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MACBETH
DAL CONTESTO AL TESTO
di Francesca Guidotti
(Università di Bergamo)
MACBETH
DAL TESTO AI CONTESTI
di Alessandra Marzola
(Università di Bergamo)
VERSIONE DEMO
Tutti i diritti relativi al presente materiale didattico sono riservati; il materiale viene distribuito agli insegnanti e ai dirigenti
scolastici delle scuole secondarie superiori italiane ad esclusivo uso didattico nei confronti degli studenti delle citate scuole,
nell’ambito del progetto “Prosa e Teatro musicale a Scuola”; nessuna parte del materiale fornito può essere copiata e/o
riprodotta in qualsiasi modo o formato per usi diversi da quello descritto.
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MACBETH
DAL CONTESTO AL TESTO
di Francesca Guidotti
(Università di Bergamo)
INDICE DELLA VERSIONE COMPLETA
1. La storicità di Shakespeare
2. Un re che veniva dalla Scozia
2.1. Successione e cospirazione
2.2. Gli interessi del re
3. Quanti padri aveva Macbeth?
3.1. Fonti
3.2. Omaggio al re
3.2.1. Il regicidio va in scena
3.2.2. Prosperità e poteri benefici
3.2.3. Demonologia e implicazioni morali
3.2.4. Niente è come sembra
4. Una tragedia all’insegna dell’equivocation
4.1. Tragedia e Morality Play
4.2. Gioco di equivoci
5. Questioni di genere
1. La storicità di Shakespeare
Il teatro di Shakespeare, scritto e rappresentato per la prima volta tra la fine del XVI e l’inizio del XVII
secolo, appartiene a tutte le epoche, inclusa quella attuale. Molte generazioni hanno continuato a
recitarlo, a reinterpretarlo, ad amarlo, a conoscerlo, a farlo proprio.
Con il passare del tempo la popolarità di Shakespeare non è mai venuta meno, anzi si è consolidata e,
per molti versi, si può dire che sia cresciuta, venendo gradualmente a interessare diversi settori: dal
teatro alla critica letteraria, dal cinema ai nuovi media, dalla medicina alla formazione aziendale.
Questa perenne migrazione ha caricato le opere di nuovi significati, anche perché lo sguardo di chi
interpreta è sempre e necessariamente influenzato dalla specificità del contesto.
Ma allora come possiamo noi oggi accostarci a un universo teatrale che è figlio del Rinascimento, e
che continua a suscitare riflessioni attuali? Con quale grado di consapevolezza storica è bene
avvicinarsi al teatro shakespeariano, nel momento in cui ci si accinge a metterlo in scena?
Conoscere il contesto originario risulta per molti versi indispensabile. Del resto l’opera di
Shakespeare era in perfetta sintonia con la sua epoca e con quel pubblico, variegato e disomogeneo,
che non si limitava ad assistere, ma partecipava agli spettacoli in modo attivo, esprimendo
liberamente entusiasmo o delusione, grazie alla diretta comunicazione favorita dallo spazio circolare
dell’arena. Poiché la scenografia era essenziale, tutto si basava sulla recitazione e sulla mimica, oltre
che sull’immaginazione e sul potere evocativo della parola.
I testi teatrali a noi giunti sono la risultante dei diversi fattori, non ultimo il ruolo degli attori: quei
pochi per cui le parti erano state inizialmente scritte e quei molti che, recitandole, avrebbero
concorso a riscriverle e ad arricchirle, letteralmente, prima che il copione venisse depositato. Gli
attori – fedeli e infedeli – ebbero una funzione decisiva anche quando si trattò di tramandare i
drammi, della cui pubblicazione Shakespeare (come una buona parte dei commediografi a lui
contemporanei) non si curò mai; di fatto le sue opere ci sono pervenute, in buona parte, grazie a
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trascrizioni mnemoniche più o meno piratesche e attendibili, pubblicate da librai londinesi di pochi
scrupoli e quindi ricche di varianti, il che ha reso necessario un complesso lavoro filologico sulle fonti.
L’interazione dinamica tra questi e altri fattori rende imprescindibile la ricostruzione del contesto
originario. Se non adottassimo una prospettiva storica, ad esempio, rischieremmo di non cogliere le
allusioni a fatti e personaggi reali e di non comprendere le ragioni di alcune scelte compositive legate
alle convenzioni teatrali dell’epoca. Rischieremmo anche di non valorizzare la ricchezza di un
linguaggio antico ma, per molti versi, modernissimo, che con la sua duttilità tanto ha contribuito al
successo e alla sopravvivenza di quel teatro.
Tuttavia il nostro sguardo non può restare confinato a quel periodo storico anche perché sarebbe per
noi impossibile, oltre che poco produttivo, immedesimarci completamente con un contesto che non
ci appartiene. Al contrario, dobbiamo impegnarci per rileggere, a partire dal presente, un passato che
non è poi così lontano, se vi sappiamo cogliere le tracce di una nascente modernità. Non a caso oggi
si preferisce definire l’epoca di Shakespeare con l’espressione “early modernity”, per segnalare la sua
continuità con il presente.
2. Un re che veniva dalla Scozia
2.1. Successione e cospirazione
Nella prima edizione delle opere di Shakespeare, nota come First Folio – l’unica che contiene
Macbeth – l’opera viene definita come un tragedia e non come un dramma storico (history), benché
sia ispirata alla storia remota del regno di Scozia. La scelta dei compilatori è probabilmente dovuta al
fatto che Macbeth fa riferimento ad avvenimenti lontani nello spazio, oltre che nel tempo, mentre le
histories sono basate sulla vita di monarchi inglesi e sono quindi state spesso ritenute più vicine, per
la materia narrata, alle conoscenze e al sapere enciclopedico del pubblico contemporaneo. In realtà
va detto che, in quel periodo, numerose erano le cronache e le storie scozzesi (come pure le loro
rielaborazioni popolari) che circolavano in Inghilterra; l’interesse per la Scozia era essenzialmente
dovuto ad alcune importanti vicende politiche e dinastiche.
Il successore di Elisabetta I era stato un re scozzese, Giacomo I; come avremo modo di spiegare
Macbeth può essere considerato proprio come un omaggio reso da Shakespeare al nuovo sovrano. La
situazione però è molto più complessa e controversa di quanto potrebbe sembrare a prima vista.
Giacomo era figlio di Maria Stuarda, regina di Scozia che Elisabetta aveva tenuto prigioniera per
diciotto anni e poi aveva fatto giustiziare perché coinvolta in un complotto contro la sua persona.
Maria veniva considerata da alcuni come una legittima pretendente al trono di Inghilterra in quanto
discendeva da Margherita Tudor, sorella di Enrico VIII: la successione, tema centrale di Macbeth, è
quindi una preoccupazione costante per la politica dell’epoca e per una sovrana come Elisabetta, che
non si volle mai sposare e morì senza eredi.
Alcuni storici riferiscono che, dopo molti tentennamenti, Elisabetta in punto di morte nominò
Giacomo come suo successore, mentre per altre fonti la regina non si espresse mai in modo esplicito;
in ogni caso, benché il testamento di Enrico VIII stabilisse una diversa linea di successione, era
evidente che nessun pretendente avrebbe potuto contrastare efficacemente la rivendicazione al
trono di Giacomo.
Per la prima volta, fu un Consiglio di Successione a nominare il nuovo re di Inghilterra e Irlanda. Se la
designazione era stata particolarmente travagliata e controversa anche l’insediamento dovette fare
fronte a difficoltà impreviste: una terribile pestilenza (Thomas Lodge, A Treatise of the Plague, 1603)
costrinse gli organizzatori a ridimensionare i preparativi per l’incoronazione e a sospendere il corteo
trionfale che avrebbe dovuto portare il sovrano dalla Scozia a Londra. L’incoronazione di Giacomo,
avvenuta il 25 giugno 1603 nell’abbazia di Westminster, si svolse quindi all’insegna della sobrietà.
[CONTINUA NELLA VERSIONE COMPLETA]
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MACBETH
DAL TESTO AI CONTESTI
di Alessandra Marzola
(Università di Bergamo)
INDICE DELLA VERSIONE COMPLETA
1. Una tragedia per il re
2. Una tragedia per tutti
3. “Fair is foul and foul is fair”: le seduzioni dell'immaginario
4. Gli equivoci del desiderio e la malattia dell'azione
5. Il mostro in prima pagina e i mostri della modernità
6. Molte scene per Macbeth
NOTA BIBLIOGRAFICA
1. Una tragedia per il re
Rappresentato per la prima volta a corte, nel 1606 al cospetto di Giacomo I Stuart, Macbeth è una
tragedia intrisa di allusioni alla storia, alla politica e a tutta la cultura contemporanea. Dalla cupa
vicenda ripresa dalle Cronache Anglosassoni di Holinshed, e ambientata nella Scozia dell'undicesimo
secolo, ma interamente riadattata alle sue esigenze drammaturgiche, Shakespeare attinge i temi del
regicidio e del tradimento, dell'ambizione e di una cruenta, ferina violenza che non esita a violare la
fedeltà ai sovrani e agli amici. Queste vicende, che per la loro remota distanza nel tempo, eludono il
rischio di un accostamento troppo immediato ai temi politici scottanti del presente, sono comunque
riformulate in una trama fitta di riferimenti espliciti o impliciti alla discussa sovranità di Giacomo I
Stuart, incoronato Re di Scozia e di Inghilterra nel 1603, per volontà della Regina Elisabetta I. Poco
prima di morire in quello stesso anno, Elisabetta aveva designato proprio lui, il re Giacomo IV di
Scozia, come suo erede. Fu per la sovrana una scelta problematica e sofferta. Sedici anni prima, nel
1587, Elisabetta, regina di una nuova Inghilterra riformata all'insegna del protestantesimo, aveva,
senza esitazioni, punito con l'esecuzione capitale i complotti della cugina, la cattolica Maria Stuarda,
regina di Scozia e madre di Giacomo. Benché debitamente allevato nella fede protestante, Giacomo I
rimaneva pur sempre, agli occhi di un'Inghilterra antipapista e anticattolica, memore di un passato
non ancora remoto, una figura di controversa sovranità: complotti e intrighi di corte costellano i
faticosi primi anni del regno di Giacomo, il cui insediamento ufficiale nel trono unito di Scozia e di
Inghilterra avviene in forma clandestina per il timore di rivolte popolari, per il rischio concreto di
attentati, e per la devastante epidemia di peste dilagata a Londra con violenza inaudita proprio
nell'anno della morte della sovrana.
Convocare a corte la popolarissima compagnia dei King's Men di William Shakespeare, che all'epoca
godeva di una fama e di una notorietà indiscussa, alimentata dai recenti successi di Hamlet (1600)e di
Othello (1604), fu per Giacomo una scelta strategica, e per Shakespeare una sfida onerosa.
Occorreva, pena la sopravvivenza della compagnia, confortare e lusingare il nuovo sovrano, ma si
doveva anche, come sempre, fare i conti con il pubblico popolare, intuendone e sollecitandone le
fantasie e le aspirazioni dissenzienti, la sensibilità proto borghese.
Macbeth riesce in questo equilibrismo, che Shakespeare sapeva coltivare benissimo, senza mai
scadere nell'opportunismo compiacente, ma dando vita ad una tragedia di straordinaria e tragica
complessità. Qui, come altrove, la necessità, assai concreta, di non dispiacere ai potenti e di
alimentare l'immaginario degli umili, di soddisfare insomma le esigenze divergenti della fitta
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stratificazione del pubblico contemporaneo, sembra dare energia ad un linguaggio teatrale di
fertilissima ambiguità, polisemico e polivalente, come la lingua inglese dell'epoca sui cui significati
predicatori e uomini politici, filosofi e scienziati, poeti e retori, dibattevano quotidianamente alla
ricerca di una stabilità di senso e di vita in fieri, tutta da inventare, nella dialettica costante che
accompagna i conflitti religiosi e politici insieme dell'età elisabettiana e giacomiana.
Nella trama di Macbeth ci sono tutti gli ingredienti giusti per rassicurare Giacomo I: Malcolm, la
figura che più da vicino gli corrisponde, sopravvive alla serialità criminale di Macbeth, come
d'altronde le weird sisters avevano profetizzato in esordio e confermato nella loro seconda comparsa
in scena; quel corteo di fanciulli che in processione sfilano al seguito di Banquo insanguinato nella
visione che si affaccia a Macbeth (IV. i. 111-123), disegnano un albero genealogico fertile, specchio
della folta discendenza dei regni uniti di Scozia e di Inghilterra. I buoni vincono e le forze del male
vengono sconfitte. Il bosco di Birnam si muove davvero, a conferma della strana e implausibile
profezia, verso la fortezza in cui sono asserragliati Macbeth e Lady Macbeth. E Malcolm, che di
Macbeth alla fine avrà ragione in un corpo a corpo terminale, è davvero non nato da donna, essendo
stato strappato dal ventre della madre dalle mani di un chirurgo, un uomo naturalmente, in un parto
cesareo.
Non dovette essere solo questo esito a compiacere Giacomo. La presenza così determinante delle
‘weird sisters’, la figura da Morality Play del Portiere, la fitta rete di rimandi alla dottrina cristiana
cattolica, l'impalcatura in controluce di una allegoria morale con tanto di inferno e paradiso, di
discesa di Cristo agli inferi, nei castelli di Macbeth, sono segnali di complicità culturale, strizzate
d'occhio, si direbbe oggi, alle passioni del sovrano, noto esperto di demonologia, autore di trattati
famosi sull'argomento, e certamente, nonostante l'educazione protestante, intriso di cultura
cattolica.
2. Una tragedia per tutti
E tuttavia, queste visibili concessioni al sovrano convivono con una loro gestione teatrale che finisce
per assegnare proprio a Macbeth e alla sua Lady, i grandi criminali, il primo piano dell’azione e del
pensiero. Al di là della rapida sequenza di azioni delittuose che si affastellano in un crescendo
spasmodico, campeggia dall’inizio alla fine, al centro della scena, la straordinaria anatomia dell’iter
tortuoso delle passioni di Macbeth e di Lady Macbeth. Ripresa da vicino e da dentro, prima e dopo il
regicidio di Duncan, prima e dopo la catena dei successivi crimini, la coppia espone allo sguardo del
pubblico una vorticosa altalena di avidità, e di paure, di crudeltà e tenerezze, di efferatezze e dubbi
laceranti, di follia e di alienazione. La tragedia registra insomma, passo dopo passo, sussulto dopo
sussulto, il tracciato di una autodistruzione, e di una letterale discesa agli inferi, che è mentale,
psichica si direbbe oggi. Queste pieghe del pensiero che accompagnano e seguono le azioni criminali
non cancellano la efferatezza dei fatti, ma ne interrogano il senso e le motivazioni continuamente,
spostando tutta l’attenzione del pubblico sui movimenti di quello spazio intimo. E’ quello lo spazio
che unifica i luoghi esterni e diversi della tragedia – le corti di Inverness, di Forres e di Dunsinane, la
brughiera dove compaiono le streghe, il campo di battaglia. E’ in quello spazio della mente, riempito
dagli scorpioni della colpa e della paura (III. ii. 36), che si sviluppa un’altra tragedia, parallela a quella
dei fatti esterni, la tragedia del pensiero che, affacciandosi alla modernità, è chiamato a fare i conti
con la sua nuova centralità nel mondo, a interrogarsi sulle sue azioni, e sui loro limiti, a concepirsi
come soggetto desiderante, padrone e schiavo della sua volontà e delle sue ambizioni.
[CONTINUA NELLA VERSIONE COMPLETA]
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