DALLA LEGISLAZIONE SOCIALE ALL`ITALIA REPUBBLICANA

CAPITOLO I
DALLA LEGISLAZIONE SOCIALE
ALL’ITALIA REPUBBLICANA
1. Il lavoro e la questione sociale
Il diritto del lavoro nasce, nel contesto della legislazione sociale, da una
esigenza di protezione della persona del lavoratore in ragione della sua qualità di soggetto debole sul piano socio-economico e, conseguentemente, sul
piano contrattuale, perché operante su di un mercato segnato da una diffusa
disoccupazione ed, insieme, perché dipendente, quanto alla sua sopravvivenza (ed a quella del suo nucleo familiare), solo dai redditi derivanti dalla
sua attività lavorativa.
Il fenomeno del lavoro, invero, non era ignoto agli ordinamenti giuridici
del passato ed, in particolare, al mondo romano; peraltro, anche in ragione
della circostanza che il lavoro manuale eterodiretto era affidato agli schiavi,
esso venne a trovare collocazione negli istituti propri della locatio, ancorandosi alla locatio hominis (appunto per l’affitto dello schiavo), alla locatio operarum (in cui l’oggetto del contratto non era la persona dell’uomo libero,
bensì le sue attività), alla locatio operis (in cui l’oggetto del contratto era il
compimento di un’opera determinata, con autonomia organizzativa e rischio
di risultato per il prestatore), e manifestandosi anche nelle operae liberalis
(cioè nelle libere professioni allora esercitate).
La disciplina di riferimento restò sostanzialmente invariata sino al secolo
diciannovesimo, seppur attraverso un processo che vide il fenomeno intrecciarsi con la nascita delle corporazioni professionali di arti e mestieri, in
quanto mezzo di regolazione oligopolista delle attività economiche (ed anche
di partecipazione, nel basso medioevo, alla vita politica), nonché conseguentemente di disciplina, oltre che della concorrenza tra gli imprenditori e/o
maestri artigiani, delle prestazioni rese in loro favore dai prestatori d’opera e
dagli apprendisti.
Sarà, quindi, solo il processo di industrializzazione (la c.d. rivoluzione industriale) ad imporre agli ordinamenti delle società occidentali, a partire dalla seconda metà del secolo diciottesimo, la necessità di forme di intervento
regolativo nei rapporti tra capitale e lavoro.
Origini
Il mondo
romano
Il medioevo
La rivoluzione
industriale
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La parità
formale
La questione
sociale
L’associazionismo
professionale
La mutualità
collettiva
La neutralità
dello Stato
Lezioni di diritto del lavoro
Del resto, la soppressione delle corporazioni (legge Le Chapelier, 1791),
con i molteplici impedimenti che le stesse avevano imposto all’autonomia
individuale, ed il riconoscimento formale della parità tra le due parti del contratto di lavoro (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1793),
non aveva garantito nessun riequilibrio effettivo, permanendo la situazione
di debolezza contrattuale di colui che era detentore soltanto delle sue energie psicofisiche, in una situazione di diffusa disoccupazione e, quindi, di esasperata concorrenza, che consentiva la allocazione dei salari ai livelli della
mera sussistenza.
La questione sociale fu, dunque, il risultato di questa disparità sostanziale
e dell’accentuarsi dello sfruttamento, favorito ed aggravato dal diffondersi
delle nuove tecnologie, dal sorgere della grande industria, dall’espandersi dei
fenomeni dell’inurbamento e della concentrazione delle attività produttive,
dall’espandersi della concorrenza tra lavoratori con l’utilizzazione delle donne e dei fanciulli (c.d. mezze forze), dall’incrementarsi della pericolosità ed insalubrità del lavoro, con la conseguente crescita degli infortuni e delle malattie, spesso mortali.
Questa situazione ebbe a trovare delle prime risposte nell’associazionismo
professionale e nella mutualità volontaria. Malgrado l’affermarsi della ideologia
liberale, ispirata al principio della libertà di concorrenza, dell’autonomia individuale e della sovranità del mercato, che aveva portato, dopo l’esempio francese,
ad ulteriori interventi repressivi nei confronti delle associazioni professionali
(Combination Act, 1799), la spinta alla costituzione di strutture organizzative
espressive di interessi collettivi risultò insopprimibile, dando luogo all’affermarsi del fenomeno sindacale, anche in presenza di espressi divieti legislativi.
L’istanza aggregativa nasce, inizialmente in una dimensione localistica connotata in genere da processi di accelerata industrializzazione, attraverso un’acquisita coscienza di identità e bisogni comuni.
Questi bisogni furono identificati nella garanzia, a mezzo dell’assicurazione mutualistica contro i rischi da infortunio sul lavoro (e successivamente da
invalidità e vecchiaia) e da connessa riduzione o perdita della capacità lavorativa, di un reddito sostitutivo di quello non percepibile a seguito dell’inidoneità a produrlo; e, sintonicamente, nella acquisizione di un’occupazione
e nella percezione di un equo salario, attraverso l’associazionismo professionale immaginato come detentore monopolista del fattore lavoro e, quindi,
come titolare del potere di negoziare con il detentore monopolista del capitale, le condizioni per l’utilizzo di quel fattore (prezzo, scelta della manodopera, ecc.).
Il fenomeno fu centrale per avviare a soluzione la questione sociale nella
misura in cui alla dimensione quantitativa delle masse coinvolte sovrappose
il nuovo dato qualitativo dell’organizzazione. Risultò, peraltro, evidente
l’impossibilità che lo stesso producesse di per sé l’emancipazione dei soggetti
deboli del mercato in presenza della neutralità (o dell’ostilità) dell’ordinamento.
Dalla legislazione sociale all’Italia repubblicana
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Le strutture aggregative originarie vennero così necessariamente ad incontrarsi con le grandi correnti di pensiero, che ragionavano di diversi
modelli ordinamentali e di difformi regolazioni del mercato e nel mercato
quanto alla detenzione dei fattori di produzione (marxismo, anarco-insurrezionalismo, socialismo-riformista, socialismo-utopistico); da questo incontro si sarebbero generati, insieme a robusti movimenti di opinione all’interno della borghesia illuminata e del mondo cattolico, i partiti della sinistra
operaia con l’obiettivo di dare rappresentanza politica alla classe lavoratrice in un contesto istituzionale in cui l’assenza del suffragio universale determinava una selezione per censo degli interessi tutelati dall’ordinamento.
La dialettica tra l’associazionismo professionale e quello politico sarà continua e vivace, assumendo connotazioni diverse (dall’identità al collateralismo, dall’autonomia concorrenziale a quella sinergica) in ragione delle tradizioni e delle specificità di ogni ordinamento, nonché delle sue evoluzioni
nelle varie scansioni temporali.
In ogni caso, essa produrrà il graduale superamento della neutralità statuale ed il primo affermarsi di un intervento regolativo del lavoro con finalità protettive della persona umana (ed in particolare dei soggetti più deboli), imponendo una tecnica compressiva dell’autonomia individuale (anche del prestatore d’opera) e, talvolta, di quella collettiva, laddove l’interesse da soddisfare
sarà ritenuto rispondente a valori prevalenti, socialmente condivisi.
L’intervento normativo investirà in questa fase anche la mutualità collettiva, impossibilitata ad assolvere gli obiettivi per cui si era aggregata, in ragione della dimensione ridotta delle comunità di riferimento e, quindi, della
carenza di fondamentali matematico-attuariali idonei ad assicurarne l’equilibrio economico di lungo periodo. L’assunzione da parte dell’ordinamento
degli obiettivi propri della mutualità collettiva originerà la previdenza sociale; nella sua fase embrionale, peraltro, il fenomeno resterà ancorato a quell’area normativa definita legislazione sociale nella quale vengono ad aggregarsi tutti i primi interventi protettivi a tutela delle classi lavoratrici.
La sinistra
operaia
I primi interventi
regolativi
La previdenza
sociale
2. La legislazione sociale
Come si è detto in precedenza, la regolamentazione del lavoro industriale
non era operata dalla legge, poiché, in omaggio alle teorie liberiste, si riteneva che in questo campo l’autonomia privata dovesse essere non comprimibile. Sarà, dunque, solo nel corso del secolo diciannovesimo, a seguito dell’estendersi del processo di industrializzazione e del connesso aggravarsi della
questione sociale, che, sotto la spinta dell’associazionismo professionale e di
quello politico, nonché di movimenti di opinione sempre più incisivamente
attivi nel ceto borghese e nel mondo intellettuale, lo Stato inizierà ad intervenire (nella maggioranza dei Paesi europei), dando luogo a quella disciplina
che è stata definita, appunto, legislazione sociale.
Le teorie
liberiste
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Norme di ordine
pubblico
La locatio
operarum
Le leghe operaie
L’esperienza
italiana
La prima
legislazione
Lezioni di diritto del lavoro
Comune denominatore di questo insieme eterogeneo di interventi normativi sarà la loro finalizzazione alla tutela ed alla protezione del prestatore d’opera, attraverso il miglioramento di alcuni aspetti particolarmente gravosi delle
condizioni di lavoro; comune sarà anche la tecnica utilizzata, quella delle norme di ordine pubblico compressive dell’autonomia privata per garantire una
tutela minima (e, quindi, derogabile solo in melius) coerente con l’interesse
pubblico (all’equo bilanciamento) che in concreto si voleva perseguire.
D’altro canto, l’assenza di una disciplina legale del rapporto di lavoro era
evidenziata dal codice civile francese del 1803 (codice napoleonico), le cui poche disposizioni di origine romanistica furono poi riprese, per restare all’esperienza italiana, pressoché letteralmente dal codice civile del 1865; quest’ultimo conteneva soltanto (artt. 1570 ss.) la disciplina della “locazione delle opere e dei servizi”; ed in quest’ambito si limitava a definire la prima come
“il contratto in cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede” (art. 1570) ed a stabilire limiti di durata, sancendo, in ossequio ai principi di libertà individuale, il divieto di contratto a
tempo indeterminato ed, in particolare, di contratti di lavoro a vita, evocativi
dell’antica servitù della gleba (artt. 1627 e 1628).
Così, mentre appare ancora lontana l’emersione della nozione di contratto di lavoro, il crescere dirompente dell’associazionismo professionale favorirà, insieme con le prime abrogazioni dei divieti di organizzazione sindacale (Gran Bretagna, 1824), l’affermarsi di un insieme di disposizioni legislative, dettate in deroga ai principi del codice civile, per proteggere il lavoratore in quanto soggetto economicamente debole e per riequilibrarne la capacità negoziale nell’ambito del rapporto con la controparte. Contestualmente, le prime leghe di resistenza (o sindacati o trade unions) sovrapponevano
alla debolezza del singolo la forza contrattuale della coalizione (espressa nel
conflitto anche per via di un’unanimità imposta), per un verso, apprezzando
la sua capacità, in quanto monopolista, di determinare, per mezzo dei concordati di tariffa, più eque condizioni salariali, per l’altro, valorizzando la sua
attitudine alla promozione politica di provvedimenti legislativi in favore dei
lavoratori.
I fenomeni sopra ricordati si manifestarono in Italia più tardi che negli altri Paesi europei, nei quali la rivoluzione industriale si era ormai da tempo
consolidata ed i problemi della tutela dei prestatori d’opera si erano perciò
presentati prima all’attenzione degli uomini di governo e del sistema ordinamentale complessivamente inteso. Questo ritardo è emblematicamente segnalato dalla circostanza che la soppressione delle corporazioni, intervenuta in
Francia nel 1791, con la già ricordata legge Le Chapelier, si realizza in Piemonte nel 1848 con l’emanazione dello Statuto albertino e nel Regno d’Italia
con la legge 29 maggio 1864, n. 1797.
Del resto, a tutto il 1890, il bilancio della legislazione sociale è assai modesto, portando al suo attivo solo l’introduzione di una (morbida) vigilanza
sulle cave e sulle miniere (1859), la previsione di interventi per la gente del
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mare con premi assicurativi a carico dell’equipaggio (1861), l’introduzione
della defiscalizzazione in favore delle cooperative di lavoro (1870-1874), il
divieto di lavoro minorile (sino a 18 anni) per i mestieri girovaghi (1873), l’estensione della vigilanza al settore industriale con la nomina di due ispettori
per tutto il territorio nazionale (1879).
Quanto alle aggregazioni collettive, dopo la soppressione delle corporazioni un forte sviluppo aveva avuto il fenomeno della mutualità volontaria,
originato da associazioni di lavoratori che provvedevano ad erogare, con
l’accantonamento di contributi da parte di soci (o con l’elargizione di somme
da parte di soci filantropi), prestazioni a quanti si fossero trovati in condizioni di bisogno a causa di malattia, infortunio, invalidità e, in alcune ipotesi,
vecchiaia e morte (a favore dei superstiti). Le società operaie di mutuo soccorso furono l’espressione di questo fenomeno diffuso prevalentemente nel
nord e nella Toscana; esso fu disciplinato dalla legge 15 aprile 1886, n. 3818,
che, a fronte di benefici fiscali (peraltro modesti), impose una maggiore trasparenza associativa (pubblicazione degli statuti e verbalizzazione degli atti
interni).
Peraltro, la difficoltà per la mutualità volontaria di adottare lo schema assicurativo in ragione della dimensione ridotta della popolazione di riferimento
e della coincidenza tra fruitori e finanziatori (quanto agli eventi certi come la
vecchiaia), aggravata dall’assenza di adeguati strumenti matematico-attuariali, venne a determinare (al di là degli abusi insiti nello strumento associativo
e nella impossibilità di garantire un rendimento effettivo del patrimonio accantonato) il superamento dell’esperienza, favorito dalla propensione dei soggetti più giovani a dissociarsi dal fenomeno (anche attraverso l’illusoria creazione di nuove mutue). La crisi del fenomeno veniva, del resto, a coincidere con
l’affermarsi del movimento sindacale, che guardava con diffidenza modelli
associativi alternativi che non si ponessero come obiettivo il riequilibrio del
potere contrattuale e la lotta per il miglioramento economico-sociale.
Il mutuo
soccorso
La solidarietà
di classe
3. Il riconoscimento della libertà sindacale
Già all’inizio della seconda metà dell’ottocento l’associazionismo operaio
aveva assunto anche in Italia, sulla spinta dell’Internazionale fondata a Londra nel 1864, una seppur rudimentale connotazione sindacale. Nel 1872 nasce l’associazione tra gli operai tipografi italiani, che può considerarsi il primo esempio di organizzazione sindacale di mestiere; negli stessi anni vennero affermandosi altre leghe di resistenza ed associazioni di mestiere, che si
proponevano, con la solidarietà di classe, di introdurre, attraverso l’unificazione degli operai del settore, migliori condizioni salariali e riduzioni dell’orario di lavoro.
La nascita del Partito operaio italiano (1882) e, successivamente, quella
del Partito dei lavoratori italiani (1892), che poi assunse il nome di Partito
Le leghe di
resistenza
Il Partito
socialista italiano
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Le camere del
lavoro
La contrattazione
collettiva
La libertà
sindacale
La liceità
dello
sciopero
Lezioni di diritto del lavoro
socialista italiano (1893), ebbe a scandire (con l’evoluzione organizzativa di
quest’ultimo in circoli elettorali) l’autonomia della funzione sindacale da quella politica, pur riconfermando le contiguità nelle ideologie e negli obiettivi di
riferimento, insieme con le necessarie connessioni di azione.
Contemporaneamente, l’istituzione delle camere del lavoro, che cominciarono a sorgere soprattutto al nord dal 1891, veniva a favorire un radicamento
territoriale delle organizzazioni sindacali, valorizzandone, sul modello francese delle bourses du travail, il ruolo di supporto e di informazione dei lavoratori, nonché l’attività (gratuita) di collocamento e di mediazione sul mercato del lavoro. Superata una fase di incerta collocazione all’interno dell’associazionismo operaio, le camere del lavoro, dopo la repressione conseguente
ai moti popolari del maggio 1898 a Milano (di cui pure le stesse non erano
state promotrici), assunsero un carattere marcatamente sindacale con il congresso di Milano del 1900 della Federazione nazionale (costituita nel 1893).
Ormai, agli inizi del nuovo secolo, esisteva, del resto, una rilevante produzione della contrattazione collettiva, che, seppur disarticolata e localizzata,
aveva già determinato un miglioramento delle condizioni di lavoro, registrando significativi successi in materia di minimi salariali, orario, lavoro straordinario, regolamentazione del cottimo.
E, d’altro canto, l’ordinamento aveva preso atto da un decennio dell’insostenibilità del conflitto sociale ed aveva operato per agevolare una evoluzione non sovversiva della questione operaia, riconoscendo la libertà sindacale.
In Italia il codice penale Zanardelli del 1889 considerò leciti lo sciopero e
la serrata se non attuati con violenza o minaccia (artt. 165 e 166), pur permanendo l’effetto civilistico dell’inadempimento degli obblighi derivanti dal
contratto di lavoro, con conseguente possibilità per il datore di lavoro di
reazioni sul piano del rapporto, in particolare nei confronti dei dirigenti sindacali promotori del conflitto.
4. La nascita della previdenza sociale
Lo strumento
assicurativo
Le
assicurazioni
sociali
I tempi erano ormai maturi perché si affermasse, nell’ambito della legislazione sociale, un nucleo specifico di interventi che poi avrebbe assunto, in
relazione alla identità delle tecniche e dei fini, la dimensione di un complesso
normativo a sé stante: il diritto della previdenza sociale. Lo strumento individuato per la tutela dai rischi sociali fu quello assicurativo, emendato dai
difetti della mutualità volontaria attraverso la sua generalizzazione e la sua
obbligatorietà, con la connessa garanzia dello Stato (anche attraverso i sussidi) del buon esito per mezzo del ricorso alle tecniche attuariali (necessarie
per ridurne l’aleatorietà).
Inizialmente strutturato come assicurazione privata obbligatoria (conforme ad un modello normativamente precostituito), esso approderà alla versione più sofisticata delle assicurazioni sociali, gestite dallo Stato attraverso enti
Dalla legislazione sociale all’Italia repubblicana
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strumentali. Vi erano per il cambiamento, insieme, motivazioni di ordine pubblico (e, quindi, di conservazione di un modello statuale fortemente classista), ragioni teoriche (con l’affermarsi, soprattutto in Germania, della “scuola storica di economia politica” sostenitrice del superamento del modello liberista) e movimenti di opinione (riferibili sia al pensiero laico che a quello
cattolico).
Fu la Germania ad assistere per prima, alla fine dell’800, alla nascita del
modello assicurativo, definito occupazionale (perché limitato ai lavoratori) o
bismarkiano (dal Cancelliere Bismarck, che lo introdusse durante il Regno di
Guglielmo I). La soluzione tedesca ebbe grande eco e si diffuse gradualmente negli altri Paesi dell’Europa continentale, che ne adottarono anche il modello attuariale di riferimento. In Italia, la generalizzazione della tutela previdenziale avverrà con maggiore gradualità, anche se il Regno sardo aveva già
offerto garanzie al risparmio privato per tale finalità (istituzione della “Cassa
rendite vitalizie per la vecchiaia”, 1859).
Una spinta importante ad una più incisiva azione dello Stato nell’affrontare la questione sociale venne dalla Chiesa cattolica, che prese posizione in
senso sostanzialmente riformista con l’enciclica Rerum novarum di Leone
XIII del 1891. L’enciclica rifiutava i due estremi materialistici del liberalismo
e della lotta di classe, ritenendo più coerente ai valori della persona umana
una collaborazione tra capitale e lavoro, che poteva realizzarsi solo in un
contesto di libertà associativa (secondo il modello proprio del mondo cattolico) e di intervento regolativo dello Stato per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.
L’intervento del Pontefice (che segna la nascita della dottrina sociale della Chiesa, recentemente ripresa ed aggiornata, anche con riferimento al fenomeno della mondializzazione dell’economia, dalle encicliche di Giovanni
Paolo II, Laborem exercens del 1981 e Centesimus annus del 1991, e di Benedetto XVI, Caritas in veritare del 2009) avviene in un momento di forte
tensione con lo Stato italiano per l’emanazione della legge 17 luglio 1890, n.
6972, che aveva convertito forzosamente tutte le opere pie ed ogni altro ente
morale con finalità assistenziale in istituzioni pubbliche di beneficenza (poi
denominate Ipab, Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, con il
r.d. n. 2841/1923).
L’intervento legislativo riteneva di porre fine ad un lungo conflitto in ordine ai soggetti che dovevano gestire l’assistenza nei confronti dei cittadini
meno abbienti, rispondendo all’interrogativo se il contrasto alla povertà dovesse essere affidato alla beneficenza pubblica o a quella privata. In proposito, le opzioni ordinamentali erano state molto differenziate, non solo tra i
singoli Paesi dell’Europa continentale, ma anche all’interno degli stessi a seconda del prevalere di questa o quella corrente di pensiero. Così, se l’origine
dell’assistenza sociale (e, quindi, pubblica) viene in genere identificata nelle
leggi anglosassoni sulla povertà (1598-1601), lo Stato liberale inglese interverrà (1834) per ridurre gli ambiti della solidarietà sociale, promuovendo le
Il modello
occupazionale
La Rerum
novarum
La dottrina
sociale della
Chiesa
La beneficenza
pubblica
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L’assistenza
sociale
Lo sviluppo
della
legislazione
sociale
La tutela
della salute
Lezioni di diritto del lavoro
iniziative associative con finalità di carità privata. Alterne fortune ebbe ugualmente la beneficenza pubblica in Francia ed in Germania. Nella prima, dopo
il riconoscimento del diritto dei cittadini all’assistenza (Costituzione del 1793,
art. 21), si dovrà attendere il 1893 per l’emanazione di una legge sull’assistenza ai cittadini malati; nella seconda, sarà solo nel 1870 che verrà istituito
il domicilio di soccorso. Quanto all’Italia, la legge 3 agosto 1863, n. 733, segnala la reazione verso i tentativi di promuovere forme legali di beneficenza
e, quindi, provvede a sottrarre dalle “usurpazioni governative” la beneficenza privata, affidata “nelle mani dei più onorati cittadini”.
La legge n. 6972/1890 opera, quindi, una svolta nella posizione dello Stato italiano in materia, aprendo tra l’altro un contenzioso con il mondo cattolico che durerà cento anni (passando per il Concordato del 1929 e per la sentenza della Corte Costituzionale n. 396/1988 sino al d.p.c.m. 16 febbraio 1990).
Essa, peraltro, segna la nascita dell’assistenza sociale in Italia, affidando direttamente ai Comuni compiti di beneficenza ed istituendo in ognuno di essi la
congregazione di carità.
La volontà di contenere il conflitto sociale e, soprattutto, di determinare
un suo svolgimento in chiave non sovversiva determinano in questi anni un
vigoroso sviluppo della legislazione sociale. Tra gli interventi più significativi
vanno ricordati quelli afferenti al primo nucleo del diritto della previdenza
sociale; ma importanti sono anche gli interventi finalizzati al miglioramento
delle condizioni di lavoro secondo la già ricordata tecnica di introdurre una
disciplina inderogabile, limitativa dell’autonomia delle parti quale riconosciuta
dal sistema di diritto civile allora vigente.
Numerose furono, altresì, le disposizioni di legge finalizzate ad efficientare la protezione della salute dei lavoratori per prevenire gli infortuni e le malattie professionali, nonché quelle aventi l’obiettivo di creare un apparato di
vigilanza per garantire l’effettività della legislazione sociale.
5. Il contratto di lavoro operaio
Il lavoro
manuale
Il contratto di
lavoro
L’insieme di questi provvedimenti legislativi aveva come riferimento il lavoro manuale o salariato (prevalentemente industriale), maggiormente esposto agli effetti negativi della disoccupazione generata dalla sovrabbondanza
di offerta di lavoro operaio (a fronte della più rarefatta offerta di lavoro impiegatizio) ed in ogni caso (anche in ragione del diffuso analfabetismo) dotato di minore capacità contrattuale sul mercato.
La nuova disciplina soffriva, peraltro, ormai, lo schema di riferimento codicistico del 1865, utilizzando l’ordinamento sempre più spesso l’espressione
contratto di lavoro (già legge n. 215/1893, per cui vedi paragrafo successivo)
ed assumendo a fini di identificazione descrittiva della dipendenza o subordinazione (in assenza di una sua definizione positiva) il collegamento tra la prestazione e l’impresa industriale (legge n. 80/1898, legge n. 242/1902).
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Invero, gli sforzi di affinamento dello schema codicistico da parte della
dottrina erano stati assai significativi sotto la pressione di un fenomeno sociale che si faceva dirompente e che aveva già prodotto nel codice di commercio del 1882 un’organica disciplina del contratto di arruolamento marittimo (artt. 521 ss.).
In realtà, l’impianto del codice del 1865 (art. 1627), nel preoccuparsi di
contrapporre alla locazione di cose la locazione di opere, trascurava la stessa
distinzione tra lavoro autonomo (locatio operis) e lavoro subordinato (locatio
operarum), disciplinando pressoché esclusivamente il primo nei suoi tipi sociali prevalenti e riservando al secondo soltanto il divieto di un contratto perpetuo.
Sarà la dottrina a recuperare la distinzione tra locatio operis e locatio operarum, già nota alle fonti romane ed allo stesso diritto intermedio, richiamando la diversa imputazione e ripartizione tra le parti dei rischi inerenti alla realizzazione della prestazione lavorativa, quello dell’impossibilità (o mancanza) di lavoro e quello dell’utilità del lavoro prestato, ed evidenziando come soltanto il primo sia comune ad entrambe le fattispecie di riferimento,
laddove il secondo non grava sul prestatore (ma sul datore di lavoro) solo
nell’ipotesi della locatio operarum.
Questa distinzione, peraltro, se dava conto della sostanziale identità nelle
due fattispecie dell’oggetto della prestazione offerta dal lavoratore e della
difformità causale che ne spiega la diversa imputazione dei rischi, non evidenziava i connotati che caratterizzano sotto il profilo funzionale le due specie di
obbligazione. Assumerà allora crescente rilevanza, nelle ricostruzioni della dottrina e nella disciplina legislativa, il richiamo al criterio della dipendenza (o
subordinazione), del resto presente nel codice napoleonico (art. 1779), che riferiva ai domestici, agli operai ed, in genere, agli altri lavoratori manuali l’obbligazione di mettere le proprie energie lavorative al servizio altrui.
In questo processo di elaborazione teorica giocheranno un ruolo prevalente le soluzioni elaborate dalla giurisprudenza dei collegi probivirali, istituiti per
il settore industriale con la legge 15 giugno 1893, n. 295, che, nell’esercizio delle loro funzioni di equità, vennero a porre le premesse per l’elaborazione della
prima nozione di contratto di lavoro subordinato.
La legge stabiliva che i collegi dei probiviri erano organi dello Stato, ai
quali venivano affidati compiti di amministrazione della giustizia, ma escludeva che essi dovessero essere obbligatoriamente costituiti. I collegi erano composti da un presidente, scelto tra i magistrati onorari o togati, ed, in numero
paritetico, da rappresentanti elettivi degli industriali e degli operai; in ogni
collegio erano costituiti un ufficio di conciliazione ed una giuria, alla quale
era demandata la funzione di decidere le controversie secondo equità (cioè
sulla base delle regole collettive ricavabili dalla prassi), qualora non si giungesse ad un accordo in sede conciliativa.
La competenza era limitata per valore e per materia; erano escluse le controversie economiche collettive, mentre erano previste quelle sui salari e sugli
Il contratto di
arruolamento
Lavoro
autonomo e
subordinato
L’imputazione
dei rischi
La dipendenza
I collegi dei
probiviri
Organi di
giustizia
Equità e prassi
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La prima
disciplina del
rapporto di
lavoro
Lezioni di diritto del lavoro
orari riferite ai concordati collettivi quando avessero avuto carattere individuale, cioè, secondo la dottrina dell’epoca, dopo che questi ultimi fossero
entrati a far parte del contratto individuale o ne avessero modificato il regolamento; peraltro, la giurisprudenza probivirale investirà anche le problematiche del contratto di tirocinio e quelle connesse allo scioglimento del contratto, con particolare riferimento ai temi del preavviso e dei danni da licenziamento ingiustificato.
Il graduale diffondersi dell’esperienza probivirale anche in settori originariamente esclusi e la sua estensione anche all’impiego privato (dove presero il nome di Commissioni provinciali per l’impiego privato) producono la
costituzione del primo nucleo della disciplina del rapporto di lavoro, che si
impone nel contesto sociale malgrado l’ostilità di una parte della dottrina civilistica e della magistratura (che spesso ebbe a cassare in appello le decisioni
dei collegi). L’esperienza venne a concludersi con la soppressione dell’istituzione da parte del nuovo ordinamento corporativo (r.d. n. 471/1928). La giurisprudenza probivirale, tuttavia, aveva ormai elaborato i primi istituti del contratto di lavoro, operando come fonte materiale e costituendo precetti, che,
in seguito, saranno recepiti a livello di fonte formale dal legislatore.
6. La nascita dell’autonomia privata collettiva
Il diritto
sindacale
Il vincolo
associativo
Il concordato
di tariffa
Assai rilevante fu, anche, l’apporto di questa giurisprudenza nell’elaborazione di un primo embrione di diritto sindacale; a tale nucleo originario si ricollegherà la dottrina chiamata a costruire questo diritto dopo la parentesi
corporativa.
I collegi dei probiviri si trovarono, in particolare, ad affrontare i problemi
della natura e dell’efficacia dei concordati di tariffa, nonché quelli degli effetti
dell’esercizio del diritto di sciopero sul rapporto di lavoro; nel farlo, vennero
ad intervenire su di un sistema di relazioni collettive, che si andava via via facendo sempre più maturo, anche in ragione di una acquisita dimensione nazionale o, comunque, di una più ampia estensione territoriale e di caratteri di
maggiore generalità. Sono questi gli anni del primo novecento, in cui la dottrina che studia il fenomeno inizia ad allontanarsi dalla concezione del concordato di tariffa come contratto di lavoro cumulativo, cioè come somma di
contratti individuali, o come contratto di lavoro complesso (un unico contratto
di lavoro, produttivo per i lavoratori di un’unica obbligazione di natura collettiva), per approdare ad una ricostruzione che riconosce l’identità dell’autonomia privata collettiva, fondandola sul vincolo associativo e sul conseguente
obbligo reciproco di tutti i membri del gruppo al rispetto delle tariffe convenute.
Il concordato di tariffa viene, così, definito come un contratto unico, in
grado di produrre un effetto obbligatorio per il datore di lavoro, che si è
vincolato verso il gruppo di lavoratori rappresentati dall’associazione stipu-
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lante, a loro volta obbligati sia verso il datore di lavoro (o i datori di lavoro)
sia, e soprattutto, verso gli altri membri del gruppo.
Peraltro, il diritto civile non consente di spingersi sino ad affermare l’efficacia reale del concordato di tariffa; la vincolatività per le parti resta ad efficacia obbligatoria e viene affidata ad eventuali azioni risarcitorie, nei confronti
degli stipulanti del contratto individuale difforme, da parte degli altri datori
di lavoro e dei lavoratori iscritti alle rispettive associazioni stipulanti.
D’altro canto, la funzione assolta dalla regolamentazione collettiva, in ordine alla programmabilità del costo del lavoro ed alla sua neutralizzazione come fattore di concorrenza, è una delle ragioni (insieme a quella del governo
del conflitto collettivo e della conservazione della pace sociale) che conducono i datori di lavoro ad associarsi e ad assumere gli obblighi di cui al concordato di tariffa. In questa prospettiva, i collegi dei probiviri si mossero andando al di là delle stesse elaborazioni dottrinali più avanzate (nonché, tra
l’altro, assecondando il dibattito che si era aperto per promuovere l’emanazione di una legge sindacale), affermando, per un verso, l’inderogabilità del
concordato collettivo ad opera delle pattuizioni individuali, e, per l’altro, l’efficacia oltre le parti stipulanti del contratto collettivo, in ragione della sua funzione economico-sociale di regolazione della concorrenza. Del resto, il sistema
di relazioni collettive si andava sempre più consolidando; così che, seppur in
modo isolato, si veniva anche ad affermare il principio che lo sciopero non
potesse mai costituire causa di risoluzione del rapporto, sostanzialmente
proiettandolo da libertà a diritto.
Il 1906 segna la nascita della Confederazione generale del lavoro (Cgdl),
costituita, secondo lo statuto approvato dal congresso di Milano, da tutte le
organizzazioni aderenti alle federazioni nazionali di mestiere ed alle locali
camere del lavoro, a cui competeva, sempre statutariamente, la direzione generale del movimento operaio.
Il modello, già in origine rigorosamente centralistico, si strutturerà su due
livelli di organizzazione, quello verticale e quello orizzontale, realizzando anche il superamento del sindacalismo di mestiere e la nascita delle federazioni
di categoria per ramo d’industria (in conformità all’opzione già compiuta dalla
Fiom, Federazione italiana operai metallurgici, 1901), nonché portando a termine il riordino delle camere del lavoro come struttura pluricategoriale di collegamento delle singole associazioni territoriali alle federazioni nazionali.
L’opzione corrispondeva alla strategia dell’anima riformista della Confederazione, prevalente rispetto a quella rivoluzionaria, di valorizzare un approccio unitario a livello categoriale del movimento rivendicativo; da qui la diffidenza verso la contrattazione aziendale, confermata dalla decisione di non promuovere organismi sindacali di fabbrica, ma semmai di assecondare l’esperienza delle commissioni interne.
Del resto, anche gli imprenditori andavano reagendo alle politiche rivendicative (con serrate in risposta agli scioperi, licenziamenti dei dirigenti sindacali, assicurazioni contro il conflitto collettivo) ed, in particolare, andava-
L’efficacia
obbligatoria
La funzione della
regolamentazione
collettiva
Il sindacalismo
confederale
L’articolazione
organizzativa
L’opzione
riformista
Le associazioni
imprenditoriali
12
Il pluralismo
sindacale
Lezioni di diritto del lavoro
no scoprendo la necessità di un assetto organizzativo idoneo a garantire l’uniformità e l’unicità dei comportamenti. Nel 1906 nacque la Lega industriali di
Torino, che può considerarsi la prima organizzazione imprenditoriale; nel
1910 nacque, ancora a Torino, la Confederazione italiana dell’industria (Cidi), che raggruppava tutte le associazioni industriali e prevedeva anche l’iscrizione di singoli industriali (rappresentando circa 1200 aziende).
Spazi assai ridotti sembravano residuare per chi rifiutava la lotta di classe
ed auspicava la collaborazione tra capitale e lavoro; in difesa di questi ideali,
comunque, era stato costituito nel 1907 un Segretariato generale delle unioni
professionali cattoliche, che può considerarsi il momento originario del processo che avrebbe condotto nel 1918 alla nascita della Confederazione dei
lavoratori italiani (Cil); strutturata secondo un modello analogo alla Cgdl (federazioni nazionali e, a livello locale, unioni del lavoro) ed ispirata al pensiero cattolico, essa promosse la generalizzazione della contrattazione collettiva
e l’implementazione della legislazione sociale. L’acutizzarsi delle lotte operaie,
peraltro, aveva già generato una scissione nell’ambito della Cgdl con l’uscita,
nel 1912, dei sindacalisti rivoluzionari e la creazione dell’Unione dei sindacati italiani (Usi), secondo un modello che riconosceva la massima autonomia
alle federazioni nazionali ed alle strutture territoriali, promuovendo una libera ed incisiva azione conflittuale di queste ultime. L’articolarsi dei soggetti
collettivi si arricchirà ulteriormente con lo scoppio della prima guerra mondiale; il dissenso tra neutralisti ed interventisti produrrà, da parte di questi
ultimi (minoritari), una scissione dell’Usi con la nascita, nel 1914, della Unione italiana lavoratori (Uil).
7. La legge sull’impiego privato
La prima
legificazione
Operai ed
impiegati
La fine della vicenda bellica segna l’avvio della nascita del diritto del lavoro, secondo un processo che si concluderà con la codificazione del 1942,
attraverso l’ingresso della sua disciplina, in posizione di diritto speciale, nel sistema di diritto privato. Il momento fondante di questo processo è l’emanazione della legge sull’impiego privato (la cui prima elaborazione risale al 1912),
avvenuta nel 1919 (d.lgt. n. 112) e successivamente perfezionata nella più completa elaborazione di cui al r.d.l. n. 1825/1924.
La scelta di intervenire solo sul lavoro impiegatizio era legata a motivazioni di opportunità: anzitutto, prendeva atto della persistenza della tradizionale distinzione tra il contratto di lavoro operaio (che la dottrina collocava
ancora, seppur differenziandolo, all’interno della categoria della locatio operarum) e quello di impiego privato (ancora privo di una ricostruzione identitaria, ma dotato già di specificità per il contenuto intellettuale delle prestazioni); in secondo luogo, constatava la debolezza contrattuale del personale
impiegatizio, che discendeva dalla sua bassa sindacalizzazione e dalla conseguente assenza di una contrattazione collettiva di riferimento, e, quindi, affi-
Dalla legislazione sociale all’Italia repubblicana
13
dava la regolazione del rapporto all’autonomia individuale ed alle pratiche
d’uso (c.d. usi impiegatizi).
Peraltro, al di là della circostanza che la legge sull’impiego privato si muove
ancora sul presupposto sostanziale della separazione, allora esistente, tra il
mercato del lavoro manuale e quello intellettuale e, conseguentemente, traduce in precetti formali gli usi contrattuali (raccolti dalle Camere di commercio su delega del Governo) relativi esclusivamente a quest’ultima categoria di
lavoratori, questa legge costituisce la premessa organica della disciplina del
contratto di lavoro subordinato, innestando nel sistema privatistico del codice del 1865 i principi della tutela del contraente debole, con la previsione di
condizioni minime di trattamento garantite per via di indisponibilità ed inderogabilità.
In questa direzione, importanti interventi scandiranno, prima della codificazione del ’42, l’assimilazione del lavoro manuale a quello intellettuale, in
ragione dell’acquisita percezione dell’identità del fenomeno, tra l’altro marcata dalla comune qualità di contraenti deboli in quanto dipendenti solo dal
salario e dalla retribuzione.
Si va esaurendo gradualmente la legislazione sociale come processo normativo onnicomprensivo per la risoluzione della questione sociale e, contestualmente, va nascendo il diritto del lavoro, che a sua volta si ripartirà in tre
nuclei autonomi di discipline, caratterizzate da proprie identità.
Il diritto del lavoro nasce, come si è visto, per proteggere il lavoratore subordinato, limitando l’autonomia privata e abbandonando il mito illuministico dell’eguaglianza formale dei contraenti, attraverso le tecniche dell’indisponibilità e dell’inderogabilità utilizzate per garantire l’equità dell’assetto negoziale attraverso interventi esterni, correttivi della diseguaglianza sostanziale
delle parti. Questi interventi afferiscono a tre grandi aree, che corrispondono
anche a tre insegnamenti, che divengono oggetto di autonomi corsi universitari.
Il primo settore, denominato in genere diritto del lavoro in senso stretto
o diritto del rapporto di lavoro, corrisponde, in questa fase, all’insieme delle
discipline che regolano direttamente il rapporto di lavoro, stabilendo minimi
inderogabili di trattamento.
Il secondo settore, denominato diritto sindacale, investe il fenomeno delle coalizioni professionali e delle loro attività; in questo periodo storico, esso
corrisponde, anzitutto, allo studio delle regole prodotte dall’autonomia collettiva; ma interessa anche le poche norme statuali che disciplinano l’azione
sindacale e la già ricordata giurisprudenza probivirale.
Il terzo settore, denominato diritto della previdenza sociale, racchiude tutta la disciplina degli interventi pubblici a favore dei lavoratori in condizione
di bisogno per il verificarsi di eventi pregiudizievoli, quali l’infortunio sul lavoro, la malattia, l’invalidità, la vecchiaia, la disoccupazione involontaria; in
questa fase, il settore si sviluppa intorno al modello delle assicurazioni sociali
secondo connotazioni esclusivamente pubblicistiche e con la gestione diretta
Gli usi
contrattuali
Il contraente
debole
La nascita del
diritto del lavoro
La tripartizione
della materia
Il diritto del
rapporto di
lavoro
Il diritto
sindacale
Il diritto della
previdenza
sociale
14
Lezioni di diritto del lavoro
dello Stato attraverso enti strumentali; orientato al modello occupazionale e,
quindi, limitato al lavoro subordinato, vedrà svilupparsi parallelamente il fenomeno della beneficenza pubblica (ed il suo graduale evolversi in assistenza
sociale) per affrontare l’altra questione sociale dello Stato moderno, quella
degli interventi a tutela dei cittadini bisognosi.
8. L’ordinamento corporativo
L’occupazione
delle fabbriche
Riformisti e
rivoluzionari
L’avvento del
fascismo
Il biennio 1920-1921 segna l’inizio di una grave crisi economica del nostro
Paese che investe, in particolare, la grande industria, con una drammatica diminuzione dell’occupazione operaia, agevolata dall’inflazione e dalla svalutazione della lira. Già nell’immediato dopoguerra, peraltro, si erano manifestate
fortissime tensioni sociali con l’occupazione delle terre da parte dei contadini
più poveri e dei braccianti; nel 1920, poi, la spinta rivoluzionaria sembrava accentuarsi con l’occupazione delle fabbriche e la richiesta di una partecipazione
operaia alla conduzione delle aziende. Sono mesi di contrapposizione frontale
tra la classe operaia (guidata soprattutto dai metallurgici e metalmeccanici) e
gli industriali (disponibili ad accogliere le rivendicazioni salariali, ma del tutto
intransigenti quanto al riconoscimento di contropoteri nella gestione aziendale). L’occupazione delle fabbriche (dopo il parziale fallimento dello sciopero
generale), peraltro, non rappresenta e non determina una svolta nel conflitto,
ma anzi ne segna il punto di stallo (e successivamente di arretramento).
L’aumento della disoccupazione ed il declino del flusso migratorio (e,
quindi, la scomparsa di alternative e la crescita degli inoccupati) ha via via
indebolito la forza di mobilitazione sociale dei sindacati; ancor più condizionante, poi, appare la difformità degli obiettivi all’interno del movimento operaio, con lo scontro sempre più acceso tra riformisti e massimalisti-rivoluzionari (che porterà, d’altro canto, sul fronte strettamente politico, alla rottura del Partito socialista ed alla nascita, al congresso di Livorno del 1921, del
Partito comunista). Nello stesso anno, anche a seguito della recessione internazionale, si aggrava ulteriormente la situazione interna (arretramento della
produzione industriale, drastico aumento della disoccupazione, succedersi di
dissesti finanziari e fallimenti). Il mondo degli affari si organizza politicamente,
reclamando una politica di difesa della proprietà privata e di restaurazione
delle gerarchie e dell’ordine sociale. Si prepara la crisi finale delle istituzioni
liberali, mentre dilaga nel Paese la violenza fascista contro le organizzazioni
sindacali.
Nei primi mesi del 1922 in Italia si apre un nuovo ciclo espansivo con
una crescita congiunta delle esportazioni e degli investimenti (che ripartono
anche nel settore agricolo). La ripresa economica agevola l’ampliarsi del consenso verso i partiti dell’ordine. La crisi politica, che tra la fine del 1921 e la
metà del 1922 ha visto succedersi ben tre Governi, approda (dopo la “marcia su Roma”) alla formazione del Governo Mussolini.
Dalla legislazione sociale all’Italia repubblicana
15
Tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923 riprende la crescita dell’economia
mondiale. Per l’Italia, l’aumento dei prezzi favorisce l’agricoltura, mentre nell’industria si avvia la ripresa produttiva, sia dei settori di base più innovativi
sia delle industrie più votate all’esportazione, che riescono ad inserirsi nel nuovo ciclo espansivo del commercio internazionale. Il graduale miglioramento
dell’occupazione, promosso anche da un rilancio delle opere pubbliche e degli interventi infrastrutturali (nonché, in agricoltura, dal lancio, nel 1925, della
“battaglia del grano”), favorisce il consolidarsi del regime e l’acquisizione
(malgrado la continua repressione autoritaria) di una prima area di consenso
sociale (collegata, anche, all’introduzione di una riduzione dell’orario di lavoro ed al miglioramento della legge sull’impiego privato).
Questo processo era stato agevolato, anche, da un crescente controllo sul
conflitto sociale. Già nel 1923, con il Patto di Palazzo Chigi, la Confindustria
e la Confederazione delle corporazioni fasciste (nata nel 1922 con il congresso di Bologna) si erano impegnate alla reciproca collaborazione perché l’azione sindacale si svolgesse in coerenza con le direttive del Governo. Questo,
a sua volta, nel 1924 (r.d.l. n. 64/1924) aveva posto tutte le organizzazioni
sindacali sotto il controllo del Prefetto.
La svolta decisiva, tuttavia, interverrà dopo la crisi seguita al delitto Matteotti ed il successivo colpo di Stato del 3 gennaio 1925. Il 2 ottobre dello
stesso anno, con il Patto di Palazzo Vidoni, la Confindustria e la Confederazione delle corporazioni fasciste si riconobbero reciprocamente la rappresentanza esclusiva delle categorie professionali e convennero la soppressione delle
commissioni interne, perché incompatibili con la riconosciuta unicità della
rappresentanza al movimento fascista.
La fine del pluralismo sindacale era poi sancita dall’introduzione dell’ordinamento corporativo (legge 3 aprile 1926, n. 563), nel quale per ogni settore produttivo veniva riconosciuto (con l’attribuzione della personalità giuridica pubblica) un solo sindacato dei lavoratori ed un solo sindacato dei datori di lavoro. Con il riconoscimento l’associazione sindacale assumeva la
rappresentanza legale della categoria; l’appartenenza del singolo datore di lavoro (e, quindi, del lavoratore da esso dipendente) era predeterminata e dipendeva dalla sua attività (e, cioè, dal settore produttivo nel quale la stessa
era collocabile); peraltro, l’inquadramento sindacale (e, quindi, l’assoggettamento alla rappresentanza legale dell’associazione di riferimento) era il risultato di un atto autoritativo di competenza del Ministero delle corporazioni.
Ferma restando la rappresentanza separata dei datori di lavoro e dei lavoratori, l’art. 3 della legge n. 563/1926 prevedeva organi centrali di collegamento, le corporazioni (al punto VI della Carta del lavoro), espressivi di una
superiore gerarchia comune.
A questa ferrea centralizzazione si ispirava anche l’intervento sul modello
associativo preesistente; frantumata in quattro confederazioni (agricoltura,
industria, commercio, credito e assicurazioni) l’iniziale unica Confederazione
delle corporazioni fasciste (r.d. n. 2508/1928), nel timore di un possibile
Il consolidamento
del regime
Il Patto di
Palazzo Chigi
Il Patto di
Palazzo Vidoni
Il sindacato
unico
Le corporazioni
La
centralizzazione
della
rappresentanza
16
I contratti
collettivi fonti
La magistratura
del lavoro
Sciopero e
serrata
Le controversie
Le sentenze
Lezioni di diritto del lavoro
contrappeso politico al Partito nazionale fascista, il legislatore del 1934 (legge n. 163) provvide a sopprimere le associazioni di livello inferiore a quello
federale e confederale (riconosciute, seppur per via mediata, con la legge del
1926), trasformandole in uffici provinciali delle confederazioni (unioni provinciali).
La funzione affidata dalla legge alle associazioni riconosciute era quella di
stipulare i contratti collettivi (appunto corporativi), nei quali trovava “espressione concreta la solidarietà tra i vari fattori della produzione mediante la
conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori e la
loro subordinazione agli interessi superiori della produzione” (dichiarazione
IV della Carta del lavoro). Questi contratti collettivi avevano efficacia generale per tutti gli appartenenti alla categoria professionale e, quindi, vincolavano (in ragione della rappresentanza legale delle rispettive associazioni sindacali stipulanti) tutti i datori di lavoro ed i lavoratori a prescindere dalla affiliazione sindacale; essi erano fonti di diritto in senso formale, come risulta
dalle disposizioni preliminari del codice civile del ’42, il quale, del resto, negli artt. 2060 ss. recepisce le linee essenziali dell’ordinamento corporativo.
Proprio l’affermato obiettivo di superare il conflitto tra capitale e lavoro
condusse il legislatore del 1926 a prevedere che fosse di competenza della
magistratura del lavoro la decisione non solo delle controversie che concernevano l’applicazione dei contratti collettivi o di altre norme esistenti, ma
anche quelle relative alla richiesta di nuove condizioni di lavoro (cioè quelle
relative alle ipotesi in cui le due organizzazioni sindacali contrapposte non
fossero riuscite a trovare un accordo per il rinnovo del contratto collettivo).
Quest’ultima competenza era, peraltro, necessaria perché nella stessa legge del 1926 alcuni articoli (poi trascritti con affinamenti nel codice penale
del 1930, c.d. codice Rocco, dal nome del suo estensore) escludono l’ipotesi
che le parti possano ricorrere al conflitto collettivo per ottenere il risultato
negoziale atteso. Lo sciopero e la serrata erano, infatti, vietati e puniti come
delitti contro l’economia pubblica (artt. 502 ss. cod. pen. del 1930), mentre
l’abbandono collettivo di pubblici impieghi e servizi era considerato reato
contro la pubblica amministrazione (artt. 330 e 333 dello stesso cod. pen.).
La magistratura del lavoro, dunque, decideva su tutte le controversie di
lavoro, sia quelle relative all’applicazione di norme contrattuali già esistenti
(controversie giuridiche), sia quelle relative alla modifica o creazione delle
stesse (controversie economiche) se non composte pacificamente tra le parti,
anche attraverso l’intervento dissuasivo di fatto del potere politico.
Le sentenze della magistratura, che per le ragioni sopra richiamate non
furono numerose, avevano lo stesso effetto normativo dei contratti collettivi
(e, quindi, erano efficaci erga omnes). Le controversie giuridiche erano decise secondo le regole di diritto civile sull’interpretazione dei contratti; le controversie economiche secondo equità, con la finalità di contemperare gli interessi delle parti, nell’interesse superiore dell’economia, art. 16, c. 1, legge
n. 563/1926.
Dalla legislazione sociale all’Italia repubblicana
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9. Il contratto collettivo corporativo
La dottrina prevalente dell’epoca, in sintonia con la giurisprudenza di legittimità, riteneva che il contratto collettivo corporativo avesse natura di
contratto di diritto pubblico, in quanto concluso tra enti pubblici (le associazioni sindacali riconosciute) ed in quanto avente efficacia normativa non
solo per le parti stipulanti, ma anche per i terzi che a quelle parti non erano
affiliati.
Del resto, se anche una parte della dottrina usava l’immaginifica espressione secondo cui il contratto collettivo aveva “il corpo del contratto e
l’anima della legge” (Carnelutti), per rimarcare come esso operava su due
piani diversi (fonte di obbligazioni tra le parti, da un lato, e fonte di norme
obbligatorie per tutti i singoli, dall’altro), tanto che le controversie giuridiche
erano risolte secondo le regole del diritto civile sull’interpretazione dei contratti, nessuno comunque dubitava che la sua funzione normativa ad efficacia erga omnes producesse il risultato di svuotarlo della sua connotazione negoziale, trasformandolo in un sistema di formulazione bilaterale di norme
giuridiche.
E, d’altra parte, la dottrina dell’epoca sottolineava come le due associazioni sindacali riconosciute, pur essendo portatrici di interessi collettivi contrapposti, quando entravano in relazione per stipulare il contratto collettivo,
non operavano per creare tra loro dei diritti e degli obblighi reciproci, ma
per produrre il regolamento generale dei rapporti di lavoro nella categoria
professionale di riferimento.
Proprio in ragione di questo potere di regolamentazione funzionalmente
simmetrico ed, insieme, strutturalmente omogeneo a quello legislativo, il procedimento, i soggetti, i contenuti, gli ambiti di efficacia e l’inderogabilità del
contratto collettivo erano analiticamente disciplinati dalla legge n. 563/1926,
dal suo regolamento di attuazione (r.d. n. 1130/1926), nonché dal r.d. n.
1251/1928; questa disciplina è stata poi trasfusa nel codice del ’42 (artt. da
2067 a 2078), con affinamenti dovuti ai problemi emersi nella concreta esperienza applicativa.
Erano esclusi dal campo di applicazione dei contratti collettivi, oltre ai rapporti di pubblico impiego, che ontologicamente erano disciplinati dalla normativa statuale, i rapporti di lavoro dei dipendenti da concessionari di pubblici servizi e da appaltatori di opere pubbliche, nonché i rapporti di lavoro domestico (art. 2068 cod. civ.).
L’impianto normativo prevedeva l’afferenza necessaria dell’imprenditore
al contratto collettivo autoritativamente identificato come competente per il
settore merceologico in cui era inclusa l’attività svolta, nonché un contenuto
obbligatorio del contratto collettivo stesso (art. 8 del r.d. n. 1251/1928, riscritto in versione semplificata nell’art. 2071 cod. civ.), con l’indicazione di
clausole essenziali la cui carenza poteva determinarne la nullità o l’annullabilità.
Natura di diritto
pubblico
Efficacia erga
omnes
Funzione
regolamentare
Ambiti di
efficacia
I rapporti
esclusi
L’inquadramento
categoriale
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Clausole
essenziali
Legge e contratto
collettivo
Ultrattività
Inderogabilità
Favor
Fonte
eteronoma
Lezioni di diritto del lavoro
La sussistenza nella parte normativa di clausole essenziali era richiesta dal
legislatore per realizzare l’obiettivo di costruire una disciplina dei rapporti di
lavoro a tratto generale (seppur differenziata per categorie); questa disciplina
era necessaria soprattutto per il lavoro operaio, laddove il lavoro impiegatizio fruiva già di una regolazione normativa di base, quella contenuta nella
legge sull’impiego privato (r.d.l. n. 1825/1924).
Quanto al rapporto tra legge e contratto collettivo (che interessava quest’ultima disciplina, ma anche tutta la legislazione in materia di orario, riposi,
ecc.), la dottrina riteneva che le condizioni minime previste a tutela del lavoratore dalla prima potessero essere derogate solo in senso più favorevole dal
secondo.
L’art. 2073 cod. civ. prevedeva che l’efficacia del contratto collettivo venisse meno alla scadenza temporale fissata solo ove almeno tre mesi prima
una delle parti lo avesse “denunziato” (cioè disdettato) per aprire le trattative di rinnovo. L’art. 2074 cod. civ. prevedeva, in ogni caso, l’ultrattività del
contratto collettivo scaduto; esso restava in vigore anche se “denunziato” sino a quando (per effetto di un accordo tra le parti o di una decisione della
magistratura del lavoro) non fosse intervenuto un nuovo regolamento collettivo.
L’art. 2077 cod. civ. (che rielabora l’art. 54 del r.d. n. 1130/1926) disciplina l’inderogabilità del contratto collettivo. Questa norma ha particolare
significatività, perché, come vedremo nel prosieguo della trattazione, la giurisprudenza ha continuato ad applicarla anche ai contratti collettivi di diritto
comune dopo la caduta dell’ordinamento corporativo. L’efficacia reale del
contratto collettivo, era garantita dalle tecniche dell’inserzione automatica e
dell’efficacia sostitutiva. Il contratto individuale veniva, infatti, conformato
al contratto collettivo disponendo l’inserzione della regolamentazione collettiva nella disciplina di quello individuale per gli istituti in cui la stessa era carente e la sua sostituzione “di diritto” in presenza di clausole difformi; queste ultime, ove stipulate successivamente all’entrata in vigore del contratto
collettivo, erano viziate di nullità.
L’eccezione alla regola è rappresentata dalle clausole più favorevoli ai lavoratori presenti nei contratti individuali, che sono considerate legittime; la
limitazione dell’autonomia individuale, pertanto, non investe la concessione
da parte del datore di lavoro al singolo di trattamenti di miglior favore.
Dall’inderogabilità del contratto collettivo la dottrina e la giurisprudenza
(secondo un indirizzo ricostruttivo seguito anche dopo la caduta dell’ordinamento corporativo per i contratti collettivi di diritto comune) elaborarono la
teoria del contratto collettivo come fonte eteronoma di disciplina del contenuto dei contratti individuali; in base a questa costruzione, la disciplina del
contratto collettivo non si incorpora nel contratto individuale; così che, di
fronte ad una successiva modifica peggiorativa, il contratto individuale non
può resistervi, ma deve subirla ad essa conformandosi.
Dalla legislazione sociale all’Italia repubblicana
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10. La codificazione del contratto di lavoro subordinato
Il codice civile del ’42 realizza a livello sistemico l’inserzione della legge
sull’impiego privato e dei contratti collettivi corporativi nel corpo del diritto
privato, ponendo in essere la disciplina unitaria del rapporto di lavoro. Questa operazione viene compiuta, non tanto in termini di acquisizione nella
struttura codicistica di tutte le norme che interessano il rapporto (laddove
molti istituti restano prevalentemente affidati alla legislazione speciale, che
diventerà al riguardo via via crescente), quanto elaborando l’assetto portante
della materia intorno alla definizione delle fattispecie ed all’identificazione di
autonomi principi che segnano l’identità della disciplina all’interno del diritto privato.
In particolare, mentre viene riaffermata ed affinata la ricostruzione del
contratto di lavoro come rapporto di scambio tra retribuzione o salario e
prestazione di attività subordinata alla direzione ed alle direttive dell’imprenditore (nonché all’interesse dell’impresa), viene generalizzato il principio della tutela del lavoratore come contraente debole (sia quanto alle condizioni minime di trattamento che alle garanzie di inderogabilità ed indisponibilità delle stesse), ulteriormente arricchito dall’acquisizione dal sistema
corporativo della regola rafforzata (art. 2077 cod. civ.) della prevalenza della norma più favorevole.
Momento centrale risulta, comunque, quello della definizione della fattispecie, cioè dell’individuazione di quel contraente debole a cui riferire
l’apparato di tutele. Al riguardo, il codificatore del ’42 si trovava di fronte
due linee di pensiero, elaborate ormai compiutamente dalla dottrina italiana
e da quella germanica dopo il 1920, in ordine alla nozione di subordinazione
che, concentrando l’attenzione, piuttosto che sull’attività del debitore-locatore, sull’interesse del creditore-utilizzatore, si dividevano sull’alternativa se
quell’interesse fosse soddisfatto con l’organizzazione del risultato produttivo
determinato dall’attività del prestatore (e, quindi, se coincidesse con l’interesse dell’impresa oggettivamente considerata) o con la disponibilità senza
aggettivi, e quindi generica, delle energie lavorative.
L’alternarsi nella stessa produzione legislativa e nella elaborazione giurisprudenziale di queste due linee di pensiero, l’una istituzionale (che privilegia l’inserzione nell’organizzazione e, quindi, l’interesse dell’impresa come
criterio di qualificazione della subordinazione), l’altra contrattuale (che, in
evoluzione del tradizionale schema locativo, concentra nel vincolo di soggezione della persona l’identità del lavorare subordinato) porterà il codice del
’42 ad un tentativo di sintesi con l’inserzione dell’elemento della collaborazione (peraltro già presente, seppure come collaborazione fiduciaria, nella
legge sull’impiego privato), quale apporto dell’ideologia corporativa (secondo cui l’intero assetto del diritto del lavoro doveva esprimere la tensione
dell’ordinamento al superamento del conflitto tra capitale e lavoro).
Il tentativo operato con l’inserzione dell’elemento della collaborazione era,
La codificazione
Il lavoro
subordinato
Rapporto di
scambio
Il contenuto
dello scambio
La collaborazione
20
La tutela del
lavoro
Il lavorare
insieme
Lezioni di diritto del lavoro
dunque, quello di farlo penetrare nella causa del contratto, per valorizzare lo
scopo comune dei contraenti connesso alla concezione dell’impresa come
comunità organizzata ed al richiamo all’interesse produttivo dell’economia
nazionale (art. 2104 cod. civ.).
In questa prospettiva, la disciplina del lavoro contenuta nel libro V si poneva come obiettivo quello di collocare sul medesimo piano di tutela il lavoro in tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e
manuali (art. 2060 cod. civ.), coerentemente equiparando, nell’ottica del superamento del conflitto di classe, le attività dell’imprenditore, del lavoratore
subordinato (artt. 2094 ss. cod. civ.) e del lavoratore autonomo (artt. 2222 ss.
cod. civ.).
Peraltro, il richiamo alla collaborazione, in coerenza al principio di solidarietà corporativa, non realizzava il risultato di mutare la natura giuridica
del contratto di lavoro, trasformandolo da contratto di scambio in contratto
di associazione (come pure ebbero a sostenere, anche successivamente alla
caduta del sistema, alcune minoritarie posizioni dottrinali). La collaborazione evocata nell’art. 2094 cod. civ., infatti, è quella resa in concreto dal debitore come risultato dell’incontro degli interessi dei due contraenti, che si realizza con il lavorare insieme; laddove, il superamento del conflitto di classe è
demandato all’istituzionalizzazione dei rapporti tra gruppi professionali e,
quindi, dell’incontro degli interessi collettivi.
11. La previdenza sociale nel modello corporativo
Previdenza e
solidarietà
La Carta
del lavoro
Lo stesso impianto ideologico posto alla base della codificazione del contratto di lavoro subordinato e dell’istituzionalizzazione del contratto collettivo, quello del superamento del conflitto sociale come conflitto di classe mediante la collaborazione tra capitale e lavoro, caratterizzerà in questo periodo la sistematizzazione della previdenza sociale, che, anche grazie all’apporto
della contrattazione collettiva corporativa, si consoliderà in un robusto corpus normativo per il presidio di tutte le più rilevanti situazioni di bisogno
connesse alla perdita o alla riduzione della capacità di produrre reddito da
parte del lavoratore subordinato in genere e del lavoratore manuale in particolare.
Del resto, l’emanazione della Carta del lavoro (1927) aveva accelerato il
processo di pubblicizzazione dell’intero assetto ordinamentale, immaginato
come strumentale all’affermazione di un modello di cooperazione sociale. Già
l’anno successivo il servizio di collocamento viene definitivamente sottratto
all’esercizio privato, trasformato in funzione pubblica (in conformità alla convenzione internazionale di Washington del 1919, ratificata dall’Italia nel 1922)
ed affidato (a fini di organizzazione del consenso) ai sindacati fascisti, sotto
la sorveglianza del Ministero delle corporazioni. Nella stessa Carta del lavoro, poi, la disposizione XXVI afferma che “la previdenza è un’alta manifesta-
Dalla legislazione sociale all’Italia repubblicana
21
zione del principio di collaborazione. Il datore di lavoro ed il prestatore d’opera devono concorrere proporzionalmente agli oneri di essa. Lo Stato mediante gli organi corporativi e le associazioni professionali procurerà di coordinare, quanto è più possibile, il sistema e gli istituti di previdenza”.
La liberazione dal bisogno viene, dunque, affidata al comporsi dell’interesse pubblico (che stabilisce l’obbligatorietà dell’intervento di assicurazione
sociale per i bisogni di cui valuta indispensabile la soddisfazione) e dell’interesse collettivo (che presidia l’equilibrio finanziario del sistema quanto ai bisogni primari ed identifica, attraverso la contrattazione collettiva, ulteriori
bisogni da soddisfare).
Si ampliano gli eventi protetti, facendovi rientrare, tra gli altri, la tubercolosi, le malattie professionali e, per specifiche categorie, la malattia comune;
ma soprattutto si riordinano, incrementando l’apparato protettivo, le tutele
già esistenti in materia di infortuni sul lavoro, invalidità e vecchiaia, maternità,
disoccupazione involontaria.
Gli interventi non si riferiscono sempre a tutta l’area del lavoro subordinato, concentrandosi prevalentemente sul lavoro operaio, in alcune ipotesi,
in relazione alla tipologia di rischio protetta (si pensi all’assicurazione contro
gli infortuni sul lavoro), in altre, in ragione della non inclusione tra i destinatari di soggetti ritenuti non socialmente deboli (impiegati con redditi medioalti per l’assicurazione invalidità, vecchiaia e superstiti, e per quella di maternità) o di soggetti espressivi di realtà produttive a difficile inclusione nell’evento protetto (lavoratori agricoli e lavoratori a domicilio per l’assicurazione
contro la disoccupazione involontaria).
Assai attiva, in questo ventennio, fu poi la contrattazione collettiva corporativa, cui la stessa Carta del lavoro aveva affidato il compito di promuovere, ove compatibile con le esigenze di finanziamento, la copertura di altri
bisogni socialmente rilevanti (si vedano, con riferimento alla malattia comune, le dichiarazioni XXVII e XXVIII).
È proprio alla contrattazione collettiva corporativa che si deve l’introduzione, e poi la generalizzazione, di tre istituti che avrebbero avuto grande rilevanza nel sistema previdenziale italiano: gli assegni familiari, l’assicurazione
obbligatoria contro la malattia comune, la cassa integrazione guadagni.
Gli assegni familiari furono istituiti con accordo interconfederale del 1934
per controbilanciare gli effetti negativi prodotti nel settore industriale dalla
riduzione dell’orario di lavoro (e, in corrispondenza, della retribuzione) e per
assecondare la politica demografica del fascismo (di cui è riprova l’aggiunta
di famiglia nel pubblico impiego, legge n. 1047/1929, poi estesa ai dipendenti degli enti locali, legge n. 1161/1942). L’istituto fu poi disciplinato per legge nel 1936 (r.d.l. 21 agosto 1936, n. 1632) e, quindi fu affidato alla cassa
unica assegni familiari, creata nel 1940 (legge 6 agosto 1940, n. 1278) come
gestione autonoma nell’ambito dell’Inps (istituito con r.d.l. 27 marzo 1933,
n. 371).
Quanto alla malattia, le conseguenze economiche dell’evento avevano già
Liberazione
dal bisogno
Gli eventi
protetti
I soggetti
protetti
Previdenza
e norme
corporative
Gli assegni
familiari
La malattia
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L’integrazione
salariale
La previdenza
nel codice
del ’42
L’automaticità
delle prestazioni
Le assicurazioni
sociali
L’assistenza
sociale
Lezioni di diritto del lavoro
trovato una prima disciplina a tratto generale, in ordine alla conservazione
del rapporto di lavoro del dipendente ammalato ed al mantenimento per un
certo periodo della retribuzione, sia nella legislazione (legge sull’impiego privato, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825), che nella contrattazione collettiva.
Sarà, tuttavia, la contrattazione corporativa, in applicazione della dichiarazione
XXVIII della Carta del lavoro (vedi anche legge n. 563/1926), ad introdurre
e diffondere l’assicurazione di malattia (in termini di risposta al bisogno di cura) attraverso la creazione di migliaia di casse mutue (di categoria, aziendali,
interaziendali), spesso poi aggregate in federazioni.
Sarà ancora la contrattazione collettiva corporativa ad istituire, nel 1941,
la cassa integrazione guadagni, con la duplice funzione di attenuare gli effetti
negativi che gli avvenimenti bellici avevano determinato sulle condizioni dei
lavoratori e di equilibrare il sistema economico tra i settori immediatamente
interessati alle produzioni di guerra e quelli nelle stesse non utilizzati.
Il completamento del sistema previdenziale corporativo si realizza, comunque, con l’introduzione di alcuni principi “fondanti” nel codice civile del
1942. Di questi, quello maggiormente significativo è certamente individuabile nell’art. 1886 cod. civ., laddove si afferma che “le assicurazioni sociali sono disciplinate dalle leggi speciali”, precisando, peraltro, che, in mancanza,
si applicano le norme del capo “dell’assicurazione”, che disciplinano le assicurazioni private. Viene così confermata, per un verso, la riferibilità del rapporto previdenziale al diritto pubblico (e, quindi, alla legislazione speciale),
per l’altro, l’identità strutturale dello stesso al rapporto assicurativo ed al relativo schema privatistico.
Non vanno dimenticati, peraltro, gli artt. 2115 cod. civ. (in cui si fissa il
principio generale della ripartizione dell’obbligo contributivo tra datori di
lavoro e prestatori d’opera), 2116 cod. civ. (in cui si stabilisce il principio generale dell’automaticità delle prestazioni, già presente nella legislazione speciale, secondo il quale il lavoratore ha diritto alla prestazione previdenziale anche nell’ipotesi di inadempimento del datore di lavoro dell’obbligazione contributiva), 2117 e 2123 cod. civ. (in cui si prevede il vincolo di destinazione
dei fondi speciali di previdenza e assistenza integrativa, offrendo una prima
forma di tutela alle esperienze di origine contrattuale e regolamentare).
Il sistema previdenziale sembra, dunque, assumere un assetto stabile e
definitivo sulla base di un modello che, individuati i rischi socialmente rilevanti, impone ai destinatari (ed ai loro utilizzatori) di assicurarsi, per ridurre
i bisogni economici connessi al possibile verificarsi dell’evento, ponendo a
disposizione degli stessi l’ente assicuratore, nonché la vigilanza (ed il sussidio) dello Stato. Il fenomeno viene assistito da una normativa promozionale
idonea a contenere gli effetti di eventuali inadempimenti ed a favorire la copertura (attraverso la contrattazione collettiva corporativa) di altri rischi ad
analoga (se non primaria) rilevanza sociale.
A chiusura del sistema viene contemplata poi l’assistenza e la beneficenza pubblica, che ha per destinatari i cittadini bisognosi. Già nel 1923, con il
Dalla legislazione sociale all’Italia repubblicana
23
r.d. 30 dicembre 1923, n. 2841 (che riformava la legge del 1890), inizia a delinearsi in maniera più netta, in Italia, il passaggio dalla beneficenza pubblica all’assistenza sociale. La nuova disciplina, ribadendo (anche nel nome) il
carattere pubblico del fine perseguito (“Istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficenza”), apriva, tra l’altro, la via per un recupero del raccordo con i
soggetti privati operanti nel settore ed, in particolare, con le associazioni ecclesiastiche e con le opere pie, che si sarebbe concluso con la firma del Concordato nel 1929. Il periodo corporativo ebbe a dare così nuovo impulso
alla legislazione in materia con il definitivo abbandono della neutralità dello
Stato liberale e con l’obiettivo di promuovere la solidarietà tra capitale e lavoro.
L’intervento più significativo in materia sarà la legge 3 giugno 1937, n. 847,
con cui vengono istituiti gli enti comunali di assistenza, che assorbono le
vecchie congregazioni di carità. Si apre un processo che condurrà all’articolarsi di una organizzazione diffusa su base nazionale e territoriale (ed a competenza generalistica e/o specialistica), finalizzata alla copertura di una serie
complessa di bisogni. Questa organizzazione avrà nei Comuni e nelle Province (si pensi per tutti ai Consorzi provinciali antitubercolari di cui alla legge
23 giugno 1927, n. 1296) un punto stabile di riferimento; ma si realizzerà anche in una pluralità di enti autarchici (Opera nazionale per la protezione della maternità ed infanzia, per gli orfani di guerra, per gli invalidi di guerra,
per i ciechi civili, ecc.) aventi il compito di provvedere, con prestazioni specialistiche, ai bisogni di particolari categorie di cittadini.
Gli enti comunali
di assistenza
12. La soppressione dell’ordinamento corporativo
Dopo la caduta del fascismo, a seguito della disgregazione politica e militare che portò al voto del Gran Consiglio il 25 luglio del 1943 ed all’arresto
di Mussolini ordinato dal Re, uno dei primi atti del Governo Badoglio (ancora prima dell’armistizio dell’8 settembre, che avrebbe condotto all’occupazione del Paese da parte dei Tedeschi, alla costituzione della Repubblica di
Salò ed all’inizio della guerra di resistenza e di liberazione) fu quello di abrogare le corporazioni e le istituzioni tipiche della fase corporativa del regime
(r.d.l. 9 agosto 1943, n. 721). Le organizzazioni sindacali di diritto pubblico,
tuttavia, non furono sciolte, ma poste sotto gestione commissariale e spesso
affidate ad uomini dei partiti politici che avevano animato la resistenza antifascista. Tra questi (che accettarono la nomina come tecnica ma non politica,
stante la diffidenza dei partiti antifascisti verso il Governo Badoglio) importanti sindacalisti comunisti e socialisti (Di Vittorio e Rovereda tra i primi, Buozzi e Lizzardi tra i secondi).
Mazzini e Buozzi (che era stato segretario della Fiom e che sarebbe stato
giustiziato dai Tedeschi a Roma nel 1944 nei giorni della liberazione della
Città), divenuti rispettivamente commissari della Confindustria e della Confe-
Il Governo
Badoglio
L’accordo sulle
commissioni
interne
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Il Patto di Roma
L’ultrattività
delle norme
corporative
La libertà
sindacale
La fase
pre-costituzionale
Blocco dei
licenziamenti e cig
L’unità
nazionale
Lezioni di diritto del lavoro
derazione dei lavoratori dell’industria, stipularono il 2 settembre 1943 il primo
accordo interconfederale post-corporativo, che sanciva la rinascita delle commissioni interne, riconoscendo alle stesse poteri negoziali.
Il Patto di Roma, del 3 giugno 1944, sanciva la nascita della Cgil come unica e unitaria organizzazione sindacale in rappresentanza degli interessi della
classe lavoratrice, marcando anche nel nome (modificato rispetto allo storico
Cgdl) la circostanza che, ora, essa assemblava le tre grandi componenti (comunista, socialista e cattolica) che avevano generato nel periodo pre-corporativo il pluralismo concorrenziale del e nel movimento sindacale.
Il Patto di Roma pose le premesse perché nel novembre dello stesso anno
(d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 369) venissero definitivamente soppresse tutte
le associazioni sindacali riconosciute; peraltro, d’intesa con il nuovo soggetto
confederale, l’art. 43 sanciva che “per i rapporti collettivi ed individuali restano in vigore, salvo le successive modifiche, le norme contenute nei contratti collettivi, negli accordi economici, nelle sentenze della magistratura del
lavoro e nelle ordinanze corporative”. La scelta dell’ultrattività della contrattazione collettiva corporativa era obbligata, perché assicurava la necessaria
continuità della normativa dei rapporti di lavoro nelle diverse categorie, saldandosi con il nuovo codice civile del ’42 e con le altre leggi speciali a tutela
del lavoro, che logicamente erano tutte rimaste in vigore.
Il d.lgs.lgt. n. 369/1944 non provvide, invece, all’espressa abrogazione
delle norme del codice penale incriminatrici dello sciopero e della serrata,
sulle quali sarebbe intervenuta molti anni dopo la Corte Costituzionale; peraltro, seppur di fatto, si era ormai ristabilito un regime di piena libertà sindacale, ivi compresa la libertà di sciopero e di contrattazione collettiva.
Il Paese, invero, era uscito assai provato dalla guerra; anche se alcuni primi interventi significativi, insieme con la ricostruzione del libero associazionismo politico e sindacale e con la ripresa delle relazioni industriali, consentirono l’enucleazione di un percorso di graduale ripresa economica.
L’ordinamento fu subito chiamato a rispondere ad un’emergenza occupazionale (1945); vi fece fronte, per un verso, con il raggiungimento di una serie di accordi tra le componenti imprenditoriali e quelle sindacali (poi tradotti in decreti da parte del Governo stante l’assenza, ormai, di una loro efficacia erga omnes) in materia di minimi salariali, scala mobile e blocco temporaneo dei licenziamenti; per l’altro, ottimizzando lo strumento “inventato”
dalla contrattazione collettiva corporativa, e cioè la cassa integrazione guadagni, e istituzionalizzandolo (d.lgs.lgt. 9 novembre 1945, n. 788) con la creazione nell’ambito dell’Inps di una gestione speciale (appunto così denominata), finanziata con contributi posti a carico dei datori di lavoro, che erogava
un trattamento economico integrativo o sostitutivo della retribuzione nei casi
di riduzione dell’orario o di sospensione del lavoro, che non dipendessero da
cause imputabili all’imprenditore o agli stessi lavoratori.
Nel 1946, superate le tensioni provocate dalla vicenda dei consigli di gestione (che si erano moltiplicati nell’anno precedente nelle fabbriche del nord
Dalla legislazione sociale all’Italia repubblicana
25
e che erano stati riconosciuti dal Comitato nazionale di liberazione come organi di partecipazione attiva dei lavoratori), il Governo di unità nazionale
presieduto da De Gasperi può far fronte alla perdurante crisi economica grazie all’arrivo dei primi consistenti aiuti internazionali. La collaborazione tra
tutte le componenti politiche antifasciste, anche in ragione del comune posizionamento nel referendum istituzionale tra monarchia e repubblica, avvia
un graduale superamento del conflitto sociale e recupera un atteggiamento
cooperativo del movimento sindacale.
Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 porta alla nascita della Repubblica italiana. Contestualmente viene eletta l’Assemblea costituente cui
veniva affidato il compito di redigere la nuova Carta costituzionale, come stabilito dal decreto legislativo luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944.
Le condizioni di bisogno dei lavoratori portano all’emanazione del d.lgs.
2 aprile 1946, n. 142, che, in deroga alla previsione di cui all’art. 2115 cod.
civ., pone a carico dei soli datori di lavoro l’obbligo contributivo per l’assicurazione di invalidità, vecchiaia e superstiti (per l’estensione a questi ultimi r.d.l.
n. 636/1939); ed alla accelerazione del processo di riorganizzazione delle prestazioni sanitarie (di cui all’inattuata legge 11 gennaio 1943, n. 138, istitutiva
dell’Inam) con il d.lgs.cps. 13 maggio 1947, n. 435 (che vedrà negli anni successivi la generalizzazione della tutela di questo evento nell’agricoltura, nell’industria, nel commercio e nel pubblico impiego).
Il 1947 vedrà il Governo rispondere alle emergenze sociali (connesse ad
una manovra di stabilizzazione dell’inflazione e dei cambi), anche, con interventi in materia di prezzi (con il blocco delle tariffe e dei fitti), nonché, ancora, in materia di integrazione salariale (d.lgs.cps. 12 agosto 1947, n. 869).
L’anno segna, peraltro, la rottura del Governo di unità nazionale, che a
sua volta determina la rottura dell’unità sindacale. Il 1948 è l’anno del primo
confronto elettorale che vede contrapposta la Democrazia cristiana (con i
suoi alleati di centro) ed il Fronte popolare (comunisti e socialisti). L’intensità dello scontro ed il suo stesso esito (con la vittoria della Democrazia cristiana) hanno conseguenze sul conflitto sociale; il venir meno delle ragioni del
suo contenimento (Governo amico) inaspriscono le lotte operaie nelle grandi
imprese del nord contro i licenziamenti in corso, a cui si aggiungono i violenti scioperi dell’estate dopo l’attentato al leader comunista Togliatti.
È la rottura dell’unità sindacale. Malgrado la protesta venga frenata dagli
stessi dirigenti comunisti, la componente cattolica della Cgil, guidata da Giulio Pastore (con l’appoggio di repubblicani e social-democratici) condanna
gli scioperi e viene esclusa (per questa critica) dal comitato esecutivo del sindacato. Il movimento sindacale cattolico Acli costituisce un nuovo sindacato,
la Libera cgil (Lcgil, che diverrà poi la Cisl), sostenuto dalla Democrazia cristiana e dalle organizzazioni collaterali della Chiesa. Nel 1949 l’esempio dei
cattolici sarà seguito anche dai repubblicani e dai social-democratici, che costituiranno la Federazione italiana del lavoro (che diverrà poi la Uil).
La Repubblica
Interventi sulla
previdenza
Il blocco delle
tariffe
La rottura
dell’unità
nazionale
La rottura
dell’unità
sindacale
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Lezioni di diritto del lavoro
13. Pensioni e svalutazione monetaria
La svalutazione
monetaria
Interventi a
sostegno del
reddito
La crisi del
sistema
Capitalizzazione
Ripartizione
La solidarietà
tra generazioni
Di tutte le emergenze sociali, peraltro, quella più grave era la fortissima
perdita di valore d’acquisto delle pensioni, a seguito della svalutazione della
lira (che nel 1950 aveva un valore pari a circa un quarantesimo di quello del
1940), con la conseguente ineffettività (ai fini della liberazione dal bisogno)
di tutte le prestazioni previdenziali per le quali i lavoratori (infortunati, invalidi, pensionati) avevano maturato il diritto.
Così i numerosi interventi legislativi di questi anni avranno come solo
obiettivo quello di adeguare, in misura più o meno congrua, le prestazioni, introducendo vari assegni integrativi (come l’indennità di “caropane” per operai, impiegati e pensionati), nonché di reperire i mezzi finanziari necessari
per una politica di sostegno del reddito dei destinatari della tutela previdenziale (si veda il d.lgs.lgt. n. 177/1945, istitutivo presso l’Inps di un “fondo di
integrazione per le assicurazioni sociali”, finanziato secondo il modello della
ripartizione pura, ed il successivo d.lgs.cps. n. 869/1947, istitutivo di un “fondo di solidarietà sociale”, sempre finanziato con il metodo a ripartizione per
l’erogazione di assegni straordinari integrativi delle pensioni e di indennità e
sussidi straordinari di disoccupazione).
In questo contesto, l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana non
poteva avere nessun impatto sul sistema previdenziale. Pressato dalle emergenze, esso, infatti, era chiamato esclusivamente a riflettere sulla efficienza del modello di riferimento, che non era in grado di sopportare l’andamento troppo
accelerato della svalutazione monetaria.
Il nostro sistema previdenziale era stato costruito, come la maggior parte
di quelli degli altri Paesi europei, tutti ancora ispirati ad una logica occupazionale, sulla tecnica della capitalizzazione.
Così, la crisi monetaria verificatasi in quasi tutti i Paesi partecipanti al
conflitto, ed in particolare in Italia, poneva in discussione la tenuta finanziaria del modello, evidenziando, attraverso la dissoluzione delle riserve tecniche, l’incapacità del sistema esistente di realizzare in tali periodi tassi di rendimento superiori a quelli della svalutazione della moneta o, almeno, di difendere dall’usura dell’inflazione i patrimoni accumulati.
Questa situazione complessiva del sistema doveva portarlo, quasi inevitabilmente, a confluire in una tecnica a ripartizione; infatti, questa tecnica acquisisce le risorse necessarie ad erogare le prestazioni non da un capitale accantonato, ma dal prelievo contributivo corrente sugli attivi (che tra l’altro,
in percentuale, cresce con il crescere dell’inflazione e/o delle dinamiche salariali). Ne consegue la possibilità, in questa fase, elevando la contribuzione, di
incrementare i trattamenti pensionistici in essere.
Il passaggio dalla capitalizzazione alla ripartizione è, peraltro, senza ritorno; la nuova tecnica, infatti, non dà luogo a riserve e, quindi, presuppone che
la massa del prelievo contributivo sia sempre sufficiente nel tempo a garantire l’erogazione delle prestazioni pensionistiche nella misura attesa e promessa.
Dalla legislazione sociale all’Italia repubblicana
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Diviene, dunque, indispensabile un continuo controllo dell’evoluzione degli
oneri, un tempestivo adeguamento dei contributi, una rapida modifica della
disciplina delle prestazioni, se non si vogliono creare disavanzi crescenti, rendendo ancora meno equo l’effetto di solidarietà tra generazioni imposto dal
modello a ripartizione.
È quello che sarebbe avvenuto in modo dirompente nel nostro Paese, nella
piena coscienza della nostra classe politica, che aveva ricevuto dalla commissione D’Aragona precise indicazioni in ordine agli interventi che avrebbero
dovuto essere posti in essere per conservare l’equilibrio finanziario del sistema previdenziale.
Per seguire il processo che realizza il passaggio dalla capitalizzazione alla
ripartizione va ricordato che, nel periodo corporativo, il sistema di calcolo
era contributivo ed i contributi si versavano mediante l’applicazione, su apposita tessera o libretto, delle c.d. “marche”, determinate entro valori minimi e
massimi per corrispondenti scaglioni di retribuzione.
Nel dopoguerra si introducono i contributi integrativi allo scopo di finanziare, mediante una gestione a ripartizione, le quote di integrazione delle pensioni, previste per adeguare l’importo delle pensioni base alla svalutazione
monetaria. Con la legge 4 aprile 1952, n. 218, (concludendo anche il processo di estensione dell’assicurazione obbligatoria agli impiegati, indipendentemente dal livello retributivo, iniziato nel 1950) si pone ordine ai variegati interventi normativi operati per fronteggiare l’emergenza, codificando il nuovo
modello con l’introduzione di un moltiplicatore da applicare alla pensione
base (quella calcolata con la capitalizzazione delle marche), che doveva variare nel tempo seguendo le vicende monetarie. Sul piano del finanziamento,
peraltro, rimanevano in vigore le due forme di contribuzione in precedenza
ricordate, restando affidata alla contribuzione base la funzione di individuare il maturarsi (ed il connotarsi) del diritto a pensione.
Veniva anche introdotto un concorso dello Stato pari ad un terzo delle
contribuzioni e creato un fondo di riserva alimentato con il tre per cento dai
contributi a percentuale (che andava ad aggiungersi a quello proprio del sistema a capitalizzazione ancora in vigore per i contributi base). Si ponevano,
per questa via, le premesse per uno “sganciamento” dal modello classico delle assicurazioni sociali: veniva meno l’autonomia finanziaria che era alla base
della mutualità; si incrinava il rapporto tra prestazione e contribuzione che
aveva dato origine al risparmio previdenziale; si snaturava l’idea originaria di
un progetto assicurativo finalizzato ad evitare un bisogno futuro ed incerto.
Questo importante “sacrificio” veniva, peraltro, scambiato con l’opportunità, offerta dalla nuova tecnica, di migliorare le condizioni di vita delle classi
lavoratrici attraverso processi redistributivi attuali e/o trasferimenti di debiti
alle generazioni future.
Commissione
D’Aragona
Le “marche”
assicurative
Le quote
integrative
Il finanziamento
dello Stato
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Lezioni di diritto del lavoro
CAPITOLO II
DALLA COSTITUZIONE
AL TRATTATO DI MAASTRICHT
1. La Costituzione ed i principi fondamentali
Il diritto del lavoro nella sua accezione piena occupa una posizione centrale
nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948. Emblematicamente
la Repubblica viene dichiarata come “fondata sul lavoro” (art. 1, c. 1) e si impegna a tutelarlo “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35, c. 1). Esso è
dovere di “ogni cittadino” (art. 4, c. 2), ma è anche diritto; e la Repubblica si
impegna a promuovere “le condizioni che lo rendano effettivo” (art. 4, c. 1).
La Costituzione adotta in proposito una definizione amplissima di lavoro, inteso “come un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della società” secondo un modello che non fa distinzione, non solo
tra lavoro manuale ed intellettuale, ma anche tra lavoro subordinato, autonomo, imprenditoriale, dovendo, comunque, l’individuo concorrere al benessere
sociale “secondo le proprie possibilità e la propria scelta” (art. 4, c. 2).
È un progetto di “pari dignità sociale” garantita a “tutti i cittadini” senza distinzioni, non solo riferibili a fattori storici di discriminazione, quali il
“sesso”, la “razza”, la “lingua”, la “religione”, ma anche riferite alle “condizioni personali e sociali” dell’individuo (art. 3, c. 1). Ma vi è di più. In coerenza agli obiettivi dello Stato sociale, quali enunciati nella Carta atlantica
del 1941 ed ancor più nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948, alla Repubblica viene
assegnato il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3,
c. 2), richiedendo, comunque, la stessa “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2). Dall’entrata in
vigore del testo costituzionale, dunque, lo Stato viene investito di una specifica finalità: quella di porre in essere comportamenti idonei a riconoscere
a tutti i cittadini pari opportunità, rimuovendo quegli ostacoli di ordine
economico e sociale che non consentono al singolo di realizzarsi come per-
Il diritto
al lavoro
Pari dignità e
pari opportunità
30
Solidarietà
Diritti sociali
Il progetto
costituzionale
Lezioni di diritto del lavoro
sona e, quindi, di partecipare effettivamente al sistema democratico che si intende costruire.
Nello stesso tempo, i cittadini si vedono investiti, in forza della loro qualità soggettiva, dell’obbligo di essere solidali reciprocamente; l’esigenza solidaristica trascende, così, l’interesse del singolo e coinvolge tutta la collettività,
perdendo il suo connotarsi come manifestazione possibile, per divenire azione necessaria.
Si enucleano, per questa via, i diritti sociali che il costituente, con chiara
indicazione sistematica, riferisce ai rapporti etico-sociali, differenziandoli,
per un verso, dai rapporti civili, per l’altro, dai rapporti economici e da quelli politici. Si delinea, così, il diritto alla salute di cui all’art. 32, stabilendo
che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, prevedendo la garanzia di “cure gratuite
agli indigenti” e delineando il contenuto del diritto in termini di erogazione (diretta o indiretta) di un servizio finalizzato alla prevenzione ed alla cura della malattia. Si enuclea, altresì, il diritto all’istruzione, da un lato, attraverso l’erogazione (anche qui diretta o indiretta) di un servizio, dall’altro, attraverso la previsione di interventi economici a favore dei meno abbienti che siano capaci e meritevoli (artt. 33 e 34). Si afferma, ancora, il diritto alla maternità, protetto, sia attraverso l’erogazione di servizi idonei a
garantire la realizzazione dell’evento ed a proteggere l’infanzia e la gioventù, sia attraverso la previsione di agevolazioni economiche ed altre provvidenze a favore della famiglia, con particolare riguardo alle famiglie numerose (art. 31).
In questo contesto il già ricordato riconoscimento del diritto al lavoro e del
relativo dovere acquistano ulteriore significatività; si chiarisce ancor meglio il
progetto costituzionale, che è quello di consentire a tutti i cittadini di realizzarsi come persona, divenendo produttori di reddito e di benessere individuale e
collettivo, rimuovendo gli ostacoli che potrebbero impedire tale realizzazione
e ponendo in essere le necessarie azioni positive.
2. Previdenza ed assistenza sociale
I diritti
previdenziali
ed assistenziali
Cittadini
e lavoratori
Accanto e dopo i diritti sociali, il testo costituzionale delinea, nell’ambito
dei rapporti economici, i diritti previdenziali, articolandoli in due aree autonome: quella dell’assistenza sociale e quella della previdenza sociale in senso
stretto. È subito da dire, al riguardo, che l’art. 38 Cost. (sia pure riletto sulla
base dei principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost.) non risulta imporre uno specifico modello di tutela sociale e, quindi, vincolare in modo diretto la scelta degli strumenti tecnici da utilizzare per il perseguimento degli obiettivi fissati
(cfr., tra le tante, Corte Cost. n. 160/1974, n. 31/1986, n. 100/1991).
Semmai, un’indicazione favorevole alla ricostruzione oggi prevalente
nelle democrazie occidentali può trarsi dalla differenziazione dei livelli di