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Enrico reggiani x programma di sala IX sinfonia di Beethoven, 30 dicembre 2013
“Un cupo silenzio gli sembra regnare: quand’ecco! / Un tocco, al quale si gira! Il pubblico, / Vasto,
stipato, incalcolabile, si alza davanti a lui! / Non ode il fragoroso scroscio del suo applauso, / Ne
vede il tumulto della gioia oceanica, / l’assordante esultanza, gli occhi eloquenti, / e gemme
abbaglianti, fazzoletti sventolati e piedi impazienti! / E così, allora, il solitario maestro percepisce /
l’abbraccio accorato dell’infinito mondo dell’uomo, / e si inchina rallegrandosi di non essere solo”.
In questa inedita traduzione italiana di alcuni versi del poeta inglese Roden Noel (1834-1894) si
respira lo struggente miracolo di quel 7 maggio 1824 a Vienna, in cui il mondo intero ricevette in
dono la prima esecuzione della Nona Sinfonia. Il famoso episodio del compositore che dirige la sua
orchestra interiore e non governa quella in carne e ossa di fronte a lui, benché con ogni probabilità
storicamente infondato in questi termini letterali, sintetizza compiutamente la straordinaria forza
simbolica di quell’evento. Come ha acutamente scritto Paul J. Horsley nel 2010, “ormai quasi del
tutto sordo in quegli anni, Beethoven si ritrovò sempre più affrancato dai limiti del mondo sonoro”
reale e culturale del suo tempo: “ciò potrebbe aver dato origine a questa musica sorprendente ed
innovativa che mise a dura prova i limiti dell’umana comprensione”.
È proprio volto verso l’esperienza di una simile musica l’invito che inaugura il testo poetico
intonato dal baritono nello straordinario quarto movimento di questa Sinfonia beethoveniana: “O
amici, non questi suoni! / Intoniamone invece di più piacevoli e gioiosi”. Questi versi, aggiunti dal
compositore ed estranei all’originario inno “Alla Gioia” (1785) di Friedrich Schiller (1759-1805)
elaborato musicalmente nel resto del movimento, hanno un esplicito carattere programmatico dal
punto di vista compositivo. Così ne scrive il musicologo Walter Riezler (1878-1965) in una delle
colonne portanti degli studi beethoveniani (il suo mitico saggio del 1936, poi tradotto e pubblicato
in Italia da Rusconi nel 1977, tecnicamente esigente e non di rado culturalmente illuminante per i
lettori): “durante il lavoro preparatorio, gli venne l’idea di premettere un recitativo che doveva
cominciare così: ‘Oggi è un giorno solenne […], sia festeggiato col canto […]’, per poi presentare i
temi principali dei primi tre movimenti e salutare infine il primo accenno della melodia della gioia
con le parole: ‘Ah, è questo! L’abbiamo trovato, amici […]’, in cui le note sono già quasi le stesse
che appariranno nel recitativo dei contrabbassi”.
I “suoni più piacevoli e gioiosi”, “trovati” dal genio del compositore di Bonn nella
configurazione definitiva dell’ultimo tempo, sono una vera e propria meraviglia sinfonica, cioè –
etimologicamente – un risuonare insieme dell’umano, per esprimere il quale, sempre secondo
Riezler (con la sua caratteristica e non sempre giustificata propensione interpretativa per la musica
assoluta), “Beethoven non ha bisogno della parola, per essere chiaro. Quello che importa non è che
‘una voce umana si levi, con la chiara e sicura espressione della favella, sulla tempesta degli
strumenti’: è tutto l’uomo, nella sua intera esistenza spirituale, non uno dei tanti che suonano
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Enrico reggiani x programma di sala IX sinfonia di Beethoven, 30 dicembre 2013
strumenti, e perfino che esistono in quel momento; l’uomo che si leva e grida non all’orchestra, ma
all’umanità adunata: ‘O amici, non questi suoni!’”.
La meraviglia sinfonica del quarto movimento e dell’intero monumentale edificio compositivo
della Nona non sbocciarono all’improvviso e da un progetto monolitico organicamente sviluppato
senza esitazioni e mutamenti, come vorrebbe un banalizzante e semplicistico mito pseudoromantico
che non di rado riaffiora. Ci vollero anni e continui ripensamenti perché gli abbozzi dei primi tre
tempi trovassero compimento; perché l’iniziale Finale strumentale iniziasse la metamorfosi che ne
avrebbe dischiuso la provvisoria crisalide mostrandone la definitiva identità vocale e musicoletteraria - con buona pace del gigante dell’analisi musicale Heinrich Schenker (1868-1935) che
propose una monumentale interpretazione organicamente musicale del suo processo creativo
(1912); perché l’ipotesi di una Sinfonia corale su testi di varia origine (documentata fino al 1818
negli appunti di Beethoven) si trasformasse nella ripresa dell’antica idea – coltivata sin dal 1792 - di
dare veste musicale al testo schilleriano “Alla Gioia” secondo un’intuizione melodica dalla
gestazione altrettanto lunga e complessa.
Un carattere genetico del capolavoro beethoveniano che il celebre intellettuale francese Romain
Rolland (1866-1944, Premio Nobel per la Letteratura 1915) definì la “Marsigliese dell’Umanità”
sembra, invece, aver assunto un profilo ben netto e stabile fin dai primi momenti della sua
gestazione compositiva: si tratta del fondamentale rapporto tra la tonalità d’impianto di re minore e
quella del suo sesto grado, Si bemolle (maggiore). È, questo, un dato che investe piani diversi ed
interdipendenti della Nona: in breve e per via esemplificativa, è di natura macro-strutturale e
armonica, in quanto influenza le relazioni tonali tra i quattro movimenti (1: re minore; 2: re minore;
3: Si bemolle maggiore; 4: re minore che “si converte” in Re maggiore); è di natura microstrutturale e melodico-tematica, perché governa l’architettura complessiva del primo tempo in
forma-sonata (in cui il primo gruppo tematico è in re minore e il secondo in Si bemolle).
Questo sì che sembrerebbe un elemento genetico “di tipo organico” e di matrice romantica, cioè
capace di dare organicamente vita alle differenti dimensioni di un organismo musicale unico e
originale (come fa il seme di una pianta che contiene in sé il mistero della sua propria e irripetibile
evoluzione, secondo la metafora prediletta dalla cultura del primo Ottocento romantico). A questa
intuizione creativa originaria si potrebbe adattare l’appellativo di “master-chord of Joy […] /
Triumphant over Life’s profoundest pains” (“accordo fondamentale della Gioia […], che trionfa sui
più profondi spasmi della Vita”), che la poetessa inglese Dorothea Hollins (vivente e attiva tra
diciannovesimo e ventesimo secolo) coniò per l’intero “Choral Finale” della Nona Sinfonia
beethoveniana.
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