SEVERINO BOEZIO (476-525)

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SEVERINO BOEZIO (476-525)
(trad. di Giulio d’Onofrio)
PORFIRIO, Isagoge, 1, 1-15. «Caro Crisaorio, dato che è necessario sapere cosa sia il genere, la
differenza, la specie, il proprio e l’accidente per comprendere la dottrina delle categorie espressa
da Aristotele, per produrre definizioni e per tutto ciò che serve per la divisione e la dimostrazione,
tenterò, realizzando per te una sintesi riflettendo su queste cose, come in una introduzione, di
riunire le cose che sono state tramandate dagli antichi; tralasciando le questioni più complesse,
considerando le più semplici in modo comprensibile. Non parlerò, relativamente a generi e specie,
di ciò, vale a dire se sussistano o se siano poste nei soli, semplici e puri intelletti; e, nel caso in cui
sussistano, se siano corporei o incorporei; infine se siano separati o presenti nei sensibili e a loro
relativi».
Ibid., 2, 10; 4, 10; 8, 15; 12, 12; 12, 24: «Il genere è ciò al quale è sottoposta la specie (…). La
specie è ciò che si predica di individui differenti in numero in relazione a ciò che essi sono (…). Si
dice con maggior proprietà che uno differisce dall’altro quando è diviso da una differenza specifica,
come l’uomo differisce dal cavallo per la differenza specifica della sua capacità razionale (…). Il
proprio è per l’uomo l’essere risibile; infatti, anche se non ride, tuttavia si dice capace di ridere, non
perché stia ridendo, ma perché può farlo per natura (…). L’accidente è ciò che può esserci o meno
senza causare corruzione del soggetto».
Boezio, Consolazione della filosofia I, 1: «[B] Mi sembrò che sopra il mio capo fosse apparsa
una donna di aspetto venerando, dagli occhi sfolgoranti (ardens) e penetranti (perspicax) oltre la
comune capacità degli uomini. Il suo colorito era vivo e integro il suo vigore, benché ella fosse
tanto antica da non potersi credere in nessun modo appartenente al tempo nostro (quamvis ita
aevi plena foret, ut nullo modo nostrae crederetur aetatis) (…). Le sue vesti erano intessute, con
fine senso artistico, di fili sottilissimi d’una materia incorruttibile (indissolubilis); come venni poi a
sapere dalle sue parole, le aveva confezionate lei stessa con le sue mani; la loro bellezza, come
accade per le pitture (imagines) offuscate dal tempo, era velata da quella indefinibile patina che è
propria delle cose antiche e trascurate. Nel lembo inferiore del vestito si poteva leggere, ricamata,
una P greca, in quello superiore, una T, e tra le due lettere apparivano disegnati in figura di scala
alcuni gradini per mezzo dei quali era possibile risalire dalla lettera inferiore a quella superiore. La
stessa veste appariva tuttavia lacerata da mani violente, che ne avevano portato via quanti
brandelli avevano potuto».
Ibid., III, 9 «[F] O tu che governi il mondo con stabile norma, creatore della terra e del cielo, che dai
primordi fai scorrere il tempo e, restando immoto, imprimi moto alle cose
(…)
Tu sei infatti il sereno, Tu sei il riposo e la pace per i giusti, contemplare te è il nostro fine, tu sei
contemporaneamente principio, stimolo, guida, via, meta».
Ibid., IV, 2: [F] Io non contesto infatti che i cattivi siano, appunto, cattivi; ma nego nettamente e
semplicemente che essi siano. Infatti, allo stesso modo che un cadavere potresti chiamarlo ‘uomo
morto’ ma non semplicemente ‘uomo’, così son disposta a riconoscere che i viziosi siano, appunto,
cattivi, ma non potrei mai ammettere che essi, in assoluto, siano. ‘È’, infatti, ciò che si mantiene
nella propria condizione e conserva la propria natura; quello che invece si stacca da questa,
abbandona anche l’essere che è insito nella sua natura.
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