Pluri-multi-inter-trans_disciplinarità_discorsivo

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Pluridisciplinarità
"si attua quando più discipline si coordinano per portare il loro apporto di contenuti e metodologie
su un determinato oggetto di studio
Esempi:
Sei un project manager? Aiutaci a pianificare le attività, a preparare gli eventi, e studiare come fare
per rendere un successo un team di persone che deve coordinarsi per 24 ore!
Sei un manager? Aiutaci a coordinare le risorse, fin dalla preparazione degli eventi ma anche durate
il loro svolgimento!
Interdisciplinarità
Nel lavoro scientifico si parla di interdisciplinarità quando nello studio di un particolare problema o
fenomeno si utilizzano contributi di conoscenza provenienti da discipline scientifiche diverse. Nella
scienza moderna molta importanza ha assunto il lavoro di gruppo, in cui le conclusioni scientifiche
sono il risultato della combinazione degli apporti dati da diversi ricercatori specialisti. Questo è
vero non soltanto per le scienze naturali, ma anche per le scienze sociali, soprattutto da quando la
ricerca empirica è diventata il più diffuso tipo di ricerca sociologica. La stessa organizzazione degli
studi universitari, in tutti i Paesi avanzati, tende sempre più a creare strutture capaci di favorire
l'interdisciplinarità. Ormai è riconosciuta l'inevitabilità del ricorso all'approccio interdisciplinare a
livello didattico, oltre che scientifico, considerato che i problemi e gli interrogativi che sorgono nel
corso dello studio e/o della ricerca rimandano inevitabilmente ad altre discipline che soltanto
formalmente risultano estranee all'ambito originale di studio.
Transdisciplinarità
Come dice la parola stessa, la transdisciplinarità si situa al limite stesso di una singola disciplina. Se
si pensa che le discipline non sono dei corpi di saperi conclusi e definiti in se stessi, ma nascono, si
sviluppano e muoiono come qualsiasi altra cosa, si comprenderà – e questo grazie anche alle
ricerche epistemologiche – come, soprattutto in questi ultimi anni, alcune discipline si siano dissolte
ed altre siano nate ed altre ancora ne nascano giorno dopo giorno. Così, quando discipline diverse e
distinte si aggregano e si integrano in un nuovo sistema di quadri concettuali e di saperi fino a
perdere l'originaria identità ed a crearne una nuova, si ha la transdisciplinarità. E non è un caso che
negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di scienze del tutto nuove, quali le neuroscienze o le
biotecnologie e tutte quelle discipline che, a ragion veduta, si dicono di frontiera
Multidisciplinarità
Multidisciplinarietà oggi
Matilde Callari Galli – Danielle Londei
http://www2.lingue.unibo.it/Creb/trasferimentimultid.htm
L’amplificazione sempre maggiore degli orizzonti della conoscenza
umana ha reso impossibile l’ideale del sapere enciclopedico e ha
accelerato il processo di specializzazione. Se, da un lato, ciò rende
l’uomo orgoglioso dell’aumento del numero di campi di conoscenza,
dall’altro, egli diventa sempre più cosciente dell’ampiezza di tutto
ciò che ignora e della sua impotenza radicale a controllare la
totalità del sapere.
Si potrebbe dire che l’esigenza multidisciplinare è collegata alla
destabilizzazione della conoscenza, specializzata sino alla parcellizzazione, dovuta ad un
imperialismo disciplinare sempre più accentuato nei primi decenni del XX secolo.
Il pensiero, costretto all’interno delle singole discipline, ha evidenziato sintomi di malessere e
proprio questo disagio sempre più diffuso è stato il motore delle ricerche e dei lavori
multidisciplinari: per superare i limiti di un sapere monodisciplinare bisognava ricorrere alla
convergenza sul medesimo ambito problematico di specialisti provenienti da più campi del
sapere.
Nonostante la sua apparente semplicità questo percorso, anche se appare necessario e sembra
essere l’unico percorribile, si rivela, ogni giorno di più, complesso e pieno di difficoltà.
Non insisteremo sulle differenze tra pluridisciplinarità, interdisciplinarità e transdisciplinarità
che appaiono essere tutte sfumature della multidisciplinarità: in sintesi possiamo dire che la
prima riguarda la giustapposizione di varie discipline in un ambito di ricerca o di insegnamento;
la seconda non si accontenta di giustapporre, ma fa interagire più discipline con lo studio di un
oggetto, di un campo, di un obiettivo; la terza, più ambiziosa, tenta di estrarre da questa
collaborazione un filo conduttore, fino a pervenire ad una filosofia epistemologica
completamente nuova rispetto alle epistemologie delle singole discipline chiamate alla
collaborazione.
La multidisciplinarietà, nelle sue diverse forme, si afferma così come critica della
specializzazione: quanto meno riflette una esigenza di percorso riflessivo e il superamento di
un sapere ancorato alla specificità di una singola disciplina. Si potrebbe dire che questo
dibattito coincida con il declino di un modello autosufficiente, poco sensibile alla complessità,
alle innumerevoli situazioni di frontiera, e conduca a ripensare ogni disciplina al di là del suo
statuto disciplinare. Come dire che, mentre il progetto disciplinare distingue, privilegia,
conserva, il programma multidisciplinare combina, solidarizza, demistifica. Del resto, il
movimento della conoscenza implica, in permanenza, uno spostamento delle frontiere, o
meglio la creazione di territori transfrontalieri. In questo processo va sottolineato che gli
eventuali “incidenti” di frontiera possono rivelarsi fruttuosi perché creano spazi di libertà,
individuano interstizi inattesi, consentono scambi poco usuali, interessanti e fecondi e
confermano che il movimento del sapere genera sempre dei rapporti di reciprocità. La chimera
della “purezza” disciplinare è del tutto illusoria e si scontra con la realtà del “meticciato”
multidisciplinare. Così la multidisciplinarietà non è una fuga in avanti ma invece è un operare
per la ricostruzione delle singole discipline, aperte allo scambio di metodi e tecniche e solidali
nella ricerca di nuovi percorsi.
Forse non vi è differenza tra ciò che caratterizza la lontananza culturale, l’incontro culturale e
questo bisogno di multidiciplinarietà: e forse ciò avviene proprio in quanto la diversità ci stacca
dagli approcci e dalle formule abituali e ci impone di utilizzare una pluralità di codici. Di fronte
all’enigma di un codice straniero – che si tratti di parole, gesti, istituzioni, oggetti creati – non
ci accontentiamo di parlare ma utilizziamo una molteplicità di altri linguaggi: gesticoliamo,
facciamo dei disegni, degli schemi e usiamo delle parole appartenenti ad altri idiomi… Di fronte
all’altro, tendiamo a diventare noi stessi multidisciplinari. Così la transdisciplinarietà sembra
legata ad una coscienza profonda e inevitabile della necessità di stabilire relazioni con l’alterità.
L’esperienza profonda dell’incontro con l’altro, con gli altri, ha permesso di stabilire che il
significato del contesto – nel nostro caso la città – non risiede in se stesso quanto nei suoi
rapporti. Al pari di quanto avviene quando un detective è impegnato nella soluzione di un
“caso” poliziesco, nessun elemento viene isolato e il minimo elemento disfunzionale o
destrutturato può invece fare parte di una configurazione funzionale e strutturata e quindi
essere rivelatore; così possiamo affermare che l’idea di base di una ricerca che guardi alla
relazione tra le diversità culturali consiste nella valorizzazione del contesto; più precisamente,
nella dialettica tra l’oggetto isolato e il tessuto di possibilità contestuali che sostiene il suo
significato. Tuttavia, le totalità non sono facili da cogliere se non se ne conoscono le entrate e
le uscite principali. Così se prendiamo in prestito dall’antropologia l’espressione che
corrisponde al metodo classico di “osservazione-partecipazione” – quale metafora di una
tecnica che consiste nello strappare il ricercatore dal suo habitat usuale (dalla sua stretta
specializzazione) e nel costringerlo, con tutte le tensioni che questo presuppone, ad affrontare
delle abitudini strane, diverse – dobbiamo cercare di penetrare, seppur temporaneamente, nei
contesti di altre discipline – in qualità di osservatori-partecipanti.
Nell’atto di “partecipare e osservare” vi è qualcosa che contiene implicitamente
un’epistemologia nuova. Epistemologia che cerca di sfuggire alla dicotomia classica della mente
e del corpo, dei sensi e dell’intelletto che da sempre contribuisce a strutturare la ricerca
“razionale” o “scientifica” occidentale. Ricordiamo che per Lévi-Strauss la conoscenza
antropologica, inserita in quel che si chiamerà lo “strutturalismo”, è una tecnica o una via che
consentiva di colmare lo hiatus esistente tra la “logica dell’intelletto” e la “logica dei sensi”.
Così, l’“osservazione partecipante”, in tutta la sua complessità e diversità, può diventare un
metodo fondamentale da estendere ad altre discipline come la linguistica culturale o all’analisi
dei modelli spaziali o a quella dei modelli educativi, anche se i due termini del binomio –
osservazione/partecipazione – avranno equilibri differenti a seconda delle discipline coinvolte e
a seconda dei contesti che intendiamo privilegiare nella ricerca.
Prendendo in prestito i metodi e le teorie di un’altra disciplina spesso diventa possibile chiarire
certi problemi dell’area disciplinare nella quale si opera e anche suscitare un dialogo
interessante e sistematico tra le aree in contatto come è stato il caso dell’antropologia con la
linguistica tramite l’introduzione dello strutturalismo.
Esempi, ovviamente più circoscritti e limitati, sono offerti dalle diverse sezioni di questo
volume: quella dedicata al rapporto tra antropologia ed urbanistica, quella che esamina le
relazioni tra lingue e culture e quella dedicata al rapporto tra espressioni letterarie e differenze
culturali. In quest’ultimo caso i testi letterari possono essere percepiti come narrazioni di
società diverse, possono cioè essere utilizzati quali esempi di descrizioni in cui il racconto
diventa un medium attraverso il quale una società si manifesta come una totalità significante.
Multidisciplinarietà: il versante educativo
Paradossalmente, è la specializzazione “disciplinare” che sembra orientare sempre più e
sempre più precocemente, i programmi e i corsi di studio a livello universitario. Ed è proprio
questo paradosso che solleva numerosi problemi perché ci troviamo di fronte a insegnamenti
sempre più specializzati e ad una procedura euristica che necessita la messa in opera – per
non rischiare la sterilità – di vari livelli di multidisciplinarietà. La crisi scientifica sopportata e
diffusa dalla civiltà occidentale rappresenta il luogo di emergenza, di un conflitto tra l’aspetto
educativo monodisciplinare e specializzato e le necessità euristiche della multidisciplinarietà.
Infatti, chi parla di creatività del sapere parla di un creatore formato per affrontare il
procedimento euristico. Ogni “invenzione”, ogni “scoperta” o meglio ogni “creazione scientifica”
consiste nel programmare, nell’aggiungere all’oggetto o all’obiettivo considerato
un’informazione “nuova” nel campo. Sembrerebbe semplice, quasi lapalissiano. Ed invece
questa constatazione nasconde una totale sovversione filosofica. In termini di logica, la
“novità” della “scoperta” risulta da un riferimento euristico (teorico o sperimentale) nel campo
dell’alterità nei confronti del già conosciuto. Ed è proprio in questo punto preciso che si situa la
crisi attuale della disciplina a carattere educativo e la distorsione sempre più grande tra
insegnamento e ricerca. Il primo ha le sua fondamenta sul già acquisito, sulla “trasmissione del
sapere”, la seconda esce e scuote la routine delle ipotesi, dei postulati, delle procedure
sperimentali già catalogate nei repertori.
Così, nel momento storico – che va dalla fine del XIX secolo e per tutto il XX secolo – in cui gli
Stati “moderni” istituivano progressivamente procedure di insegnamento scientiste,
oggettiviste e sempre più precocemente specializzate, la scienza stessa – attraverso le proprie
procedure – rimetteva in causa le fondamenta logiche e ontologiche che aveva per “dedurre” la
lenta istituzionalizzazione di un insegnamento totalitario, monoculturale, riduzionista e
scientista.
È quindi questa rivoluzione del “nuovo spirito scientifico” che dobbiamo brevemente richiamare
se si vuole cogliere profondamente la questione educativa e euristica della multidisciplinarietà
che attraversa questo convegno.
Già Einstein, malgrado l’immaginario della continuità che caratterizzava gran parte del suo
pensiero, aveva constatato, all’inizio del XX secolo, che il procedere della scienza non si
svolgeva con aggiunzioni o deduzioni analitiche continue, ma con incessanti “ristrutturazioni”
dei paradigmi direttori. È quel che ai giorni nostri lo scienziato Olivier Costa de Beauregard
confermerà dicendo che ogni “paradigma” ha cominciato con l’essere un “paradosso”. Ed è
quello che Gaston Bachelard, filosofo, scienziato, critico letterario e “poeticien”, attraverso il
suo sguardo transdisciplinare sul “nuovo spirito scientifico”, stabiliva chiaramente più di
sessant’anni fa: il procedere scientifico, lungi dall’esser un fenomeno additivo continuo, era
invece fondato su una alterazione sovversiva, sull’incessante procedimento “polemico” di una
“filosofia del no”. Per dirlo molto velocemente, si potrebbe riassumere il percorso del suo
pensiero così: per inventare, bisogna confrontare; per confrontare, bisogna comparare; per
comparare, bisogna avere più termini di paragone, più “discipline” d’oggettivazione. L’oggetto
sparisce a beneficio dell’obiettivo. Certo, Gaston Bachelard separa ancora il procedimento del
“no” scientifico da quello della poesia, dell’arte, da ciò che egli chiama le “fenomenologie”.
Tuttavia, l’ostacolo epistemologico maggiore – la passività monodisciplinare – che proibisce
ogni “salto” euristico, viene esorcizzato. La possibilità di unificare il campo di ogni sapere
(scientifico, poetico, religioso …), lungi dal profilarsi come una unificazione unidimensionale
verso un monoteismo della Verità, implica una complessità sistemica che integri i procedimenti
contrari e contraddittori dell’investigazione.
Questa relazione con una complessità di parametri rende logicamente necessaria un’ampia
informazione multidisciplinare e una collaborazione fra le discipline alla quale la pesantezza
universitaria – erede di venti secoli di aristotelismo, impegnata in gelose specializzazioni –
resiste tenacemente.
Siamo quindi convinti che partendo da un immenso feed-back epistemologico – dal “nouvel
esprit” quantistico e dai suoi corollari filosofici, come la filosofia del “no” – ogni teoria della
conoscenza umana con le sue tecniche educative debba essere rivisitate. Si potrebbe
affermare che la multidisciplinarietà, in tutte le forme possibili, è la condizione sine qua non
della prospettiva e della fecondità creatrice del pensiero scientifico.
Multidisciplinarietà in epoca di globalizzazione
Molte sono le elaborazioni concettuali che le diverse scienze sociali hanno dedicato ai processi
di globalizzazione che caratterizzano la contemporaneità: negli studi internazionali l’attenzione
è posta soprattutto sulla crescente intensità con cui gli stati nazionali si rapportano gli uni agli
altri sviluppando politiche sempre più globali, mentre le discipline economiche sottolineano
l’attuale mondializzazione dei mercati finanziari e la diffusione delle leggi di mercato. E se in
sociologia si studia l’emergenza di sistemi sociali di grandi dimensioni e la storia si interroga
sulla possibilità di concettualizzare una storia globale, gli studi culturali pongono l’accento sulle
comunicazioni globali, sulla cultura postcoloniale e sulla standardizzazione delle mode e dei
consumi – e parlano di Macdonaldizzazione del mondo.
Siamo sempre più convinti che i processi di modernizzazione che sono alla base dell’attuale
fenomeno di globalizzazione mondiale abbiano avuto molteplici linee di sviluppo e che non
possano essere ricondotti tutti unitariamente allo sviluppo dell’Occidente. Evitare
l’eurocentrismo però non deve spingerci a teorizzare altri “centrismi”: non ricaviamo alcun
vantaggio né di carattere teorico né metodologico, sostituendo al centrismo europeo quello
giapponese o quello cinese o quello africano. La moltiplicazione dei “centri” diffusori si risolve
con la sostituzione di un “centro” all’altro ma lascia immutata la dinamica che prevede
ugualmente influenze e domini unidirezionali e inevitabilmente omologanti: soprattutto fallisce
nel cogliere il carattere principale delle dialettiche fra le differenze costituito oggi dalla
“globalizzazione della diversità”; si perde, in altre parole, l’effetto di melange, di meticciato che
pervade l’intero pianeta con un movimento che cambia continuamente il ruolo dei paesi che
svolgono di volta in volta le funzioni di centri e di periferie.
Davanti a questo continuo interscambio così totalizzante e al tempo stesso frammentato, dal
ritmo così veloce da annullare gran parte della nostra riflessività, gli accenti diversi con cui le
scienze sociali si accostano alla definizione e all’analisi della globalizzazione appaiono angusti
e, presi nella loro singolarità, inadeguati a interpretare la storia degli attuali scambi che hanno
il carattere di continue e pervasive contaminazioni.
Il meticciato, nell’ambito degli studi culturali, è definito come “la modalità con cui le forme
culturali si separano dalle pratiche correnti e si ricombinano in nuove forme dando luogo a
nuove pratiche” (W. Rowe, V. Schelling, 1991, p. 231). E ancora, le culture meticce sono state
paragonate alle lingue creole che “si basano in qualche modo su due o più fonti storiche,
spesso in origine profondamente diverse: “hanno poi avuto tempo sufficiente per svilupparsi,
integrarsi e divenire elaborate e pervasive” (U. Hannerz, 1987, p. 552).
Ma, in base a queste definizioni, le culture non sono tutte meticce? E i processi di
globalizzazione non sono più adeguatamente descritti se ad essi applichiamo gli schemi
interpretativi dei meticciati culturali, artistici e sociali? A parte il vantaggio di cogliere la
dinamica dei fenomeni coinvolti, questo orientamento ci eviterebbe la tentazione di considerare
la globalizzazione come una forza omogeneizzante o come un processo tutto e solo
occidentale.
L’aumento dei meticciati culturali sono indici di un’epoca in cui i confini sono continuamente
attraversati: i confini tra gli stati nazionali, fra le comunità, fra le generazioni e le classi sociali.
Di conseguenza anche i confini delle scienze sociali, così come erano state codificate per
studiare entità considerate ben definite e circoscritte, appaiono ingombranti ostacoli per uno
studio che richiede agilità e dinamica flessibilità.
Il meticciato agisce riorganizzando gli spazi sociali, facendo emergere nuove pratiche di
cooperazione e competizione, nuove espressioni culturali transnazionali e translocali: e tutte
queste nuove forme richiedono ed evocano nuove prospettive teoriche, nuovi immaginari
culturali, nuove problematiche di frontiera. In effetti la prospettiva del meticciato apre la
strada a quella riflessione “dagli interstizi” che implica avvicinarsi allo studio delle differenze da
punti di vista multipli, ad un tempo endogeni ed esogeni.
Di fronte a una condizione umana di profonda disuguaglianza, la prospettiva del meticciato ci
libera dall’ancoraggio ai confini e chiede alla nostra riflessione di attraversarli: i confini della
nazione, della comunità, della classe sociale, dell’etnicità e della specificità disciplinare.
Matilde Callari Galli – Danielle Londei
Bibliografia
H. Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma, 1999.
M. Callari Galli (a cura), Nomadismi contemporanei, Guaraldi, Rimini, 2004.
U. Hannerz, The World in Creolization, in “Africa”, 1987, 57 (4), pp. 546-552.
W. Rowe, V. Schelling, Memory and Modernity: Popular Culture in Latin America, Verso,
London, 1991.
G. Bachelard, La Filosofia del non: saggio di una Filosofia del nuovo spirito scientifico,
Armando, 1998.
C. Lévi Strauss, Antropologia Strutturale I-II, Milano, Il Saggiatore, 1966
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