Stresa - Festival 2008: Šostakovic e Beethoven, un binomio insolito

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Stresa - Festival 2008: Šostakovic e
Beethoven, un binomio insolito
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La recensione
Alle Settimane Musicali di Stresa certo non manca il coraggio.
Inaugurare la sezione “calda” del festival, quest’anno dedicata
alla musica del Novecento, con la Quattordicesima Sinfonia di
Šostakovič è l’indizio di una linea progettuale che va ben oltre le
esigenze e le aspettative di un pubblico “vacanziero”.
Evidentemente qui a Stresa si punta in alto e se è vero che
l’abbinamento con la Settima di Beethoven poteva apparire sulle
prime come una semplice iniziativa per “indorare la pillola”, alla
resa dei conti l’operazione si è rivelata invece non solo
intelligente, ma anche illuminante.
Intanto il pubblico si è accorto ben presto che la pillola non era
poi così amara. La penultima sinfonia del grande compositore
russo non è in realtà una sinfonia nel senso tradizionale del
termine. Testi di Garcia Lorca, Apollinaire, Rilke e Küchelbeker scelti da uno Šostakovič ormai gravemente malato in una sorta di
esorcizzazione della “morte”, ormai dietro l’angolo- vengono
intonati da un una coppia di cantanti, soprano e basso,
accompagnati da un’orchestra da camera composta da archi e
percussioni. Un suite vocale, dunque. “Vorrei che gli ascoltatori,
dopo l’esecuzione della sinfonia, tornassero a casa pensando: la
vita è bella!” così Šostakovič chiosava subito dopo la
composizione della sinfonia. Ma qualche anno dopo lo stesso
compositore affermava di aver voluto esprimere in questo lavoro
la sua “protesta” contro la morte. Quel che è certo è che l’opera
lascia il segno. Gianandrea Noseda la affronta con
un’espressività livida, fredda, direi allucinata, che va dritto nel
profondo. Le linee melodiche, a volte al limite della dodecafonia,
sono rese con lucidità e nettezza. E quando anche il vibrato degli
archi si riduce al minimo abbiamo la sensazione di trovarci nei
pressi del “pozzo” di Edgar Allan Poe. Molto sicura la gestione dei
cambiamenti metrici (letteralmente scoppiettanti in Loreley, il
terzo movimento). L’affinità di Noseda con questo repertorio è
davvero appagante. Questa è un’opera che procede a strattoni,
che urla, ma che sa anche ripiegarsi in struggenti oasi di
rassegnato lirismo. Peccato solo per l’applauso finale, un po’
troppo solerte, che ha interrotto quella battuta vuota verso la
quale convergono le ultime otto biscrome in crescendo degli archi,
quel silenzio fragoroso che ci turba e inquieta e che intuiamo
essere il vero finale “muto” della sinfonia.
I due bravi solisti hanno cantato con intensità. Nicola Beller
Carbone, apprezzatissima Salome nell’ultimo allestimento
torinese dell’opera straussiana, ha reso le impervie linee
melodiche della sua parte con piglio e sicurezza. Molto bello il
colore vocale, con screziature affascinanti nel registro centrale.
Ma anche quando sale (un paio di Sib) la Beller Carbone dimostra
una certa disinvoltura nel controllo dell’emissione. Molto spesso i
suoi interventi hanno ricevuto un rilievo quasi “teatrale”. Merito
anche di Arutjun Kotchinian. I due ci hanno trasmesso
emozioni “drammatiche” vigorose dandoci più volte l’illusione di
essere all’opera. (Un plauso anche ai tecnici che hanno
predisposto i quanto mai opportuni sopratitoli). Voce calda, una
certa rotondità d’emissione, bel legato: queste in sintesi le doti
del basso armeno che è piaciuto naturalmente per una franca
idiomaticità di fraseggio (sentire il magnifico O Delvig, Delvig!, il
nono movimento della sinfonia).
Prima ho definito l’accostamento Quattordicesima di
Šostakovič/Settima di Beethoven un’intuizione illuminante. In
effetti il capolavoro beethoveniano inserito in un contesto
decisamente insolito è risaltato in modo per nulla ovvio. L’
“apoteosi della danza”, la sinfonia che molti collocherebbero
Prima ho definito l’accostamento Quattordicesima di
Šostakovič/Settima di Beethoven un’intuizione illuminante. In
effetti il capolavoro beethoveniano inserito in un contesto
decisamente insolito è risaltato in modo per nulla ovvio. L’
“apoteosi della danza”, la sinfonia che molti collocherebbero
senza esitazione agli antipodi della Quattordicesima di Šostakovič,
quella Settima che è sempre stata un simbolo di energia positiva
deflagrante nel vorticoso finale, mai l’abbiamo sentita così
contrastata, così sofferta, e perché no, così tragica. Emblematico
il secondo movimento, il celeberrimo Allegretto, eseguito con
passo scandito, deciso, quasi implacabile, e illuminato da una
sapiente gestione emotiva e dinamica dei “punti culminanti” tali
da restituircelo come una vera e propria Marcia Funebre.
Probabilmente la sinfonia di Šostakovič ha continuato a lavorare a
livello subliminale… Ma tant’è. L’energia drammatica sprigionata
dal capolavoro beethoveniano è da salutare senz’altro con
soddisfazione: è delittuoso avvezzarsi ai capolavori!
Tempi rapidi ma non rapidissimi, mai frenetici, fraseggio sempre
curato, e qualche sorpresa -come l’appoggiatura dei flauti alla
sesta battuta del Vivace (primo movimento) che è suonata
gemella di quella scritta per esteso nell’ottava misura- per
un’esecuzione accolta trionfalmente dal pubblico che gremiva il
Palazzo dei Congressi. E se il buon giorno si vede dal mattino…
Massimao Viazzi
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