alla coltivazione autogena di ciò che l’uomo ha di più prezioso: la propria capacità di perfezionamento nelle arti e nelle scienze e modalità di socializzazione e relazione con l’altro liberata dalla violenza e dalla sopraffazione. La vera società è la società politica del sottosuolo, a partire dal rovesciamento topologico dell’ontologia classica non è più solo l’ansia, ma la felicità dell’uomo, a specchiarsi sul fondo17. Col motivo “caverna”, e la conseguente riflessione intorno al fatto che solo in un interno mondano l’uomo possa ritrovare la salvezza contro un ambiente che è divenuto ostile, Tarde sposa la tesi biologica per cui l’essereall’esterno non può essere altro che un prolungamento di un essere all’interno in un altro milieu. In questa maniera l’utopia di Tarde approccia i problemi legati alla definizione del vivente accogliendo un motivo ontogenetico fondamentale per la biologia moderna, per la quale l’emersione del vivente alla libertà avviene a partire da un interno. La rinascita dell’umanità, in questo senso preciso, ripete il fenomeno dell’ovulazione verso l’interno, di cui l’uscita dall’utero riflette il protodramma di una vita animale che viene alla luce. L’umanità si rigenera solo nell’immanenza intrauterina della terra. Ed è lì che questo uterotopo artificiale trova la propria definizione più chiara. Sappiamo dalla letteratura critica quanto l’Utopia dipenda dalla definizione di un’isola. Da Tommaso Moro a Daniel Defoe, le isole servono da quadro generale per un processo di revisione contro le definizioni della realtà sulla terra ferma. La prassi dell’isolamento è coessenziale alla ridefinizione della realtà su un’altra scala. Tarde, nel suo frammento di storia futura, radicalizza il principio della creazione di uno spazio chiuso. Infatti i piccoli pezzi di terra che formano le isole questa chiusura non può essere assicurata, in quanto non offrono che un’isolamento orizzontale lasciando libera la dimensione verticale. In questo senso le isole marittime naturali risultano isolate in una maniera solamente relativa e bidimensionale, in problematica di Blumenberg legata al motivo della caverna si può vedere anche B. Accarino, Nomadi e no. Antropogenesi e potenzialismo in Hans Blumenberg, in Daedalus, cit. 13 Tarde ne è tanto consapevole che non manca di riferire l’impresa spaziale sotterranea alla morfologia dantesca, per gironi, dell’inferno: cfr. G. Tarde, Fragment d’Histoire future (1896), Biarritz, Atlantica, 1998, p. 123 (con un eccellente Prefazione di René Schérer, pp. 7-37). 14 Nella nota definizione di Freud – che qui segue Goethe – dell’umiliazione (Kränkung) che Copernico, con la sua teoria eliocentrica, avrebbe inferto al narcisismo dell’umanità si nasconde un errore di valutazione non osservato. Goethe e Freud prescindono entrambi dal fatto che nel modello aristotelicotolemaico la posizione centrale della terra non implicava in alcun modo una posizione privilegiata. Piuttosto, l’intera zona sublunare rappresentava il punto debole del cosmo, dove la morte e i movimenti finiti, lineari e imperfetti erano di casa. Cfr. P. Sloterdijk, Sphären II. Globen, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1999, pp. 416 e sg. 15 Secondo la classica formula aristotelica: Aristotele, Fisica, 212b. 16 G. Tarde, Fragment, cit. 17. “Il potere della caverna e il potere nella caverna si fondano insomma sul fatto che il bisogno di realismo è, in un essere che non ha più come unico problema quello della sua autoconservazione, limitato. Avere desideri che non consistono solo di bisogni è qualcosa riferito alla possibilità, il che si è forse espresso per la prima volta nella caverna e 129 Gianluca Bonaiuti presuppone la sua unica libertà, quella dell’immaginazione. Tra realismo e potenzialismo nasce, anche a lungo termine, una tensione che segnerà l’intera Neuzeit e che talvolta avrà il nome di utopia. Tuttavia nella formazione di una fantasia di ciò che in un primo momento era reso manipolabile solo in forma magica o simbolica si nasconde la futura realtà: i desideri sono più che un eccesso indeterminato di manipolabilità, appena si consolidano, diventano narrabili come miti di paradisi o di epoche d’oro, di popolazioni e comunità politiche al margine del mondo” (B. Accarino, Nomadi e no, cit., p.). 130 larghezza e lunghezza. In quanto esposte alle correnti di masse aeree aperte, non sono detentrici di un clima particolare. L’isola assoluta che prefigurano le città-caverne di Tarde suppongono un’isolamento tridimensionale, e in ragione di questo, un’inclusione completa. Integrando la dimensione verticale nei confini di reclusione, la caverna integra nel racconto utopico una differenza topologica esplicita tra interno ed esterno più chiara e definita rispetto al vicino-lontano delle isole classiche. Non è indifferente che proprio a questo proposito Tarde si lasci sfuggire un pronostico, quasi una profezia architettonica, sugli sviluppi futuri dell’organizzazione dello spazio. L’architettura futura sarà un’architettura d’interni. Grazie a queste precise coordinate spaziali Tarde investe il motivo caverna della letteratura filosofica e antropologica classica di nuovi elementi. Innanzitutto si sottolinea così uno dei motivi ricorrenti dell’antropologia novecentesca che consiste nel sottolineare, a differenza della coscienza greca, la non-originarietà della caverna in termini antropogenetici. Le caverne si profilano come un rifugio, in cui si definisce una situazione dormitiva addomesticata; sono i luoghi dove nasce il sonno profondo e con esso il sogno. A differenza della savana originaria della specie homo sapiens, in cui si dormiva vigilando contro il rischio di aggressione, la caverna offre un rifugio sicuro che, con un meccanismo di compensazione garantì la nascita della fantasia. In Tarde, questa dinamica antropogenetica si ripete in una situazione esplicitamente antropotecnica. L’uomo costretto alla fuga dal mondo di superficie a causa di una catastrofe ecologica globale, si rifugia nello spazio interno del mondo per costruire un’installazione antropica artificialmente climatizzata. Con essa si ridefiniscono le condizioni globali di riproduzione della vita dell’uomo in termini autodifensivi. La caverna di Tarde presenta una prospettiva antropotecnica dell’autodifesa dalla realtà: essa definisce una duplicazione dell’atteggiamento nei confronti della realtà. Nel sottosuolo, infatti, l’uomo trova la possibilità di sottrarsi alla sua pressione, e alle delusioni che questa impone – e non occorre qui soffermarsi sul fatto che la catastrofe, dopo il terrore del primo momento, possa costituire il più grande motivo di delusione. La memoria di una sopravvivenza futura parte dalla premessa di questa costruzione di un interno assoluto cui ci si potrebbe riferire col termine uterotopo. Il concetto di uterotopo, frequentemente impiegato come fantasma della parentela, designa lo spettro di uno spazio dotato di una potenza storica che suggerisce, nella misura in cui siamo territorializzati entro il nostro gruppo, il fatto che l’umanità può presentarsi, a certe condizioni tecniche date, come la creatura privilegiata della stessa caverna – gli utilizzatori figurandovi, in quanto legati da una solidarietà primitiva, come caratterizzati da una medesima anatalità nel girone di un gruppo comune. La “profondità” del gruppo umano corrisponde all’affermazione della sua funzione collettiva di nirvana: i suoi membri convergono in una irrealtà immaginariamente comune o in una pre-realtà di cooperazione – come dei fratelli e delle sorelle biologiche che condividono un mistero della caverna. La communio uterotopica si avvale della possibilità nata coll’illuminismo, quella di poter presentare la specie come un uterotopo adamitico. Memorie politiche del sottosuolo Quando si vuole trovare una esplicitazione all’ostinazione del sentimento di appartenenza, suggerisce Tarde, non bisogna dimenticare di studiare il modo di costruzione di uterotopoi. Essi costituiscono la forma politica dell’impossibilità di divenire adulti. La sintesi uterotopica è il fatto di essere stati scelti, in quanto uomini, come persone che provengono dalla stessa caverna incomparabile. All’inverso la sintesi utopica designa il fatto, per degli uomini, di essere scelti per camminare in comune verso un paese d’arrivo senza pari. Uterotopia e utopia si riflettono mutualmente come l’elitismo dell’origine e l’elitismo del futuro. 2. Post-histoire Il racconto dell’utopia tardiana è il frutto di uno scritto di uno storico futuro che ricostruice il proprio passato: l’avvenire si scrive al passato. Con questa semplice formula Tarde rimedita uno dei dispositivi classici della narrazione utopica e sperimenta, allo stesso tempo, una della matrici narrative della nascente science fiction. L’uso del paradosso temporale non deve distrarre dal nocciolo del problema: per raccontare una nuova storia bisogna che quella vecchia sia giunta alla fine. Con ciò Tarde viene a contatto con uno dei temi dominanti della filosofia della storia ottocentesca: quello della fine della storia (sulle cui fortune novecentesche bisognerà tornare più avanti). Che la storia sia finita, o, per dirla altrimenti, che il ciclo di civilizzazione occidentale inaugurato a partire dalla cesura moderna possa giungere ad una fine, è un fatto su cui nessuno storico può avere dei dubbi. Non è per caso che Tarde si è sempre dichiarato ammiratore di Cournot: anche qui, però, occorre fare attenzione. Niente è più distante da quest’analista della società presente dello spirito della profezia: il problema è un altro. Si tratta cioè di formulare anticipazioni, e praticarle, parodiandole, nel racconto. Il frammento di uno storico del futuro che racconta la rigenerazione dell’umanità a partire dalla propria discesa nella caverna serve per spiegare la direzione che lo sviluppo storico assume ai suoi occhi. L’esercizio dell’anticipazione coincide con l’approvazione della conoscibilità, almeno ipotetica, delle stazioni future della storia, premesso che una “storia” sia riconoscibile come ciclo unitario di civilizzazione. D’altra parte la possibile routinizzazione delle anticipazione è propriamente il contrassegno dell’avvento di un’epoca poststorica secondo la grammatica di filosofia della storia del teorico della probabilità Cournot18. Per illustrare lo stadio finale della civilizzazione moderna Tarde ricorre alla formulazione di uno schizzo di civiltà planetaria e globale contenuta nel primo capitolo del Frammento (La prosperità), in cui un’umanità assuefatta alla società del benessere, della salute e della sicurezza, si cristallizza in routine comportamentali imitative e prive di originalità (e di coraggio). Tarde descrive i tempi poststorici come lo sviluppo di un processo di uniformazione generale, un processo d’omologazione planetaria delle abitudini e dei costumi, delle lingue e delle istituzioni. Un processo che si costituisce grazie alla diffusione dell’uguaglianza, attraverso il moltiplicatore dei processi mediatici, di trasmissione della forza (grazie all’elettricità) 18 Com’è noto negli scritti di Cournot non è direttamente reperibile l’espressione posthistoire. Nella prospettiva di Cournot un modello triadico di storia mondiale fornisce lo schema per leggere lo sviluppo sociale umano a partire da uno stato di indifferenziazione, radicato in istinti primitivi e unità tribali, per finire in uno stadio finale (“état final”) in cui la civilizzazione produce un dominio controllato sulla natura umana (Cfr. L. Niethammer, Posthistoire. Ist die Geschichte zu Ende?, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1989, pp. 17-18). Caratteristica dello stato finale è quella di una prevedibilità significativa dei comportamenti umani: una vera e propria routinizzazione delle anticipazioni. In un articolo su Cournot, Bouglé rinominò l’état finale, chiamandolo “phase post-historique” (cfr. T. Martin, La philosophie de l’histoire de Cournot, in “Revue d’Histoire de Sciences Humaines”, n. 12, 2005, 1, pp. 141-162). Cournot descrive questa fase nei termini seguenti: le società tendono verso “uno stato in cui la storia si ridurrà a una gazzetta ufficiale, utile a registrare i regolamenti, i rilievi statistici, l’avvento di capi di stato e la nomina dei funzionari, e cesserà di conseguenza di essere una storia, secondo il senso che siamo abituati a dare a questa parola” (A. Cournot, Traité des idées fondamentales, §542, p. 485). Per un commento di Tarde a queste pagine si può ora vedere G. Tarde, Philosophie de l’hitoire et science sociale. La philosophie de Cournot (Cours al Collège de France, 1902-03), Paris, Les Empêcheurs de Penser en Rond, 2002, pp. 231 e sg. 131 Gianluca Bonaiuti 19 G. Tarde, Le leggi dell’imitazione, p. 69. 20 Cfr. G. Tarde, Psychologie économique, Paris, Felix Alcan, 1902, pp. 402 e sg. 132 e delle informazioni. Tale processo di socializzazione sopprime le antiche differenze e tende a realizzare l’ideale sociale dell’avvenire della modernità, che Tarde, precocemente ne Le leggi dell’imitazione, identifica così: “La riproduzione in grande della città antica (…) in cui il piccolo gruppo di cittadini eguali, simili, non smettono d’imitarsi e di assimilarsi, sarà divenuto la totalità degli uomini civilizzati”19. La dimensione politica di questo processo di assimilazione e di socializzazione generalizzata consisterà nella formazione di una governance politica mondiale, che nelle pagine conclusive della Psycologie économique Tarde chiama Impero20. Occorre subito precisare che Tarde non condanna in alcun modo tali processi di omogeneizzazione che conducono a delle grandi similitudini sociali, linguistiche, politiche, estetiche, poiché tali dinamiche inaugurano condizioni preliminari per forme migliori di innovazione. Il tema dell’impero percorrerà sempre il suo pensiero, per quanto Tarde oscillerà nell’identificarli come proiezione di questa o quella nazionalità emergente (America, Russia, Europa-america, o nella forma del Frammento “grande federazione asiatico-americano-europea”). La fine della storia ovvero del ciclo di civilizzazione si compie con la diffusione di una prosperità universale, in cui l’umanità sgravata, liberata dal bisogno, ovvero dal compito di assolvere funzioni servili, potrà dedicarsi alla cura di sé, e all’appagamento del proprio bisogno estetico. La diagnosi tardiana è perspicace e ironica, a questo proposito e pur non riprendendone i toni di condanna, largamente ispirati a motivi religiosi, ripete in qualche misura la nota diagnosi sulla civilizzazione occidentale contenuta nelle Memorie dal sottosuolo di Dostojevskij. In questa opera breve della maturità Dostojevskij, non senza una buona dose d’ingenuità cristiana, descrive il profilo di una distopia politica non riconosciuta: secondo il romanziere russo, infatti, la fine della storia, dunque il compimento della civilizzazione nella sua frazione occidentale, coincide con una forma architettonica dall’alto valore simbolico, quel Palazzo di cristallo (Crystal Palace) che aveva ospitato l’Esposizione universale e che lo stesso Dostojevskij aveva visitato nel 1862. Associando l’immagine di questa costruzione adibita all’intrattenimento e al consumo dei londinesi all’avversione che gli aveva suscitato la lettura del Che fare? di Cernishevskij, con la proposta di un palazzo della cultura fatto di vetro e metallo in cui avrebbero dovuto abitare gli Uomini Nuovi che hanno risolto la questione sociale, Dostojevskij prefigurava una fine della storia della civilizzaione in una serra gigante del relax, in cui una confusione edonistica avrebbe portato l’uomo ad una condizione universale di noia (skuka) post-storica. Secondo la visione di Dostojevskij la pace perpetua che in esso avrebbe regnato, e l’eterna primavera del consenso che ad essa si accompagna, avrebbe inevitabilmente condotto alla compromissione psichica degli abitanti. Un eccesso di relax, nella visione dello psicologo cristiano, si sarebbe convertita come conseguenza in una apertura della possibilità del male (raccolto nell’interiorità dell’uomo, secondo un motivo classico della critica pessimistica della civiltà). Pur con questa intonazione critica, Dostojevskij leggeva nell’enorme palazzo di cristallo una forma architettonica profetica, destinata ad essere copiata in tutto il mondo, in cui era in gioco il totale assorbimento del mondo esterno entro uno spazio interno completamente calcolato. Memorie politiche del sottosuolo Colpisce, in Tarde, il parallelismo sulla condizione ultima dell’uomo nella società civilizzata e quella degli abitanti dell’esperimento mentale del “Palazzo recintato” del Dostojevskij delle Memorie del sottosuolo. Anche per Tarde la noia definisce la tonalità esistenziale dominante del modo di vita post-storico. E ciò in ragione del fatto che la capacità d’integrazione della società finale potrebbe condurre alla sostituzione degli schermi protettivi psico-semantici offerti dalle religioni storiche con un sistema di cura attivistica dell’uomo e del suo benessere. La metafora del palazzo di cristallo come emblema delle ambizioni finali del Moderno (Dostojevskij) si presenta in Tarde come l’avvento di una condizione psico-politica di stampo neobabilonese, in cui gli uomini, radicati in una condizione di sicurezza e benessere, vedono scemare la propria capacità d’innovare e si trovano condannati ad una ripetizione senza sbocchi della loro cultura. Anche in questo caso dunque la noia e la mancanza d’iniziativa si profilano come il contrassegno esistenziale della vita poststorica21. L’attraversamento tardiano delle dinamiche di spazializzazione che contraddistinguono la modernizzazione non si ferma però al riconoscimento di un’immagine emblematica della costruzione architettonica che integra al proprio interno la totalità del sistema di vita sociale. Tarde si spinge oltre, identificando la fine della storia della civilizzazione come inevitabile riconoscimento del pianeta terra come supporto unico di tale sistema di vita e la sua saturazione dal punto di vista della scoperta. Logica della storia e logica della scoperta coincidono. La storia finisce quando tutti i centimetri disponibili di superficie terrestre sono stati censiti e la condizioni di vita possibili all’esterno del sistema climatico terrestre, che si presenta come un’eccezione cosmica, sono smentite dalla freddezza delle condizioni atmosferiche spaziali. Solo a questa condizione, che recentemente un filosofo attento alle stesse dinamiche, ha definito “monogeista”, si può spiegare la fuga verso l’interno dei sopravvissuti alla catastrofe. Il “viaggio al centro della terra”22 ripete, perfino nel campo di motivazioni personali del promotore, una dinamica di scoperta che la civilizzazione poststorica è stata costretta, dato l’esaurimento della superficie disponibile, a mettere da parte. La paralisi della spinta innovativa contenuta nel messaggio civilizzatore dell’Occidente moderno coincide in Tarde con la contrazione e il declino della logica della scoperta che lo sosteneva. Non è per caso che il barbaro dissidente Milziade, colui che annuncia la salvezza dell’umanità nell’asilo offerto dal sottosuolo, presenti i caratteri, ancora “storici” (per questo scambiati come segni di pazzia) di un desiderio d’iniziativa e di conquista del tutto estraneo all’umanità pacificata del mondo poststorico. 3. L’ultima “società” L’ultimo motivo alla luce del quale può essere letta l’Utopia tardiana del Frammento ha a che fare con il carattere tecnico specifico in cui viene definita la nuova costruzione dello spazio sociale sotterraneo dopo la 21 “Mondo storico” e “mondo post-storico” si trovano uno di fronte all’altro nella scena dell’annuncio da parte di Milziade del progetto di fuggire al centro della terra. I tratti peculiari del protagonista del viaggio sono tipicamente moderni perché segnati da una capacità d’iniziativa e di offesa che alle orecchie degli uomini poststorici suonano come il segno di una follia appena celata. Cfr. G. Tarde, Fragment, cit., p. 21 e sg. 22 Inutile sottolineare il significato dell’opera di Verne per la definizione di questa dimensione di avventura del viaggio di scoperta al centro del mondo. Con la differenza che, mentre nel romanzo di Verne i protagonisti sono destinati al ritorno alla superficie, con una perfetta simmetria tra andata e ritorno, nel romanzo di Tarde il fatto che l’umanità in immersione sia destinata al viaggio di sola andata riflette fedelmente la logica che presiedeva al viaggio di scoperta delle origini della modernità, in cui non era assicurato, secondo la logica simmetrica del traffico, il ritorno. Per una lettura di Verne come teorico del traffico globale si veda P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, Roma, Meltemi, 2006, pp. 67 e sg. Un precedente letterario, calato esplicitamente nella temperie utopistica settecentesca, è quell’Icosameron di Giacomo Casanova (forse il primo lavoro in cui si narra la storia di un’immersione nelle profondità del pianeta: G. Casanova, Icosameron ou histoire d’Edouard e d’Elizabeth qui passérent) in cui una piccola popolazione, i megamicres, vive al centro della terra, dove i due figli di Edouard ed Elizabeth, si sono salvati dopo una tempesta. 133 Gianluca Bonaiuti G. Tarde, Fragment, cit., p. 114. 23 24 “Lo stato sociale, come lo stato ipnotico non è che una forma di sogno, un sogno di comando e un sogno in azione. Non posseder altro che idee suggerite e crederle spontanee: questa è l’illusione propria del sonnambulo, e così anche dell’uomo sociale” (G. Tarde, Les lois de l’imitation, p. 83). Si può menzionare in proposito la teoria spinoziana del sonnambulismo come condizione umana ordinaria, enunciata in Ethica (III, 2). 25 Cfr. G. Tarde, Monadologie et sociologie (1893), Paris, 1999. Va ricordato che proprio a partire da questa svolta in anni recenti si è assistito ad un recupero in grande stile del pensiero di Tarde, sia in chiave epistemologica che sociologica e che ha fatto parlare di una vera e propria Tardomania. All’origine di tale riabilitazione nel dibattito contemporaneo si veda G. Deleuze, La differenza e la ripetizione, Milano, Cortina, 2003. Una ripresa di grande rilievo cfr. B. Latour, Gabriel Tarde and the End of the Social, in P. Joyce (a cura di), The Social in Question. New Bearings in History and the Social Sciences, London, Routledge, p. 117-132 26 G. Tarde, Monadologie et sociologie, cit., p. 61. 134 catastrofe. Tarde descrive questa costruzione con un’espressione efficace e “profetica” allo stesso tempo: egli parla apertis verbis di “installazione intraplanetaria”23. Con questa espressione Tarde non solo offre un modello di sperimentazione per la definizione degli insiemi sociali umani (e non è impossibile leggere nel Frammento un vero e proprio esperimento dell’autore teso a ridefinire il concetto proprio di società) – la qual cosa costituisce la prestazione più perspicua e duratura del percorso intelletuale tardiano; oltre a questo coll’immagine dell’Installazione integrale e integrante Tarde getta uno sguardo più che occasionale su una delle dinamiche artistiche ed estetiche del Novecento, intuendo che la scienza degli spazi umani di lì a breve si sarebbe costituita come una sperimentazione integrata per la costruzione di installazioni totali intese come opere d’arte. Da questo punto di vista quella che si presenta come un’utopia architettonica, e architetturale, esibisce i contorni di una ipotesi esistenziale che lega l’essere dell’uomo ad una condizione d’immersione scelta e supportata tecnicamente. Il ritorno alla caverna dell’umanità futura di Tarde si affida dunque ad una teoria dell’immersione come meditazione sull’essere-in-una-situazione climaticamente costruita. La tesi fondamentale della sociologia di Tarde, che vede nella condizione sociale dell’uomo uno stato di sonnambulismo (o ipnosi) mimetico24, viene formulata ad un nuovo livello che tiene conto dell’elemento tecnico che predispone un clima adatto alla proliferazione delle aggregazioni umane. Proprio in questa dimensione si spiega in modo chiaro la svolta monadologica impressa da Tarde alla sociologia25: un ingegnoso tentativo neo-leibniziano per generalizzare il pensiero dell’associazione fino al punto in cui tutti gli oggetti empirici possono essere descritti come delle situazioni di coesistenza tra qualche cosa e qualche altra cosa. Uno dei meriti dell’approccio monadologico nella teoria della società di Tarde è legato all’attenzione ch’esso porta sull’associazione di piccole entità che impedisce la cecità verso lo spazio che caratterizza le sociologie correnti. Da questo punto di vista “le società” sono delle dimensione che esigono spazio, e non possono essere adeguatamente descritte che attraverso una analisi dell’estensione, una topologia e una teoria della dimensione e un’analisi della rete. Altrove Tarde propone un esperimento intellettuale per indicare una direzione possibile per questo tipo di studi: se l’istinto di sociabilità dell’uomo non fosse arginato da limiti invalicabili che derivano dalla gravità, si vedrebbero nascere presto o tardi a fianco dei popoli noti sul piano orizzontale, delle nazioni verticali – delle comunità di grappoli umani che si eleverebbero nell’aria e non si appoggerebbero al suolo terrestre che su un punto che serve da appoggio, senza estensione alcuna a partire da questo punto. “Ma – commenta Tarde – è appena utile spiegare perché ciò sarebbe impossibile. Una nazione tanto alta quanto larga sorpasserebbe di molto la zona respirabile dell’atmosfera, e la crosta terrestre non fornirebbe materiali sufficientemente solidi per le costruzioni titaniche necessarie a questo sviluppo urbano nella direzione verticale”26. Questo semplice esperimento, che ripete tra l’altro la critica tardiana alle prospettive di elevazione sociale, ci offre un indice del fatto che abbiamo, con Tarde, a che fare con una sociologia attenta alla morfologia e lucida sulla teoria dello spazio. Memorie politiche del sottosuolo Si tratta infatti di uno dei rari passaggi della sociologia moderna che interpreta le agglomerazioni umane con uno sguardo di sbieco sulle condizioni statiche, formali e atmosferiche della coesistenza degli uomini nello spazio. Ed è esattamente ciò cui si riferisce la topologia del Frammento: l’immersione dell’umanità in una caverna climatizzata e attrezzata allo scopo indica l’ipotesi di una società che sia descrivibile come un’installazione climatica polisferica, tanto in senso fisico che in senso psicologico. Il sottosuolo si presenta, dunque, come il contenitore autogeno di una società nuova in cui i flussi di desiderio e di creatività si dispongono ad una continua rigenerazione non frenata. La teoria di Tarde supporta così non solo una revisione psicotopologica, scartando l’ipotesi dell’originarietà dell’individuo27, ma perfino socio-topologica, presentando la società come ciò che rende, ed è, allo stesso tempo, reso, possibile la costruzione di un guscio climatizzato capace di garantire confort e creatività. Il fatto che nel Frammento la conquista immunitaria di uno spazio di sopravvivenza per l’uomo sia legato all’immersione della società nella monade geologica del pianeta terra aggiunge solamente un commento immaginativo e ironico ad uno dei punti fermi della coscienza contemporanea: le abitazioni moderne costituiscono delle installazioni esplicite di smussamento che producono il background delle sensibilizzazioni. Anche il sottosuolo viene prodotto. La modernità non è altro che questo: ciò che va da sé è sempre più raro, l’abituale è scomposto in un campo di missioni e di progetti tecnici enunciati esplicitamente. Per questa ragione gli “ultimi uomini” dell’utopia tardiana non raggiungono mai una conciliazione con la natura, che anzi è esclusa nello spazio del sottosuolo; al contrario vivono condizioni di vita artificialmente costruite, col che Tarde suggerisce il fatto che la divisione tra natura e società risulta irrilevante per comprendere il mondo delle interazioni umane. L’installazione sotterranea del Frammento non è che un laboratorio sperimentale di “logica sociale”. In anni recenti Bruno Latour ha suggerito quanto fosse ovvio che prima dell’invenzione di internet, date le nostre cognizioni del reale, la sociologia di Tarde dovesse rimanere incompresa28; si potrebbe, non senza ironia, aggiungere che prima dell’avvento di una società globale, centrata su un concetto di telecomunicazione tecnicamente supportata, perfino questo piccolo lavoro di immaginazione sociologica non avrebbe potuto incontrare lettori adeguati alla propria comprensione. 27 Uno dei più grandi equivoci della ricezione tardiana è stato, oltre all’accusa di psicologismo, quello di aver scambiato la teoria di tarde come una teoria dell’individualismo. 28 B. Latour, Gabriel Tarde and the End of the Social, cit. 135