L`estetica fenomenologica di Mikel Dufrenne: una proposta per l

L’estetica fenomenologica di Mikel Dufrenne:
una proposta per l’attualità
Sara Stella Dello Buono
Sommario
Nel 2001 la mostra Form follows Fiction ha sottoposto all’attenzione dei fruitori opere che si servono di immagini stereotipiche o familiari e che risultano, pertanto, apparentemente ‘facili’,
accessibili, piane. Vi è però una difficoltà per la fruizione estetica: il riconoscimento del valore artistico delle suddette opere
non è certo. Se un’opera d’arte somiglia troppo agli oggetti della nostra quotidianità possiamo ancora definirla tale? Come ci
disponiamo nei suoi confronti? Nel cercare di rispondere a questi interrogativi vengono in aiuto le riflessioni di Mikel Dufrenne
sul comportamento dell’oggetto estetico, sulla definizione di quest’ultimo come quasi-soggetto, sulla dimensione temporale in cui
l’esperienza estetica accade.
c 2009 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera)
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possibile riconoscere nelle arti figurative, almeno a partire dalle avanguardie storiche, un’evoluzione nel segno della deformazione
dell’oggetto artistico e dell’irriconoscibilità della forma rappresentata. Spesso il frequentatore di musei incontra oggetti che non sembrano voler
manifestare alcun messaggio, né farsi portavoce di valori, e di certo non sembrano avere attinenza con la categoria del bello. La problematica posta da
varie esperienze dell’arte contemporanea è dunque la seguente: quali sono i
criteri che consentono di identificare come opera d’arte un oggetto che non
si può riconoscere, che sfugge alla nostra comprensione e che sembra essere
scarsamente disposto alla comunicazione con i fruitori?
L’eterogeneità delle forme dell’arte, soprattutto nella seconda metà del
Ventesimo, ha educato i fruitori a una certa tolleranza e ampiezza di vedute, per cui, ad esempio, le performance dei body-artist sono state accolte da
una parte di pubblico come ‘artistiche’. Il ‘disgustoso’ è riuscito a imporsi
nell’estetica contemporanea. Il che significa che siamo disponibili a svincolare il giudizio estetico dal monismo della categoria del bello e ad affrancarci
dai canoni rappresentativi, tanto nella creazione quanto nella fruizione di
opere. Compiamo queste scelte tenendo fermo un punto: l’opera d’arte è un
oggetto estetico, cioè possiede una capacità espressiva che affetta la nostra
sensibilità. In questo senso l’orrore è accettabile nel novero dell’esteticità.
Ma che fare ‘dell’ottuso’?
Ottusi sono gli oggetti che non sono acuti, non risaltano per la forza con
cui ci vengono incontro e, anche se sollecitati dal fruitore, non hanno risonanza, interagiscono poco. Ad esempio sono ottuse le opere che somigliano
troppo a oggetti ordinari per essere considerate opere d’arte. Ciò riguarda
non solo i ready-made propriamente detti, ma anche tutte le opere che prelevano elementi dalla realtà quotidiana e li modificano, oppure che tendono
a simulare la realtà. Proprio in questa direzione si sono mossi gli artisti
della mostra Form follows Fiction. Forma e finzione nell’arte di oggi che
si è tenuta presso la Sala della Manica Lunga del Castello di Rivoli dal 17
ottobre 2001 al 27 gennaio 2002. Furono esposte le opere di ventuno artisti:
tutti nati nella decade degli anni Sessanta, originari di paesi diversi ma legati
alla città di New York per formazione artistica e culturale. L’esposizione di
Rivoli tematizza la commistione di finzione e realtà che ricorre nella nostra
esperienza quotidiana: pubblicità e promozione di prodotti, informazione
e notizie, alterazione controllata di funzioni corporee, interventi sul corpo,
seconde vite virtuali che scorrono parallele a quelle reali.
La mostra è stata concepita allo scopo di mostrare come il processo immaginativo, nell’artista, si sovrapponga all’operazione di lettura della realtà
e divenga istanza creatrice e regolatrice nella produzione dell’opera. Attraversando l’esposizione, si ha l’impressione di essere capitati dentro uno
strano sogno: si passano in rassegna opere enormi che introducono lo spettatore in spaccati di vita quotidiana con particolari inquietanti, oppure in
mondi fantastici e paesaggi inusuali.
È
2
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Le opere esposte per Form follows Fiction sono creazioni di universi,
microcosmi, individuali e autosufficienti. A tal proposito sono state definite
dal curatore Jeffrey Deitch «mondi estetici»1 , tutti eterogenei perché nati
dalle esperienze personali occorse ai singoli artisti. Conseguentemente questi
artisti non hanno costituito un movimento, non hanno una vera e propria
poetica comune, inoltre contenuto e stile delle varie opere sono tra loro irriducibili. D’altro canto, però, le opere trovano non solo ispirazione ma anche
il sostegno necessario per avvicinarsi al fruitore nella realtà riproposta dai
media, patrimonio comune e condiviso. Questo secondo aspetto garantisce
alle opere un certo grado di intersoggettività: esse richiamano all’attenzione
dello spettatore immagini e fatti di cronaca che potrebbero risultargli noti, sia perché effettivamente vissuti sia perché simili ad altri elementi della
nostra attualità. Però non siamo in presenza di una rassegna stampa o di
un testo di sociologia. È un’esposizione di opere d’arte. Esse sono costruite
similmente a oggetti e immagini reali con l’aggiunta di elementi perturbanti,
che rendono ‘strano’ quel che si presenta davanti agli occhi del fruitore.
Ad esempio Kurt Kauper propone una serie di ritratti di dive in abito
elegante2 , con espressione di sufficienza, arcigne e molto borghesi, alcune tra
queste, però, sono uomini. Oppure vi sono le fotografie di Gregory Crewdson
di un ipotetico vicinato che trasmette inquietudine, come se qualcosa stesse
per accadere3 .
Le situazioni presentate dalle opere sono surreali e ironiche, come il tavolo da ping pong-pozza d’acqua fiorito di Gabriel Orozco4 . L’elemento
finzionale può essere più o meno importante e interagisce con la citazione
realistica. A volte è ridotto ai minimi termini e solo la cornice, lo spazio
ritagliato nel museo e occupato fisicamente dall’opera d’arte, la fa percepire
come tale. Per un certo verso queste opere sono dei ready-made: i media
diffondono la conoscenza di un evento, che viene recepito e trattato dall’arte.
È l’enfasi con cui si esibisce un fatto conosciuto che ne trasfigura il significato, intensificandone e modificandone la percezione; essa è l’elemento capace di trasformare un oggetto qualunque in estetico, di suscitare un’emozione
nel fruitore. In certi casi l’opera è un dipinto a olio con lo stile grafico di un
disegno animato, o è realizzata al computer ma si conferma comunque nettamente evocativa di un frammento di realtà. Altre volte la finzione consiste
nella mera accentuazione di certi particolari che rendono ‘perturbante’ la
rappresentazione della realtà. Ad esempio, l’opera di Kara Walker propone
una rivisitazione inquietante di un racconto tradizionale che coinvolge il tema della segregazione delle razze. L’opera è stata realizzata con silhouettes
1
J. Deitch (a cura di), Form Follows Fiction, Charta, Milano 2001, p. 98 (numerazione
nostra).
2
Vd. Figura 1, p. 23.
3
Vd. Figura 2, p. 24, Figura 3, p. 25 e Figura 4, p. 26.
4
Vd. Figura 5, p. 27.
3
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nere attaccate sulle pareti bianche, quindi attraverso una tecnica delicata e
discreta che veicola immagini molto violente5 .
Il curatore ritiene infatti che le opere esposte ricavino spunto o addirittura siano suggestionate da aspetti e modi della nostra vita quotidiana:
Le notizie si sono gradualmente trasformate in intrattenimento e la
giurisprudenza è stata sopraffatta dalle pubbliche relazioni causando lo sgretolamento della razionalità tradizionale. [. . . ] Da quando
l’economia industriale si è trasformata in economia dei servizi, economia dell’esperienza e persino economia dell’estetica, la creazione di
un mondo immaginario che il consumatore può acquistare è diventata tanto importante quanto la creazione di prodotti veri e propri.
[. . . ] Il mondo della politica, del business e dell’intrattenimento sono oggi caratterizzati da un’abilità sempre più sofisticata e esaustiva
nell’influenzare la percezione della realtà. [. . . ] Tuttavia non è la new
economy a influenzare maggiormente la nostra vita ma il modo in cui
internet permette alla gente comune di inventarsi una serie di nuove
identità e immergersi in una rete totalmente immaginaria.6
Da un lato vi è l’economia, velocissima e ‘leggera’ per quanto concerne
mezzi e merci di scambio; dall’altro la tecnologia e le possibilità che essa offre
di integrare il nostro vissuto esperienziale con situazioni virtuali. Il binomio
di questi due elementi segna la cifra della nostra epoca, la qualità della
nostra vita quotidiana. Manipolazione di fatti e notizie; messe in scena più
o meno verisimili; avatar e seconde vite ci abituano alla commistione di reale
e immaginario. Ed essa è tanto potente da investire non più solo gli oggetti
delle nostre esperienze, ma anche il soggetto dell’attività percettiva. Gli
artisti mettono a punto ‘modelli di realtà’ e «non conducono gli spettatori in
un mondo immaginario, ma li trasportano in uno spazio fluido»7 di scambio
tra realtà e opera d’arte, tra ironia e seria volontà comunicativa.
Di fronte alle opere di Form follows Fiction, che anche quando sono figurative non mostrano oggetti e caratteri che riconosceremmo come ‘artistici’,
il fruitore deve cogliere l’ironia che è alla base della loro creazione. Diversamente egli mancherebbe di cogliere l’espressività – e quindi l’artisticità –
degli oggetti esposti.
Riconoscere la capacità espressiva dell’oggetto e stabilire che c’è solo
un certo numero di passi che il fruitore (nella fattispecie l’immaginazione
del fruitore) può compiere verso l’opera per raggiungerla senza soverchiarla,
sono i due elementi che ci consentono di fruire di queste opere. Il fruitore
non deve farsi ingannare dalla difficoltà o dalla scarsa comunicatività di
un’opera: non deve cedere alla tentazione di trascendere l’opera, di superarla
o sezionarla. L’opera contiene tutto quel che vuole comunicare.
5
Vd. Figura 6, p. 28.
Ibid.
7
Ibid.
6
4
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La differenza fondamentale tra un’opera concepita nel Settecento e dell’Ottocento e un’opera o un evento artistico della nostra contemporaneità dipende dal fatto che questi ultimi si affidano principalmente all’impatto emotivo che hanno sul fruitore. L’artisticità non riposa non più nella struttura,
nella corrispondenza a certi canoni della forma artistica, nel riconoscimento
di uno stereotipo rappresentativo, nell’avere una cornice, nella collocazione
in un museo, ecc.) e dalla tempistica di questo forte impatto. Il momento
in cui si riconosce il potere espressivo dell’oggetto, l’istante in cui si comprende di non avere innanzi a sé un oggetto comune bensì un’opera d’arte,
è il momento in cui il fruitore intenziona l’oggetto come opera d’arte ed è
brevissimo. Il tempo ha un ruolo essenziale e a questo proposito Rosalind
Krauss afferma, parafrasando Clement Greenberg, «lo sguardo che l’arte
sollecita, [. . . ] è il mezzo della transazione tra osservatore e opera? Il tempo
di quello sguardo è importante, perché deve essere tempo annichilito»8 , la
durata di quel momento collassa. Ho innanzi a me un’opera: lo so subito
o non lo saprò mai, «per comprendere le opere d’arte – per coglierle come
interi – vi è la funzione di una rivelazione la cui propria essenza è che la sua
immediatezza sospende la dimensione temporale»9 .
La storia dell’arte del Novecento, ha esibito innumerevoli esempi di opere d’arte ‘difficili’ perché irriconoscibili, prive di un oggetto chiaramente
identificabile e molto obbligate, nei contenuti, dalla sensibilità individuale
degli artisti. Non si sottomettono alla potestà dell’oggettività (che un’arte
mimetica garantirebbe), al più si può ipotizzare che stiano sotto la potestà dell’artista, la quale è per noi inafferrabile. A questo genere di arte
appartengono manifestamente le opere della mostra Form follows Fiction,
che sono un effetto riversato in oggetti artistici dell’immaginario dei loro
creatori. Il giudizio generale che ispira il presente lavoro è che non sia necessario, ma neppure sufficiente, avere un oggetto definito (una deposizione,
una Madonna con Bambino, una natura morta, un paesaggio) come soggetto di una rappresentazione per poterla definire ‘artistica’. Possiamo avere
oggetti estetici che riteniamo espressivi pur non potendoli classificare attraverso le categorie o i nomi che abbiamo desunto e imparato a utilizzare nella
nostra esperienza a contatto con le opere d’arte più tradizionali. Se possiamo cogliere l’espressione di cui questi oggetti sono portatori, allora si tratta
di opere d’arte autentiche. Al contrario sarà finta e sofisticata l’arte che
sensibilmente riproduce una forma che non le è propria, una forma dietro la
quale non vi è alcuna possibilità di suscitare il sentimento del fruitore.
Per certi versi il vuoto sulla tela, l’irruenza del colore puro, tutti gli
8
«The look that art solicits, [. . . ] is the medium of the transaction between viewer
and work? The time of that look is important, because it must be time annhilated» (R.
Krauss, The Optical Unconscious, MIT Press, Boston 1994, p. 98).
9
«To understand the works of art – to grasp them as wholes – is the function of a
revelation whose very essence is that its all-at-onceness simply suspends the temporal
dimension» (ibid.).
5
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elementi che determinano la scarsezza oggettuale delle opere, che privano
queste ultime di un contenuto ‘dicibile’, narrabile in parole, possono essere
considerati non solo elementi d’innovazione stilistica, ma anche opportunità10 per spingere i fruitori ad abbandonare false credenze e fraintendimenti
sull’arte. La falsa credenza è quella che pone l’arte sullo stesso piano dei discorsi, che si aspetta che l’opera d’arte comunichi una verità, come farebbero
uno studio scientifico e una ricerca storiografica. La crisi della figurazione,
caratteristica dell’arte contemporanea, è primariamente la crisi del nostro
modo usuale di fruire delle opere d’arte, cioè la contemplazione. E la crisi della contemplazione, della visione, ci obbliga a rimettere in discussione
il nesso vedere-sapere che è radicato nella nostra cultura occidentale, basti
pensare che in greco antico l’aoristo del verbo årˆw – che significa ‘vedere’
– è Êdeĩn, che si può tradurre come ‘sapere’ in base al fatto che ‘ho visto e
quindi so’, avallando l’ipotesi che «il destino della visione è l’idea»11 .
Duchamp è una personalità emblematica dell’arte contemporanea perché nella sua produzione manifestamente si spezza il nesso visione-idea; la
contemplazione cessa d’esser la risposta adeguata del fruitore; l’artista si
preoccupa di gestire (o anche solo tenere in considerazione) il corpo del fruitore. Questi sono gli elementi in base ai quali si può affermare che il lavoro
dell’artista contemporaneo, del Novecento, è radicalmente diverso e nuovo.
L’opera difforme, dissonante, per essere riconosciuta ‘opera d’arte’ può
solo affidarsi all’intuizione del fruitore il quale, non appena entra a contatto
con essa, assume una certa condotta (si lascia affabulare dall’opera, oppure
ne resta disgustato o irritato e decreta che di opera d’arte non può trattarsi,
passa disinteressatamente oltre, ecc.). Orbene, rispetto a questa immediatezza, il corpo e lo sguardo del fruitore che funzione hanno? Dopo il primo
sguardo, «il fruitore scopre di avere un corpo che supporta lo sguardo, un
corpo con piedi che fanno male o una schiena dolorante, e che il quadro,
anch’esso incorporato, è poveramente illuminato affinché la sua cornice getti
un’ombra distratta sulla sua superficie ora percepita come vetro con troppa
vernice»12 . Non appena il fruitore smette d’essere assorbito e irretito dal
quadro, il suo sguardo diviene d’altro tipo: non più porta spalancata sul
cuore del fruitore, non più via d’accesso che consente all’opera di andare
a sollecitare risposte immediate da parte del corpo del fruitore e delle sue
funzioni fisiologiche, al contrario si tratta di un tipo di sguardo che ci fa
perdere di vista l’insieme dell’opera, che allarga il campo visivo oltre l’opera
ed essa diviene muta.
10
Cfr. H. Rosenberg, La s-definizione dell’arte, tr. it. di M. Vitta, Feltrinelli, Milano
1975.
11
«The destiny of vision is idea» (R. Krauss, op. cit., p. 111).
12
«The viewer discovers to have a body that supports this gaze, a body with feet that
hurt or a back that aches, and that picture, also embodied, is poorly lit so that its frame
casts a distracting shadow over its surface now perceived as glassy with too much varnish»
(ibid., p. 98).
6
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L’opera ‘cosalizzata’ «reificata, semplicemente ritorna lo sguardo, meramente guardandoti ‘vuotamente’ in risposta»13 . Il fraintendimento dell’opera,
la sua riduzione a ‘cosa’ è una condotta che il fruitore può assumere e che
Rosalind Krauss definisce «collasso nella fisicità ottusa»14 . Ciò non significa
affatto che l’arte d’ora in poi debba essere esclusivamente concettuale e la
sua fruizione solo cerebrale. Infatti, il motivo per cui Krauss si occupa di
Duchamp e lo reputa così centrale nell’arte recente è che nella sua produzione si scorge un dissidio fondamentale dell’arte contemporanea: Duchamp
è il giocatore di scacchi, è colui che dichiara di aver sempre sognato di diventare un matematico e colui che «arricciò il naso all’arte astratta perché
si appellava meramente alla retina e non alla ‘materia grigia’»15 . Ma Duchamp è anche l’autore di Fountain, Objet d’art e Prière de toucher, di una
produzione parallela e radicalmente contrapposta al Grande Vetro (l’opera
più ascetica, lo si è detto). Come si conciliano questi due aspetti?
Si conciliano nell’opera Étant Donnés16 , in cui Duchamp ci fa capire cosa sia la ‘realtà disincarnata’ che è andato cercando tutta la vita: una cosa
mentale, che non possiamo raggiungere attraverso la percezione ordinaria,
ma neppure con la sola comprensione logica. Come affermato nel manuale
di istruzioni dell’opera scritto dallo stesso Duchamp, per essere giusti nei
confronti di Étant Donnés dobbiamo essere «Non osservatori. Voyeur»17 .
C’è un modo, nel fruire di queste opere, di essere allo stesso tempo sensorialmente e spiritualmente presenti e ciò non significa affatto mettere in
campo la percezione ordinaria (cioè la fisicità ottusa) né la comprensione
intellettuale. Ovviamente vi è coessenzialità tra la sensibilità seconda (quella che consente il coinvolgimento emotivo dell’opera d’arte) e l’intelligenza
seconda (che consente il riconoscimento di quest’ultima come opera d’arte).
Esse sono ‘seconde’, eterogenee, rispetto alla percezione e alla riflessione che
impiegheremmo nella vita ordinaria.
L’arte contemporanea non si mostra apertamente, non si svela e, conseguentemente, ci propone una forma di sapere diversa da quella che ci è
usuale, cioè logico-discorsiva. Di quest’arte possiamo fruire solo attraverso
una sensitività intensiva, concentrata, che non lasci spazio alle interpolazioni
del pensiero razionale. Se un osservatore di fronte a un quadro del periodo
astratto di Kandinsky comincia a domandarsi quali oggetti vi siano nascosti,
quali intenzioni abbiano portato il pittore a sistemare una certa macchia di
colore in un certo punto del quadro, è finita: non ha nessuna possibilità di
uscire indenne come fruitore da questa esperienza. Quali sono, dunque gli
elementi di cui si dota la fruizione intensiva?
13
«Reified, simply returns the look, merely gazing ‘blankly’ back at you» (ibid.).
«Collapse into the dumbly physical» (ibid.).
15
«Wrinkled his nose at abstract art because it appealed merely to the retina and not
to the ‘gray matter’» (ibid., p. 108).
16
Vd. Figura 7, p. 29.
17
«Not viewer. Voyeur» (ibid., p. 111).
14
7
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Il quadro si ‘bruca’ diceva Klee e Merleau-Ponty affermava che la visione
di un quadro da parte del fruitore, al pari di quella che ispira artisticamente
il pittore, è ‘divorante’18 . La fruizione estetica è qualcosa che supera il
semplice vedere (quel vedere che, si è detto, è innescato dalla percezione
ordinaria, parcellizzata, e rimanda subito al pensiero logico-discorsivo) e
coinvolge la sensorietà di tutto il corpo che «si raccoglie nell’occhio in quanto
l’occhio dev’essere il delegato del corpo»19 .
Ma cosa, nel quadro, ci scuote? Se l’oggetto non è chiaramente rappresentato, se la pittura non è mimetica, il fruitore non avrà nulla da riconoscere nel quadro. Ciò che l’opera fa vedere piuttosto lo si scopre: anche
se vi è un oggetto con lo stesso nome nella realtà, quello che ci si paventa innanzi in un’esposizione artistica è sempre inedito. Può darsi che non
vi prestiamo attenzione, ma di fronte a un’opera siamo subito predisposti
a una fruizione estetica, quindi a una percezione e una riflessione differenti da quelle normalmente in atto nella vita quotidiana. La straordinarietà
dell’oggetto estetico è tale per cui dal principio del nostro incontro con esso
siamo attenti, pronti ad adoperarci per andargli incontro. Così, come si
diceva nelle parti precedenti, non ci peritiamo di un’analisi delle parti, non
vediamo tela, legno della cornice, linee spezzate, ecc., bensì immediatamente
vediamo il quadro. In questa breve fase iniziale della fruizione lo spettatore solitamente non sbaglia, è sempre volenteroso quando intuisce di avere
innanzi a sé un opera d’arte.
I rischi di fraintendimento, di una fruizione aberrante, subentrano dopo
che l’incontro con l’oggetto e dopo la prima percezione che abbiamo di esso.
Se l’enigma della visione ci colpisce e ci lascia sgomenti, mettiamo in campo
le nostre risorse, ovvero l’intelletto. Ci adoperiamo in un’analisi razionale
delle parti dell’opera e proviamo a immaginare, a istituire collegamenti tra
l’opera e il mondo.
Ma l’opera è un mondo, non deve essere superata, o gettata tra altri oggetti, per essere compresa. Non sono né la percezione analitica né
l’immaginazione associativa a doverci guidare. Dobbiamo, se vogliamo accedere alla fruizione autentica dell’opera, abbandonare l’ethos quotidiano:
cioè la finalizzazione pratica che attribuiamo a qualunque oggetto il quale,
per esser ritenuto a noi noto, deve avere un nome, un’origine, una scheda
tecnica, un valore d’uso. L’opera d’arte è originale rispetto al mondo, quando si fa spazio e si presenta mette tra parentesi il mondo e gli oggetti che
lo costituiscono e ci presenta affettivamente il sensibile, il quale non coincide con il mondo. L’opera d’arte «è l’hic et nunc intorno a cui si forma
un mondo possibile. Dopo di che possiamo passare al reale; se il nostro
occhio è stato abbastanza educato dalla pittura, possiamo lasciarci ispirare
18
Cfr. M. Dufrenne, «Dipingere, sempre», in Id., Estetica e filosofia, tr. it. di P. Stagi,
Marietti, Genova 1989, p. 138.
19
Ibid.
8
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dalla mineralità propria di questa montagna possibile allorché percepiamo
un passaggio di montagna. La pittura ci propone un possibile che ci istruisce intorno al reale»20 . L’immaginazione aderisce alla natura del possibile e
serve a portarci a un livello differente da quello usuale – della vita quotidiana – di attenzione nei confronti dell’oggetto. Tale attenzione non si riversa
in una comprensione logico-razionale ma ci porta ad accogliere attraverso
tutti i nostri organi recettivi la potenza affettiva dell’opera. La potenza
dell’opera risveglia in noi il sentimento che ci mette in contatto immediato
con il possibile che l’opera presenta.
L’immediatezza dell’esperienza estetica nella lettura di Dufrenne è la
garanzia del rispetto del criterio di universalità e condivisione dell’opera,
ci conferma che queste opere ‘difficili’ sono comunque fruibili. Anzi queste
ultime ci portano a rivalutare l’arte figurativa poiché la pittura astratta «annuncia un possibile, un mondo che non è popolato di oggetti determinati,
che resta aperto e tuttavia singolare, l’atmosfera o la tonalità di un mondo.
Questa pittura [. . . ] ci insegna, per un effetto retroattivo, a vedere come
la pittura figurativa, essa pure, più che rappresentare esprime»21 . Se accettiamo che non è la riproduzione di oggetti il motivo ispiratore delle opere
d’arte, le quali – invece – comunicano direttamente con la nostra sensibilità,
allora decadono quelle due scissioni, l’una tra soggetto creatore e oggetto,
l’altra tra soggetto fruitore e oggetto, che sono alla radice della crisi dell’arte
dal Romanticismo ai giorni nostri.
Lo sguardo contemplativo e il canone estetico a cui, nel passato, la forma
artistica si è adeguata erano elementi, o funzioni, garanti dell’universalità e
della possibilità di giudicare l’opera. Questo tipo di concezione dell’esperienza
estetica, kantiana, si coniuga con la struttura del museo per come è stata
concepita fino alla fine dell’Ottocento. Infatti nell’estetica kantiana «il piacere dell’esperienza estetica, differisce dall’esercizio del desiderio, è incanalato
precisamente in una riflessione sulla possibilità della comunicazione universale»22 , il piacere e la fruizione sono disincarnati e per questo trans-individuali.
Su questo assunto si basa la concezione museale classica:
questo spazio di accesso cognitivo all’universalità del linguaggio dell’arte
descrive, certamente, non solo una teoria del giudizio estetico, ma la
sua collocazione istituzionale nei grandi musei che sono parte dello sviluppo della cultura di Diciannovesimo e Ventesimo secolo. Il museo
come sappiamo era infatti costruito attorno a uno spazio condiviso del
senso visivo fondato sulla possibilità di soggetti individuali forman20
Ibid., p. 142.
Ibid.
22
«Aesthetic experience’s pleasure, diverted from the exercise of desire, is channelled
precisely into a reflection on the possibility of universal communicability» (R. Krauss, op.
cit., p. 114).
21
9
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ti una comunità. Proprio questo è il sistema di museo in cui Étant
Donnés s’insinua solo per interromperlo ‘rendendolo strano’.23
Oggi, invece «il distacco contemplativo può essere uno dei modi con
cui atteggiarsi di fronte all’opera ma non il solo possibile»24 , certe opere
– già quelle surrealiste, ad esempio – implicano una fruizione che coinvolge
meno i sensi e si affida maggiormente all’osservazione della forma dell’oggetto
e dei percorsi fantasiosi che esso ispira. Ma talaltre opere, ed è il caso
di quelle di Form follows Fiction, somigliano molto – troppo – a oggetti
ordinari. Una fruizione troppo attenta ai contenuti di queste opere sarebbe,
paradossalmente, riduttiva: le farebbe apparire interessanti, ma non vere
e proprie opere d’arte. Possiamo invece accedere completamente al loro
universo se la nostra immaginazione ci consente di arrestarci al loro livello
e non di cercare il loro referente reale (il fatto di cronaca, ad esempio).
Attraverso l’immaginazione percepiamo quella patina, quel non so che, che fa
sì che The Third Memory sia un’opera d’arte e non il reportage giornalistico
sulla rapina25 .
L’opera d’arte ci restituisce i fatti in una modalità differente da quella
che i mezzi d’informazione utilizzerebbero, fa apparire diversamente aspetti
già noti e caratterizzanti la nostra condizione (ad esempio la crudeltà nel caso delle opere di Kara Walker, l’intervento distruttivo sulla natura da parte
dell’uomo in Tim e Sue Noble, il mondo dei manga in Murakami). Si tratta
di opere che sottolineano aspetti della nostra attualità, che magari neppure
ci riguardano da vicino, e ce li fanno percepire esteticamente, sensibilmente.
Non stimolano una riflessione sulla nostra società, i suoi mali e le sue conquiste. Si fermano un passo prima. Si limitano a rendere interessanti per noi
e per la nostra sensibilità questi aspetti. Rosenthal, nella presentazione della mostra Sensation, ha affermato rispetto alle ‘incursioni’ nel mondo reale
compiute degli artisti: «gli artisti figurativi hanno l’abilità peculiare – e pertanto, che a loro piaccia o meno la responsabilità – di attrarre l’attenzione
su quella cosa elusiva che noi chiamiamo realtà, che può, quando fusa con
fantasia e ossessioni personali, portare avanti qualcosa che può essere riconosciuto come arte»26 . E per adempiere a questo scopo l’opera d’arte può
23
«This space of cognitive access to the universality of the language of art describes, of
course, not just a theory of aesthetic judgement, but its institutional setting in the great
museums that are part of the development of nineteenth and twentieth century culture.
The museum as we know it was indeed constructed around the shared space of a sense of
the visual grounded in the possibility of individual subjects forming a community. Yet this
system of the museum that Étant Donnés enters only to disrupt by ‘making it strange’»
(ibid.).
24
M. Mazzocut-Mis, Voyeurismo tattile. Un’estetica dei valori tattili e visivi, Il
Melangolo, Genova 2002, p. 176.
25
Vd. Figura 8, p. 30.
26
«Visual artists have a peculiar ability – and therefore, whether they like it or not, a
responsibility – to draw attention to that elusive thing we call reality, which may, when
fused with fantasy and personal obsession, bring forth something that can be recognised
10
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anche cercare una comunicazione a due, esclusiva, con ciascun fruitore. In
tal modo però, un giudizio universale e pienamente condiviso è possibile solo
negativamente: è possibile stabilire con certezza solo se un oggetto non è
un’opera d’arte, solo se sistematicamente manca di svolgere il compito che
l’opera d’arte da sempre ha, di emozionare e interessare il fruitore.
Per il tema qui in discussione – cioè il discernimento tra opere d’arte e
oggetti ordinari, non artistici – risulta calzante la trattazione offerta da Mikel
Dufrenne in Phénoménologie de l’expérience esthétique, opera pubblicata nel
1953 e comprensiva di due parti: la prima è volta a definire l’oggetto estetico,
la seconda la percezione estetica.
Nell’estetica di Mikel Dufrenne la percezione di un oggetto passa attraverso e sviluppa su tre piani: presenza, rappresentazione e riflessione. Nella
presenza l’oggetto si fa meramente presente all’attenzione del soggetto; nella
rappresentazione il soggetto produce uno schema trascendentale dell’oggetto;
nella riflessione il soggetto elabora una lettura compiuta di quel che l’oggetto
può essere per lui e ne fornisce una completa collocazione. Questo processo
investe tutti gli oggetti che il soggetto incontra, ma assume modalità differenti a seconda del tipo di oggetto. Infatti, mentre un oggetto ordinario
(o ‘culturale’, scrive Barilli27 ) diviene ‘trasparente’, chiaro e definito mano
a mano che l’intelletto opera su di esso, l’oggetto estetico si sottrae a una
decodificazione teoretica e conserva una certa opacità agli occhi del soggetto.
Gli oggetti estetici sono étranges nel senso duplice di strani, ambigui, e di
estranei. La loro opacità si manifesta nella situazione in cui il soggetto versa
a seguito della percezione: non sappiamo bene che dire degli oggetti estetici, al contrario vediamo gli oggetti comuni e sappiamo cosa sono – magari
anche come sono fatti – e sappiamo, impiegando l’immaginazione, che uso
possiamo farne. Come, nel dettaglio, la percezione di un oggetto estetico
differisce dalla percezione di un oggetto ordinario?
Nella nostra esperienza gli oggetti comuni passano dal piano della presenza (in cui essi sono di fronte a noi) al piano della rappresentazione mentale
e della riflessione, in cui vengono riconosciuti e compresi. Ossia, attraverso l’immaginazione (definita da Dufrenne ‘trascendentale’) i dati sensibili sono schematizzati in una rappresentazione dell’oggetto. Poi subentra
l’immaginazione ‘empirica’ che consente di cogliere le relazioni che l’oggetto
intrattiene con i possibili e le conoscenze, cioè con gli altri oggetti e la prassi (gli usi). L’immaginazione ha dunque fondamentalmente il compito di
consentire il passaggio dal piano della presenza – cioè del vissuto, in cui le
cose sono a noi direttamente presenti – a quello della rappresentazione, che
è il piano del pensato. L’immaginazione opera questo passaggio attuando
una rottura dell’opacità che contraddistingue la presenza: su questo piano
as art» (A. Brooks, L. Jardine, M. Maloney, N. Rosenthal, R. Shone, Sensation: Young
British Artists from the Saatchi Collection, Thames & Hudson, London 1997, pp. 10-11).
27
R. Barilli, Per un’estetica mondana, il Mulino, Bologna 1964, p. 281.
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
non sono possibili né chiarezza, né distinzione dato che tutti gli oggetti e
il soggetto partecipano della medesima condizione, sono tra loro pari. Il
discernimento tra soggetto e oggetto (ovvero la posizione di un soggetto e di
un oggetto in quanto tali) è reso possibile dalla produzione dell’immagine.
Realizzando quest’ultima, l’immaginazione istituisce un legame tra mente e
corpo e si configura come attività trascendentale: infatti la rappresentazione, in questo caso, non può essere considerata immagine interna, mentale, e
la produzione di immagini non è da intendersi come un’attività psicologica
del soggetto. La rappresentazione è intesa da Dufrenne kantianamente: è
il prodotto dell’attività sintetica di una nostra facoltà ed è solo attraverso di essa che la materia bruta dell’esperienza intercetta forme eidetiche.
L’immaginazione è attiva ogni qualvolta il soggetto è attento al mondo che
lo circonda: «non si può scegliere tra presenza e immaginazione, tra corpo
e spirito, collocare unilateralmente il soggetto umano nell’una o nell’altra
sfera, poiché il suo connotato più proprio è di porsi nel luogo di incrocio tra
questi due piani»28 . Proprio perché ha una funzione primaria nella relazione
tra io e mondo, è necessario che l’immaginazione non sia libera ed errante.
Affinché la rappresentazione si produca è necessario l’intervento dell’intelletto, che fa sì che la rappresentazione possa «purificarsi dall’immaginazione»29 . L’intelletto, essendo facoltà giudicativa, reprime o corregge certe
associazioni dell’immaginazione. Essa è in effetti una componente non sufficiente della percezione dal momento che accanto all’ordine reale, in cui le
cose semplicemente sono al mondo, esiste un ordine logico, per cui le cose
sono tra loro connesse da una relazione di causa-effetto e, come esemplifica,
Dufrenne «non è la stessa cosa provare nell’immaginazione la solidarietà di
due oggetti, e pensare secondo l’intelletto un legame necessario»30 . Evidentemente la relazione logica tra gli enti non può trovarsi negli stessi, né può
dipendere da loro. Bisogna allora dedurre che «l’intelletto solamente può
consacrare l’oggettività di una natura promulgando una necessità che rivela
ed esclude la fantasia»31 . L’attività dell’intelletto, però, non scalza né riduce l’importanza di quella dell’immaginazione, senza la quale non avrebbe
ragion d’essere l’intervento di quest’ultimo32 .
28
Ibid., p. 279.
«Se purger de l’imagination» (M. Dufrenne, Phénoménologie de l’expérience esthétique, 2 voll., PUF, Paris 1953, vol. II, p. 462, tr. it. nostra, come quelle che seguono tratte
da questo testo).
30
«Ce n’est pas la même chose d’éprouver dans l’imagination la solidarité de deux objets,
et de penser selon l’entendement un lien nécessaire» (ibid., p. 463).
31
«L’entendement seul peut consacrer l’objectivité d’une nature en promulguant une
nécessité qui décèle et exclut la fantaisie» (ibid.).
32
«L’intelletto non può nulla senza l’immaginazione, la ricognizione senza la riproduzione. E ciò che è vero sul piano trascendentale, dove la sintesi unificatrice che istituisce
il concetto dell’oggetto è possibile solo attraverso la sintesi riproduttiva che sola dà consistenza alle rappresentazioni, è vero anche sul piano empirico dove l’enunciato di una legge
suppone il confronto di più termini o di più oggetti. Così se l’intelletto ordina una natura,
è innanzitutto necessario, come abbiamo detto, che l’immaginazione promuova un mondo
29
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Il lavoro dell’immaginazione sul dato della percezione prepara e fornisce
un oggetto all’intelletto. Espletando questa funzione non replica l’oggetto
in cui ci si è imbattuti ma lo vivifica e arricchisce di quelle conoscenze che
il soggetto ha sempre in sé e che non derivano né dall’esperienza, né dalla
comprensione razionale, bensì dal vissuto. Poi la spontaneità delle associazioni dell’immaginazione si arresta. L’intelletto deve, allora, primariamente separare percepito e immaginato, tornare sull’oggetto con l’obiettivo
di «disfare l’apparenza per cercarne la legge»33 . Così facendo, l’intelletto
conferisce al dato «rigore» e «obiettività»34 . Il soggetto è in grado di individuare un dato come oggetto nel momento in cui lo pone a distanza da sé
e gli riconosce necessità, ovvero «imprime al flusso delle apparenze il sigillo
della necessità, converte in unità necessaria l’unità contingente delle associazioni suggerite dall’esperienza vissuta»35 , trasforma con il «potere delle
regole»36 la natura in intelligibile. Immaginazione e intelletto non stanno
in una relazione dialettica, nel senso che il secondo sarebbe il superamento
della prima. In primo luogo non è del tutto vero che dopo l’immaginazione
è attivo l’intelletto perché il processo in questione è piuttosto un circuito:
l’immaginazione produce un dato, che viene sottoposto all’intelletto e incorporato dal soggetto nel repertorio di quelle conoscenze a priori materiali
che l’immaginazione utilizza. In secondo luogo, immaginazione e intelletto
non hanno preminenza né maggior valore l’uno rispetto all’altro. In terzo
luogo Dufrenne, li interpreta kantianamente, come attività di un soggetto
che è unità di appercezione, essi sono per lui aspetti differenti di un’unica
attività, di quell’andare del soggetto verso l’oggetto37 .
attraverso questo potere che ha di unire, di collegare la cosa significata al segno, a costo
di ciò che la riflessione ratifica dopo la significazione, dia forza di legge all’associazione
esplicandola attraverso un legame logico di identità o di causalità» [L’entendement ne peut
rien sans l’imagination, la recognition sans la reproduction. Et ce qui est vrai sur le plan
transcendental, où la synthèse unificatrice qui institue le concept de l’objet n’est possible
que par la synthèse reproductrice qui seule donne consistance aux représentations, est
vrai aussi sur le plan empirique où l’énoncé d’une loi suppose la confrontation de plusieurs
objets. Ainsi l’entendement ordonne une nature, il faut d’abord, comme nous avons dit,
que l’imagination promeuve un monde, par ce pouvoir qu’elle a d’unir, de joindre la chose
signifiée au signe, quitte à ce que la réflexion ratifie ensuite la signification, donne force
de loi à l’association en l’expliquant par un lien logique d’identité ou de causalité] (ibid.).
33
«Défaire l’apparence pour en chercher la loi» (ibid., p. 462).
34
«Rigueur»; «objectivité» (ibid., p. 464).
35
«Imprime au flux des apparences le sceau de la nécessité, il convertit en unité nécessaire
l’unité contingente des associations suggérées par l’expérience vécue» (ibid.).
36
«Pouvoir des règles» (ibid.).
37
«Tra l’immaginazione e l’intelletto, vi è la stessa relazione ambigua che tra la presenza e l’immaginazione. Inferiore e superiore, natura e spirito, non cessano di unirsi e
distinguersi in noi; non cessiamo di essere uno nel momento in cui ci dividiamo per ricongiungerci, e le dialettiche di rottura che operiamo per essere spirito ci elevano allo spirito
senza rompere la nostra unità» [Entre l’imagination et l’entendement, il y a la même
relation ambiguë qu’entre la présence et l’imagination. Inférieur et supérieur, nature et
esprit, ne cessent de s’unir et de se distinguer en nous; nous ne cessons d’être un dans le
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
Contrariamente al significato distinguibile nell’uso comune dei termini,
la ‘riflessione’ non corrisponde all’attività dell’intelletto, non nell’estetica di
Dufrenne che mutua il significato di questi termini dalla terza Critica kantiana. L’intelletto non esaurisce la riflessione dal momento che, della riflessione,
esso è solo uno strumento. L’intelletto, nell’estetica di Dufrenne, ha precisamente la medesima funzione del giudizio determinante kantiano: è ciò che
consente alle categorie di applicarsi al percepito. Attraverso l’intelletto so
come le cose mi si danno, a quali condizioni, cioè in qualità di oggetti. In
questo senso, l’attività svolta dal soggetto nei confronti dell’oggetto è costitutiva. Ma a questo punto Dufrenne pone il problema della sussunzione:
come accade che delle cose, alcune cose, mi si diano nell’esperienza? E come
possono, poi, queste stesse cose adattarsi sia alle formalizzazioni necessarie perché io le comprenda, sia alle mie concrete esigenze d’uso? Dufrenne
concorda con Kant che debba esistere un accordo tra la natura e le nostre
facoltà in base al quale la relazione tra soggetto e oggetto è possibile: «la
‘Deduzione trascendentale’ stabilisce la possibilità di un dato, e la Critica
del giudizio stabilisce che è necessario postulare che questo dato in qualità
di dato si accorda con le esigenze a priori che lo rendono possibile»38 . La
riflessione, allora, si compone di due movimenti: il primo è quello costitutivo, dell’intelletto, per cui un oggetto particolare viene riconosciuto da
un soggetto secondo la griglia delle categorie in una certa forma universale.
L’intelletto applica un universale a un particolare. Il secondo movimento è
euristico, utilizza l’oggetto determinato come base di partenza e confronta
delle rappresentazioni tra loro e con le nostre facoltà alla ricerca di un universale. In questo caso si tratta del giudizio riflettente, il quale scandaglia
la varietà della realtà fenomenica per rinvenirvi le leggi che consentono di
comprendere questa infinita varietà come Natura. Il principio che guida il
giudizio riflettente in questa ricerca è un a priori che il giudizio si dà da
solo: la finalità della natura. Per meglio dire si tratta di una massima, dal
momento che la finalità della natura non attribuisce nulla all’oggetto ma
è solo una direttiva per l’attività del soggetto. Porre la finalità come ipotesi e premessa della ricerca significa congetturare come esistenti l’armonia
e l’unità della natura. Anche in questo caso non c’è un superamento del
giudizio determinante a opera del giudizio riflettente, viceversa essi sono
complementari: «la sussunzione sollecita la riflessione; è attraverso la riflessione che ci si interroga, e che ci si assicura che l’oggetto prenda posto nel
mondo e divenga intelligibile accordandosi agli altri elementi già elaborati
della conoscenza e confermando la speranza che un sistema totale della conoscenza è possibile. La riflessione è insomma riflessione sulla possibilità del
moment que nous nous divisons pour nous conquérir, et les dialectiques de rupture que
nous opérons pour être esprit nous haussent à l’esprit sans rompre notre unité] (ibid.).
38
«La ‘Déduction transcendentale’ établit la possibilité d’un donné, et la Critique du
jugement établit qu’il faut postuler que ce donné en tant que donné s’accorde avec les
exigences a priori qui le rendent possible» (ibid.).
14
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
giudizio determinante»39 . Per Dufrenne è assai rilevante, nel merito della
terza Critica kantiana, l’assunto per cui il giudizio determinante non espleta
la relazione tra soggetto e oggetto: il riconoscimento di un oggetto come tale
da parte del soggetto non è che un aspetto della loro relazione, che può essere «più profonda che nell’attività costitutiva», ossia può configurarsi come
«una comunione con l’oggetto»40 . Volendo esemplificare questo fondamentale esito del percorso criticista, si può dire che di fronte a qualcosa di bello
non è corretto affermare che il bello è predicato oggettivo, qualità, della tal
cosa. Bisognerà invece considerare il bello un predicato relativo, che sussiste cioè grazie alla relazione tra soggetto e oggetto. Attraverso il giudizio
riflettente, interrogo il mondo, cerco qualcosa41 .
L’aspetto interessante in questa spiegazione che Dufrenne fornisce del
giudizio riflettente è l’accento che egli pone sul fatto che il soggetto si mette
in gioco: intende con ciò evidenziare che il soggetto non è qui inteso impersonalmente, come chiunque svolga l’attività di soggetto, o come soggetto
trascendentale capace di mediare tra particolare e universale; piuttosto il
soggetto nel giudizio riflettente è presente personalmente, in carne e ossa.
E agisce, si apre al mondo per organizzarsi come unità di appercezione. A
questo proposito, per Kant come per Dufrenne, è ammissibile, e forse necessario, che il giudizio riflettente si esprima in una facoltà soggettiva, quella
del sentimento. Proprio a causa della soggettività, nella Critica della ragion
pura e nella Critica della ragion pratica Kant aveva escluso che sul sentimento potessero fondarsi la conoscenza e la morale in quanto universali e
necessarie. Questo limite è rispettato anche nelle opere successive di Kant:
nessuna conoscenza scientifica, né alcuna legge morale deriva dal sentimento. Vi è tuttavia una funzione per la quale il sentimento è insostituibile:
39
«La subsomption sollicite la réflexion; c’est par la réflexion que l’on s’interroge, et que
l’on assure que l’objet prend place dans le monde et devient intelligible en s’accordant aux
éléments déjà élaborés de la connaissance et en confirmant l’espoir qu’un système total
de la connaissance est possible. La réflexion est en somme réflexion sur la possibilité du
jugement déterminant» (ibid., p. 466).
40
«Plus profonde que dans l’activité constituante»; «une communion avec l’objet» (ibid.,
p. 467).
41
«Pongo un ‘come se’, una oggettività della quale io non posso ignorare che è coniata
dalla soggettività. E nello stesso tempo, ho coscienza di un’iniziativa assoluta: non considero più l’oggetto come sottointeso, gli chiedo conto, aspetto da lui che risponda a una
certa ipotesi che io pongo; la mia legislazione non è più di un voto, ma io so che pronuncio
questo voto e che attendo dalla natura che essa lo esaudisca. Non posso ignorare che la
domanda che pongo è la mia domanda e che mi metto in questo modo in questione; ciò
che trovo, lo trovo per averlo cercato, e quasi per averlo voluto» [Je pose un ‘comme si’,
une objectivité dont je ne puis ignorer qu’elle est frappée de subjectivité. Et en même
temps, j’ai conscience d’une initiative absolue: je ne considère plus l’objet comme allant
de soi, je lui demande des comptes, j’attends de lui qu’il réponde à une certaine hypothèse
que je pose; ma législation n’est plus qu’un vœu, mais je sais que je prononce ce vœu et
que j’attends de la nature qu’elle l’exauce. Je ne puis ignorer que la question que je pose
est ma question et que je me mets par là en question; ce que je trouve, je le trouve pour
l’avoir cherché, et presque pour l’avoir voulu] (ibid.).
15
ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
riferisce la forma degli oggetti al sentire del soggetto.
Il sentimento non è un atteggiamento, un semplice modo d’essere del
soggetto, o un organo come altri, è «un modo d’essere del soggetto che risponde a un modo d’essere dell’oggetto, è in me il correlato di una certa
qualità dell’oggetto attraverso la quale l’oggetto mostra la sua intimità»42 .
Mentre immaginazione e riflessione sono attività fermamente soggettive, vale a dire nelle quali il soggetto osserva un oggetto e si pone rispetto a esso
come polo distinto, nel sentimento si sperimenta «una connivenza irriflessa
e cieca con il mondo»43 . Nel sentimento, al pari che nella presenza, soggetto
e oggetto hanno una relazione diretta, sono immediatamente presenti uno
all’altro, ma si tratta di una immediatezza diversa per tre ragioni. In primo
luogo il sentimento svela l’interiorità del dato: non lo coglie come un oggetto
nel mondo, come una realtà, bensì come dotato di profondità44 . In secondo
luogo, dal piano della presenza a quello del sentimento muta l’atteggiamento
del soggetto: fintanto che l’oggetto è piatto, bidimensionale, il soggetto deve
osservarlo (e nell’osservazione è immediatamente implicata l’immaginazione)
e formalizzarlo; ma se l’oggetto si mostra nella sua profondità, il soggetto
non può afferrarlo, non può acquisirlo, bensì si limita a predisporsi alla ricezione: «non è più questione di estendere il mio avere, ma di ascoltare un
messaggio»45 . Per questo motivo il sentimento – a differenza dell’intelletto,
per esempio – impone che il soggetto sia personalmente in causa nella relazione con l’oggetto: «che io sia capace o no di sentirlo, è per me una prova,
e mi darà forse la misura della mia autenticità; non è per i nostri sentimenti,
per la loro qualità e la loro penetranza, che siamo davvero giudicati?»46 .
Il soggetto tramite il sentimento si apre a una dimensione in cui è trasceso
e non si comporta come un soggetto: le operazioni che gli sono consuete
(apprensione, rappresentazione, azione) sono inibite, neutralizzate, tutto ciò
che può fare è sentire l’oggetto ed essergli congiunto. Infine il sentimento è
per forza distinto dalla presenza perché trova spazio solo quando l’attività
dell’intelletto è ormai conclusa e la rappresentazione evasa, ci si rivolge al
sentimento quando «si cerca qualcosa d’altro»47 . Per meglio dire: c’è sentimento solo se non c’è rappresentazione, e solitamente questo accade dopo
che la rappresentazione ha esaurito il suo compito. Però è anche possibile
42
«Un mode d’être du sujet qui répond à un mode d’être de l’objet, il est en moi le
corrélat d’une certaine qualité de l’objet, par quoi l’objet manifeste son intimité» (ibid.,
p. 469).
43
«Une connivence irréfléchie et aveugle avec le monde» (ibid.).
44
Sulla profondità dell’oggetto estetico si tornerà più approfonditamente nel prossimo
capitolo.
45
«Il n’est plus question d’étendre mon avoir, mais d’entendre un message» (ibid., p.
470).
46
«Que je sois capable de l’éprouver, c’est une éprouve pour moi, et qui donnera peutêtre la mesure de mon authenticité; n’est-ce pas à nos sentiments, à leur qualité et à leur
pénétration, que nous sommes vraiment jugés?» (ibid.).
47
«On cherche autre chose» (ibid.).
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
avere sentimento di un oggetto senza mai averne prodotto rappresentazione
né riflessione. Ancora una volta nello studio delle attitudini del soggetto,
per Dufrenne, non si può fissare una scansione, una dialettica di superamento per cui dopo la riflessione vi sarebbe il sentimento. La vita cognitiva
e relazionale non può mai essere pensata come un processo ripartito in fasi. Pertanto non è detto che il sentimento debba essere preceduto dalla
riflessione, mentre è certo che non può coesisterle perché il soggetto è diversamente impegnato nelle due attività. La presenza è il primo momento
costitutivo della percezione, la rappresentazione operata dall’intelletto è immediatamente innescata dalla presenza di un oggetto al soggetto. Presenza e
rappresentazione sono i primi momenti costitutivi della percezione. Dove si
colloca dunque il sentimento? Esso è un evento separato e distinto all’interno
della percezione rispetto all’unità presenza-rappresentazione: «il sentimento
è un’altra direzione nella quale può impegnarsi la percezione: noi oscilliamo dalla percezione al sentimento secondo la spontaneità della coscienza
e senza che il movimento sia costretto da una necessità dialettica»48 . In
questo senso, sottolinea Dufrenne, la percezione deve smettere tutti gli abiti
sinora indagati perché il sentimento possa attuarsi: l’immaginazione deve
essere repressa e per quel che concerne l’intelletto bisogna che «rinunciamo
[alla] giurisdizione sull’apparenza»49 . Al posto di tutto ciò, nel sentimento,
accade che «ci apriamo a una realtà che deve essere provata dal fondo di
noi stessi, in un movimento che bisognerà che chiamiamo ontologico»50 dal
momento che non vi siamo coinvolti per un’attività solamente interpretativa
o conoscitiva.
È bene precisare che il sentimento, il sentire le cose, non ha qui nulla a
che fare con l’emozione. L’emozione è una sensazione fisiologica, è passione,
affezione e inerisce alla ricettività dei sensi. Il sentimento ha invece valenza
conoscitiva, in prima istanza perché tramite esso si può cogliere la forma del
sensibile: «il sentimento ha una funzione noetica: rivela un mondo, mentre
l’emozione commenta un mondo già dato, sia per trasformarlo magicamente,
come dice Sartre – e l’emozione è allora sregolatezza –, sia per intraprendere
un’azione valida, come dice Ricoeur»51 . Per di più il sentimento, oltre al
sentire, comprende una riflessione sulla nostra capacità d’essere affetti, cioè
è attivo non solo nell’attività senziente ma anche nel vaglio critico delle possibilità conoscitive del sentire. La conoscenza che deriva dal sentimento, ma
48
«Le sentiment est une autre direction dans laquelle peut s’engager la perception: nous
oscillons de la perception au sentiment selon la spontanéité de la conscience, et sans que
le mouvement soit contraint par une nécessité dialectique» (ibid.).
49
«Renonçons à une juridiction sur l’apparence» (ibid.).
50
«Nous nous ouvrions à une réalité qui doit être éprouvée du fond de nous-même, en
un mouvement qu’il nous faudra appeler ontologique» (ibid.).
51
«Le sentiment a une fonction noétique: il révèle un monde, alors que l’émotion commente un monde déjà donné, soit pour le transformer magiquement, comme dit M. Sartre
– et l’émotion est alors dérégulation –, soit pour engager une action valable, comme dit
M. Ricoeur» (ibid.).
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ITINERA – Rivista di Filosofia e di Teoria delle Arti e della Letteratura
si può anche dire quella conoscenza che è il sentimento, è irriflessa: consente
di comprendere il mondo affettivo in quanto è la possibilità dataci di conoscere senza passare attraverso lo schematismo dell’intelletto. È nel campo
dell’arte (sia per quanto concerne l’artista, sia per il fruitore) che più facilmente si può rintracciare l’attività del sentimento come è intesa da Dufrenne:
di fronte a un’opera d’arte la partecipazione dei nostri sentimenti non arriva
a coinvolgere le emozioni (in questo senso «il mondo dell’arte è un mondo
inoffensivo»52 ), eppure vi è un nostro coinvolgimento sentimentale. Si tratta
di quel che Dufrenne chiama sentimento puro e che è «potere di accogliere,
sensibilità a un certo mondo, attitudine a percepirlo»53 . Concludendo le sue
riflessioni sul sentimento Dufrenne ricorda, però, che è necessaria una certa
«disponibilità per accogliere l’affettivo – al quale possiamo sempre sottrarci,
attraverso l’esercizio del giudizio, per rifugiarci in un’oggettività secondo la
ricetta stoica – un certo impegno nei confronti del mondo dal quale esso non
è né pensato né agito, ma precisamente sentito»54 , quindi ribadisce quanto
affermato sin dall’inizio a proposito del sentimento: non è un destino, produce risposte diverse da soggetto a soggetto e può anche non risolversi in nulla.
Dipende dalla sensibilità, dalla capacità che il soggetto individualmente ha
di essere affetto.
Ma il sentimento cosa coglie? Che tipo di conoscenza genera? «Ciò che
[il sentimento] comprende esercitando la sua funzione noetica, è, al di là
dell’apparenza alla quale l’intelletto si arresta per ordinarla o interpretarla,
l’espressione»55 . L’apparenza, l’esteriorità di un oggetto, è una sorta di superficie su cui l’attenzione del soggetto si posa consentendogli di entrare in
contatto con la cosa, in primo luogo perché l’apparenza segnala l’esistenza
dell’oggetto. Tutto ciò avviene sul piano della presenza, in cui ha luogo
l’incontro di un soggetto e di un oggetto implicati in una relazione estetica
e non accade nulla di più perché l’oggetto è inoffensivo: non compie alcuna
azione, non va incontro al soggetto, gli si paventa solamente. L’oggetto è un
segno, ma non significa consapevolmente. Di conseguenza si può affermare
che se, tornando su un oggetto, scopro ‘parti nascoste’, non notate prima,
non posso ascrivere questa mancanza all’oggetto. Le cose semplicemente
sono e come tali appaiono, non spiegano e non ingannano: «la cosa in effetti
non può fare segno perché è ciò che è; non nasconde nulla, non istituisce una
dialettica dell’interiorità e dell’esteriorità.[. . . ] Così la cosa non deve far segno poiché è totalmente segno, non deve esteriorizzarsi, perché è totalmente
52
«Le monde de l’art est un monde inoffensif» (ibid.).
«Pouvoir d’accueil, sensibilité à une certain monde, aptitude à percevoir» (ibid.).
54
«Disponibilité pour accueillir l’affectif – à quoi nous pouvons toujours nous refuser, par
l’exercice du jugement, pour nous réfugier dans l’objectivité selon la recette stoïcienne – un
certain engagement à l’égard du monde par quoi il n’est ni pensé ni agi, mais précisément
senti» (ibid.).
55
«Ce qu’[il] saisit en exerçant sa fonction noétique, c’est au delà de l’apparence à
laquelle l’entendement s’arrête pour l’ordonner ou l’interpréter, l’expression» (ibid., p.
473).
53
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esteriorità»56 . L’apparenza, il mostrarsi, è l’unica prerogativa dell’oggetto, e
nel caso di un oggetto estetico è un’apparenza opaca. L’espressione, che è «il
potere di emettere dei segni e di esteriorizzarsi»57 dell’oggetto «costituisce
il terzo elemento della struttura dell’opera»58 .
Nell’uso comune del linguaggio espressiva è un’azione per cui il soggetto
esterna, in base a una volizione, a un contenuto che è nella sua coscienza,
qualcosa che riguarda lui o un suo particolare stato: ad esempio se sorrido
esprimo gioia, se prendo la parola vi è un pensiero che sento di dover esprimere. L’oggetto estetico è espressivo se i fruitori rispondono a esso mossi da
un sentimento. L’aspetto interessante del movimento dell’espressione è che,
portando fuori qualcosa che era nella nostra coscienza, lo mostra anche a noi:
«l’espressione ci rivela perché ci fa essere ciò che esprimiamo; essa crea un
interiore costituendo un esteriore; una vita interiore è possibile solo così [. . . ]
essere è essere visibile, se non sentirsi visto»59 . L’espressività dell’oggetto ci
sollecita a costituirci come soggetti. Non per questo ci rende soggetti agenti
(e quindi aventi un mondo), ma promuove una definizione di ciò che siamo
facendo scaturire il nostro sentimento, «l’apparenza fa conoscere una cosa e
l’espressione un soggetto o un quasi soggetto. La prima è segno mentre la
seconda fa segno»60 .
Da un lato, non potrebbe esservi espressione senza l’apparizione dell’oggetto. D’altro canto il solo manifestarsi dell’oggetto, senza l’espressione, non
consentirebbe alcun progresso nella relazione estetica che rimarrebbe ferma
al piano della presenza diretta dell’oggetto al soggetto: «l’interiorità secondo
la fisica aristotelica resta a questo riguardo un’esteriorità. L’apparenza mi
rimanda alla cosa, ma la cosa è ancora apparenza, e il progresso della conoscenza consiste solo nello scoprire nuove apparenze, chiarendo l’apparenza
attraverso l’apparenza, l’idea non essendo a questo riguardo altro che la sistematizzazione delle apparenze permettente la sostituzione di un’apparenza
chiara a un’apparenza confusa»61 . Esiste un tipo d’immediatezza corporea,
56
«La chose en effet ne peut faire signe parce qu’elle n’est que ce qu’elle est; elle ne
cache rien, elle n’institue pas une dialectique de l’intérieur et de l’extérieur. [. . . ] Ainsi la
chose n’a pas à faire signe parce qu’elle est totalement signe, elle n’a pas à s’extérioriser,
parce qu’elle est totalement extériorité» (ibid.).
57
«Le pouvoir d’émettre des signes et de s’extérioriser» (ibid., p. 474).
58
M. Dufrenne, Fenomenologia dell’esperienza estetica, tr. it. di L. Magrini, Lerici,
Roma 1969, p. 283.
59
«L’expression nous révèle parce qu’elle nous fait être ce que nous exprimons; elle crée
un intérieur en constituant un extérieur; une vie intérieure n’est possible que par là [. . . ]
être c’est être visible, sinon se sentir vu» (M. Dufrenne, Phénoménologie de l’expérience
esthétique, cit., vol. II, p. 474).
60
«L’apparence fait connaître une chose et l’expression un sujet ou un quasi-sujet. La
première est signe alors que la seconde fait signe» (ibid., p. 473).
61
«L’intériorité selon la physique aristotélicienne reste à cet égard une extériorité.
L’apparence me renvoie à la chose, mais la chose est encore apparence, et le progrès de
la connaissance ne consiste qu’à découvrir de nouvelles apparences, éclairant l’apparence
par l’apparence, l’idée à cet égard n’étant rien d’autre que la systématisation des appa-
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ed è quella del rapporto tra soggetto e oggetto sul piano della presenza.
Poi ve ne è una d’altra specie, in cui pre-riflessivo e riflesso s’intrecciano
ed essa caratterizza la relazione tra soggetto e oggetto quando è implicata
l’espressione.
Il dato della percezione è invenuto nella mera presenza, nell’incontro diretto tra soggetto e oggetto. L’oggetto della percezione è in questa fase un
immediato sul quale s’inserisce l’attività dell’immaginazione, che in primo
luogo lo fa apparire come segno (e quindi come significativo), secondariamente inizia il lavoro di svelamento dell’oggetto e svolgimento del significato
che esso porta con sé. L’immaginazione adempie a questo secondo compito
connettendo la percezione del dato alle pre-conoscenze del soggetto. Poi interviene l’intelletto, la cui funzione è quella di controllare l’immaginazione
affinché sia preservata una certa aderenza al dato percepito. Infatti, se
l’immaginazione proseguisse la sua attività liberamente, l’oggetto e il suo
significato, la cui presa di coscienza è in corso di sviluppo, sarebbero seppelliti dalle suggestioni immaginifiche. L’attività di controllo e limitazione
dell’intelletto consiste nel
legare il possibile all’attuale e dargli così l’autorità facendone un quasiattuale. Essa costituisce il senso aggiungendolo al dato, il dato diviene
più di ciò che è e questo più costituisce il suo significato. E l’intelletto
interviene allorché la decifrazione dei segni diviene sistematica, come per l’archeologo o il poliziotto, allorché noi siamo più preoccupati
del senso intellettuale che del senso pratico, dell’avvenire della comprensione più che dell’avvenire dell’uso. Il senso allora non abita più
l’apparenza, è dedotto; noi passiamo dal segno al significato seguendo
un ragionamento che l’immaginazione può ispirare, ma che non può
giustificare.62
L’apporto del lavoro dell’intelletto è dunque una rappresentazione, che
dell’intelletto è un correlato. La rappresentazione è un elemento che pertiene
alla prassi logico-scientifica: sintetizza in un concetto, in un oggetto culturale, il dato e ha per effetto il dominio, la legislazione che il soggetto impone
al mondo per farlo suo. L’immaginazione fa apparire rilevanti degli oggetti,
ma solo l’intelletto ce li fa pensare significanti e ci impone la ricerca di un
significato, «ci domandiamo: che cosa significa? E siamo già nella scienza:
rences permettant la substitution d’une apparence claire à une apparence confuse» (ibid.,
p. 476).
62
«Lier le possible à l’actuel et lui donner par là de l’autorité en en faisant un quasiactuel. Elle constitue le sens en ajoutant au donné, le donné devient plus ce qu’il est et ce
plus constitue sa signification. Et l’entendement intervient lorsque le déchiffrage des signes
devient systématique, comme pour l’archéologue ou le policier, lorsque nous sommes plus
soucieux du sens intellectuel que du sens pratique, de l’avenir de la compréhension plus
que de l’avenir de l’utilisation. Le sens alors n’habite plus l’apparence, il est déduit; nous
passons du signe au signifié en suivant un raisonnement que l’imagination peut inspirer,
mais qu’elle ne peut justifier» (ibid., p. 477).
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non percepiamo più una cosa nel mondo, ma un fenomeno in una natura»63 .
La rappresentazione, la comprensione di un oggetto attraverso la donazione
di significato è il dominio che il soggetto esercita sul mondo limitatamente
alla presenza e all’esperienza. Questa limitazione è aderenza al sensibile ed
è la garanzia di correttezza del processo intellettuale. Il principale effetto
del processo intellettuale, della donazione di senso, è il nome, la parola con
cui il soggetto segna e domina la cosa.
Quando invece ci riferiamo – anche al medesimo oggetto – attraverso
l’espressione, utilizzando il sentimento, non decifriamo più un’apparenza,
non costituiamo più significati e nomi, piuttosto ‘leggiamo’ il senso delle
cose. Si tratta di una comprensione immediata e corporale tanto quanto la comprensione vissuta della presenza tramite l’apparenza dell’oggetto.
Nell’espressione «l’espresso vi appare per primo, e in un colpo solo; il significato attraversa il significante. Al punto che dobbiamo ritrovare il significante e interrogarlo»64 per avere la certezza di aver ben compreso il suo
significato. Dopo l’esperienza affettiva dell’oggetto ci poniamo a distanza
da esso e cerchiamo una conferma di quel che abbiamo acquisito tramite
il sentimento, proviamo a sottoporlo al vaglio del pensiero e del discorso.
Ma sino a che l’intelletto non interviene, il senso è in primo piano e si dà
immediatamente al soggetto. L’espressione tende a rigettare sia l’attività
che, tramite l’intelletto, dalla mera apparenza consente di trasformare un
oggetto in oggetto culturale, sia l’attività dell’immaginazione, pretende che
io sia «attento e non attivo»65 . Nel caso dell’espressione, l’oggetto è trasparente perché ha capacità di affezione sui miei sentimenti e «non posso
immaginare un sentimento, posso solo leggerlo; non c’è nulla di nascosto
che io possa scoprire»66 , non vi è necessità di alcun supporto ulteriore, né
di anticipazioni, né di rimandi ad altri oggetti, «tutto è nell’espressione, e
l’espresso mi viene subito dato»67 .
Concludendo un oggetto non ordinario, estetico, peculiare per la capacità
che ha di suscitare il sentimento del soggetto, non richiede per essere esperito un apporto energico da parte del fruitore. Dufrenne definisce l’oggetto
estetico un ‘quasi-soggetto’ perché esso imposta da sé il seguito che deve
avere nella percezione del soggetto. Per una fruizione autentica il soggetto
non deve immaginare nulla oltre i contorni dell’opera, non deve peritarsi in
operazioni di lettura che scadranno necessariamente nell’arbitrarietà. Il fruitore deve piuttosto limitarsi a essere aperto nei confronti dell’opera, anche
63
«Nous nous demandons: que signifie? Et déjà nous sommes dans la science: nous ne
percevons plus une chose dans le monde, mais un phénomène dans une nature» (ibid.).
64
«L’exprimé y apparaît en premier, et tout d’un coup; le signifié traverse le signifiant.
Au point que nous avons a retrouver le signifiant et à l’interroger» (ibid., p. 479).
65
«Attentif et non actif» (ibid., p. 480).
66
«Je ne puis imaginer un sentiment, je ne puis que le lire; il n’a rien de caché que je
puisse découvrir» (ibid.).
67
«Tout est dans l’expression, et l’exprimé m’est tout de suit donné» (ibid.).
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quando quest’ultima è discreta nella ricerca di un impatto emotivo.
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Figura 1: Kurt Kauper, Diva Fiction (2000)
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Figura 2: Gregory Crewdson, Untitled (House fire) (1999)
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Figura 3: Gregory Crewdson, Untitled (pregnant women, pool) (1999)
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Figura 4: Gregory Crewdson, Untitled (sod man) (1999)
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Figura 5: Gabriel Orozco, Ping Pond Table (1998)
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Figura 6: Kara Walker, The End of Uncle Tom (Grand allegorical Tableau
of Eva in Heaven) (1995)
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Figura 7: Marcel Duchamp, Étant donnés: 1. La chute d’eau, 2. Le gaz
d’éclairage (1946-1966)
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Figura 8: Pierre Huyghe, The Third Memory (1999)
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