Costruzione di un prototipo di telescopio per raggi cosmici costituito

ALMA MATER STUDIORUM · UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
FACOLTÀ DI SCIENZE MATEMATICHE, FISICHE E NATURALI
Corso di Laurea Triennale in Fisica
Costruzione di un prototipo
di telescopio per raggi cosmici
costituito da barre di scintillatore
e fotomoltiplicatori al silicio
Relatore:
Chiar.mo Prof.Antonio Maria
Rossi
Candidato:
Giorgio Barozzi
Co-relatori:
Dott. Fabrizio Fabbri
Dott. Alessandro Montanari
Sessione III
Anno Accademico 2007-2008
Indice
Introduzione
1 Scintillatori
1.1 Scintillatori organici . .
1.2 Scintillatori inorganici .
1.3 Scintillatori vetrosi . . .
1.4 Scintillatori gassosi . . .
1.5 Caratteristiche principali
1
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2 Fotorivelatori
2.1 I tubi fotomoltiplicatori (PMT) . .
2.2 Dispositivi a stato solido . . . . . .
2.2.1 Fotodiodo a giunzione PN .
2.2.2 Fotodiodo a giunzione PIN .
2.2.3 Fotodiodo a valanga (APD)
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3 SiPM
3.1 Struttura . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.2 Caratterizzazione . . . . . . . . . . . . . .
3.2.1 Caratteristica I-V . . . . . . . . . .
3.2.2 Segnale . . . . . . . . . . . . . . .
3.2.3 Cross-talk ottico . . . . . . . . . .
3.2.4 After-pulse . . . . . . . . . . . . .
3.3 Parametri . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.3.1 Conteggio di fotoni . . . . . . . . .
3.3.2 Efficienza nella rivelazione di fotoni
3.3.3 Dark count . . . . . . . . . . . . .
3.3.4 Guadagno . . . . . . . . . . . . . .
3.4 Vantaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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39
INDICE
INDICE
4 Progetto del telescopio e test dei componenti
41
4.1 Scintillatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42
4.2 SiPM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
5 Realizzazione del telescopio
49
5.1 Parte elettronica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
5.2 Parte meccanica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53
Conclusioni
57
Bibliografia
59
ii
Introduzione
Le attuali ricerche nel campo della fotorivelazione a stato solido hanno
portato alla realizzazione di una nuova classe di dispositivi, basati sul silicio, estremamente interessanti per future applicazioni nel campo della fisica
delle particelle: i Silicon PhotoMultiplier (SiPM). Questi dispositivi, oltre a
conservare i vantaggi dei tubi fotomoltiplicatori, possiedono alcune interessanti caratteristiche tipiche della tecnologia del silicio: fattori di guadagno
dell’ordine di 106 , ottima sensibilità al conteggio di singolo fotone, bassissima tensione di lavoro e insensibilità al campo magnetico. Le caratteristiche dei SiPM li rendono particolarmente attraenti per un ampio spettro di
applicazioni sperimentali.
Questo lavoro di tesi è stato realizzato all’interno di un progetto per la
costruzione di un prototipo telescopio per muoni cosmici, ad uso dimostrativo, basato sull’utilizzo di questi fotorivelatori: si sfrutta la coincidenza dei
segnali prodotti da tegole di materiale scintillatore per rivelare il passaggio
di particelle provenienti dai raggi cosmici (tipicamente muoni al minimo di
ionizzazione) e visualizzarne approssimativamente la direzione di volo con
l’ausilio di LED luminosi. A differenza di analoghi sistemi basati su altre
tecniche di rivelazione, l’utilizzo dei SiPM per la lettura degli scintillatori ha
permesso di ottenere un sistema facilmente trasportabile e alimentato con
una tensione di poche decine di volts. La progettazione e la realizzazione del
rivelatore è avvenuta all’interno del gruppo di Bologna della collaborazione
CMS a LHC. Il lavoro è stato svolto avvalendosi della collaborazione del laboratorio di elettronica e dell’officina meccanica della sezione locale dell’INFN.
Il primo capitolo illustra i principi fisici che regolano il funzionamento degli scintillatori e le principali differenze che caratterizzano i diversi materiali
con questa proprietà, sottolineandone i vantaggi e gli svantaggi.
Il secondo descrive i sistemi tradizionali di fotorivelazione e i più recenti
rivelatori basati sulla fisica dello stato solido, evidenziando i principali pregi
e difetti.
Il terzo capitolo tratta dettagliatamente i SiPM: si analizzano, in parti1
INDICE
INDICE
colare, la loro struttura costruttiva, la loro caratteristica I–V e i parametri
tipici per la rivelazione di bassi flussi di fotoni.
Il quarto capitolo presenta il progetto del telescopio e i risultati dei test effettuati sui componenti di base, per determinarne le caratteristiche operative
ottimali.
L’ultimo capitolo, infine, descrive la realizzazione del telescopio.
2
Capitolo 1
Scintillatori
I rivelatori a scintillazione sono basati sulla emissione di luce indotta dal
passaggio di particelle cariche in opportune sostanze liquide, solide o gassose.
La luce di scintillazione può essere sfruttata sia per rivelare il passaggio di
particelle o fotoni, che per misurarne la perdita di energia.
La rivelazione di radiazione ionizzante per mezzo della luce di scintillazione, prodotta in particolari materiali, è stata una delle prima tecniche
impiegate in fisica delle particelle.
Oggi viene utilizzata in fisica nucleare e sub–nucleare per generare segnali di trigger, per misure di tempi di volo, per effettuare coincidenze, per
costruire calorimetri adronici e elettromagnetici, per spettroscopie α,β e γ.
Negli scintillatori l’energia persa da radiazione e particelle cariche che li
attraversano viene in parte riemessa velocemente sotto forma di fotoni.
I principali processi di luminescenza sono:
• Fluorescenza: emissione immediata di radiazione visibile in seguito a
eccitazione del materiale.
• Fosforescenza: emissione a lunghezza d’onda e tempi maggiori del processo precedente.
• Fluorescenza ritardata: emissione con lo spettro identico a quello di
fluorescenza, ma in ritardo sull’eccitazione.
Un buon scintillatore converte la frazione maggiore possibile di energia incidente in luce di fluorescenza, minimizzando le altre due tipologie di emissione.
La scelta di un particolare materiale scintillatore, è determinata da alcune
caratteristiche fondamentali:
• Efficienza di scintillazione: rappresenta la frazione dell’energia totale
incidente che viene convertita in luce. Il suo valore è limitato dalla
3
1.1 Scintillatori organici
Scintillatori
presenza di canali alternativi, non–radiativi, offerti dal tipo particolare di materiale impiegato, per la dissipazione di energia (processi di
quenching legati al calore o vibrazioni reticolari); inoltre si deve sottolineare che in una scala assoluta quest’efficienza è, solitamente, abbastanza bassa. Tipicamente viene espressa in scala assoluta in termini
di f otoni/M eV (numero di fotoni normalizzato all’energia incidente) o
in percentuale rispetto a valori di riferimento [1].
• Linearità: la relazione fra energia depositata e luce prodotta dovrebbe
essere il più lineare possibile, sul più ampio spettro disponibile.
• Trasparenza: il materiale deve risultare trasparente alla propria emissione luminosa (minimizzare l’auto–assorbimento).
• Risposta temporale: i processi interni che portano alla liberazione dei
fotoni devono essere i più veloci possibili (generare impulsi veloci).
• Specifiche tecniche: il materiale deve adattarsi al meglio alle particolari
esigenze sperimentali, come forma e dimensione del rivelatore, tipologia di particelle da rivelare e accoppiamento con successivi dispositivi
fotorivelatori.
Delle principali categorie di scintillatori, i due tipi maggiormente impiegati sono quelli organici e quelli inorganici: i primi sono caratterizzati da
un’ottima risposta temporale, i secondi da una buona emissione luminosa e
linearità con l’energia.
1.1
Scintillatori organici
Gli scintillatori organici sono idrocarburi aromatici contenenti anelli benzenici; il processo di scintillazione nasce dalle transizioni degli elettroni liberi
di valenza delle molecole e risulta perciò indipendente dal particolare stato
d’aggregazione del rivelatore. Questa caratteristica rende questa classe di
materiali estremamente versatile e di larghe applicazioni.
Rispetto ad altre tipologie di scintillatori (in particolare quelli inorganici)
risultano migliori per tempi di risposta, costi di produzione e dimensioni ma
non per risoluzione energetica.
La struttura fondamentale di questi materiali che viene sfruttata è l’orbitale molecolare – π, in cui sono delocalizzati tutti gli elettroni liberi di
valenza, tipica dell’anello benzenico di questi composti organici: i livelli molecolari accessibili per gli elettroni eccitati sono limitati ad un set di stati di
4
Scintillatori
1.1 Scintillatori organici
singoletto Si a spin 0 e uno di stati di tripletto Ti a spin 1 (∆E ∼ 3 ÷ 4 eV ),
a loro volta suddivisi in vari sotto–stati vibrazionali (∆E ∼ 0.15 eV ).
Figura 1.1: Stati eccitati della struttura elettronica – π e transizioni radiative.
A temperatura ambiente l’energia media dovuta all’agitazione termica è
dell’ordine di 0, 025 eV e la maggior parte degli elettroni popola lo stato
fondamentale S00 . Il passaggio di radiazione ionizzante o di particelle cariche
deposita energia nel materiale, eccitandone gli elettroni a stati di singoletto
superiori, da cui decadono non–radiativamente, con tempi dell’ordine del ps,
allo stato S1 (processi di degradazione interna): l’effetto globale del deposito
di energia nello scintillatore è quindi la popolazione del primo stato eccitato
di singoletto. La successiva diseccitazione allo stato fondamentale determina
invece l’emissione radiativa della luce di fluorescenza, con i tempi determinati
dalla vita media dello stato S1 , dell’ordine di pochi ns.
Per quanto riguarda i processi di emissione come la fosforescenza o la
fluorescenza ritardata, si devono considerare anche le transizioni che portano
gli elettroni dallo stato S1 allo stato T1 (intersystem crossing), caratterizzato
da una vita media τ molto maggiore (arriva fino a 10−3 s): la diseccitazione da
questo stato a quello fondamentale è responsabile della fosforescenza, mentre
la fluorescenza ritardata è dovuta a elettroni che tornano allo stato S1 e da
lı̀ passano allo stato S0 (Figura 1.1) [5].
5
1.1 Scintillatori organici
Scintillatori
Il meccanismo di emissione e il ∆E caratteristico rendono i fotoni di
fluorescenza emessi incapaci di eccitare a loro volta altri elettroni: il materiale risulta perciò trasparente alla propria luce di scintillazione, oltre a non
manifestare praticamente alcuna dipendenza del tempo di decadimento τ e
dell’efficienza dalla temperatura.
La stretta connessione della luce di scintillazione con le proprietà molecolari e non con proprietà strutturali, tipo reticoli cristallini, rende questi
materiali adatti per vari tipi di sviluppi, indipendentemente dallo stato fisico; le necessità sperimentali determinano, volta per volta, le condizioni di
utilizzo ottimali: le molecole ”scintillanti” possono essere integrate con altri
materiali, possono essere solubilizzate in opportuni solventi, possono essere
polimerizzate o utilizzate pure. Lo stato in cui si trovano questi materiali
scintillatori ne determina la principale classificazione:
• cristalli organici;
• soluzioni organiche liquide;
• scintillatori plastici;
• scintillatori organici arricchiti.
Cristalli puri
Storicamente i primi materiali organici a essere usati, in forma di cristalli
puri, furono l’antracene (C14 H10 ) e lo stilbene (C14 H12 ), rispettivamente con
la più alta efficienza di scintillazione e con ottime capacita di distinzione fra
particelle cariche ed elettroni. Per quanto riguarda l’efficienza di scintillazione dell’antracene, ad oggi usata come riferimento per gli altri scintillatori
organici, il valore tipico è dell’ordine di 16500 f otoni/M eV mente per lo
stilbene circa il 50% dell’antracene. Entrambi i materiali sono relativamente
fragili e difficili da ottenere in grandi quantità.
Soluzioni organiche liquide
Sono prodotte miscelando uno scintillatore organico in un solvente appropriato. Eventualmente può essere aggiunto un terzo componente opzionale
con funzione di wave lenght shifter, cioè ”spostare” la λ della luce di fluorescenza verso valori maggiori attraverso processi di assorbimento ed emissione,
spesso per necessità di accoppiamenti successivi a dispositivi fotorivelatori.
L’efficienza è il 70% di quella dell’antracene. Per la facilità di produzione e
per la maneggevolezza sono impiegati spesso in rivelatori di grande volume.
6
Scintillatori
1.2 Scintillatori inorganici
Scintillatori plastici
Si ottengono dalla polimerizzazione di soluzioni liquide contenenti l’agente scintillante organico primario, che origina un materiale plastico solido
largamente impiegato per la semplicità di modellazione. Per questi materiali, rispetto all’antracene, l’efficienza di scintillazione è circa il 60%. Come
nel caso precedente i bassi costi di fabbricazione e la grande versatilità (si
passa da barre di 5 cm a fogli di 50 µm), li rendono ottimi per coprire grandi
volumi con scintillatori solidi
Scintillatori organici arricchiti
Gli scintillatori organici, come categoria generale, sono usati direttamente per la rivelazione di particelle α e β e possono essere facilmente adattati
per i neutroni veloci; per quanto riguarda i raggi γ invece, il basso valore di
Z dei suoi costituenti principali (idrogeno, carbonio) rende la sezione d’urto
fotoelettrica molto bassa. Per ottenere, nello spettro ricavato dai fotoni, un
fotopicco, sovrapposto al continuo dovuto allo scattering Compton, si interviene aggiungendo al materiale particelle di elementi ad alto Z, tipo piombo
o stagno. In questo modo diventa competitivo il processo di conversione
fotoelettrica dei raggi γ.
1.2
Scintillatori inorganici
Nei materiali inorganici il meccanismo di scintillazione dipende dalla
struttura cristallina del materiale stesso, e per questo, a differenza degli
scintillatori organici, devono presentarsi necessariamente allo stato solido.
Considerando la disposizione dei livelli energetici nel reticolo cristallino di
un’isolante o di un semiconduttore puro, si evidenziano due bande energetiche
disponibili per gli elettroni: la banda di valenza (rappresenta cariche legate
ai siti reticolari) e la banda di conduzione (rappresenta portatori liberi di
muoversi nel reticolo), separate da un gap di energie proibite.
L’assorbimento di energia da parte del cristallo comporta il passaggio di
un elettrone alla banda di conduzione, lasciando una lacuna in banda di valenza; il successivo processo di ricombinazione porta a un’emissione radiativa
di energia pari al ∆Egap (Figura 1.2).
Nel caso di cristalli puri il fotone, emesso oltre la banda del visibile,
corrisponde proprio all’energia di eccitazione reticolare ∆Egap : per aumentare la lunghezza d’onda di queste emissioni e impedire cosı̀ anche l’auto–
assorbimento (rendendo cioè i fotoni di energia inferiore al minimo necessario
per ri–eccitare altri elettroni) si drogano i materiali aggiungono percentuali
7
1.2 Scintillatori inorganici
Scintillatori
Figura 1.2: Ricombinazione radiativa in un semiconduttore.
di altri elementi, detti attivatori. La presenza di queste impurità introduce
nuovi siti reticolari, modificando la struttura del cristallo puro e introducendo
nuovi livelli energetici fra le bande di valenza e di conduzione.
Figura 1.3: Andamento dei livelli energetici per semiconduttori drogati.
Gli elettroni, promossi in banda di conduzione dal passaggio di radiazione
ionizzante, si muovono fino a raggiungere siti di attivatori precedentemente
ionizzati da lacuna in moto nella banda di valenza, occupandone i livelli eccitati per tempi caratteristici di ∼ 10−7 s. La diseccitazione da questi stati alla
banda di valenza corrisponde a ∆E < ∆Egap , cioè a radiazione di lunghezza
d’onda maggiore del caso precedente: si sposta cosı̀ il picco di emissioni verso
la luce visibile (per scelte opportune del materiale di drogaggio si possono
ottenere fotoni nel visibile) e si risolve il problema dell’assorbimento dei γ da
parte di altri siti reticolari (Figura 1.3) [3].
Uno dei principali vantaggi delle luminescenza mediante impurità attivatrici è la trasparenza del cristallo alla propria emissione: nel caso di sostanza pura, essendo richiesta, per l’assorbimento, la stessa energia emessa
nella diseccitazione, non può essere trascurato il contributo dei processi di
8
Scintillatori
1.2 Scintillatori inorganici
auto–assorbimento; nel caso di materiali drogati invece, l’energia emessa nelle transizioni verso lo stato fondamentale risulta minore di quella necessaria
per la creazione di nuove coppie elettrone–lacuna.
I principali processi di diseccitazione alternativi e competitivi con questi,
sono legati a processi di quenching non–radiativi, alla creazione di particolari stati metastabili per cui la transizione allo stato fondamentale è proibita o stati che richiedono apporti successivi di energia per poter decadere
(responsabili dei processi di fosforescenza).
Alcuni dei principali materiali inorganici impiegati come scintillatori sono
N aI(T l), CsI(T l), BaF2 e Bi4 Ge3 O12 .
N aI(T l)
Il sodio iodato cristallino, drogato con tallio, è il materiale di questa categoria con la maggiore produzione luminosa e con un’ottima risposta lineare
all’energia depositata, sia per gli elettroni che per raggi γ, in quasi tutti i
range energetici significativi. Per queste sue caratteristiche viene assunto
come riferimento per le emissioni degli altri scintillatori inorganici. Presenta
una componente luminosa primaria con tempo di decadimento τ = 230 ns e
alcune componenti secondarie di fosforescenza più lente (ms). La presenza di
questi after–glow, unita ai tempi relativamente lunghi anche della componente principale, rende questo materiale inadatto per conteggi ad alta frequenza. La sua efficienza assoluta di scintillazione è circa 38000 f otoni/M eV .
Realizzato per accrescimento da un cristallo puro, può essere sagomato per
compressione di microcristalli.
Gli svantaggi tecnici principali sono l’alto carattere igroscopico, che ne
deteriora rapidamente le proprietà a contatto con l’atmosfera e i bassi valori
di resistenza a shock termici e meccanici
CsI(T l)
Il cesio iodato, drogato con tallio, ha capacità di emissione inferiori di
un fattore 2 rispetto al N aI(T l) e tempi di decadimento ancora superiori,
ma la maggiore densità e la minore igroscopicità lo rendono più facilmente
impiegabile, sopratutto nella rivelazione dei γ di alta energia e nei calorimetri
elettromagnetici.
BaF2
Il fluoruro di bario puro sopperisce ai problemi temporali tipici di questa categoria (legati al meccanismo stesso di produzione della luce) con una
9
1.3 Scintillatori vetrosi
Scintillatori
componente nello spettro U V (λ = 220 nm) con tempo di decadimento
τ = 0.6 ns. Viene utilizzato per misure di tempi di volo a risposta veloce.
Il suo svantaggio principale è legato all’output luminoso abbastanza limitato (circa il 20% del N aI(T l), tipicamente 9500 f otoni/M eV ).
Bi4 Ge3 O12
Il bismuto germanato, BGO, è lo scintillatore inorganico a densità maggiore, ρ = 7, 3 g/cm3 , con lo Z più alto, grazie alla presenza del bismuto.
Presenta una componente di decadimento principale con τ = 300 ns (legata alle transizioni dello ione Bi3+ ) e una secondaria (10% del totale) con
τ = 60 ns. Nonostante sia impiegato come cristallo puro, risulta trasparente
fino a dimensioni di alcuni centimetri.
L’emissione luminosa è relativamente ridotta, 15 − 20% del N aI(T l)
(8200 f otoni/M eV ).
1.3
Scintillatori vetrosi
Si tratta di una particolare categoria di vetri silicati, contenenti litio e
drogati con attivatori di cerio, che presentano buone proprietà di emissione
luminosa nel blu (∼ 20% dell’antracene, 3500 f otoni/M eV ), associata al
Ce3+ . L’efficienza assoluta di scintillazione si attesta sull’1 − 2%. Possiedono
tempi di decadimento τ ∼ 50 ns, che li collocano in posizione intermedia fra
gli scintillatori organi e inorganici. Presentano una particolare insensibilità
a stress meccanici, chimici, termici e a danni da radiazioni: per queste loro
caratteristiche vengono spesso impiegati per conteggi di neutroni, particelle
β e raggi γ in situazioni sperimentali proibitive per altri tipi di scintillatori.
A loro svantaggio presentano una risposta a particelle cariche non–lineare
con l’energia e per conteggi a basso rate si rischiano interferenze dovute al
fondo di emissioni di potassio e torio radioattivi, presenti in basse percentuali
nei vetri.
1.4
Scintillatori gassosi
Molti gas hanno caratteristiche di luminescenza ma solo alcune categorie,
tipo i gas nobili come elio e xenon, vengono impiegate in fisica nucleare e delle
alte energie. L’emissione è legata alla diseccitazione dei componenti gassosi,
successiva al passaggio di radiazione energetica nel mezzo: le componenti
veloci si manifestano con tempi τ ∼ ns nella regione dell’ultravioletto (si
può intervenire sulla λ mediante wave lengh shifter).
10
Scintillatori
1.5 Caratteristiche principali
L’efficienza di scintillazione complessiva rimane comunque abbastanza
bassa a causa di altri processi di diseccitazione non radiativi, come smorzamenti interni o collisioni molecolari.
Gli sviluppi più recenti hanno introdotto rivelatori formati da gas nobili
condensati in forma di liquidi criogenici o solidi, che presentano efficienze
molto maggiori.
1.5
Caratteristiche principali
La risposta di luce di un materiale scintillante è strettamente connessa
con l’efficienza di conversione in fotoni dell’energia persa dalla particella per
eccitazione; inoltre, la luce prodotta dipende dal tipo di particella e dalla sua
energia.
Una radiazione ionizzante che attraversa un materiale scintillante crea
lungo il suo percorso una quantità di molecole ionizzate o eccitate. Se l’energia persa dE/dx è piccola, i centri di ionizzazione ed eccitazione sono
distanziati fra loro e si possono trascurare la reciproca interazione: la luce L,
generata in queste condizioni, è proporzionale all’energia depositata nel materiale. Se invece le particelle sono più pesanti o non sono M IP (Minimum
ionizing particle), intervengono processi di quenching che sopprimono parzialmente l’eccitazione primaria, a causa dell’alta densità di centri ionizzati
o eccitati, determinando un’emissione di luce per unità di lunghezza:
A dE
dL
dx
=
dx
1 + kB dE
dx
dove A rappresenta l’efficienza assoluta di scintillazione e kB è il parametro
relativo alla densità di centri di ionizzazione [2].
A causa della natura stocastica del processo di emissione di luce di fluorescenza, i fotoni di scintillazione non sono emessi tutti simultaneamente.
In uno studio preliminare della risposta temporale di questi materiali viene assunto come istantaneo il popolamento dello stato eccitato, cosı̀ da poter
considerare il profilo temporale dell’impulso come formato da una rapidissima
componente di salita iniziale, seguita da un decadimento esponenziale:
I = I0 e−t/τ
Trattazioni più dettagliate devono prendere in considerazione anche il
tempo iniziale di transizione, tipicamente frazioni del ns, e le componenti
successive, più lente, dovute a fluorescenza e fosforescenza ritardata. Si considerano, infatti, componenti rapide quelle con emissioni significative (∼ 10%
11
1.5 Caratteristiche principali
Scintillatori
del totale) fino a tempi dell’ordine del µs, mentre vengono classificate come
componenti lente quelle con tempi caratteristici maggiori.
Un aspetto estremamente interessante legato a questo fenomeno consiste
nell’osservata dipendenza dell’intensità relativa delle componenti rapida e
lenta dalla perdita di energia dE/dx, che rende la forma dell’impulso prodotto
diversa per tipi di particelle differenti. Le cause di questo effetto sono da
ricercare nella diversa dipendenza dei due tipi di emissione dai processi di
quenching, che interessano prevalentemente le componenti rapide.
Questa proprietà rende allora possibile la discriminazione di particelle di
massa diversa (Pulse Shape Discrimination) [2].
12
Capitolo 2
Fotorivelatori
I fotorivelatori sono dispositivi finalizzati alla rivelazione di fotoni, mediante la conversione in segnali elettrici misurabili.
Sono molto utilizzati in fisica delle particelle, tipicamente accoppiati a
scintillatori: per essere rivelati, i fotoni prodotti, in questi materiali, dal
passaggio di radiazione energetica necessitano infatti di raccolta e amplificazione. I fotorivelatori fungono sia da trasduttori che da moltiplicatori di
carica. Questo processo può essere schematizzato come segue:
• i fotoni colpiscono la parte sensibile del fotorivelatore generando cariche
elettriche (tipicamente elettroni o coppie elettrone-lacuna);
• la carica prodotta viene raccolta ed eventualmente amplificata;
• un circuito d’uscita produce un segnale elettrico misurabile.
I fotorivelatori si dividono in 2 categorie: i dispositivi a vuoto e quelli a
stato solido. Nel seguito verranno descritti brevemente i tubi fotomoltiplicatori (PMT), come esempio del primo tipo, e i dispositivi a semiconduttore
(fotodiodo a giunzione PN e PIN, fotodiodi a valanga APD) per la seconda
categoria. Un approfondimento è dedicato ai SiPM, un particolare tipo di
fotodiodio a valanga operante in modalità Geiger (GM–APD), basato sulla
tecnologia del silicio, utilizzato in questa tesi.
In entrambi i dispositivi delle due categorie, una superficie fotosensibile
rilascia elettroni quando viene colpita da fotoni di energia sufficiente. Nei
tubi fotomoltiplicatori questa superficie è il fotocatodo mentre nei fotodiodi
è la regione di svuotamento della giunzione PN, o PIN.
Nei PMTs gli elettroni, per generare un segnale apprezzabile, vengono
moltiplicati direttamente dal dispositivo (sistema dei dinodi); nei fotodiodi
invece, a livello teorico, la carica può essere letta direttamente (a volte però i
13
2.1 I tubi fotomoltiplicatori (PMT)
Fotorivelatori
fotodiodi sono abbinati a sistemi di amplificazione esterni, o contengono loro
stessi regioni di moltiplicazione).
I primi offrono grandi aree sensibili, tempi morti dell’ordine del ∼ ns,
una buona indipendenza dalle variazioni di temperatura e un basso rumore;
i sistemi a stato solido invece risultano insensibili ai campi magnetici, non
necessitano di alimentazioni ad alte tensioni e hanno una altissima efficienza
nel convertire i fotoni incidenti in elettroni, ma sono penalizzati sia da un
maggiore rumore, che ne limita le dimensioni, che dalla dipendenza dalla
temperatura.
Una condizione essenziale per l’utilizzo di un sistema scintillatore–foto
rivelatore, di qualsiasi natura esso sia, è la compatibilità della lunghezza
d’onda del fotone prodotto nello scintillatore, con l’intervallo di sensibilità
del PMT o del fotodiodo.
Un modo per superare problemi di questo tipo è impiegare “wave lenght
shifter”, cioè materiali fluorescenti che assorbono fotoni di una certa lunghezza d’onda e li riemettono a lunghezza d’onda opportune.
2.1
I tubi fotomoltiplicatori (PMT)
Sono dispositivi per la rivelazione e amplificazione di segnali luminosi
basati sull’effetto fotoelettrico e sull’emissione secondaria. Sono in grado di
fornire guadagni compresi fra 103 e 108 , dando in uscita impulsi di ampiezza
proporzionale al numero di fotoni incidenti.
Struttura
Il blocco costruttivo fondamentale, comune a tutti questi dispositivi, è
composto da un fotocatodo per la conversione dei fotoni in elettroni, un
sistema di elettrodi per la moltiplicazione degli elettroni e un anodo per la
raccolta (Figura 2.1) [2].
Il fotocatodo è un elettrodo rivestito da uno strato fotoemettitore semitrasparente di materiale (tipicamente cesio–antimonio Cs3 Sb, trialcali N a2 KSb :
Cs e bialcali K2 CsSb, in funzione della λ da rivelare) posto nella parte interna del tubo a vuoto, che emette elettroni per effetto fotoelettrico. La
quantità di elettroni primari dipende dal numero dei fotoni incidenti, dalla
loro lunghezza d’onda, dal tipo di materiale e dall’efficienza quantica, intesa
come probabilità che un fotone incidente produca un elettrone utile o come
rapporto fra elettroni primari e fotoni incidenti. Nella progettazione del fotocatodo si devono considerare effetti antagonisti sia nelle dimensioni che nel
14
Fotorivelatori
2.1 I tubi fotomoltiplicatori (PMT)
Figura 2.1: Schema di un tubo fotomoltiplicatore accoppiato ad uno
scintillatore.
tipo di materiale: per spessori maggiori aumenta la probabilità di cattura
di fotoni ma diventa più difficoltosa la liberazione di elettroni; per materiali
con basso lavoro di estrazione è favorita sia l’emissione di fotoelettroni, che
generano segnale, che di elettroni termici, che generano rumore di fondo.
I dinodi sono la struttura per la moltiplicazione degli elettroni primari e
di tutti quelli secondari: attraverso il processo di emissione secondaria, sfruttano l’energia cinetica delle particelle incidenti per rilasciare mediamente da
2 a 5 elettroni per ogni singola collisione (tipicamente sono presenti da 10 a
14 dinodi).
In questa struttura ogni singolo dinodo puó essere considerato sia come catodo per le emissioni secondarie che come anodo per gli elettroni provenienti
dallo stadio precedente.
Per ottimizzare questo processo, fortemente dipendente dall’energia cinetica e dal lavoro di estrazione, i dinodi vengono posti a potenziale crescente,
seguendo geometrie variabili a seconda delle richieste sperimentali.
L’anodo è l’ultimo dei dinodi, dove il processo di moltiplicazione si interrompe e tutti gli elettroni vengono raccolti e convertiti in un segnale
fortemente amplificato e di ampiezza direttamente proporzionale al numero di fotoni incidenti che, in definitiva, è proporzionale all’energia persa nello
scintillatore, accoppiato al PMT, dal passaggio di una particella.
Generazione del segnale
I fotoni incidenti sul fotocatodo trasferiscono la loro energia agli elettroni
che cominciano a migrare verso la superficie del materiale. Se l’energia trasferita è superiore alla barriera di potenziale superficiale del catodo gli elettroni
15
2.1 I tubi fotomoltiplicatori (PMT)
Fotorivelatori
diventano liberi. Gli elettroni primari vengono accelerati dalla differenza di
potenziale verso il primo elettrodo, dove, in modo analogo a quanto fatto dai
fotoni, trasferiscono la loro energia agli elettroni del dinodo, permettendo
emissione secondaria.
La differenza di potenziale crescente alle quali sono posti i dinodi permette la
prosecuzione del processo di accelerazione e amplificazione tramite gli stadi
successivi.
Il processo si conclude quando viene raggiunto l’anodo: il materiale impedisce ulteriore emissione secondaria e raccoglie la carica totale, determinando
cosı̀ la corrente di uscita.
Parametri caratteristici
Per massimizzare la resa del processo di amplificazione e rendere minime
le fonti di rumore e interferenze, i PMTs vengono mantenuti sotto vuoto.
Il sistema dei dinodi è disposto per dare un campo elettrico sagomato ad–
hoc per guidare gli elettroni da un elettrodo al successivo, evitando eventuali
interferenze o disturbi, sopratutto nelle fasi iniziali; l’emissione secondaria
infatti, che regola il processo di moltiplicazione, è fortemente soggetta a fluttuazioni statistiche, come l’emissione fotoelettrica iniziale: risultano quindi
determinanti i passaggi iniziali di liberazioni di elettroni secondari, tipicamente il primo e il secondo, rispetto alle fasi successive, quando le eventuali
fluttuazioni vengono assorbite dall’altissimo numero di elettroni.
Il guadagno, cioè il numero di elettroni raccolti all’anodo per singolo
fotoelettrone emesso al catodo, dipende dal numero di dinodi e dalle tensioni applicate. Per il singolo dinodo il guadagno è dato dal rapporto di
emissione secondaria δ = (elettroni emessi)/(elettroni incidenti), che risulta
proporzionale a:
α
δ ∝ Vdinodo
dove Vdinodo rappresenta la tensione applicata ed un singolo stadio e α è un
fattore sottunitario (0.7 ≤ α ≤ 0.8) che tiene conto degli elettroni che non
vengono raccolti all’anodo.
Il guadagno totale vale:
n
Y
G=
δi
i=1
e se δ è uguale per tutti:
α
G = δ n = [AVdinodo
]n =
16
An
V αn ∝ V αn
(n + 1)αn
Fotorivelatori
2.1 I tubi fotomoltiplicatori (PMT)
α
e δ, n numero di stadi e V
con A costante di proporzionalità fra Vdinodo
tensione fra anodo e catodo:
V = Vdinodo (n + 1)
Il guadagno può raggiungere fattori di 108 per tensioni V = 2500 V .
La risposta temporale di un PMT dipende quasi esclusivamente dal processo di moltiplicazione elettronica: l’emissione secondaria è un processo statistico e anche se l’impulso iniziale è una delta, l’impulso di output ha una
certa dispersione.
I due parametri che si utilizzano per caratterizzare la risposta temporale sono
il tempo di salita e il tempo di transito (Valori tipici circa 0.5 ns).
In definitiva per un tubo fotomoltiplicatore, i vantaggi principali sono:
• alta sensibilità;
• buon rapporto segnale–rumore;
• tempo di risposta;
• dimensione dell’area fotosensibile.
Mentre gli svantaggi sono:
• emissione di elettroni per agitazione termica (processo favorito dalla necessità di avere un basso valore del lavoro di estrazione per il fotocatodo
e i dinodi.);
• scariche elettriche;
• perdite di corrente;
• ionizzazione del gas residuo;
• influenza di campi magnetici esterni (deviando gli elettroni possono
compromettere la sensibilità del PMT e rovinarne la linearità della
risposta);
• alti valori delle tensioni di alimentazione del sistema dei dinodi (dalle
centinaia alle migliaia di volts).
17
2.2 Dispositivi a stato solido
2.2
Fotorivelatori
Dispositivi a stato solido
Questi rivelatori sfruttano la perdita di energia da parte di radiazione
ionizzante in uno strato di materiale semiconduttore, per creare un certo numero di coppie elettrone–lacuna: il passaggio di radiazione luminosa rilascia
energia, permettendo il passaggio di elettroni o dalla banda di valenza a quella di conduzione (transizione intrinseca) o tra livelli energetici nella banda
proibita (transizioni estrinseche), lasciando nella banda più bassa una lacuna
(Figura 2.2).
I portatori cosı̀ generati nella banda di conduzione possono essere raccolti,
originando un segnale proporzionale all’energia depositata dalla radiazione.
Figura 2.2: Rappresentazione schematica dei livelli energetici in un
semiconduttore.
Storicamente il Ge è stato il primo elemento usato come rivelatore a
semiconduttore, per l’identificazione di particelle e radiazione, in particolare
radiazione γ.
Oggi le applicazioni specifiche e la natura della radiazione da investigare,
determinano la scelta per il tipo di strumentazioni e, soprattutto, materiali.
Le ricerche attuali puntano allo sviluppo della tecnologia del silicio, che offre
eccellenti prestazioni in molte condizioni operative, grazie al suo valore del
“gap energetico” (Eg = 1.12 eV ) e all’energia media di creazione di coppie
elettrone–lacuna (E = 3.62 eV ).
18
Fotorivelatori
2.2.1
2.2 Dispositivi a stato solido
Fotodiodo a giunzione PN
La giunzione PN è l’elemento fondamentale nell’impiego di materiali semiconduttori sia per l’elettronica che per la tecnologia dei fotorivelatori.
Figura 2.3: Giunzione PN.
Il contatto di due regioni di semiconduttore a drogaggi P e N, genera un
flusso di diffusione di cariche, per compensare lo squilibrio nelle concentrazioni delle cariche stesse ai lati della giunzione; gli elettroni migrano verso
il materiale drogato P e le lacune verso quello N, fino all’interruzione del
processo quando i due livelli di Fermi coincidono. All’equilibrio la differenza
di potenziale di contatto costituisce una barriera per le cariche libere maggioritarie, rispettivamente gli elettroni nella parte drogata N e le lacune nella
parte P (Figura 2.3).
La ricombinazione–neutralizzazione origina una regione di svuotamento,
intorno alla giunzione, libera da cariche mobili e neutra, di dimensioni:
2εo εr Vo
Wd =
q
1
1
+
Na Nd
12
(dove Vo è la differenza di potenziale applicata esternamente alla giunzione,
Na è la densità di accettori e Nd di donatori) con un campo elettrico alla
giunzione:
E(x) = V /d − (q/2εo εr )|Nd − Na |(x − d/2)
Questa zona è fondamentale per i rivelatori a semiconduttore: infatti è
qui che il passaggio di radiazione energetica crea coppie elettrone–lacuna, che
fluendo in direzione opposta, generano un impulso di corrente elettrica I(t)
misurabile.
19
2.2 Dispositivi a stato solido
Fotorivelatori
Per avere un buon funzionamento di questi dispositivi si cerca di ottimizzare la dimensione della regione di svuotamento: piccole dimensioni per elevata frequenza di risposta (si riduce il tempo di transito), grandi dimensioni
per aumentare l’efficienza quantica.
Di fatto però la sola giunzione PN non può essere usata direttamente,
essendo troppo piccola sia la regione di svuotamento che la differenza di
potenziale di contatto. La necessità di allargare la regione a ridosso della
→
−
giunzione e di instaurarvici un campo E abbastanza intenso per permettere
alle cariche create di muoversi e originare una corrente misurabile, si risolve
applicando alla giunzione PN una tensione di polarizzazione inversa.
Figura 2.4: Polarizzazione inversa della giunzione PN.
Nel caso di polarizzazione diretta la corrente cresce rapidamente con il
voltaggio esterno applicato: collegando la polarità positiva alla porzione drogata P, si ottiene un abbassamento del potenziale alla giunzione e aumento
della conducibilità.
Nel caso di polarizzazione inversa (quello operazionale per i fotorivelatori)
invece, il potenziale cresce e la regione di svuotamento aumenta. In questa
configurazione solo le cariche minoritarie (elettroni nella parte drogata P e
lacune in quella N) possono attraversare liberamente la giunzione, dando un
debole contributo di corrente inversa di saturazione (Figura 2.4).
La regione di svuotamento, infatti, non è del tutto priva di cariche; i
materiali semiconduttori presentano impurità e imperfezioni, che generano
gap energetici fra le bande: elettroni di valenza possono quindi passare dalla
banda di valenza fino a quella di conduzione, creando cosı̀ una coppia, senza
il passaggio di una particella o di radiazione; anche nel caso di semiconduttori
20
Fotorivelatori
2.2 Dispositivi a stato solido
totalmente privi di impurità, il passaggio fra le bande può avvenire a spese
di energia termica.
L’applicazione di un tensione di polarizzazione inversa mette in movimento le cariche originate termicamente nella depletion region, originando una
piccola corrente inversa di saturazione, che nel caso di fotorivelatori viene
chiamata dark current.
Generazione del segnale
Il passaggio di radiazione attraverso la regione di svuotamento produce
portatori di cariche liberi che vengono separati e guidati dal campo elettrico
→
−
E (x) verso gli elettrodi opposti, generando una corrente per volt che per una
geometria planare (come il caso della giunzione PN) è del tipo:
dVw
= qvEw
dx
dove Vw è il potenziale che si ottiene ponendo un elettrodo a 1V e gli altri a
terra, q è la carica prodotta in x con una velocità v.
In termini di velocità di deriva v = µE = µ Vdo (µ mobilità dei portatori
di carica e d dimensione della regione di svuotamento) e di campo elettrico
w
:
Ew = dV
dx
Vo
Vo 1
= qµ 2
i = qµ
d d
d
Da quest’espressione si può risalire alla carica totale collezionata nei
rispettivi tempi di raccolta di elettroni e lacune:
x
x
xd
=
te =
=
ve
µe E
µe V o
dove x indica la distanza, da uno degli estremi della regione di svuotamento
d, del punto di generazione della coppia elettrone–lacuna
i = qv
d−x
d−x
(d − x)d
=
=
vh
µh E
µh Vo
trovando, rispettivamente:
Vo xd
x
Qe = ie te = qµe 2
=q
d µe V o
d
Vo (d − x)d
x
Qh = ih th = qµh 2
=q 1−
d µh Vo
d
Risulta evidente dalle espressioni come la carica raccolta dipenda dalla
posizione di creazione delle coppie; poiché la mobilità degli elettroni è circa
tre volte maggiore di quella delle lacune, il segnale di output inizialmente è
dovuto unicamente agli elettroni [4].
th =
21
2.2 Dispositivi a stato solido
Fotorivelatori
Parametri caratteristici
Le caratteristiche principali che ne determinano il funzionamento sono:
l’efficienza quantica, la velocità di risposta e il rumore.
Efficienza quantica: il numero medio di coppie create per un singolo
fotone incidente dipende sia dalle proprietà della regione di svuotamento che
dalla lunghezza d’onda λ della luce incidente. Per λ troppo grandi la radiazione non ha energia a sufficienza per creare coppie, mentre per λ piccole le
coppie vengono create alla superficie del dispositivo e il tempo di ricombinazione non permette alle cariche di raggiungere gli elettrodi. Non può essere
trascurata nemmeno la componente di luce riflessa.
Velocità di risposta: questo parametro è limitato sia dal tempo di deriva dei portatori nella regione di svuotamento che dal tempo di diffusione
fuori dalla regione (sopratutto per questo si può posizionare la giunzione alla
superficie).
Rumore: il fotodiodo può dare in uscita segnali di origine termica, o
di altra natura, che in realtà non provengono da particelle energetiche o
radiazione, incidenti (dark count).
2.2.2
Fotodiodo a giunzione PIN
Per cercare di migliorare le proprietà di assorbimento e conversione della luce di questi dispositivi, è stato sviluppato il diodo a giunzione PIN:
questa configurazione, caratterizzata da un’ampia regione di svuotamento,
preceduta da una minima zona drogata, si ottiene ponendo uno strato di semiconduttore debolmente drogato (intrinseco) fra quelli P e N (Figura 2.5).
Ne risulta una zona di svuotamento di dimensioni ∼ 10 ÷ 100 µm, contro
i valori tipici della giunzione PN (∼ 1 µm). I maggiori valori di µ che
caratterizzano il materiale intrinseco rispetto a quelli drogati, compensano
l’aumento del tempo di transito nell’ampia regione di svuotamento.
Strutturalmente, oltre agli strati antiriflettente sulla finestra d’accesso e
riflettente sul lato opposto, si può porre la zona di entrata della luce sulla
superficie laterale; in questo modo si riduce la perdita di γ per assorbimento
nella regione P.
I due principali limiti operazionali, per i fotodiodi PIN, sono rappresentati
dalla corrente oscura e dal nuclear counter effect (NCE).
22
Fotorivelatori
2.2 Dispositivi a stato solido
Figura 2.5: Schema di diodo PIN e andamento del campo elettrico.
La corrente oscura è data principalmente dalla somma dei termini di
corrente di diffusione e di generazione; ricordando che la concentrazione di
Eg
} si trova:
carica in banda di conduzione ni ∝ exp{ 2KT
• corrente di diffusione ∝ ni 2 (domina ad alta T, quando l’altro contributo satura);
• corrente di generazione ∝ ni
Il NCE è il conteggio di segnali spuri, dato da particelle o radiazioni
diverse da quelle in esame.
2.2.3
Fotodiodo a valanga (APD)
Generalmente i fotodiodi a giunzione PN, o PIN, hanno un guadagno di
ordine 1 e necessitano di sistemi di amplificazione. Il problema può essere aggirato impiegando fotodiodi a valanga, caratterizzati da guadagni che
possono arrivare fino a 105 o 106 .
→
−
I fotodiodi a valanga sfruttano una regione di campo elettrico E (x) intenso per moltiplicare le cariche elettriche attraverso il processo di ionizzazione
→
−
da impatto; analogamente a quello che avviene nei gas il campo E (x) esterno accelera gli elettroni primari prodotti dalla radiazione incidente e se la
loro energia è sufficiente possono liberarne uno o più secondari, i quali a loro
volta, accelerati dal campo elettrico, possono produrre coppie terziarie, e cosı̀
via.
23
2.2 Dispositivi a stato solido
Fotorivelatori
Il processo di moltiplicazione cresce fino a generare una valanga, che
produce una corrente molto maggiore di quella dei fotodiodi ordinari, ma
comunque proporzionale all’energia persa dalla particella incidente [6].
Generazione del segnale
Figura 2.6: Schema di funzionamento di un APD.
La produzione di un segnale è cosı̀ articolata (Figura 2.6):
• La radiazione incidente penetra nello strato di semiconduttore dove
incontra subito una zona (∼ 2 µm) fortemente drogata (p++ ) in cui
ha luogo la conversione in una coppia; come per gli altri fotorivelatori
a stato solido, le dimensioni sono un compromesso fra alta efficienza
quantica e minimizzazione di segnali spuri (NCE) e di dark current.
L’elettrone appena prodotto arriva poi alla zona drogata p dove campi
dell’ordine di ∼ 10 kV /cm lo accelerano.
• L’elettrone arriva alla regione drogata n (∼ 5 µm) dove ha luogo la
moltiplicazione (E ∼ 100 kV /cm).
• La valanga di cariche prodotte attraversa ora una regione debolmente drogata, zona di deriva, con una bassa capacità per diminuire il
contributo del rumore.
• Infine le cariche moltiplicate arrivano alla regione (n++ ), che fa da
contatto ohmico insieme alla zona p++ , dove avviene la raccolta.
24
Fotorivelatori
2.2 Dispositivi a stato solido
Paramentri caratteristici
L’efficienza quantica è data dalle caratteristiche intrinseche del semiconduttore e può raggiungere valori prossimi al 100% utilizzando finestre di
entrata di materiali antiriflettenti, tipo SiO2 o Si3 N4 .
Il nuclear counter effect (creazione di coppie da parte di particelle al
minimo di ionizzazione) può essere trascurato (rispetto a dispositivi tipo il
PIN) in quanto solo gli elettroni spuri creati prima della regione di amplificazione e le lacune create subito dopo, vengo amplificate: il loro contributo
può essere discriminato rispetto a quello dei fotoelettroni.
La corrente oscura (dark current), dovuta al moto di portatori minoritari in caso di polarizzazione inversa (regime operazionale del fotodiodo),
è data principalmente dai contributi della corrente superficiale (originata da
moti di carica attraverso la superficie dell’APD, risulta ∝
√ Vbias ) e di quella
interna (data dalla generazione termica di portatori, è ∝ Vbias ). Il maggiore contributo al rumore è dato dalla componente interna prodotta prima e
dentro la regione di moltiplicazione. Per i fotodiodi a valanga al silicio, la
corrente oscura raggiunge valori dell’ordine del nA.
Trascurando il termine dovuto alla corrente oscura, il guadagno può
essere approssimato da M ' IIP (I corrente in uscita e IP corrente dei fotoelettroni prima della moltiplicazione); questo guadagno in corrente è funzione
della tensione di polarizzazione che regola l’intensità del campo elettrico e
quindi il fattore moltiplicativo.
Modalità di funzionamento
Il parametro fondamentale che determina il funzionamento di un APD,
e la sua modalità d’uso, è la tensione di polarizzazione inversa Vbias : graficando (Figura 2.7) l’andamento della corrente raccolta in funzione della
Vbias (in scala logaritmica) si possono distinguere le due differenti regioni di
funzionamento, proporzionale o in modalità Geiger.
Fino alla tensione detta di breakdown, VB , il segnale rimane proporzionale all’energia depositata nel dispositivo e il guadagno varia da un fattore 10
ad alcune centinaia; per tensioni negative maggiori invece le dimensioni della
regione di svuotamento e il campo elettrico portano il fattore G fino a valori
di 106 , originando una scarica che coinvolge tutto il volume e causa la perdita della proporzionalità: in questa condizione il fotodiodo a valanga si dice
operare in modalità Geiger (GM–APD), e perde la linearità segnale–energia
depositata, diventando unicamente un contatore delle particelle incidenti.
25
2.2 Dispositivi a stato solido
Fotorivelatori
Figura 2.7: Caratteristica I–V per un singolo GM–APD: andamento della
corrente inversa in funzione della tensione di polarizzazione, in prossimità
del valore di breakdown, corrispondente all’intercetta del fit parabolico con
l’asse delle tensioni[7].
Gli sviluppi più recenti in questo settore hanno prodotto una nuova classe
di fotorivelatori al silicio, basati sulla tecnologia dei GM–APD: i SiPM.
26
Capitolo 3
SiPM
Uno dei maggiori risultati nell’ambito delle moderne ricerche sui fotodiodi
a stato solido, è stata la realizzazione di un nuovo tipo di fotorivelatore, che
unisce i vantaggi dei tubi fotomoltiplicatori alle proprietà della tecnologia del
silicio. Gli studi iniziali si devono a Golovin e Sadygov [11, 12] e risalgono
alla metà degli anni ’90. Questo nuovo dispositivo, il Silicon PhotoMultiplier
(SiPM), offre elevate sensibilità nel conteggio di singolo γ, alta efficienza
quantica, insensibilità ai campi magnetici e basse tensioni di lavoro, insieme
ad altre caratteristiche che lo rendono ideale sia per set-up sperimentali dove
sia richiesta sensibilità a bassi flussi di fotoni (misure di vite medie e analisi
di fluorescenze, analisi di bioluminescenze e rivelatori a luce Cherenkov) che
per alti flussi di fotoni (calorimetri ad alta energia) e insensibilità ai campi
→
−
B (integrazione di tomografia assiale a positroni con risonanza magnetica).
Il SiPM è realizzato attraverso una matrice bidimensionale di fotodiodi a
valanga, operanti in modalità Geiger (GM–APD), letti in parallelo su un’uscita comune: il segnale raccolto è dato dalla somma di tutti gli APD colpiti
da un fotone e interessati dalla scarica Geiger (i guadagni sono dell’ordine
di ∼ 106 ). In questa configurazione ogni singolo pixel della matrice opera
come un rivelatore binario (si accende quando colpito da un γ), mentre l’insieme si comporta come un rivelatore proporzionale, per flussi di fotoni non
troppo elevati. Le micro–celle sono connesse in parallelo e vengono polarizzate inversamente a tensioni prossime al valore di breakdown; per questi
→
−
Vbias si genera un campo E (x) tale da permettere ad ogni APD di operare
in modalità Geiger [9].
I dati e le caratteristiche specifiche che verranno citati successivamente,
si riferiscono ai particolari SiPM impiegati in questo lavoro di tesi, sviluppati e prodotti all’ITC-irst (Centro di Ricerca Scientifica e Tecnologica della
Fondazione Bruno Kessler) di Trento [7, 8].
27
3.1 Struttura
3.1
SiPM
Struttura
I singoli fotodiodi che compongono il SiPM, di dimensioni ∼ 50 × 50 µm2 ,
sono realizzati da una giunzione N + −P (situata a ∼ 100 nm dalla superficie),
in serie con una resistenza di smorzamento (Rquenching ∼ 300 KΩ, valore
stimabile dal fit della parte lineare della caratteristica corrente–tensione del
GM–APD), che limita la corrente a qualche decina di µA.
Per mantenere l’isolamento delle singole micro–celle e impedire interazione fra i singoli diodi, vengono utilizzate configurazioni al contorno (Una
regione non attiva, lungo tutto il bordo), tali da inibire le correnti fra i singoli
pixel, ridurre i campi laterali e mantenere l’isolamento elettrico
La regione attiva è composta da uno strato di silicio drogato P di spessore
4 µm, completamente svuotato di cariche maggioritarie alle tensioni operative
(Figura 3.1).
Il profilo di drogaggio della struttura, è tale da massimizzare la fotorivelazione per regioni limitate dello spettro.
Figura 3.1: Schema di una singola cella GM–APD di un SiPM [7].
La matrice completa è realizzata attraverso contatti metallici superficiali
e il substrato, che connettono, in parallelo, i singoli pixel. Il risultato di
questo mosaico di fotodiodi è una struttura a matrice di 500 ∼ 1600 celle e
dimensioni utili variabili da 1 ad alcuni mm2 (Figura 3.2).
28
SiPM
3.2 Caratterizzazione
Figura 3.2: Ingrandimento di un SiPM prodotto dall’FBK dell’ITC–irst.
3.2
Caratterizzazione
La caratterizzazione dei SiPM richiede la determinazione della dipendenza
da temperatura e tensione di polarizzazione della corrente, della tensione di
breakdown, della resistenza di smorzamento, dell’efficienza di fotorivelazione,
del tasso di dark count, del guadagno, della probabilità di cross–talk ottico
e di after–pulse.
Queste misure possono essere effettuate, equivalentemente, o sfruttando
il dark count (cioè i segnali prodotti da elettroni termici) o illuminando direttamente il SiPM con una sorgente (cioè segnali innescati da γ), in quanto i 2
tipi di segnali sono identici; l’unico fattore, in più, da considerare nel secondo tipo di misure è l’efficienza di fotorivelazione (photon detection efficiency,
Vedi 3.3.2), cioè il rapporto fra il numero di segnali di output e il numero di
fotoni incidenti.
3.2.1
Caratteristica I-V
L’andamento atteso per la caratteristica corrente-tensione di polarizzazione (Vbias ), essendo il segnale in uscita il risultato della lettura in parallelo di
n GM–APD interessati dal fenomeno di moltiplicazione a valanga, dovrebbe
essere sostanzialmente identico a quello tipico del singolo fotodiodo a valanga
(Figura 2.7).
La configurazione strutturale dei SiPM però (in particolare la possibilità di interazioni fra i singoli pixel della matrice), fa si che il grafico I–V
sia leggermente differente (Figura 3.3 ): il fatto che l’andamento dei punti sperimentali risulti compreso fra i dati corrispondenti a quelli di singolo
29
3.2 Caratterizzazione
SiPM
GM–APD, moltiplicati per il numero di pixel del SiPM, evidenzia come la
corrente sia, in realtà, un valore medio fra quelli del singolo pixel.
Figura 3.3: Andamento I–V per un SiPM, confrontato con quello di 2 singoli
GM–APD [7]
Dal grafico può essere estrapolato il valore VB della tensione di breakdown,
come vertice della parabola del fit della regione corrispondente a tensioni
maggiori di VB .
La legge parabolica rimane valida per ∆V = Vbias − VB (T ) ∼ 8 V , poi la
corrente diventa tale da rendere confrontabili i tempi di smorzamento della
valanga, con i tempi di ricarica della capacita del diodo (τ = RQ CD ∼ 25 ns):
la carica che attraversa il terminale di output nel tempo di smorzamento non
è più trascurabile rispetto alla carica richiesta per la ricarica a Vbias e si perde
la dipendenza parabolica con il bias.
La discrepanza fra il fit e i punti sperimentali, che si evidenzia per ∆V
oltre i 5 V , è giustificabile in termini di cross–talk ottico fra micro–celle (Vedi
3.2.3).
30
SiPM
3.2.2
3.2 Caratterizzazione
Segnale
Il segnale tipico in output da un SiPM è analogo a quello della singola
micro–cella e presenta il tipico andamento di Figura 3.4.
Figura 3.4: Segnali caratteristici di dark count del SiPM, corrispondenti a
differenti tensioni di polarizzazione [7].
Si tratta di un rapido impulso, di ampiezza dell’ordine di pochi ns, seguito
da una coda esponenziale: il picco è dato dalla moltiplicazione a valanga e
dalla scarica della capacità del diodo CD , mentre la coda esponenziale è data
dal processo di ricarica della capacità totale, successiva allo smorzamento
della valanga, caratterizzata da una costante di tempo τ = RQ (CD + CQ )
(La capacità CD è valutata in ∼ 50 f F , mentre CQ è una capacità parassita
in parallelo alla resistenza di smorzamento Rquenching .).
La coda esponenziale e la costante di tempo, sono parametri importanti
per definire il recovery time del dispositivo, cioè il tempo necessario per ricaricare il diodo al 99% della tensione VB ; è un valore importante in quanto stabilisce una soglia superiore al flusso di fotoni rivelabili, in caso di illuminazione
costante.
I segnali osservati sono affiancati da eventi spuri (Figura 3.5).
Il grafico evidenzia sia segnali singoli che segnali doppi: i primi sono
quelli previsti teoricamente e corrispondono a un segnale da un singolo pixel,
31
3.2 Caratterizzazione
SiPM
Figura 3.5: Collezione di segnali singoli (”s”), segnali doppi (”d”) e con
after–pulse(”a”) [7].
mentre i secondi sono associati alla lettura contemporanea di segnale da due
pixel (Vedi 3.2.3). L’ultimo segnale presenta invece after–pulse (Vedi 3.2.4).
3.2.3
Cross-talk ottico
Questo fenomeno si genera quando, durante il processo di moltiplicazione
a valanga, gli elettroni accelerati emettono fotoni γ che vanno a colpire la
regione attiva di micro–celle adiacenti, innescandovi nuove scariche, come
se fossero state colpite da fotoni esterni. Si perde cosı̀ l’indipendenza fra i
pixel, portando ad un comportamento non–Poissoniano della distribuzione
del numero di celle colpite.
Segnali originati da questa interazione fra un pixel e n adiacenti, sono
identificabili dagli impulsi, con guadagni n volte maggiori di quelli attesi per
la rivelazione di un fotone da parte di una singola micro–cella.
La probabilità di cross-talk ottico, dipendendo dal numero di elettroni che
emettono fotoni durante la scarica, aumenta con la tensione di bias; quando
∆V è tale da rendere la carica media, originata da questo fenomeno, considerevole, l’andamento corrente-tensione si discosta in maniera apprezzabile
dal fit parabolico (Figura 3.3).
32
SiPM
3.2.4
3.2 Caratterizzazione
After-pulse
Gli after–pulse sono segnali spuri, successivi al segnale innescato da un
fotone; si verificano quando parte delle cariche create durante il processo di
moltiplicazione di un fotoelettrone, rimangono intrappolate in impurità della
struttura cristallina (livelli energetici nel gap proibito) e vengono rilasciate
con un certo ritardo, originando cosı̀ nuove valanghe e segnali successivi al
primario, lungo la sua coda esponenziale (Figura 3.6).
Figura 3.6: Serie di 9 esempi di segnale affetto da after–pulse (Il progressivo aumento nell’ampiezza dei segnali secondari è dovuto all’aumento di
guadagno corrispondente alla ricarica della capacità del diodo a Vbias ) [7].
L’evidenza di questo fenomeno è data dallo studio della distribuzione in
carica del segnale: i dati sperimentali, per valori differenti di bias, presentano,
oltre al picco principale, una coda e un picco associabili a eventi con carica
maggiore (Figura 3.7); il numero di eventi caratterizzati da questi impulso
secondario, è tale da escludere un’origine di dark count (rate di ∼ kHz) in
favore di fenomeni di after–pulse.
33
3.2 Caratterizzazione
SiPM
Figura 3.7: Distribuzione di carica del segnale di SiPM, per 3 differenti Vbias .
Si evidenziano a fianco dei 3 picchi primari, 3 picchi secondari, corrispondenti
a eventi meno frequenti rispetto a quelli primari, ma caratterizzati da carica
maggiore: gli after–pulse [7].
La percentuale di eventi affetti da questa distorsione del segnale dipende
da Vbias (Figura 3.8 ).
Figura 3.8: Andamento della probabilità di after–pulse, in funzione della
tensione di bias [7].
34
SiPM
3.3
3.3.1
3.3 Parametri
Parametri
Conteggio di fotoni
Le caratteristiche di funzionamento dei SiPM ne fanno eccellenti dispositivi per il conteggio di fotoni incidenti, con capacità di risoluzione tali da
essere operativi anche per flussi di fotoni estremamente ridotti, dell’ordine delle unità. Conteggi in queste condizioni posso essere fatti analizzando
il dark count (si sfrutta la perfetta analogia dei segnali di origine termica
rispetto a quelli originati dai fotoni).
Graficando la distribuzione in carica dei segnali in output, in termini di
conteggi di canali di ADC (Figura 3.9), si evidenzia l’ottima risoluzione dei
segnali corrispondenti a 1 singolo fotoelettrone, a 2 (trattandosi del segnale
corrispondente alla rivelazione contemporanea da parte di 2 pixel, il numero
di conteggi diminuisce rispetto al caso di singolo evento), e cosi via per i
successivi.
Figura 3.9: Distribuzione in carica dai segnali di dark count, o conteggi di
singolo fotone [10].
Senza considerare il primo picco in fig. 3.9, che è associato al valore
piedistallo dell’ADC, cioè al rumore intrinseco dell’elettronica associata al
sistema, si può dare un’ottima stima del guadagno del SiPM dal valore della
distanza fra 2 picchi successivi. Il guadagno G può infatti essere definito
35
3.3 Parametri
SiPM
come il rapporto fra il numero di canali di ADC tra 2 picchi, moltiplicato
per la carica relativa al singolo canale e diviso per la carica dell’elettrone:
G=
3.3.2
ADCcount · QADC
Qe
Efficienza nella rivelazione di fotoni
L’efficienza di rivelazione dei fotoni (Photon Detection Efficiency), misura la frazione di fotoni incidenti rivelati in uscita; nel caso del SiPM, la
valutazione della PDE richiede, oltre all’efficienza quantica, di tenere conto
anche di:
• cariche che non sono in grado di dare segnali di ampiezza sufficiente
per essere rivelati;
• impulsi in uscita non originati dai fotoni incidenti (Vedi 3.2.3, 3.2.4 e
3.3.3 )
• efficienza geometrica εgeom , intesa come frazione sensibile della superficie totale;
• tempo di recupero del singolo pixel.
La PDE è differente dall’efficienza quantica, QE, (che rappresenta solo
uno dei parametri che determinano la PDE), vista per altri tipi di fotorivelatori, che valuta, invece, il numero di coppie elettrone–lacuna create, rispetto
al numero di fotoni incidenti: come per altri dispositivi a stato solido basati
sul silicio, la QE del SiPM è ≥ 70%, mentre l’efficienza di rivelazione di γ si
attesta su ∼ 50%.
3.3.3
Dark count
Nel caso del SiPM, come per tutti i dispositivi a stato solido, la fonte
principale del rumore è dovuta all’eccitazione termica che, generando cariche
nella zona attiva del silicio, vengono amplificate dal rivelatore e producono
in output segnali identici a quelli prodotti da fotoni incidenti. I conteggi di
segnali spuri in generale, sono imputabili sia a impulsi primari innescati da
coppie elettrone–lacuna originate, termicamente, nella regione di svuotamento dei singoli pixel, che a after–pulse di ampiezza sufficiente per originare una
scarica. A differenza degli APD però, il rumore di questo tipo è praticamente
trascurabile rispetto al segnale, come conseguenza dei valori di guadagno.
36
SiPM
3.3 Parametri
Il numero di falsi eventi per secondo, è influenzato dall’area sensibile del
SiPM, dalla tensione di polarizzazione e dalla temperatura. La dipendenza
da Vbias è lineare e il fit dei dati sperimentali permette di risalire a VB (Figura
3.10).
Figura 3.10: Frequenza di dark count in funzione di Vbias [7].
Variando le tensioni applicate è possibile mantenere fisso il guadagno e
studiare la dipendenza del dark count dalla temperatura (Figura 3.11).
Si evidenzia un trend decrescente da ∼ 1 − 2 M Hz/mm2 a temperatura
ambiente, a ∼ 200 Hz/mm2 a temperature intorno ai 100 K (Questa caratteristica limita le capacità operative del SiPM per singoli conteggi di γ, su
larga area e a temperatura ambiente).
3.3.4
Guadagno
L’andamento tipico del guadagno, per un SiPM, è riportato in Figura
3.12.
La dipendenza da Vbias è lineare (a differenza dell’andamento esponenziale
dell’APD) e il fit dei dati sperimentali permette di risalire a VB , potenziale
di breakdown.
Il guadagno, per questo strumento, può essere valutato in vari modi:
• ricorrendo a misure su impulsi di dark count (Vedi 3.3.3);
• dalla corrente inversa di saturazione e dal tasso di dark count (G =
Isat /(dc · q));
37
3.3 Parametri
SiPM
Figura 3.11: Frequenza di dark count in funzione della temperatura
(L’andamento è normalizzato al mm2 ) [8].
Figura 3.12: Andamento del guadagno in funzione di Vbias per il SiPM [7].
38
SiPM
3.4 Vantaggi
• dallo spostamento dei picchi della distribuzione in carica del fondo di
rumore (Vedi Figura 3.9), in funzione di Vbias .
Le tecniche più usate sono la seconda e la terza, in ottimo accordo fra
loro; l’unica discrepanza che si evidenzia (minore del 7%), è dovuta al fatto
che l’ultima tiene in considerazione anche i contributi di cross–talk ottico
(Vedi 3.2.3) e after–pulse (Vedi 3.2.4).
Per quanto riguarda la dipendenza del guadagno dalla temperatura, il
fattore che li connette è la tensione di breakdown: alla sua crescita con T
corrisponde una diminuzione del guadagno (Fiugura 3.13).
Figura 3.13: Andamento del guadagno in funzione della temperatura [8].
3.4
Vantaggi
In definitiva questi tipi di dispositivi presentano una serie di vantaggi
rispetto agli analoghi della categoria (sia a vuoto che a stato solido):
• Piccole dimensioni ( ∼ 2 mm2 );
• Operatività a temperatura ambiente;
• Insensibilità ai campi magnetici;
39
3.4 Vantaggi
SiPM
• Basse tensioni di polarizzazione (sotto i 100 V , tipicamente 30 ÷ 70 V );
• Bassa risoluzione temporale ( ∼ 100 ps );
• Basso tempo morto ( ∼ 20 ns );
• Alta efficienza quantica ( 70% minimo);
• Alta sensibilità al conteggio di singolo fotone;
• Alti valori di guadagno (da 105 a 106 );
• Prezzi.
E‘ chiaro che grazie a questa lunga serie di vantaggi, i silicon photon
multiplier rappresentano una tecnologia ad ampio spettro di applicazioni.
40
Capitolo 4
Progetto del telescopio e test
dei componenti
Il telescopio per muoni cosmici, sviluppato in questo lavoro di tesi, è
strutturato su 4 piani distinti, formati ciascuno da tre tegole di materiale
scintillatore plastico affiancate, di dimensioni 50 × 10 × 0.6 cm3 (Figura 4.1).
Figura 4.1: Schema del telescopio: l’accensione dei LED corrispondenti
alle tegole di scintillatore attraversate da un raggio cosmico, permette di
visualizzarne la traccia.
La luce prodotta dal passaggio di µ cosmici viene raccolta tramite una
fibra ottica WLS (wave length shifter) verde collocata in una scanalatura
centrale che attraversa la tegola per tutta la sua lunghezza. Un capo della
fibra è alluminizzato e l’altro capo è posto a contatto di un SiPM per la
rivelazione del segnale e successiva visualizzazione mediante una matrice di
LED posta sul fronte dello strumento.
41
4.1 Scintillatori
Progetto del telescopio e test dei componenti
Le dimensioni di ciascun piano sono 50 × 30 cm2 con una distanza fra i
piani variabile da 30 cm a 60 cm, per consentire la tracciatura di µ cosmici
più o meno inclinati rispetto allo zenit.
La realizzazione del telescopio ha richiesto innanzitutto una serie di test
per verificare la funzionalità dei componenti fondamentali, gli scintillatori e
i SiPM.
4.1
Scintillatori
Il test effettuato con gli scintillatori è stato finalizzato sia a verificare la
possibilità di avere un segnale “utile”, in termini di altezza, in corrispondenza del passaggio di un raggio cosmico, sia a valutare una soglia minima in
tensione, per discriminare i segnali utili dal rumore di fondo, in funzione delle
dimensioni dello scintillatore e della posizione della fibra ottica utilizzata per
la raccolta della luce.
Figura 4.2: Foto del set-up sperimentale utilizzato per i test sullo scintillatore. Si notano il telescopio per il trigger sui raggi cosmici, la tegola con la
fibra ottica, il SiPM e il circuito pre–amplificatore.
42
Progetto del telescopio e test dei componenti
4.1 Scintillatori
La strumentazione utilizzata per questo tipo di misurazione (Figura 4.2)
è costituita da:
• una scatola buia, necessaria per isolare la strumentazione fotosensibile
dalla luce esterna;
• un SiPM (prodotto dalla FBK di Trento.);
• un circuito di alimentazione (generatore di tensione TTi PL601, fondoscala 60V /1.5A a lettura digitale, con sensibilità al centesimo di
volt, operato a Vbias = 34.00 V ) e un pre–amplificatore (AMP0611
Photonique S.A., 10x-20x per alimentazione da 4V a 10V) per il SiPM;
• un sistema di trigger per raggi cosmici, formato da due scintillatori a
barretta di 33 × 18 × 10 mm3 sovrapposti, accoppiati mediante guide di luce a due fotomoltiplicatori tradizionali (fototubi Hamamatsu
R7600U) come mostrato in figura 4.2;
• un crate NIM contenente i moduli di elettronica veloce usati per la
logica di trigger e per l’alimentazione dei fototubi;
• un oscilloscopio digitale per visualizzare il segnale prodotto dal SiPM
(LeCroy–waveRunner 104xi, 1 GHz, 1 GS/s);
• un crate VME contenente un modulo ADC (CAEN v792, 4096 canali, sensibilità 100 f C/canale), un hard disk e una CPU, per misurare
la carica del segnale analogico prodotto dal raggio cosmico e convertito dall’ADC in segnale digitale. L’acquisizione dai registri dell’ADC
avviene mediante un programma in C++ descritto in [13].
Il materiale scintillatore esaminato, identico a quello impiegato per il telescopio, è costituito da una tegola di dimensioni 50 × 10 × 0.6 cm3 . Sulla base
di alcuni studi preliminari descritti in [14, 15], si è deciso di collocare la fibra
per la raccolta della luce, di tipo WLS (wave length shifter) verde, in una
scanalatura profonda 2 mm posta al centro della tegola di scintillatore (Figura 4.3). Per fissare la fibra allo scintillatore si è usata una resina epossidica
bicomponente specifica per gli accoppiamenti ottici con scintillatori plastici
(colla Bicron BC–600, con indice di rifrazione 1.56 e trasmissione > 98% per
lunghezze d’onda superiori ai 400 nm).
La fibra ottica, del diametro di 1 mm e alluminizzata ad un capo, è posta
direttamente a battuta sulla matrice di pixel del SiPM con l’aiuto di un
blocchetto di plexiglass contenente il fotorivelatore (Figura 4.4), dotato di
un foro di 1 mm di diametro che funge da guida.
43
4.1 Scintillatori
Progetto del telescopio e test dei componenti
Figura 4.3: La tegola di scintillatore del telescopio (50 × 10 × 0.6 cm3 ),
utilizzata per il test. Si nota la fibra ottica collocata nella scanalatura al
centro della tegola.
Figura 4.4: Dettaglio del sistema di guida della fibra sul fotorivelatore: si
evidenziano la fibra, il foro di guida nel blocchetto di plexiglass e gli elettrodi
per l’alimentazione e la raccolta del segnale dal SiPM, collocato all’interno
del blocchetto.
44
Progetto del telescopio e test dei componenti
4.1 Scintillatori
Sono state raccolte tre serie di dati in corrispondenza di differenti posizioni
del telescopio di trigger sulla tegola: al centro, al bordo e sul fondo. In
questo modo è stato possibile controllare la risposta del sistema per differenti
posizioni di passaggio dei raggi cosmici.
Le tre distribuzioni ottenute (Figure 4.5, 4.6 e 4.7) evidenziano come i
punti selezionati diano sostanzialmente lo stesso segnale. Si distinguono,
oltre al picco centrale, i conteggi di valori in overflow e dei piedistalli (utili
per valutare l’efficienza di rivelazione del sistema).
Figura 4.5: Distribuzione 1: trigger posto sulla fibra, a metà lunghezza.
La carica elettrica mediamente raccolta dall’ADC al passaggio di muoni
cosmici, corrisponde ad un segnale in tensione di altezza tipicamente superiore ai 200 mV , abbondantemente al di sopra del valore corrispondente al
rumore di fondo (tipicamente 40 − 50 mV ). Le dimensioni dello scintillatore (spessore in particolare) e la posizione della fibra ottica risultano quindi
idonei a generare e raccogliere una quantità di luce sufficiente per la logica
successiva e per l’accensione di un LED.
45
4.1 Scintillatori
Progetto del telescopio e test dei componenti
Figura 4.6: Distribuzione 2: trigger posto sul bordo, a metà lunghezza.
Figura 4.7: Distribuzione 3: trigger posto nell’angolo, dalla parte opposta
rispetto al SiPM.
46
Progetto del telescopio e test dei componenti
4.2
4.2 SiPM
SiPM
Il prototipo richiede 12 SiPM funzionanti per cui si è proceduto alla caratterizzazione I-V dei SiPM da utilizzare per la costruzione del telescopio, per
valutarne la correttezza di funzionamento e in particolare per determinare la
tensione di breakdown, VB .
La strumentazione utilizzata per la caratterizzazione I–V dei SiPM è
mostrata in figura 4.8:
Figura 4.8: Foto del set-up sperimentale per la caratterizzazione dei SiPM.
Si notano il generatore di tensione, il picoamperometro, il SiPM (protetto da
nastro isolante) la gabbia di Faraday e l’isolamento luminoso.
• un generatore di tensione TTi QL355, con risoluzione al mV , fondo
scala 35 V ;
• un picoamperometro KEITHLEY 6514 per misure da ±100 aA a ±21 mA,
con precisione rispettivamente:
Range
200 pA 2 nA 20 nA 200 nA 2 µA
Accuracy ±(%rdg+counts) 1+50 0.2+30 0.2+5 0.2+5 0.1+10
• una scatola metallica per isolare il SiPM dal rumore elettromagnetico
ambientale (gabbia di Faraday);
• una scatola buia per isolare il sistema dalla luce esterna;
47
4.2 SiPM
Progetto del telescopio e test dei componenti
L’utilizzo della gabbia di Faraday si è reso necessario a causa dell’elevata sensibilità dell’amperometro al rumore elettromagnetico ambientale. La
caratterizzazione è stata effettuata senza preamplificazione dei SiPM.
La raccolta dati è stata compiuta, a intervalli di 1 V , per tensioni comprese fra 15 V e 40 V ; le tensioni comprese fra i 35 V e i 40 V , fuori dal range
del generatore, sono state ottenute aggiungendo, in serie, i 5 V necessari a
quelli forniti dall’alimentatore principale.
Figura 4.9: Caratteristiche I–V dei 12 SiPM da utilizzare nel telescopio.
Si notano le due differenti regioni di funzionamento,proporzionale e Geiger,
separate dalla tensione di breakdown VB .
Il risultato del test è mostrato in figura 4.9. Le curve di caratterizzazione I–V per 12 SiPM sono perfettamente compatibili con quelle pubblicate
dall’FBK[7], produttrice dei fotorivelatori.
Dal grafico si evidenzia chiaramente come i SiPM analizzati appartengano
a due differenti gruppi, caratterizzati da un diverso valore della tensione di
breakdown (VB = 30 V e VB = 31 V ): ciò può essere dovuto a differenze nei
wafer di silicio da cui sono stati ottenuti i SiPM.
48
Capitolo 5
Realizzazione del telescopio
Lo sviluppo e la costruzione della parte elettronica e della parte meccanica
del prototipo sono state effettuate in parallelo. Per ogni piano sono state
preparate le tegole di scintillatore, i blocchetti per l’alloggiamento dei SiPM
e la loro connessione con le fibre e i circuiti integrati per un primo livello di
elettronica. I segnali in uscita dai quattro piani, indipendenti fra loro, sono
stati poi connessi ad una scheda logica centrale, necessaria per individuare gli
eventi originati dal passaggio di un muone cosmico tramite coincidenza fra
tegole di piani diversi e per accendere i LED, posti sul fronte dello strumento,
in corrispondenza degli scintillatori attraversati dalla particella.
I circuiti integrati per la gestione dei segnali, dai SiPM ai LED, sono stati
progettati e realizzati presso il laboratorio di elettronica della sede locale
dell’INFN, mentre l’officina meccanica si è occupata della lavorazione degli
scintillatori.
5.1
Parte elettronica
L’elettronica si articola su due livelli (Figura 5.1). Un primo livello, comune ad ogni fotomoltiplicatore, è costituito da un circuito contenente un
amplificatore, un comparatore e i sistemi di distribuzione delle tensioni di alimentazione dei vari componenti necessari per convertire l’impulso prodotto
dai SiPM in un segnale digitale. Nel secondo livello, una scheda logica (Figura 5.3) comune a tutti e 12 i fotomoltiplicatori, raccoglie i segnali digitali,
effettua la logica di coincidenza attraverso un FPGA (Field Programmable
Gate Array) ed ha la funzione di gestire l’accensione dei LED. Di seguito
vengono descritti in maggior dettaglio i componenti più rilevanti di questa
parte del progetto.
49
5.1 Parte elettronica
Realizzazione del telescopio
Figura 5.1: Schema del circuito elettronico per la gestione dei segnali prodotti
dai SiPM.
• Amplificatore: formato da due transistor in successione, un NPN in
configurazione a emettitore comune e un NPN in configurazione a collettore comune; il primo livello ha il compito di fornire la maggior parte
del guadagno (un fattore ∼ 35×) e invertire il segnale in ingresso; il
secondo livello di amplificazione invece, oltre ad aggiungere un ulteriore fattore di guadagno di 5× (per un valore complessivo di 40×),
serve principalmente per adattare l’impedenza dell’uscita di emettitore
dell’amplificatore con gli stadi successivi (Figura 5.2).
• Comparatore: circuito integrato con uscita TTL differenziale, utilizzato per discriminare e convertire l’impulso, amplificato, in uscita dal
SiPM in un segnale digitale di altezza 3 V e aumentarne la lunghezza
temporale dal centinaio di ns a qualche microsecondo (Figura 5.2).
Il circuito, che lavora in logica negativa, permette di fissare un valore
di tensione di soglia minimo: quando il segnale in input supera questo
valore, in output si ha un livello logico basso, mentre appena il segnale
scende sotto soglia si ha la commutazione dell’output ad un livello
logico alto (il tempo di switch è di ∼ 4 ns). È a questo livello che viene
regolata la soglia per eliminare il rumore di fondo, di origine termica,
dei SiPM: alimentando l’elettronica del sistema con Vcc = 3.0 V , è
bastato fissare la soglia del comparatore a Vsoglia = 2.9 V per escludere
tutti i segnali di ampiezza inferiore a 100 mV .
50
Realizzazione del telescopio
5.1 Parte elettronica
Figura 5.2: Foto del primo prototipo di circuito per l’amplificazione e
comparazione del segnale prodotto dal SiPM.
• FPGA: dispositivo digitale formato da più macrocelle (insieme di porte logiche) connesse fra loro attraverso una matrice di connessioni e
switch programmabili (Field Programmable Gate Array); l’utente, attraverso il linguaggio di programmazione VHDL (Very High Speed Integrated Circuits Hardware Description Language) può, in un primo
momento, progettare e simulare la struttura interna dell’FPGA e successivamente, con la creazione di un file di programmazione, interagire
e implementare direttamente l’FPGA o attraverso un interfaccia con il
programma o attraverso una EPROM in cui è stato memorizzato il file
di programmazione.
Per il corretto funzionamento l’FPGA utilizzata (ALTERA FLEX 10K)
richiede, oltre all’EPROM e alle connessioni di interfaccia, anche un
oscillatore a frequenza 10 M Hz per generare il segnale di clock. In
più sono state aggiunte, nella scheda logica, 4 linee di ingresso per
selezionare dall’esterno differenti funzioni implementate nell’FPGA: il
test dei LED, la possibilità di mantenere visualizzata una traccia o la
modalità di funzionamento automatico.
La parte di elettronica comune a tutti i segnali è stata realizzata su una
scheda logica unica (Figura 5.4) che contiene, oltre all’FPGA e i circuiti
necessari al suo funzionamento, connettori per le linee di input dai SiPM
e di output verso i LED, il regolatore di corrente per alimentare i LED a
Vcc = 5.0 V e l’FPGA a Vcc = 3.3 V e i transistor necessari per pilotare i
51
5.1 Parte elettronica
Realizzazione del telescopio
Figura 5.3: Schema della scheda logica contenente l’FPGA per realizzare la
logica di coincidenza e l’accensione dei LED.
Figura 5.4: Foto del circuito per la gestione della logica di coincidenza.
52
Realizzazione del telescopio
5.2 Parte meccanica
LED (la corrente in uscita dai pin dell’FPGA non è sufficiente per pilotare
direttamente l’accensione dei LED).
5.2
Parte meccanica
La parte costruttiva meccanica del telescopio è stata realizzata in 4 fasi
distinte:
Scintillatori
Il materiale scintillatore è stato preparato in 12 tegole, tagliate alle dimensioni nominali di 50 × 10 × 0.6 cm3 , lavorate sulle facce laterali e lavorate
con una fresa a controllo automatico (punta da 1 mm) per l’incisione della
scanalatura per la fibra.
Figura 5.5: Dettaglio della fresatura a controllo automatico per la lavorazione
delle tegole.
Le fibre sono state poi collocate nella scanalatura alla profondità di 2 mm
e incollate come descritto nel cap.4 e mostrato in figura 4.3.
Frontalini
Il sistema per connettere le tre fibre, provenienti dagli scintillatori di
un singolo piano, ai relativi SiPM attraverso i blocchetti di plexiglass, è
stato realizzato con 4 frontalini di alluminio, scavati da un lato per potervi
alloggiare il fotorivelatore e forati dall’altra per inserirvi la fibra ottica.
53
5.2 Parte meccanica
Realizzazione del telescopio
Figura 5.6: Particolare del frontalino di connessione fra il SiPM e la fibra
dello scintillatore.
La struttura risultante permette un certo gioco per regolare la posizione
delle singole fibre rispetto ai SiPM.
Isolamento luminoso
A causa dell’estrema sensibilità alla luce dei SiPM, i singoli elementi
scintillatore–fotorivelatore sono stati isolati dall’esterno. Le tegole sono state
impacchettate singolarmente utilizzando un rivestimento di plastica nera, per
evitare l’ingresso di luce e ridurre la dispersione della luce di scintillazione.
Il sistema delle tre tegole di ogni piano, del frontalino e dei rispettivi SiPM
è stato posto fra due piani di alluminio, chiusi sui lati e sigillato con silicone
nero.
54
Realizzazione del telescopio
5.2 Parte meccanica
Figura 5.7: Foto di uno dei 4 moduli con le 3 tegole di scintillatore, prima di
essere sigillato con il nastro isolante e il silicone nero.
Figura 5.8: Foto di uno dei 4 moduli: oltre al modulo isolato con il nastro
nero, sono evidenti i circuiti per l’elettronica con le loro alimentazioni, i cavi
per il segnale di output e il frontalino con i LED.
55
5.2 Parte meccanica
Realizzazione del telescopio
Montaggio
Per il montaggio completo di un singolo modulo, dopo averlo isolato,
sono stati applicati ai tre SiPM le rispettive schede per l’elettronica ed è
stata fatta la cablatura necessaria per portare le alimentazioni ai LED, ai
SiPM e all’elettronica (rispettivamente 12, 33.5 e 5 volts) e per raccogliere i
segnali digitali in uscita dai comparatori. Il piano è stato concluso applicando
il frontalino con i tre LED (Figura 5.8).
L’assemblaggio definitivo del rivelatore è stato compiuto collocando i
quattro moduli sui rispettivi piani di alloggiamento e connettendo i cavi
dei segnali alla scheda per la gestione della logica di trigger (Figura 5.9).
Figura 5.9: Foto del telescopio assemblato: si notano i 4 piani, con i rispettivi
moduli, frontalini per i LED e la cablatura necessaria per le alimentazioni e
per raccogliere i segnali in uscita, verso l’FPGA.
56
Conclusioni
In questo lavoro di tesi sono stati presentati gli sviluppi, dalla progettazione fino alle fasi avanzate della realizzazione, di un prototipo di telescopio
visualizzante per µ cosmici.
Il rivelatore è formato da 4 piani contenenti ciascuno 3 tegole di materiale
scintillatore, lette utilizzando fotomoltiplicatori al silicio (SiPM). La luce di
scintillazione prodotta al passaggio delle particelle, viene raccolta e guidata
fino al SiPM da un fibra ottica WLS verde, incollata all’interno di una scanalatura scavata lungo le tegole. I singoli piani sono isolati dalla luce esterna
per mezzo di coperture di alluminio e silicone nero e sono posizionabili ad
una distanza variabile con l’ausilio di un normale rack di elettronica.
Il passaggio di una particella attraverso il telescopio produce un segnale
luminoso in più tegole che, dopo essere stato rivelato dal SiPM, amplificato
e opportunamente discriminato, viene inviato sotto forma di segnale digitale
ad una scheda elettronica. Questa scheda effettua la logica veloce necessaria
per filtrare questi eventi dal rumore di fondo e pilota l’accensione di una
matrice di LED per visualizzare la traiettoria seguita dalla particella.
Le parti originali del lavoro interessano principalmente i test di verifica
di funzionalità dei SiPM e degli scintillatori. Per i fotorivelatori sono stati
compiuti studi di caratterizzazione I–V per verificare sia il corretto funzionamento, e per determinare le tensioni di lavoro ottimali. Per le tegole di
scintillatore invece si è studiato il segnale tipico, in termini di carica, prodotto dal passaggio di un µ cosmico, in funzione sia di differenti posizioni
di passaggio della particella rispetto alla fibra, sia della posizione della fibra
stessa.
57
Bibliografia
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