Tutti i diritti riservati Vietata la riproduzione anche parziale Avviso agli esaminati Invia alla redazione Esselibri CountDown (Via F. Russo, n. 33/D - Napoli) oppure via e-mail all’indirizzo [email protected] le domande più originali o complesse del tuo esame, anche corredate della tua risposta. I migliori suggerimenti saranno pubblicati. Ideazione, organizzazione della collana a cura del dott. Federico del Giudice (docente universitario) Revisione redazionale a cura della dott.ssa Cristina D’Agostino Alla precedente edizione ha collaborato il dott. Francesco Taraschi Tutti i diritti di sfruttamento economico dell’opera appartengono alla Esselibri S.p.A. (art. 64, D.Lgs. 10-2-2005, n. 30) Finito di stampare nel mese di marzo 2011 dalla «INK & PAPER» - Via Censi dell’Arco, 22 - Cercola (NA) per conto della esselibri S.p.A. - Via F. Russo, 33/D - 80123 Napoli Grafica di copertina a cura di Giuseppe Ragno Premessa Hai letto il manuale? Lo hai ripassato? 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Articolazione della risposta Il diritto del lavoro si caratterizza per il concorso di una molteplicità di fonti e cioè di atti, tutti dotati, sia pure con un diverso grado di efficacia, della forza giuridicamente riconosciuta di determinare la concreta regolamentazione del rapporto di lavoro. Le fonti che concorrono alla formazione del diritto del lavoro possono essere suddivise in tre gruppi. Appartengono al primo gruppo, le fonti del diritto internazionale sovranazionale. Le norme internazionali di origine consuetudinaria possono essere considerate fonti dirette del diritto del lavoro ex art. 10 Cost., secondo il quale l’ordinamento si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Le norme internazionali di natura pattizia (cioè i trattati) sono ritenute, invece, fonti indirette in quanto devono essere ratificate con legge dello Stato per entrare a far parte dell’ordinamento giuridico italiano e ad esse deve essere data esecuzione affinchè diventino applicabili e vincolanti per i singoli individui. Il diritto dell’Unione Europea è costituito dalle disposizioni dei trattati istitutivi dell’Unione Europea, così come integrati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e da atti successivi, da ultimo dal Trattato di Li- 6 Parte Prima sbona (firmato il 13-12-2007 ed entrato in vigore il 1°-12-2009) che ha modificato il trattato sull’Unione Europea (TUE) e il Trattato istitutivo della Comunità europea ridenominato Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), nonché dagli atti emanati dalle istituzioni dell’Unione (regolamenti, direttive e decisioni) (cd. diritto derivato). Il diritto dell’Unione Europea ha acquisito sempre più importanza come fonte del diritto del lavoro ed, infatti, gran parte dei provvedimenti adottati negli ultimi anni costituisce attuazione di direttive cui l’Italia è tenuta in forza dell’appartenenza all’Unione Europea. Il secondo gruppo è costituito dalle fonti legislative, che possiamo ordinare secondo una gerarchia: —al vertice la Costituzione la quale, oltre ai principi fondamentali (artt. 1, 3, 4) che fanno del lavoro (non solo subordinato) il valore fondante della Repubblica, dedica ad esso le disposizioni garantistiche e di tutela del titolo III Parte I: sono gli artt. 35-40 aventi ad oggetto la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, la retribuzione, l’orario di lavoro, il riposo settimanale, le ferie annuali, i diritti delle donne e dei minori, la previdenza ed assistenza sociale, la tutela dell’attività sindacale e il diritto di sciopero; —al secondo posto, la legge ordinaria e gli atti aventi forza di legge quali i decreti legislativi ex art. 76 Cost. e i decreti legge ex art. 77 Cost., nonché le leggi regionali, fonti di produzione normativa nei limiti del nuovo criterio di ripartizione legislativa tra Stato e Regioni introdotto dalla L. cost. 3/2001; —infine, vi sono i regolamenti emanati dal Governo a mezzo decreto del Presidente della Repubblica o dai Ministri, con proprio decreto, ovvero da altre Autorità ove previsto, che hanno efficacia propria degli atti amministrativi e spesso integrano o danno attuazione alle disposizioni della legge. Il terzo gruppo di fonti comprende: a) la contrattazione collettiva, nella quale i lavoratori e i datori di lavoro sono rappresentati dalle rispettive associazioni di categoria (sindacati e associazioni datoriali); b) il contratto individuale di lavoro, nel quale l’accordo viene raggiunto direttamente tra il singolo datore di lavoro e il singolo prestatore di lavoro. Le fonti del diritto del lavoro 7 1 bis. Come è disciplinato il diritto al lavoro nella Costituzione? Il diritto al lavoro è riconosciuto a tutti i cittadini (art. 4, co. 1 Cost.) ed allo scopo di renderlo effettivo ed operante, la Repubblica promuove tutte le condizioni opportune, eliminando anche gli ostacoli all’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, co. 2 Cost.). Il lavoro è ogni attività o funzione diretta al progresso materiale e spirituale della società e in quanto tale ad esso è attribuita la concreta e significativa rilevanza costituzionale di attività socialmente utile. Significativa di tale rilevanza è la proclamazione dell’art. 1 Cost. per cui l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. 1 ter. Quali sono i trattati e le convenzioni internazionali più importanti in materia di lavoro? Tra i trattati internazionali di maggiore rilevanza, sottoscritti anche dall’Italia, ricordiamo la Carta Internazionale del Lavoro (1919), aggiornata dalla Dichiarazione di Filadelfia (1944), la Carta sociale europea (1961), sottoscritta dai paesi membri del Consiglio d’Europa i quali ne hanno ribadito i principi nel Codice europeo di sicurezza sociale (1964). Grande rilievo assumono anche le convenzioni stipulate dall’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), a cui appartengono tutti gli Stati membri dell’ONU. 1 quater.Qual è il valore della consuetudine nel diritto del lavoro? La consuetudine (o uso) è la ripetizione costante e uniforme di una determinata condotta, con la convinzione dell’obbligatorietà della condotta stessa (cd. usi normativi). Gli usi si applicano in mancanza di disposizioni di legge o di contratto collettivo (art. 2078 c.c.). Nella materia del lavoro la consuetudine assume una particolare connotazione in quanto, in deroga alla regola generale secondo cui nelle materie regolate dalla legge o dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo se da essi richiamati (art. 8 disp. prel. c.c.), gli usi prevalgono sulle disposizioni di legge se più favorevoli al prestatore di lavoro (art. 2078 c.c.). Dagli usi normativi vanno tenuti distinti gli usi aziendali, cioè quelle prassi adottate nei confronti dei lavoratori nell’ambito di una singola azienda, 8 Parte Prima rilevanti ai fini della integrazione del contratto, sulla base della volontà delle parti, ai sensi dell’art. 1340 c.c. 1 quinquies. Gli usi aziendali possono derogare al contratto collettivo? Sì, gli usi aziendali possono derogare al contratto collettivo solo in quanto più favorevoli. Il contratto individuale integrato dagli usi aziendali non è soggetto ad eventuali modificazioni peggiorative disposte da pattuizioni nazionali o aziendali o da atti unilaterali del datore di lavoro a meno che i lavoratori interessati non acconsentano alla nuova normativa anche con comportamenti taciti concludenti (Cass. 12-3-1994, n. 2406). 1 sexies.Come opera il principio di gerarchia delle fonti nell’ambito del diritto del lavoro? Principio cardine del diritto del lavoro è quello del favor prestatoris per cui al lavoratore, contraente debole del contratto individuale di lavoro, viene accordata una particolare tutela al fine di riequilibrare il diverso peso contrattuale delle parti. In attuazione di tale principio, il criterio generale della gerarchia delle fonti, per cui quella superiore prevale su quella inferiore, non trova piena applicazione nel diritto del lavoro. Nell’ambito del diritto del lavoro, infatti, tra più fonti contrastanti prevale quella più favorevole per il lavoratore. Ad esempio è previsto che i contratti individuali possono derogare alla contrattazione collettiva se prevedono disposizioni di maggior favore per il prestatore di lavoro (art. 2077 c.c.) e che gli usi prevalgono sulla legge se più favorevoli per il lavoratore (art. 2078 c.c.). 2. A seguito della L. cost. 3/2001 come sono ripartite le competenze legislative in materia di lavoro tra Stato e Regioni? Riferimento normativo: art. 117 Cost. Nozione: chiarire che in seguito alla riforma del Titolo V della parte II della Costituzione la potestà legislativa tra Stato e Regioni è così ripartita: potere esclusivo dello Stato; potestà legislativa concorrente; materie residuali di competenza legislativa esclusiva delle Regioni. Disciplina: elencare il riparto di competenze tra Regioni e Stato nell’ambito del lavoro e della previdenza e assistenza; evidenziare che allo Stato è affidato il compito di stabilire i principi della legislazione da realizzare a livello regionale per garantire ai lavoratori uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale. Le fonti del diritto del lavoro 9 Articolazione della risposta La L. cost. 3/2001 ha modificato integralmente il Titolo V della parte seconda della Costituzione, dedicato alle Regioni, Province e Comuni. La nuova suddivisione della potestà legislativa tra lo Stato e le Regioni si basa sull’individuazione di: materie in cui lo Stato legifera in modo esclusivo (ben 17 materie); materie in cui vi è una potestà legislativa concorrente (le Regioni sono tenute a legiferare nel rispetto dei principi fondamentali definiti dalla legislazione statale); materie che appartengono alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni, senza interferenze da parte delle autorità statali. Quest’ultimo gruppo di materie deve essere ricavato per esclusione e individuato tra quelle non esplicitamente incluse nei primi due elenchi. Se analizziamo il riparto di competenze solo con riferimento al lavoro e alla previdenza e assistenza, risulta che: —sono oggetto della competenza esclusiva dello Stato, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, l’ordinamento civile e la previdenza sociale; —sono oggetto della competenza concorrente delle Regioni la tutela e sicurezza del lavoro, la tutela della salute e la previdenza complementare e integrativa. L’esercizio di tale potestà normativa da parte delle Regioni è subordinato all’osservanza dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, nonché al rispetto dei principi fondamentali contenuti nella Costituzione, eventualmente definiti con legge statale; —sono oggetto della competenza esclusiva delle Regioni, le materie non riservate alla legge statale e alla legislazione regionale concorrente, compreso il potere di dare attuazione ed esecuzione agli atti dell’Unione Europea nell’osservanza delle procedure stabilite dalla legge dello Stato (art. 117, co. 5). 3. Che cosa indica il principio della territorialità? Riferimenti normativi: Convenzione di Roma del 19-6-1980; Regolamento comunitario n. 593/2008 (avente ad oggetto, all’art. 8, specificamente i contratti individuali di lavoro). 10 Parte Prima Nozione: si tratta di un criterio che serve a stabilire quale normativa si debba applicare al rapporto di lavoro nel caso in cui un lavoratore italiano presti la sua attività all’estero o viceversa se cittadini stranieri lavorano in Italia. Domande consequenziali: rilevanza pratica del principio. Articolazione della risposta Il principio della territorialità (o principio della lex loci laboris) è un criterio di individuazione della normativa applicabile al rapporto di lavoro. Occorre, infatti, tener presente che è frequente l’ipotesi di lavoratori italiani che prestino la loro attività all’estero o viceversa di cittadini stranieri che lavorino in Italia: in questi casi, in assenza di una libera scelta della legislazione ad opera delle parti, il criterio applicato è quello della territorialità, in base al quale il rapporto di lavoro è disciplinato dalla legge del Paese in cui il lavoratore svolge abitualmente la sua attività in esecuzione del contratto. Tali criteri sono stati stabiliti dalla Convenzione di Roma del 19-6-1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, entrata in vigore il 1°4-1991 nella maggioranza degli Stati membri della UE, e sono stati trasposti nel regolamento comunitario n. 593 del 2008, che disciplina in maniera analoga i contratti individuali di lavoro. 3 bis. Qual è la rilevanza pratica del principio della territorialità? Il principio della territorialità, diffusamente applicato, costituisce una fondamentale forma di prevenzione dello sfruttamento di manodopera retribuita inferiormente rispetto ai lavoratori nazionali. La sua importanza è evidente se si considera il rischio che imprese provenienti da Stati (es. la Romania) con un basso regime di protezione del lavoro avrebbero potuto operare in Italia, come pure in altri paesi UE, applicando ai propri lavoratori le proprie leggi (meno favorevoli). 4. Cosa s’intende per equità e per “principio del favor prestatoris”? Nozione: si tratta di criteri interpretativi e non di fonti del diritto del lavoro. Caratteristiche: evidenziare, anche illustrando alcuni esempi, che l’equità costituisce un metodo di giudizio del caso concreto e che il favor prestatoris è il principio fondamentale che permea tutto il diritto del lavoro. Le fonti del diritto del lavoro 11 Articolazione della risposta Si tratta di due fondamentali criteri di interpretazione della disciplina del lavoro capaci, in determinate ipotesi, di orientare la decisione sul bilanciamento degli interessi. L’equità costituisce il criterio interpretativo ed il metodo di giudizio del caso concreto. Nel diritto del lavoro la legge fa riferimento a tale regola in talune importanti ipotesi: art. 36 Cost. per determinare la giusta retribuzione, l’art. 2109, co. 2, c.c. per la durata delle ferie annuali, l’art. 2110 c.c. per la determinazione del trattamento retributivo-indennitario in caso di infortunio, malattia, gravidanza e puerperio, l’art. 2118 c.c. per la durata del preavviso. Il potere di decidere secondo equità una controversia può essere conferito al giudice, oltre che dalla legge, anche dalla concorde volontà delle parti. Il principio del favor prestatoris caratterizza l’intero ordinamento giuridico del lavoro e si sostanzia nella particolare tutela che, nel contratto individuale di lavoro, viene accordata al contraente più debole, e cioè al prestatore, come conseguenza della necessità di riequilibrare il diverso peso contrattuale delle parti. L’affermazione più generale di tale principio è contenuta nell’art. 35 della Costituzione, sul presupposto della subordinazione socio-economica del lavoratore, che si traduce in una disparità negoziale a vantaggio dell’imprenditore. Oltre che nella Costituzione, altre affermazioni sono presenti in numerose disposizioni della legge come, ad esempio, in tema di invalidità delle rinunce e transazioni stipulate durante il rapporto di lavoro (art. 2113 c.c.). 5. Qual è l’efficacia delle direttive emanate dalle istituzioni dell’Unione Europea sull’ordinamento nazionale in materia di lavoro? Nozione: la direttiva costituisce una fonte di diritto derivato che vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Caratteristiche: necessita di un atto interno che ne trasponga i contenuti nell’ordinamento nazionale. Domande consequenziali: che cos’è la “legge comunitaria”; principio di non regresso. 12 Parte Prima Articolazione della risposta La direttiva rappresenta un indirizzo vincolante per gli Stati membri (al singolo Stato o a tutti gli Stati), i quali, però, sono liberi di scegliere — in ordine alla finalità da realizzare — il concreto modo di attuazione conformemente ai sistemi giuridici esistenti nei singoli Paesi. In base ai principi formatisi attraverso la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia UE in relazione alle problematiche scaturenti dalla stretta integrazione tra l’ordinamento dell’Unione Europea e quello degli Stati membri, si è giunti ad affermare che la direttiva è direttamente efficace nell’ordinamento nazionale. Le condizioni indispensabili affinché tale efficacia possa essere riconosciuta sono: —che la direttiva imponga agli Stati membri degli obblighi sufficientemente chiari e precisi, come nel caso delle direttive dettagliate (casi in cui le disposizioni di una direttiva sono incondizionate e sufficientemente precise); —chiarisce il contenuto di un obbligo già previsto; —pone a carico degli Stati membri l’obbligo di astenersi dall’approvare determinati atti o dal compiere specifiche azioni (si tratta di un obbligo di non facere). L’efficacia diretta delle direttive, che necessitano di un atto interno di recepimento, riguarda i rapporti tra i cittadini e lo Stato (effetto verticale delle direttive) sempre che da esse derivino norme più favorevoli per i cittadini rispetto alla normativa interna che non è stata adeguata. Ciò comporta in primo luogo che, decorso inutilmente il termine fissato per dare attuazione alla direttiva, i singoli possono far valere in giudizio i diritti precisi ed incondizionati che derivano loro dalla direttiva. In secondo luogo, per le autorità nazionali sussiste il divieto di opporre qualunque disposizione interna non conforme ad una disposizione della direttiva che imponga obblighi precisi ed incondizionati. 5 bis. Che cos’è la “legge comunitaria” ? Necessitando di adattamento per produrre effetti nel diritto interno, le direttive devono essere recepite. Ciò avviene trasponendone il contenuto in un atto interno (legge, decreto legislativo, decreto legge, atto amministrativo) secondo criteri e modalità procedurali oggi disciplinate dalla L. 4-2- Le fonti del diritto del lavoro 13 2005, n. 11 (che ha sostituito la L. 86/1989, cd. legge “La Pergola”): il Governo ogni anno presenta al Parlamento un disegno di legge, cd. legge comunitaria, per l’attuazione delle norme comunitarie. Tale atto è imprescindibile in quanto le direttive sono prive di qualsiasi effetto orizzontale e, pertanto, non hanno effetti tra privati se manca una disposizione nazionale di recepimento. La responsabilità per la mancata attuazione della direttiva è configurabile solo in capo allo Stato e, in assenza di provvedimenti di attuazione, un privato non può fondare su una direttiva un diritto nei confronti di un altro privato, né può farlo valere dinanzi a un giudice nazionale. 5 ter. È possibile, in attuazione del diritto dell’Unione Europea, introdurre norme più sfavorevoli per i lavoratori rispetto a quanto già previsto dall’ordinamento interno? No, in quanto il recepimento della normativa dell’Unione Europea nella legislazione interna deve avvenire comunque salvaguardando il livello di tutela dei lavoratori già esistente nel Paese di modo che dall’attuazione delle direttive comunitarie non possa derivare un arretramento del livello generale di protezione in un determinato ambito (cd. principio di non regresso). 6. Qual è il significato del principio dell’Unione Europea della “libera circolazione dei lavoratori”? Nozione: si tratta di una garanzia fondamentale dell’ordinamento dell’Unione Europea, che assicura la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea ed implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. Domande consequenziali: applicazione del principio nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Il principio della libertà di circolazione dei lavoratori persegue l’obiettivo di tutelare gli individui che intendono esercitare nel territorio di uno Stato membro una attività economica o lavorativa e ciò con riferimento ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e agli imprenditori e agli esercenti attività professionale o arti. 14 Parte Prima Alla libertà di circolazione sono strettamente connessi: —il diritto di rispondere a offerte di lavoro effettive; —il diritto di spostarsi liberamente al tal fine nel territorio degli Stati membri; —il diritto di soggiornare in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro alle stesse condizioni stabilite per i lavoratori nazionali; —il diritto di rimanere sul territorio di uno Stato membro dopo aver occupato un impiego. Il regolamento 15-10-1968, n. 1612, che ancora oggi reca la disciplina fondamentale della materia, estende il diritto alla libera circolazione ai familiari del lavoratore, anche se cittadini di Stati terzi, sia quelli appartenenti al nucleo familiare (coniuge e discendenti) che a carico del lavoratore o viventi nella sua casa. Lo stesso regolamento contempla il diritto del lavoratore dell’Unione Europea alla parità di trattamento rispetto ai lavoratori nazionali in riferimento alla retribuzione alle condizioni di accesso e di svolgimento del lavoro. Attualmente il diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini dell’UE è disciplinato, in attuazione della dir. 2004/38/CE, dal D.Lgs. 6-2-2007, n. 30. Con tale decreto sono disciplinate le modalità di esercizio di libera circolazione, ingresso, soggiorno temporaneo e permanente, nel territorio degli Stati membri, dei cittadini dell’Unione Europea e dei loro familiari che li accompagnano o li raggiungono, nonché le limitazioni di tali diritti per motivi di ordine pubblico e sicurezza pubblica. 6 bis.Il principio di libertà di circolazione si applica anche in relazione al pubblico impiego? No. Tutta la normativa sulla libera mobilità dei lavoratori non è applicabile agli impieghi nella Pubblica Amministrazione. Ciò in armonia con gli ordinamenti interni dei singoli Stati membri che per lo più escludono gli stranieri dagli impieghi pubblici. In Italia, ai sensi degli artt. 51 Cost., 38 D.Lgs. 165/2001 e successive disposizioni regolamentari, è permesso ai cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea accedere agli impieghi presso le Pubbliche Amministrazioni, purché essi non comportino l’esercizio di pubblici poteri e non attengano alla tutela dell’interesse nazionale (ad es. la magistratura ordinaria, la difesa etc.). Parte Seconda Il lavoro subordinato 1. Come si definisce il lavoro subordinato? Riferimento normativo: art. 2094 c.c. Nozione: evidenziare che il codice civile definisce il lavoratore subordinato ma non il lavoro subordinato. Distinzioni: chiarire che la dottrina e la giurisprudenza hanno concepito diverse definizioni del lavoro subordinato a seconda della rilevanza data a ciascuno degli elementi indicati dall’art. 2094 c.c. Domande conseguenziali: tutele del lavoro subordinato; presunzione di onerosità del lavoro subordinato. Articolazione della risposta Il codice civile non detta una nozione di lavoro subordinato, ma si limita ad una definizione di lavoratore subordinato individuato all’art. 2094 c.c. in colui che lavora, contro retribuzione, alle dipendenze e sotto la direzione di un datore di lavoro. La concezione tradizionale identifica la subordinazione con l’eterodirezione della prestazione lavorativa. Secondo questa tesi, il rapporto di lavoro è subordinato quando il lavoratore è sottoposto alle direttive del datore cui spetta di determinare le modalità di esplicazione dell’attività lavorativa, entro i limiti fissati dalla legge e dal contratto collettivo a tutela della personalità e della dignità del lavoratore. A tal proposito si parla di subordinazione tecnico-funzionale. Partendo da tale assunto, la dottrina e la giurisprudenza hanno cercato di giungere ad una definizione generale più adeguata ai tempi attuali di subordinazione. È stata quindi affermata la tesi della subordinazione in senso stretto che consiste nel requisito della estraneità del lavoratore subordinato, rispetto sia all’organizzazione produttiva in cui è inserita la prestazione che al risultato della stessa. Secondo la concezione moderna, dunque, l’imputazione al datore di lavoro dell’attività svolta dal prestatore rappresenta il carattere principale del lavoro subordinato. 16 Parte Seconda 1 bis. Quali sono le tutele di cui gode il lavoratore subordinato? I principali effetti giuridici della qualificazione del rapporto di lavoro come lavoro subordinato scaturiscono da una disciplina caratterizzata da una marcata finalità protettiva e garantista, nettamente distinta da quella applicata al lavoro autonomo. In particolare: —all’atto della instaurazione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro ha l’obbligo di registrare i lavoratori nel libro unico del lavoro e di comunicare agli uffici competenti l’avvenuta assunzione; —il lavoratore deve essere inquadrato, vale a dire che, all’atto dell’assunzione, devono essere determinate la qualifica e la categoria; —il datore deve corrispondere al lavoratore una retribuzione non inferiore agli importi previsti dal contratto collettivo di categoria (e comunque proporzionata alla qualità ed alla quantità del lavoro prestato); —nell’organizzazione dell’attività lavorativa il datore di lavoro deve osservare le limitazioni in materia di durata del lavoro, accordando al prestatore i riposi giornalieri, settimanali e annuali (ferie) stabiliti dalla legge e dalla contrattazione collettiva; —il lavoratore subordinato beneficia di una speciale tutela previdenziale che si realizza mediante le cd. assicurazioni sociali obbligatorie; —il datore di lavoro è obbligato a provvedere al finanziamento delle assicurazioni sociali, mediante il pagamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi; —l’estinzione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro non è libera, ma è subordinata alla sussistenza di una giusta causa e di un giustificato motivo (L. 604/1966 e art. 18 L. 300/1970); —in caso di controversia avente origine dal rapporto di lavoro, si applica un rito speciale (art. 409 ss. c.p.c.), diverso da quello ordinario, perché è finalizzato a garantire una celere risoluzione della vertenza per l’immediata soddisfazione dei diritti del lavoratore. 1 ter. Cosa si intende per presunzione di onerosità del lavoro subordinato? Una delle caratteristiche fondamentali desumibili dall’art. 2094 c.c. è l’onerosità della prestazione. Il lavoro subordinato 17 Pertanto, ogni attività che si configura oggettivamente come prestazione di lavoro si presume svolta a titolo oneroso. Si tratta di una presunzione che si basa sui criteri della normalità, apparenza e buona fede ed è un principio avente carattere generale, applicabile non solo a favore del lavoratore, ma anche a carico dello stesso, quando è il datore di lavoro ad avere interesse a dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro (Cass. 3-8-2004, n. 14849). La presunzione opera quindi nel senso che la parte che intende dimostrare l’esistenza di un rapporto diverso da quello subordinato, e quindi gratuito, deve rigorosamente dimostrarlo (es. il volontariato per comuni finalità ideali, con correlativa gratuità della stessa attività). È consentito dunque ricondurre la prestazione ad un rapporto diverso istituito affectionis vel benevolentiae causa, che si caratterizza per la gratuità della prestazione resa. In tal caso, secondo la giurisprudenza, non rileva il grado maggiore o minore di subordinazione, cooperazione o inserimento del prestatore di lavoro, ma solo la sussistenza o meno della finalità ideale o religiosa rispetto a quella lucrativa (Cass. 20-2-2006, n. 3602). In tale quadro assume dunque rilievo decisivo l’esistenza o meno di cause giustificatrici, sul piano giuridico-sociale, della prestazione gratuita (finalità ideali e non lucrative delle prestazioni, ricollegabili, ad esempio, a vincoli di solidarietà familiare, sociale o politica), poiché, in assenza delle stesse a giustificazione di una prestazione oggettivamente configurabile come lavorativa, deve ritenersi la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato (Cass. 11045/2000). 2. Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quale rilievo assume la denominazione attribuita dalle parti al contratto? Nozione: la denominazione attribuita dalle parti al contratto è irrilevante ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato. Disciplina: precisare che il nomen iuris, pur non avendo valore deciso e sufficiente, deve essere preso in considerazione nell’indagine relativa alla natura del rapporto. Domande consequenziali: indici giurisprudenziali di subordinazione; principali elementi distintivi tra lavoro autonomo e subordinato; carattere saltuario della prestazione come indice di autonomia. 18 Parte Seconda Articolazione della risposta La giurisprudenza tendenzialmente ritiene che per stabilire la natura del rapporto di lavoro sia irrilevante la denominazione (autonomo o subordinato) attribuita dalle parti al contratto (cd. volontà cartolare o nomen iuris). Ciò in ossequio al principio generale in base al quale si deve privilegiare il comportamento che esse hanno avuto durante lo svolgimento del rapporto rispetto alla volontà che avevano manifestato al momento della stipulazione del contratto. Infatti, la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti all’atto della stipulazione del contratto non è determinante, perché nei rapporti di durata (come è il rapporto di lavoro) il comportamento delle parti è rilevante per esprimere sia una volontà contrattuale diversa, sia una nuova realtà fattuale (Cass. 28-7-2008, n. 20532). Tuttavia, quando la configurazione che il rapporto ha avuto nei fatti appare dubbia, non ben definita o non decisiva, l’indagine deve essere svolta in modo più accurato proprio sulla volontà espressa dalle parti in sede di costituzione del rapporto. Si è ritenuto, inoltre, che il nomen iuris assuma una incidenza decisoria qualora i caratteri differenziali tra due o più figure negoziali (delle quali una sia quella del rapporto di lavoro subordinato) siano difficilmente tracciabili. Ciò accade, ad esempio, quando si deve accertare se un’attività lavorativa, esercitata nell’ambito di rapporti associativi, è stata prestata o meno con vincolo di subordinazione (Cass. 18-4-2007, n. 9254). 2 bis. Quali sono gli indici di subordinazione elaborati dalla giurisprudenza e qual è la loro efficacia? Per distinguere tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, occorre verificare se, in base alle modalità di svolgimento della prestazione, esista o meno il vincolo di subordinazione. Per facilitare questa operazione, la giurisprudenza ha individuato nel corso degli anni una serie di indici che, se riscontrati nello svolgimento del rapporto di lavoro, ne rivelano la natura subordinata, quali (Cass. 8028/2003, Cass. 5495/2006): —l’osservanza di un orario di lavoro predeterminato; —la collaborazione; Il lavoro subordinato 19 —l’assenza del rischio in capo al lavoratore; —la continuità della prestazione; —la cadenza e la misura fissa della retribuzione; —l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva; —il coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato all’impresa dal datore di lavoro. Tali indici sono però solo elementi sussidiari, con un rilievo cioè secondario rispetto all’unico elemento avente valore determinante per la dimostrazione dell’esistenza del vincolo di subordinazione: l’assoggettamento del lavoratore al potere di direzione, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro ed il conseguente inserimento del lavoratore in modo stabile ed esclusivo nell’organizzazione aziendale (Cass. 10313/2008). 2 ter. Quali sono le principali differenze tra il lavoro autonomo ed il lavoro subordinato? Tradizionalmente, la distinzione tra i due generi, del lavoro subordinato e del lavoro autonomo, si riconduceva al fine dell’attività lavorativa, le stesse opere del prestatore nel primo caso (cd. locatio operarum), un risultato nel secondo (cd. locatio operis o contratto d’opera). Attualmente i principali elementi distintivi tra lavoro subordinato e lavoro autonomo si possono riassumere tenendo presente i seguenti aspetti: —posizione del lavoratore che, nel lavoro subordinato, è di subordinazione al potere direttivo e di controllo del datore che predetermina le modalità di erogazione della prestazione di lavoro, mentre, nel lavoro autonomo, è di autonomia nella gestione, avendo egli la piena discrezionalità in merito al tempo, al luogo e al modo di organizzazione della propria attività; —organizzazione d’impresa, che difetta sempre nel lavoro subordinato, ma che invece può caratterizzare il lavoro autonomo; —incidenza del rischio attinente all’esercizio dell’attività produttiva, rispetto al quale il lavoratore subordinato è del tutto esonerato, mentre ricade completamente sul lavoratore autonomo; —determinazione del corrispettivo che nel lavoro subordinato avviene normalmente a tempo, senza alcuna correlazione con il risultato finale, mentre nel lavoro autonomo si basa sul risultato finale a prescindere dal tempo che il lavoratore impiega. 20 Parte Seconda 2 quater.Il carattere saltuario della prestazione esclude la subordinazione? No: la Cassazione, infatti, ha affermato che il carattere saltuario dell’attività lavorativa non è un elemento idoneo a consentire la qualificazione del rapporto nel senso dell’autonomia (Cass., sez. lav., 21031/2008). Peraltro, già in precedenza la Suprema Corte aveva affermato la natura subordinata di rapporti di lavoro che durano una sola giornata o anche parte di essa, e che si caratterizzano non per la loro durata nel tempo, di per sé irrilevante, ma per la disponibilità del prestatore nei confronti del datore con assoggettamento alle direttive da questo impartite circa la corretta esecuzione del lavoro (cd. eterodirezione) (Cass. 7304/1999). 3. Quali sono i caratteri essenziali del lavoro parasubordinato? Riferimento normativo: art. 409 c.p.c. Nozione: chiarire che si tratta di un lavoro autonomo anche se svolto con modalità simili al lavoro subordinato. Caratteri: la prestazione lavorativa deve essere prevalentemente personale, continuativa e coordinata. Elementi da evidenziare: si tratta di una categoria costruita dalla dottrina e dalla giurisprudenza; il primo riconoscimento normativo ricevuto; forma tipica di parasubordinazione è il rapporto di agenzia e di rappresentanza commerciale; la denominazione assunta comunemente di co.co.co. Domande consequenziali: tutele e garanzie applicabili. Articolazione della risposta Il lavoro parasubordinato consiste in una prestazione autonoma, anche se per le modalità in cui viene svolta e, soprattutto, per la posizione di dipendenza economica del lavoratore nei confronti del committente, è stata avvicinata alla fattispecie del lavoro subordinato. La dottrina e la giurisprudenza hanno così creato la categoria della parasubordinazione che ha avuto il primo riconoscimento normativo dall’art. 409 c.p.c. che ha esteso ad essa la medesima tutela processuale assicurata al lavoro subordinato e ne ha definito altresì gli elementi caratterizzanti. Il lavoro subordinato 21 Ne deriva che la forma tipica della parasubordinazione è quella del rapporto di agenzia e di rappresentanza commerciale, ma nell’ambito di tale categoria rientrano anche tutti i rapporti in cui la prestazione lavorativa deve presentare i seguenti requisiti: —una prestazione di lavoro prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato; —una prestazione continuativa, cioè non occasionale, che si ripete in un determinato periodo di tempo, anche se non di lunga durata; —e coordinata con l’attività del committente. A differenza del lavoro subordinato, però, nella parasubordinazione la coordinazione non è connessa al potere direttivo del committente. Il lavoro parasubordinato, per le caratteristiche che lo contraddistinguono, è denominato anche collaborazione coordinata e continuativa (cd. co.co. co.). 3 bis.I lavoratori parasubordinati beneficiano delle stesse tutele e garanzie dei lavoratori subordinati? No, in quanto i rapporti di parasubordinazione, nonostante la similitudine con quelli di lavoro subordinato, non possono essere equiparati agli stessi sotto il profilo delle tutele e delle garanzie. Inizialmente, le norme applicabili hanno riguardato soltanto il rito del lavoro (art. 409 c.p.c. e ss.), compreso il tentativo di conciliazione (art. 410 c.p.c.), e gli istituti di natura sostanziale della invalidità delle rinunce e transazioni concernenti i diritti indisponibili del lavoratore (art. 2113 c.c.) e del diritto alla rivalutazione dei crediti di lavoro (art. 429 c.p.c.) e agli interessi legali in caso di condanna del datore di lavoro a pagare somme non corrisposte al prestatore. Successivamente questo scarno quadro di tutele è stato integrato da disposizioni relative alla tutela previdenziale: l’assicurazione generale obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali è stata estesa anche ai lavoratori parasubordinati ed è stata istituita presso l’INPS una apposita Gestione separata per erogare a tali lavoratori alcune prestazioni economiche proprie del lavoro subordinato quali: l’assegno per il nucleo familiare, l’indennità di maternità e l’indennità di malattia, nonché le prestazioni pensionistiche di invalidità, vecchiaia e superstiti. 22 Parte Seconda 4. Che cos’è il lavoro a progetto? Riferimenti normativi: artt. 61-69 D.Lgs. 276/2003. Nozione: è la tipologia contrattuale entro cui devono essere ricondotti i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Elementi da evidenziare: precisare la natura autonoma del lavoro a progetto; chiarire che si tratta semplicemente di una modalità operativa delle collaborazioni coordinate e continuative, introdotta dalla legge per contrastare il fenomeno delle finte co.co.co. Domande consequenziali: conseguenze della mancanza del progetto campo di applicazione del contratto di lavoro a progetto; individuazione delle mini co.co. co.; previsioni della L. 183/2010, cd. collegato lavoro, in materia di contenzioso. Articolazione della risposta È un contratto di lavoro di natura autonoma, introdotto dal D.Lgs. 276/2003, la cui stipulazione è divenuta imprescindibile per la realizzazione di un autentico rapporto di collaborazione coordinata e continuativa (cd. co.co.co.). Il contratto di lavoro a progetto rappresenta, quindi, la veste formale imposta dalla legge ai rapporti di parasubordinazione, al fine di porre un freno al diffondersi di forme generiche di collaborazione, in cui facilmente possono essere mascherati rapporti di lavoro in realtà subordinati. Il D.Lgs. 276/2003 stabilisce che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici e programmi di lavoro o fasi di esso, determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della prestazione. Il lavoro a progetto costituisce dunque soltanto una nuova modalità di svolgimento della prestazione lavorativa del collaboratore, in quanto non si è dato vita ad un nuovo genere di lavoro. Per effetto dell’introduzione del lavoro a progetto sono vietati i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa atipici, cioè stipulati senza l’osservanza della disciplina del lavoro a progetto. Il lavoro subordinato 23 4 bis. Cosa accade in mancanza del progetto? I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto. La mancanza del progetto opera quindi come una presunzione legale circa la natura subordinata del rapporto e, coerentemente, il legislatore impone che esso assuma la veste giuridica del lavoro subordinato. Sulla natura della presunzione, se essa debba considerarsi assoluta o relativa, non vi è univocità di opinioni. La questione non è di poco conto, perché, nel primo caso (presunzione assoluta), il datore di lavoro/committente non potrà in alcun modo dimostrare che il rapporto di lavoro si è svolto con modalità diverse da quelle caratterizzanti il lavoro subordinato, mentre nel secondo caso (presunzione relativa), la dimostrazione sulla natura autonoma del rapporto di lavoro gli è invece consentita. In tale ultimo senso, si è mossa l’interpretazione fornita dal Ministero del Lavoro (circ. 1/2004), secondo cui il committente può fornire in giudizio la prova che il rapporto di lavoro è comunque effettivamente autonomo e, in tal modo, superare la presunzione stabilita dalla legge. La giurisprudenza, soprattutto quella più recente, ha al contrario ritenuto che la presunzione in esame sia, invece, da considerarsi assoluta (v. Trib. Milano sent. 2-2-2007, n. 320 e sent. 5-2-2007, n. 337). 4 ter.A quali rapporti di co.co.co. non si applica la disciplina del lavoro a progetto? Tra il lavoro a progetto e la parasubordinazione non esiste una perfetta coincidenza, poiché esistono dei rapporti di co.co.co. che non presentando particolari rischi di elusione della normativa inderogabile del diritto del lavoro, non sono stati ricondotti alla disciplina del lavoro a progetto. Sono infatti esclusi dal campo di applicazione del lavoro a progetto: —l’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi; —i rapporti e le attività di collaborazione coordinata e continuativa in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche, quelli degli amministratori e sindaci e dei partecipanti a collegi e commissioni, nonché dei titolari di pensione di vecchiaia; —i rapporti di co.co.co. stipulati con la P.A.; —i rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale cui si applica la disciplina specifica prevista dal codice civile e dalla legge; 24 Parte Seconda —le collaborazioni occasionali, previste dall’art. 61, co. 2, D.Lgs. 276/2003. 4 quater.A seguito della L. 183/2010 cosa si intende per mini co.co. co.? Per mini co.co.co. si intendono le collaborazioni occasionali che hanno una portata limitata e che infatti l’art. 61 D.Lgs. 276/2003 individua in: rapporti di durata complessiva non superiore a 30 giorni nel corso dell’anno solare e da un compenso complessivo inferiore a euro 5.000, con riferimento allo stesso committente. A seguito della L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro, (art. 48), inoltre, sono comprese anche le prestazioni rese nell’ambito dei servizi di cura e assistenza alla persona di durata non superiore a 240 ore. 4 quinquies.Cosa ha previsto la L. 183/2010 in materia di contenzioso? La L. 183/2010, cd. collegato lavoro, (art. 50) ha previsto che al collaboratore, nel caso di accertamento della natura subordinata del rapporto di co.co.co., sia dovuto solo un indennizzo di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità di retribuzione, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 L. 604/1966 (sui licenziamenti individuali). In particolare, la disposizione si applica, fatte salve le sentenze passate in giudicato, alle controversie relative a rapporti di collaborazione coordinata e continuativa compresi quelli riconducibili ad un progetto o programma di lavoro, per i quali il datore di lavoro abbia offerto: —la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato ex L. 296/2006 (art. 1, co.1202-1210) (cd. stabilizzazione) entro il 30-9-2008; —la conversione a tempo indeterminato del contratto in corso dopo la data di entrata in vigore della L. 183/2010; —l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle svolte durante il rapporto di lavoro precedentemente in essere. Il lavoro subordinato 25 5. Il rapporto di lavoro subordinato è compatibile con l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro? Riferimenti normativi: artt. 2549-2554 c.c.; art. 86, co. 2, D.Lgs. 276/2003. Nozione: i rapporti associativi non sono compatibili con il lavoro subordinato in quanto la prestazione è resa in virtù del vincolo associativo e non per lo scambio tra lavoro e retribuzione. Caratteri: sottolineare l’elemento del cointeresse tra associante e associato; evidenziare le differenze con il lavoro subordinato. Domande conseguenziali: rapporto associativo fittizio e presunzione legale di subordinazione nel D.Lgs. 276/2003. Articolazione della risposta No, in quanto nel rapporto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato non si rinvengono gli elementi qualificanti il rapporto di lavoro subordinato. Infatti, l’obbligo dell’associato di effettuare la prestazione lavorativa ha come corrispettivo la partecipazione agli utili d’impresa. Ne deriva che un elemento caratterizzante tale rapporto è dato proprio dal coinvolgimento diretto dell’associato alle fortune dell’impresa: i frutti dell’attività lavorativa ed il rischio economico ad essa connesso ricadono su entrambi, associante ed associato. Esiste cioè un interesse comune alle parti del rapporto che è assente nel lavoro subordinato. È da aggiungere poi che le direttive che impartisce l’associante non possono essere assimilate a quelle del datore di lavoro nei confronti del prestatore, sottoposto ad un ben più pregnante potere gerarchico e disciplinare. 5 bis. Cosa accade nel caso in cui l’associazione in partecipazione sia fittizia? Il D.Lgs. 276/2003 (art. 86, co. 2) ha stabilito che la mancanza di una effettiva partecipazione e di adeguate erogazioni all’associato che presti la propria attività comporta il diritto, in favore di quest’ultimo, «ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato». 26 Parte Seconda Secondo la giurisprudenza, per qualificare con certezza il rapporto di lavoro tra associante e associato ed inquadrarlo nel contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ovvero in un contratto di lavoro subordinato, è necessario svolgere un’indagine diretta a cogliere «la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato» (Cass. 26-1-2010, n. 1584). Quindi, se l’associazione in partecipazione risulti essere fittizia, ai rapporti di lavoro tra associante e associato si applica la disciplina del lavoro subordinato, a meno che l’associante riesca a provare, con «attestazioni o documentazioni», che la prestazione di lavoro dell’associato rientra in una delle tipologie di lavoro disciplinate nel D.Lgs. 276/2003 o in un altro contratto contratto espressamente previsto nell’ordinamento. 6. Il rapporto di lavoro svolto dal socio d’opera può essere considerato come lavoro subordinato? Nozione: il socio d’opera presta la sua attività non in funzione dello scambio con la retribuzione, ma perché ha sottoscritto il contratto di società. Disciplina: incompatibilità del rapporto di lavoro subordinato con quello associativo nelle società di persone. Si ha lavoro subordinato quando l’attività prestata dal socio non rappresenta un conferimento alla società. Articolazione della risposta Sì, ma solo nell’ipotesi eccezionale in cui il socio svolga attività lavorativa in forma subordinata ed essa non costituisce oggetto del conferimento per partecipare alla società. Di regola, infatti, il socio d’opera è colui che nella società di persone conferisce, anziché beni, la propria opera lavorativa, obbligandosi a prestare lavoro non per ricevere in cambio la retribuzione, ma perché partecipa allo scopo societario. Egli è titolare degli stessi poteri di amministrazione e decisione degli altri soci e, pertanto, non si rinvengono gli elementi qualificanti della subordinazione. Il lavoro subordinato 27 Ne consegue che nelle società di persone (società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice) il rapporto di lavoro subordinato risulta incompatibile con quello associativo. 7. Nelle cooperative di lavoro quale tipo di rapporto si instaura tra socio e società? Riferimento normativo: art. 1 L. 142/2001. Nozione: il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio. Disciplina: indicare la sussistenza di 2 tipi di rapporti: — rapporto associativo; — ulteriore rapporto connesso all’attività prestata dal socio che può avere natura subordinata o autonoma. Elementi da evidenziare: l’applicazione degli istituti protettivi del lavoro subordinato è solo parziale; il rapporto associativo prevale sul rapporto di lavoro. Domande consequenziali: conseguenze dell’esclusione del socio dalla cooperativa. Articolazione della risposta Le società cooperative di lavoro sono quelle nelle quali il rapporto mutualistico ha ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio. Si tratta di una fattispecie regolamentata dalla L. 142/2001, successivamente modificata ed integrata dalla L. 30/2003. Tra socio lavoratore e cooperativa si instaura un rapporto di tipo associativo dal quale deriva, tuttavia, un ulteriore rapporto, connesso all’attività prestata dal socio e con cui egli contribuisce al raggiungimento degli scopi sociali. Il rapporto di lavoro tra socio lavoratore e cooperativa deve essere concordato e formalizzato all’atto dell’adesione, o successivamente, e può assumere la forma della subordinazione o del lavoro autonomo, compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale. Il rapporto di lavoro sarà quindi disciplinato dalla normativa applicabile alla tipologia (autonoma, subordinata, di collaborazione) prescelta, secondo una valutazione di compatibilità con la posizione di socio che il lavoratore riveste. 28 Parte Seconda Quando il rapporto di lavoro tra il socio lavoratore e la cooperativa ha natura subordinata si applica, anche se non integralmente, la disciplina propria del lavoro subordinato di cui al codice civile e alla legislazione sociale. In particolare: —ai soci lavoratori subordinati si applica lo Statuto dei lavoratori, ma l’esercizio dei diritti sindacali deve avvenire con le modalità individuate in appositi accordi collettivi che tengano conto del principio di compatibilità; —le società cooperative sono tenute a corrispondere un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine; —si applicano anche tutte le disposizioni in materia di igiene e sicurezza del lavoro e altri istituti quali, ad esempio, il TFR e le ferie. Il regolamento interno della cooperativa può stabilire però anche deroghe peggiorative rispetto alle condizioni di lavoro spettanti in base alla disciplina legislativa, con l’unica eccezione dei trattamenti economici minimi. La parziale applicazione degli istituti del lavoro subordinato deriva dal fatto che il legislatore, in considerazione della singolare posizione del socio lavoratore, privilegia il rapporto associativo rispetto a quello di lavoro. 7 bis.Se viene deliberata l’esclusione del socio lavoratore dalla cooperativa, il rapporto di lavoro tra questi e la cooperativa stessa si estingue? Sì, qualunque sia la natura del rapporto di lavoro: subordinata, autonoma o di collaborazione. La preminenza del vincolo associativo, nel caso in cui si tratti di lavoro subordinato, esclude la tutela dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, e cioè il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di illegittimità del licenziamento. Parte Terza Il contratto collettivo di lavoro 1. Che cos’è il contratto collettivo di lavoro? Riferimenti normativi: art. 39 Cost.; artt. 2067, 2070, 2071, 2077, 2078 c.c. Nozione: si tratta di una fonte di natura pattizia che storicamente ha acquisito un’ importanza fondamentale nella regolamentazione dei rapporti di lavoro. Caratteri: almeno una delle parti stipulanti è un’organizzazione sindacale; fa parte della categoria dei cd. contratti normativi, in quanto determina i contenuti di una futura produzione contrattuale. Fondamento giuridico: autonomia sindacale e rapporto di rappresentanza. Domande consequenziali: funzione del contratto collettivo di lavoro. Articolazione della risposta Il contratto collettivo di lavoro è l’accordo tra un datore di lavoro (o un gruppo di datori di lavoro) ed una organizzazione o più di lavoratori, allo scopo di stabilire il trattamento minimo garantito e le condizioni di lavoro alle quali dovranno conformarsi i singoli contratti individuali stipulati sul territorio nazionale. Esso si caratterizza: —per i soggetti, in quanto viene stipulato tra parti, di cui una almeno, quella dei prestatori di lavoro, deve essere costituita da soggetti coalizzati; —per l’oggetto, in quanto con esso si intende predeterminare, con carattere impegnativo tra le parti, le clausole e le condizioni dei futuri contratti dei singoli prestatori appartenenti alla categoria. Il fondamento giuridico del contratto collettivo sta, da un lato, nell’autonomia che l’ordinamento giuridico concede alle organizzazioni sindacali e, dall’altro, nel rapporto interno che unisce il sindacato ai suoi membri, per cui il primo rappresenta giuridicamente i secondi. Quanto, infine, alla forma, pur in assenza di specifiche previsioni di legge, la dottrina prevalente ritiene che il contratto collettivo debba essere redatto, a pena di nullità, per iscritto e debba essere sottoscritto da tutti gli stipulanti. 30 Parte Terza 1 bis. Qual è la funzione del contratto collettivo? Lo scopo dei contratti collettivi è quello di stabilire condizioni uniformi e obbligatorie valide per tutti i prestatori e i datori di lavoro di una determinata categoria onde evitare una possibile e dannosa concorrenza: —fra prestatori di lavoro, i quali pur di ottenere il lavoro, potrebbero essere indotti ad accettare un trattamento economico inferiore a quello pattuito dai sindacati per la loro categoria; —fra datori di lavoro, in quanto quelli tra loro che corrispondono salari più bassi di quelli stipulati verrebbero a trovarsi, diminuiti i loro costi di lavoro, in una situazione di vantaggio nei confronti degli altri imprenditori determinando, quindi, una concorrenza sleale in danno dei datori che corrispondono le tariffe sindacali. 2. Cosa prevede la Costituzione in tema di contratto collettivo di lavoro? Riferimento normativo: art. 39 Cost. Nozione: oggetto della disposizione costituzionale è uno speciale procedimento per la stipulazione dei contratti collettivi mediante il quale viene ad essi attribuito valore di fonti del diritto. A tal fine è necessaria: — la registrazione dei sindacati; — la formazione di una rappresentanza unitaria. Elementi da evidenziare: difficoltà applicative e mancata attuazione dell’art. 39 Cost. Domande consequenziali: confronto con il contratto collettivo corporativo; la legge Vigorelli. Articolazione della risposta L’art. 39 Cost. stabilisce uno speciale procedimento per la stipulazione dei contratti collettivi attraverso il quale viene ad essi attribuita efficacia di norma giuridica, vincolante, in quanto tale, nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria cui il contratto stesso si riferisce. Per raggiungere tale risultato la norma prevede la registrazione dei sindacati e la formazione di una rappresentanza unitaria, che prende parte Il contratto collettivo di lavoro 31 alla contrattazione, nella quale ciascun sindacato registrato abbia un numero di componenti proporzionale al numero dei propri iscritti. L’art. 39 Cost. presenta, tuttavia, alcuni impedimenti operativi, relativi, in particolare, all’entità numerica delle rappresentanze unitarie per la validità del contratto e all’ipotesi in cui in una determinata categoria mancassero sindacati registrati o vi fosse un solo sindacato stipulante. Visti i problemi applicativi, sarebbe quindi necessaria l’emanazione di una legge di esecuzione dell’art. 39 Cost., che, tuttavia, non essendo realmente voluta né dal legislatore né dalle forze politico-sociali interessate non è stata, fino ad oggi, mai adottata, rendendo nei fatti inattuato il contratto collettivo prefigurato dalla Costituzione. 2 bis. Qual è la differenza fondamentale tra il contratto collettivo previsto dalla Costituzione e il contratto collettivo corporativo? Nel regime fascista, la L. 563/1926, istitutiva dell’ordinamento corporativo, riconosceva per ciascuna categoria di lavoratori o di datori di lavoro una sola organizzazione professionale che aveva personalità di diritto pubblico e la rappresentanza legale della categoria. Pertanto, era legittimata a stipulare i contratti collettivi corporativi esclusivamente l’associazione professionale riconosciuta dalla legge. La Costituzione repubblicana del 1948, invece, ha affermato il principio del pluralismo sindacale, consistente nella possibilità che gli appartenenti alla medesima categoria produttiva si organizzino in più sindacati. Di conseguenza, il contratto collettivo previsto dalla nostra Carta fondamentale, a differenza di quello corporativo, può essere stipulato dai rappresentanti di tutti i sindacati, purché registrati, e, per tale motivo, costituisce reale espressione degli interessi dei lavoratori. 2 ter. Cosa prevedeva la “legge Vigorelli”? La mancata attuazione dell’art. 39 Cost. portò il legislatore ad emanare la L. 741/1959 (cd. legge Vigorelli). Tale legge, infatti, attribuiva la delega al Governo ad emanare decreti legislativi aventi come contenuto la determinazione di condizioni minime di lavoro per ciascuna industria, condizione minima di lavoro da desumere, però, dalle clausole dei contratti collettivi esistenti, alle quali il Governo doveva uniformarsi. 32 Parte Terza In pratica, con tale legge le singole clausole contrattuali venivano avulse dal contratto ed acquistavano efficacia generalizzata non in quanto clausole contrattuali, ma come norme fatte proprie dal legislatore con i vari decreti. La legge Vigorelli fu tacciata di incostituzionalità dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ma il giudice costituzionale la ritenne legittima, per la sua transitorietà, provvisorietà ed eccezionalità. Fu invece dichiarata incostituzionale la L. 1027/1960 che, prorogando la legge precedente, ne fece venir meno il carattere eccezionale e temporaneo. 3. Cosa si intende per contratto collettivo di diritto comune? Riferimenti normativi: artt. 1322, 1372, co. 2, c.c. Nozione: precisare che ha natura giuridica di un contratto di diritto privato per cui produce effetti solo nei confronti degli iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti. Domande consequenziali: distinzione tra parte normativa e parte obbligatoria; rapporto tra contratto collettivo e legge; criterio di individuazione della fonte più favorevole al lavoratore. Articolazione della risposta Il contratto collettivo di diritto comune è l’unico tipo di contratto collettivo che possa oggi realizzarsi nel nostro ordinamento, ed è così chiamato in quanto regolato dalle norme di diritto comune valide in materia contrattuale (libro IV del codice civile: art. 1322 in particolare). Tale contratto non costituisce una fonte del diritto come i contratti corporativi, ma ha natura negoziale privata per cui, analogamente a tutti gli altri contratti disciplinati dal codice civile, vincola esclusivamente gli associati alle organizzazioni sindacali che lo hanno stipulato. 3 bis. Qual è il contenuto della parte normativa e della parte obbligatoria del contratto collettivo? Gli attuali contratti collettivi di diritto comune si distinguono, quanto al contenuto, in due parti aventi funzioni differenti: —una parte denominata normativa, che attiene al complesso di clausole che sono destinate ad avere efficacia nei singoli rapporti di lavoro (es. livelli retributivi, orario di lavoro, ferie, durata del periodo di prova o del preavviso); Il contratto collettivo di lavoro 33 —una parte denominata obbligatoria, destinata a regolare i rapporti tra i soggetti stipulanti, associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro: appartengono ad essa, ad esempio, le disposizioni con le quali il sindacato si obbliga a non proclamare scioperi o proporre rivendicazioni in un determinato periodo o su determinate materie (cd. clausole di tregua sindacale), oppure quelle che attribuiscono al sindacato il diritto all’informazione o all’esame congiunto su determinate scelte aziendali. 3 ter. Le disposizioni del contratto collettivo possono essere in contrasto con la legge? Sì, se prevedono condizioni migliorative rispetto alla legge per il lavoratore. In base al criterio gerarchico, che è la regola generale ordinatrice tra le fonti di disciplina del rapporto di lavoro, le disposizioni del contratto collettivo non possono essere mai in contrasto con la legge o derogare alla stessa e, in ogni caso, eventuali conflitti sono risolti sempre con la prevalenza della disposizione legislativa. Il criterio dell’ordine gerarchico non ha, però, applicazione assoluta nel campo lavoristico, essendo quest’ultimo permeato dal principio del favor prestatoris che, tra più fonti regolatrici del rapporto di lavoro, determina la prevalenza di quella più favorevole verso il lavoratore. Pertanto, la norma di legge può essere derogata dal contratto collettivo ogni qual volta esso preveda condizioni migliorative (derogabilità in melius). Viceversa il contratto collettivo non può mai prevalere sulla legge quando disponga in senso peggiorativo per il lavoratore rispetto alla previsione legislativa (inderogabilità in peius). 3 quater.Come si fa ad individuare la fonte più favorevole? Il problema si pone, ad esempio, nel caso in cui per la retribuzione la legge prevede mille euro e il contratto collettivo milleduecento euro, mentre per l’orario di lavoro la legge prevede otto ore ed il contratto collettivo otto ore e mezza. Secondo la tesi prevalente (teoria della valutazione globale) bisogna esaminare complessivamente ciascuna fonte e, dopo aver determinato quale, globalmente, può considerarsi più favorevole, applicare solo quest’ultima. 34 Parte Terza Così, nell’esempio fatto, se il contratto collettivo è globalmente più favorevole per il prestatore, è solo esso che trova applicazione, anche per quanto attiene l’orario di lavoro. 4. Il contratto individuale può derogare alle disposizioni del contratto collettivo? Riferimenti normativi: artt. 2077, co. 2, 2113 c.c. Nozione: contratto collettivo e contratto individuale sono sullo stesso gradino nella scala gerarchica delle fonti del diritto del lavoro. Disciplina: il contratto collettivo è inderogabile in peius e derogabile in melius. Domande consequenziali: effetti dell’inderogabilità in peius; fondamento giuridico della inderogabilità del contratto collettivo. Articolazione della risposta Sì, se si tratta di deroghe in melius. Contratto collettivo e contratto individuale di lavoro, essendo entrambi espressione dell’autonomia privata, si collocano sullo stesso piano all’interno della gerarchia delle fonti. Tuttavia, per la funzione di tutela svolta dalla contrattazione collettiva, è prevista l’inderogabilità da parte del contratto individuale delle disposizioni del contratto collettivo, salvo che le disposizioni del contratto individuale siano più favorevoli, il contratto individuale può derogare quello collettivo in melius ma non in peius. 4 bis.Se le parti inseriscono nel contratto individuale una clausola peggiorativa rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo qual è la conseguenza? Le clausole del contratto individuale difformi in senso peggiorativo rispetto a quelle del contratto collettivo sono nulle. Tale nullità, però, non travolge l’intero contratto individuale, ma comporta solo l’inserzione automatica delle corrispondenti clausole generali previste dal contratto collettivo in luogo delle clausole contenute nel contratto individuale risultanti al di sotto dello standard del contratto collettivo. Per tale motivo si parla di efficacia reale dell’inderogabilità del contratto collettivo. Il contratto collettivo di lavoro 35 4 ter.Esiste una norma del codice civile che stabilisce l’inderogabilità del contratto collettivo? Sì, ed è quella contenuta nell’art. 2077, co. 2, c.c. Tuttavia, tale norma è riferita ai contratti collettivi corporativi e, per tale motivo, deve ritenersi non applicabile in via analogica agli odierni contratti collettivi. È importante dire, però, che la giurisprudenza è di diverso avviso e sostiene la validità, ancora oggi, dell’art. 2077, co. 2, c.c. poiché al pari delle altre norme corporative non sarebbe stato abrogato esplicitamente. In mancanza di una norma espressa da cui derivi l’inderogabilità del contratto collettivo di diritto comune, un riferimento è stato rinvenuto nell’art. 2113 c.c. Il testo di tale norma, infatti, sembra implicitamente volere confermare l’inderogabilità del contratto collettivo, affermando che «le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro, derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi non sono valide». 5. Qual è l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune? Riferimenti normativi: artt. 1372, co. 2, 1388 c.c. Nozione: i contratti collettivi essendo assoggettati alla disciplina comune dei contratti vincolano i soli soggetti stipulanti. Elementi da evidenziare: teoria del mandato con rappresentanza. Domande consequenziali: estensione del contratto collettivo ai non iscritti; estensione erga omnes negli interventi della giurisprudenza. Articolazione della risposta Il contratto collettivo vincola le associazioni stipulanti e i loro iscritti, datori di lavoro e lavoratori. Il meccanismo che spiega tale vincolatività riflessa è il potere di rappresentanza conferito dagli associati all’associazione all’atto della adesione, per cui al momento della stipula l’associazione agisce non più in quanto tale, ma in sostituzione dell’individuo che rappresenta e che è il titolare dell’autonomia collettiva (mandato con rappresentanza). 36 Parte Terza L’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune, data la natura privatistica di tali contratti, è quindi regolata dalle norme civilistiche in materia contrattuale (art. 1372, co. 2, c.c.) secondo le quali gli effetti dei contratti collettivi sono limitati ai soli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti. 5 bis. Come si estende il contratto collettivo anche ai non iscritti? Il contratto collettivo può trovare comunque applicazione anche se una, o ambedue le parti, non sono iscritte alle associazioni stipulanti. È possibile, infatti, che le disposizioni della contrattazione collettiva siano richiamate nel contratto individuale e quindi di fatto applicate anche a soggetti privi del requisito dell’iscrizione. In particolare, il contratto individuale può fare riferimento: —ad uno specifico contratto collettivo e in tal caso è solo il contenuto di tale contratto che viene fatto proprio dal contratto individuale, ma non anche le sue successive modificazioni (rinvio materiale); —genericamente alla contrattazione collettiva vigente o da stipularsi, per cui in questo caso sarà recepito non solo il contenuto del contratto vigente al momento della stipula, ma anche tutte le sue modifiche introdotte nei contratti successivamente stipulati (rinvio formale). All’estensione del contratto collettivo anche ai non iscritti si perviene anche quando il datore di lavoro, pur senza esservi tenuto, aderisce spontaneamente al contenuto del contratto collettivo applicandone numerose e significative clausole. In tal caso, perché sussista un obbligo del datore di lavoro ad applicare il contratto collettivo è necessario che il suo comportamento concludente si sostanzi in un’applicazione costante della disciplina collettiva. 5 ter. Qual è stato il ruolo della giurisprudenza nella soluzione del problema dell’estensione del contratto collettivo ai non iscritti? L’estensione del contratto collettivo di diritto comune anche al di fuori dei limiti della sua efficacia è stata operata dalla giurisprudenza, a partire dalla metà degli anni ’50, in applicazione del principio sancito dall’art. 36 della Costituzione (sufficienza della retribuzione). Il contratto collettivo di lavoro 37 Partendo, infatti, dal presupposto che il principio individuato dal primo comma dell’art. 36 Cost. abbia senz’altro carattere precettivo, il giudice di merito, ai fini della determinazione dell’equa retribuzione, ai sensi degli artt. 2099 c.c. e 36 Cost., tiene conto come indice sintomatico, tra gli altri, anche delle clausole salariali contenute nei contratti collettivi di categoria. La giurisprudenza ha quindi utilizzato e utilizza i parametri retributivi contenuti nei contratti collettivi anche quando il lavoratore non è iscritto all’associazione stipulante, al fine di stabilire la retribuzione spettante ai sensi dell’art. 36 Cost. In tal modo, la giurisprudenza ha realizzato una forma parziale ed indiretta di estensione erga omnes degli effetti del contratto collettivo, risolvendosi così il problema del riconoscimento dell’efficacia generale ai contratti collettivi stessi, almeno limitatamente alla loro parte economica. 6. Quali sono i principali livelli della contrattazione collettiva? Riferimenti normativi: Accordo interconfederale del 23-7-1993 e Accordoquadro del 22-1-2009. Tipologie: indicare le diverse tipologie di contratti collettivi secondo la struttura delineata dall’Accordo interconfederale del 23-7-1993 e dal successivo Accordo quadro del 22-1-2009. Domande consequenziali: contrasto tra contratti collettivi di diverso livello; efficacia del contratto collettivo successivo che dispone in senso peggiorativo. Articolazione della risposta I livelli principali della contrattazione collettiva, individuati dagli Accordi interconfederali del 23-7-1993 e del 22-12-1998, sono: —il livello interconfederale, produttivo degli accordi interconfederali o dei protocolli d’intesa sulle relazioni industriali, ambedue aventi come destinatari la generalità dei lavoratori e non uno specifico settore produttivo; —il livello nazionale di categoria, che rappresenta i lavoratori di un determinato settore produttivo per tutto il territorio nazionale. Esso produce i contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL); —il livello aziendale, che produce un accordo valido per i lavoratori di una determinata impresa. I contenuti riguardano la condizione di lavoro aziendale e, di regola, sono migliorativi rispetto al CCNL. 38 Parte Terza Anche in base al nuovo assetto contrattuale, definito dall’Accordo-quadro del 22-1-2009, la struttura della contrattazione rimane articolata su due livelli. In particolare: —il contratto collettivo nazionale ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale; —il contratto collettivo di secondo livello è stipulato per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto nazionale o dalla legge e deve riguardare materie ed istituti che non siano già stati negoziati in altri livelli di contrattazione. 6 bis.In caso di contrasto tra contratti collettivi di diverso livello quale prevale? Nel caso in cui contratti di diverso livello regolamentino in maniera differente una stessa fattispecie si pone il problema dell’ammissibilità delle deroghe da parte della contrattazione di carattere territorialmente più circoscritto (provinciale o aziendale) rispetto al contratto collettivo nazionale. Secondo la giurisprudenza, il contratto aziendale può derogare, anche in senso peggiorativo, quello nazionale ed in genere quello di livello superiore, non essendo applicabile il principio previsto dall’art. 2077 c.c. che è riferito ai soli rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale di lavoro (senza considerare che l’articolo concerne i contratti corporativi, piuttosto che quelli di diritto comune). In concreto, comunque, molto raramente si verificano ipotesi di incompatibilità tra contratti di diverso livello, in quanto i vari livelli della contrattazione collettiva hanno oggetti differenti, infatti l’Accordo-quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22-1-2009, e prima il Protocollo del 1993, fissano una precisa ripartizione di competenze tra contratto collettivo nazionale e contrattazione di secondo livello che consente di evitare possibili conflitti. È stabilito, infatti, che la contrattazione di secondo livello deve riguardare materie ed istituti che non siano già stati negoziati in altri livelli di contrattazione, secondo il principio del ne bis in idem. Eventuali contrasti tra contratti collettivi di diverso livello, sono comunque rimessi dall’Accordo-quadro del 22-1-2009, all’autonomia collettiva mediante strumenti di conciliazione ed arbitrato. Comunque, secondo la giurisprudenza, in caso di contrasto fra contratti collettivi di diverso ambito territoriale (nazionale, regionale, provinciale, aziendale), (Cass. 26-5-2008, n. 13544), occorre fare riferimento al principio di autonomia e di competenza «alla stregua del collegamento funzionale Il contratto collettivo di lavoro 39 che le associazioni sindacali pongono fra i vari gradi o livelli della struttura organizzativa e della corrispondente attività». Non possono essere utilizzati, invece: — il criterio gerarchico che comporterebbe sempre la prevalenza della disciplina di livello superiore; — il criterio temporale che comporterebbe sempre la prevalenza del contratto più recente e che è invece rilevante solo nell’ipotesi di successione di contratti del medesimo livello. 6 ter.Il contratto collettivo posteriore nel tempo può derogare in senso peggiorativo la disciplina prevista da quello precedente? Sì, lo può modificare in senso più sfavorevole al lavoratore. Unico limite è quello dei cd. diritti quesiti, ossia dei diritti che sono entrati a far parte del patrimonio del lavoratore in base alla disciplina di maggior favore del contratto collettivo precedente. Tuttavia, occorre rilevare che è ammissibile la prevalenza delle clausole peggiorative successive solo per gli istituti che trovano la loro fonte nella regolamentazione della contrattazione collettiva precedente. Di conseguenza, prevale la disciplina precedente ove ne siano fonte disposizioni inderogabili di legge o il contratto individuale (GIUGNI). 7. A chi compete l’interpretazione del contratto collettivo di diritto comune? Riferimento normativo: art. 360 c.p.c. (come modificato dal D.Lgs. 40/2006). Nozione: l’interpretazione dei contratti collettivi, prima di competenza esclusiva del giudice di merito, con il D.Lgs. 40/2006 è diventata oggetto di cognizione anche della Corte di Cassazione. Domande consequenziali: regole interpretative; ammissibilità di una interpretazione analogica. Articolazione della risposta Prima dell’intervento del D.Lgs. 40/2006, l’attività interpretativa era di competenza esclusiva del giudice di merito ed era sindacabile dalla Corte di Cassazione solo per vizi di motivazione o violazione o falsa applicazione delle disposizioni civilistiche in materia di interpretazione dei contratti. Non era possibile, quindi, ricorrere in Cassazione per far valere direttamente la violazione delle disposizioni contenute nel contratto collettivo di diritto comune. 40 Parte Terza La Suprema Corte, infatti, non poteva provvedere alla corretta interpretazione del contratto collettivo, ma solo giudicare il procedimento logico seguito dal giudice di merito nell’interpretazione. Con il D.Lgs. 40/2006 è stato modificato l’art. 360 c.p.c., per cui ora è possibile ricorrere in Cassazione per violazione o falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro nazionali. Per effetto di tale innovazione legislativa, la Corte di Cassazione può avere una conoscenza diretta del contenuto del contratto collettivo in modo da fornire un giudizio di legittimità sulla corretta interpretazione del contratto. 7 bis. Quali regole devono seguire i giudici nell’interpretazione dei contratti collettivi? Dalla natura privatistica del contratto collettivo si desume che esso debba essere interpretato secondo le norme vigenti in tema di interpretazione dei contratti di cui agli artt. 1362 e ss. del codice civile. L’interprete dovrà, quindi, ricercare la comune volontà delle parti contraenti basandosi sulle intenzioni che emergono dal dettato letterale considerato unitariamente. Nei casi di dubbia interpretazione si dovrà tener conto anche del comportamento complessivo tenuto dai contraenti sia prima che dopo la stipulazione del contratto collettivo. 7 ter. È ammessa l’interpretazione analogica del contratto collettivo? No, non è ammessa neanche per colmare eventuali lacune del contratto collettivo o del contratto individuale. Parte Quarta Il contratto individuale di lavoro 1. Qual è la fonte del rapporto di lavoro? Nozione: la fonte del rapporto di lavoro subordinato è il contratto individuale di lavoro. Disciplina: il rapporto di lavoro sorge in base ad un accordo tra datore e lavoratore al fine di operare uno scambio tra remunerazione e lavoro. Elementi da evidenziare: illustrare le differenze tra la generalità dei contratti di diritto privato e il contratto di lavoro. Articolazione della risposta La fonte del rapporto di lavoro subordinato è il contratto individuale di lavoro. La costituzione del rapporto di lavoro avviene, infatti, sulla base di un accordo e si sostanzia nell’incontro di volontà tra il datore ed il prestatore di lavoro. Il contratto, dunque, è necessario perché abbia origine il rapporto di lavoro subordinato e trovi applicazione la relativa disciplina tipica: occorre, precisamente, che le parti si accordino per operare uno scambio tra remunerazione e lavoro. Il contratto di lavoro ha, infatti, natura giuridica di contratto di scambio tra remunerazione e lavoro. Inoltre, rispetto alla generalità dei contratti di diritto privato, il contratto di lavoro presenta rilevanti differenze: in primis, le parti hanno una autonomia negoziale ridotta; secondariamente, le regole che si applicano alla genericità dei negozi giuridici sono spesso sostituite da regole peculiari che hanno lo scopo di tenere conto del diverso assetto esistente tra le parti del contratto di lavoro; infine, il rapporto nascente dal contratto di lavoro subordinato è solo in minima parte regolato dalle parti stesse in quanto i suoi effetti sono stabiliti dall’esterno mediante una legislazione protettiva e garantista per lo più inderogabile. 42 Parte Quarta 1 bis. Quali sono le caratteristiche del contratto di lavoro subordinato? Il contratto di lavoro è: —oneroso, essendo necessaria l’esistenza di una retribuzione che è la naturale controprestazione dell’attività lavorativa (art. 36 Cost.); —sinallagmatico, trattandosi di un contratto a prestazioni corrispettive che sono, appunto, da un lato la prestazione lavorativa e dall’altro la retribuzione; —commutativo, nel senso che la legge e i contratti collettivi stabiliscono esattamente l’entità delle prestazioni e controprestazioni; —eterodeterminato, giacchè il contenuto del contratto di lavoro, ovvero la disciplina del rapporto da esso nascente, è in gran parte predeterminata dovendosi recepire le disposizioni di legge e del contratto collettivo, con un limitato margine per l’autonomia negoziale individuale. 2. Cos’è la capacità giuridica speciale e perché è definita così? Riferimento normativo: art. 1, co. 622, L. 296/2006. Nozione: si tratta dell’attitudine a prestare il proprio lavoro ed è così definita in quanto per il prestatore di lavoro non vale la regola generale in materia di capacità giuridica fissata dall’art. 1 c.c., ma si applicano regole speciali. Disciplina: la capacità giuridica speciale è fissata a 16 anni e coincide con: — età minima per l’accesso al lavoro; — assolvimento dell’obbligo di istruzione e formazione. Domande consequenziali: conseguenze del difetto di capacità giuridica speciale. Articolazione della risposta La capacità giuridica speciale è l’attitudine a prestare il proprio lavoro (GHERA). È definita così perché per il prestatore di lavoro la capacità giuridica di essere parte del contratto di lavoro non si acquista al momento della nascita, bensì quando si compie l’età anagrafica stabilita dalla legge per l’accesso al lavoro. Dunque, per il prestatore di lavoro non valgono le comuni regole in materia di capacità giuridica (art. 1 c.c.) ma regole speciali: la capacità giuridica coincide, per quanto riguarda il lavoro, con l’età minima per l’acces- Il contratto individuale di lavoro 43 so al lavoro, nonché con l’assolvimento dell’obbligo di istruzione e formazione. Tale età è stata fissata a 16 anni dalla L. 296/2006 che ha stabilito la durata decennale dell’istruzione obbligatoria. 2 bis. Cosa prevede la legge se il lavoratore, parte di un contratto di lavoro, è privo dell’età minima necessaria o del requisito di istruzione? In tale ipotesi, venendo a mancare un presupposto essenziale, si verifica una causa di nullità del contratto di lavoro. Tuttavia, non si producono le conseguenze ordinarie della nullità contrattuale: la nullità non travolge tutti gli effetti prodotti dal contratto invalido (per il passato e per il futuro), ma nel caso del contratto di lavoro, la legge salvaguarda i diritti nascenti in capo al lavoratore per il fatto di avere eseguito la prestazione, anche se in esecuzione di un contratto nullo. In pratica, il contratto concluso con il lavoratore privo dell’età necessaria per l’accesso al lavoro o del requisito di istruzione resta invalido e non viene sanato, ma il lavoratore ha comunque diritto alla retribuzione e ad ogni altra spettanza per il lavoro prestato (art. 2126, co. 2, c.c.). 3. Quando il minore acquista la capacità di agire per stipulare un contratto di lavoro? Riferimento normativo: art. 2, co. 2, c.c. Nozione: nel diritto del lavoro la capacità di agire indica la capacità di stipulare il contratto di lavoro e di esercitare i diritti e le azioni che ne discendono. Disciplina: vi è coincidenza nell’acquisto tra capacità giuridica e capacità di agire. Elementi da evidenziare: la capacità di agire del lavoratore è anticipata rispetto alla regola generale ex art. 2, co. 2, c.c. Articolazione della risposta In base all’art. 2, co. 2, c.c., una volta che si ha l’età minima fissata dalla legge per l’accesso al lavoro, e cioè 16 anni di età e l’assolvimento dell’obbligo scolastico, è anche possibile stipulare direttamente il contratto di lavoro ed esercitare i diritti e le azioni che da esso derivano. 44 Parte Quarta Si ritiene quindi che nel diritto del lavoro vi sia coincidenza tra capacità giuridica e capacità di agire, essendo quest’ultima anticipata rispetto alla regola generale (18 anni di età): l’acquisto della capacità giuridica speciale comporta anche la capacità di agire, così che il giovane, minore di 18 anni ma maggiore di 16 anni, è abilitato a stipulare il contratto di lavoro e non necessita di rappresentanza o assistenza per «l’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro» (GHERA, DE LUCA TAMAJO). Per quanto riguarda, invece, il datore di lavoro non sussiste alcuna deroga ai principi civilistici: egli acquista la capacità di stipulare il contratto di lavoro al compimento del diciottesimo anno di età. 4. Come è disciplinata l’ipotesi in cui le parti simulano di dare vita ad un certo rapporto di lavoro ma in realtà intendono costituire e danno esecuzione ad un rapporto di tipo diverso? Riferimenti normativi: artt. 1414, co. 2; 1344 c.c. Nozione: chiarire che si tratta di un’ipotesi di simulazione relativa in cui le parti simulano un rapporto di lavoro diverso da quello voluto. Disciplina: prevale il contratto effettivo su quello apparente, ma se la simulazione ha una finalità fraudolenta il contratto effettivo è nullo. Domande consequenziali: simulazione assoluta. Articolazione della risposta Quando le parti fingono l’esistenza di un contratto diverso da quello voluto e realmente svolto (simulazione relativa), si applica la regola della prevalenza del contratto effettivo dissimulato su quello apparente simulato, come previsto dall’art. 1414, co. 2, c.c. In tal caso, dunque, trova applicazione la disciplina del tipo di rapporto che le parti hanno effettivamente realizzato. Il meccanismo di sostituzione del contratto effettivo al contratto simulato non interviene quando la simulazione persegua però una finalità fraudolenta. Pertanto, troverà applicazione la regola della nullità del contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c.) tutte le volte che un intento fraudolento sia rinvenibile all’origine del contratto dissimulato. Ciò, ad esempio, si verifica nelle ipotesi in cui un contratto di lavoro autonomo venga conclu- Il contratto individuale di lavoro 45 so allo scopo di eludere, nascondendo un effettivo contratto di lavoro subordinato, la disciplina imperativa imposta per la tutela del lavoratore. 4 bis. Cosa prevede la legge nei casi di simulazione assoluta? La simulazione assoluta si verifica quando viene simulato, ad esempio per ragioni fiscali o previdenziali, un contratto di lavoro subordinato mentre le parti non vogliono alcun rapporto e comunque senza che venga effettuata la prestazione lavorativa. In tale ipotesi il contratto simulato non produce effetto tra le parti, come previsto dall’art. 1414, co. 1, c.c. 5. Quale regola vige in tema di forma del contratto di lavoro? Disciplina: la forma del contratto è generalmente libera ma sussistono dei casi in cui è prevista una forma particolare. Elementi da evidenziare: la forma scritta può essere prevista a pena di nullità o ai fini probatori. Domande consequenziali: funzione della forma scritta del contratto di lavoro. Articolazione della risposta La forma del contratto di lavoro è generalmente libera, non essendo previste per il contratto di lavoro particolari modalità di manifestazione del consenso (principio della libertà della forma). Tuttavia, in particolari ipotesi (cd. casi di forma vincolata) la legge espressamente prevede una forma particolare. La forma scritta del contratto di lavoro o di alcune clausole dello stesso può essere richiesta: —a pena di nullità ed in tal caso la mancanza determina la nullità del contratto, con la conseguenza che il rapporto di lavoro è pregiudicato, ma il lavoratore ha diritto alla retribuzione per l’attività effettivamente prestata (art. 2126 c.c.); —ai fini probatori dell’esistenza del contratto o di alcune clausole negoziali. In tal caso la mancanza dell’atto scritto non pregiudica l’esistenza del rapporto in quanto l’onere della forma ha una ricaduta soltanto sul piano probatorio in caso di contestazione sull’elemento che doveva essere provato per iscritto. 46 Parte Quarta È richiesta per legge la forma scritta per particolari contratti di lavoro o per alcune clausole modificatrici del contenuto contrattuale, come ad esempio: — — — — — — — il contratto di lavoro a tempo parziale, ma solo ai fini probatori; il contratto di lavoro subordinato sportivo; il contratto di apprendistato; il contratto di lavoro con un’agenzia di somministrazione; il contratto di inserimento, a pena di nullità; la determinazione del periodo di prova, a pena di nullità; la fissazione di un termine finale del rapporto, a pena di nullità. 5 bis. Perché la legge in alcuni casi prevede la forma scritta del contratto di lavoro? La legge prescrive l’atto scritto tutte le volte in cui gli elementi del contratto costituiscono clausole negoziali sfavorevoli al lavoratore. In tal modo il lavoratore può acquisire certezza circa il contenuto e le peculiarità del rapporto di lavoro all’atto stesso della sua costituzione. 6. Qual è la tutela prevista per il lavoratore nel caso di una prestazione di fatto? Riferimento normativo: art. 2126 c.c. Disciplina: l’invalidità del contratto di lavoro subordinato non pregiudica i diritti e le azioni del lavoratore da esso derivanti. Domande consequenziali: casi in cui è esclusa la tutela dell’art. 2126 c.c. Articolazione della risposta L’invalidità del contratto di lavoro subordinato è disciplinata dall’art. 2126 c.c., per il quale la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non producono effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione. Nel caso quindi di un contratto di lavoro invalido (nullo o annullabile) che abbia comunque avuto esecuzione, il legislatore fa salvi gli effetti prodotti dallo stesso, e in particolare, il trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per l’attività lavorativa effettivamente prestata. Tale norma garantisce perciò il diritto del lavoratore alla retribuzione e ad ogni altra prestazione riconosciuta dalla legge, quale ad esempio il TFR, oppure la contribuzione previdenziale e assicurativa. Il contratto individuale di lavoro 47 È importante notare come, in relazione al contratto di lavoro subordinato, le regole generali sugli effetti dell’invalidità contrattuale ricevono un adattamento al fine di evitare che il prestatore di lavoro subisca le conseguenze sfavorevoli della dichiarazione di nullità o dell’annullamento del contratto stesso. 6 bis.Il lavoratore è tutelato in ogni caso di invalidità del contratto? No. La tutela dell’art. 2126 c.c. non opera nel caso in cui l’invalidità del contratto deriva dall’illiceità dell’oggetto o della causa del contratto. In tal caso il prestatore potrà invocare solo la disciplina di diritto comune sull’ingiustificato arricchimento (art. 2041 c.c.). Se, però, l’illiceità dell’oggetto o della causa deriva dalla violazione di norme che tutelano il lavoratore, questi avrà diritto ugualmente alla retribuzione concordata, come prevede l’art. 2126, co. 2, c.c.: ad esempio, il contratto col minore che, in violazione della legge, svolga un’attività pregiudizievole per la sua sicurezza o la sua salute. 7. A seguito della L. 183/2010 a cosa serve la procedura di certificazione del contratto di lavoro? Riferimenti normativi: artt. 75-84 del D.Lgs. 276/2003 (come modif. dalla L. 183/2010). Nozione: la certificazione è una procedura che si conclude con l’adozione di un atto di natura amministrativa ed ha la funzione di conferire certezza, a seguito della L. 183/2010, ai contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente una prestazione di lavoro. Disciplina: si tratta di una procedura volontaria svolta dinnanzi ad apposite commissioni di certificazione. A seguito della L. 183/2010 deve però essere certificata a pena di nullità la clausola compromissoria. Elementi da evidenziare: il mancato ricorso alla certificazione non incide sulla validità del contratto di lavoro. Domande consequenziali: effetti della certificazione. Articolazione della risposta La certificazione è un procedimento, introdotto e disciplinato dal D.Lgs. 276/2003, al fine di limitare il numero delle controversie sull’esatta quali- 48 Parte Quarta ficazione giuridica dei contratti di lavoro e che a seguito della L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro riguarda invece in maniera più estesa tutti i contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro (art. 75 D.Lgs. 276/2003, come modif. dalla L. 183/2010). In sostanza, il datore di lavoro e il prestatore spontaneamente e congiuntamente si rivolgono ad apposite commissioni di certificazione, che dovranno attestare la natura e gli effetti del contratto che si vuole sottoscrivere. Trattandosi di una procedura volontaria, il mancato ricorso alla certificazione non incide sulla validità del contratto di lavoro. Oggetto della certificazione possono essere anche le rinunce e transazioni di cui all’art. 2113 c.c., al fine di controllare l’effettività della volontà abdicativa o transattiva. A seguito della L. 183/2010, inoltre, la certificazione diviene condizione di validità della clausola compromissoria con cui le parti contrattuali decidono di devolvere eventuali controversie alla decisione di arbitri. 7 bis. Quali effetti produce la certificazione? La certificazione stabilisce gli effetti giuridici che discendono dal contratto certificato e conferisce certezza ai diritti e doveri cui sono tenute le parti in relazione al contenuto e alle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro della tipologia contrattuale certificata. La L. 183/2010, cd. collegato lavoro, ha precisato che gli effetti della certificazione: —in caso di contratto in corso di esecuzione, retroagiscono fino al momento di inizio del contratto, ove la commissione abbia appurato la corrispondenza tra l’effettivo rapporto di lavoro e il contratto certificato; —in caso di contratti non ancora sottoscritti dalle parti, si producono soltanto ove e nel momento in cui queste ultime provvedano a sottoscriverli, con le eventuali integrazioni e modifiche suggerite dalla commissione adita (art. 79, co. 2, D.Lgs. 276/2003, introdotto dall’art. 31, co. 17, del collegato). Il D.Lgs. 276/2003 (art. 79) stabilisce espressamente che gli effetti della certificazione permangono, anche verso i terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili, fatti salvi i provvedimenti cautelari. Il contratto individuale di lavoro 49 La L. 183/2010, inoltre (art. 30, co. 2) prevede che nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole, il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione, salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. 8. Che cos’è il patto di prova? Riferimento normativo: art. 2096 c.c. Nozione: consiste in un patto di libera recedibilità senza preavviso da un normale ed unitario rapporto di lavoro subordinato. Disciplina: entrambe le parti del rapporto possono, al termine e durante il periodo di prova, recedere dal contratto di lavoro senza obbligo di preavviso e senza motivazione; evidenziare che compiuto il periodo di prova se nessuna delle parti recede il rapporto diventa definitivo. Elementi da evidenziare: in mancanza di forma scritta della clausola di prova, l’assunzione deve ritenersi definitiva. Domande consequenziali: esercizio del recesso da parte del datore di lavoro; patto di prova nel contratto a termine. Articolazione della risposta Il patto di prova, previsto dall’art. 2096 c.c., consiste in una clausola apposta al contratto di lavoro, con cui le parti subordinano l’assunzione definitiva all’esito positivo di un periodo di prova. La sua funzione è quella di verificare, nel reciproco interesse, l’utilità della prosecuzione del lavoro (cd. prova bilaterale). Il datore verifica la capacità professionale del lavoratore e la sua complessiva personalità in relazione alle mansioni affidate ed al contesto aziendale; il lavoratore, invece, può valutare la sua convenienza all’occupazione del posto di lavoro. In concreto, tuttavia, la clausola di prova è quasi sempre imposta unilateralmente dal datore di lavoro, per il quale essa offre un’effettiva utilità: in un mercato del lavoro caratterizzato da livelli elevati di disoccupazione, è difficile ipotizzare un interesse del lavoratore a una verifica di gradimento della posizione lavorativa. In ordine alla forma, il patto di prova deve risultare da atto scritto, sottoscritto anche dal lavoratore, con indicazione della durata. È opinione con- 50 Parte Quarta solidata in giurisprudenza che la forma scritta sia richiesta ad substantiam con la conseguenza che se essa manca, l’assunzione si ritiene definitiva. Il periodo di prova ha una durata massima non prorogabile, di regola stabilita nei contratti collettivi, normalmente in misura non superiore ai 6 mesi. In ogni caso di recesso al termine o durante il periodo di prova, spettano al lavoratore il trattamento di fine rapporto e le ferie retribuite o la relativa indennità sostitutiva (come stabilito dalla Corte cost. nella sent. 189 del 1980). Se, invece, compiuto il periodo di prova, nessuna delle due parti receda, il rapporto diventa definitivo e il servizio prestato si calcola nell’anzianità del prestatore di lavoro. 8 bis.Il lavoratore assunto con patto di prova può agire in giudizio se alla scadenza di detto periodo il datore di lavoro decide di recedere dal contratto? No. Il lavoratore potrà agire in giudizio soltanto allorché risulti che il recesso è stato determinato non dall’esito negativo del periodo di prova ma dalla sussistenza di un motivo discriminatorio e perciò illecito. Fatta eccezione per questo unico limite, al termine e durante il periodo di prova il datore può recedere dal contratto senza obbligo di preavviso e senza giusta causa o giustificato motivo, in ogni momento, salvo che non sia stabilita una durata minima del periodo di prova (art. 2096 c.c.). Si tratta di una libera facoltà di recesso riconosciuta alla discrezionale valutazione del datore o anche del lavoratore. 8 ter.Il patto di prova può essere inserito anche in un contratto a termine? Sì, secondo la prevalente giurisprudenza, la clausola del patto di prova può accedere anche al contratto a termine, non sussistendo alcun motivo per ritenere immeritevole di tutela l’interesse a sottoporre tale rapporto ad un esperimento iniziale. Parte Quinta La mediazione pubblica e privata, le modalità di assunzione del lavoratore e gli interventi sul mercato del lavoro 1. Come era disciplinato originariamente il collocamento della manodopera? Riferimenti normativi: L. 264/1949; L. 1369/1969. Disciplina: il sistema del collocamento era di esclusiva competenza dello Stato per cui sussisteva: — il divieto di mediazione privata; — il divieto di interposizione nei rapporti di lavoro. Elementi da evidenziare: illustrare il meccanismo per poter procedere alle assunzioni caratterizzato da: — richiesta numerica e poi nominativa all’ufficio competente; — rilascio del nulla-osta. Domande consequenziali: le principali innovazioni della regolamentazione attuale. Articolazione della risposta La disciplina originaria del collocamento della manodopera risale alla L. 264/1949, emanata con l’intento di eliminare la mediazione privata nel campo del lavoro e affidare allo Stato la distribuzione delle opportunità di lavoro. Nella legge 264/1949 il sistema del collocamento era quindi basato sulla esclusiva competenza dello Stato, sia per la regolamentazione dello stesso, sia per la sua concreta gestione, attuandosi pertanto un vero e proprio monopolio statale. Da ciò derivava: —il divieto di mediazione privata, posto dalla stessa L. 264/1949; —il divieto di interposizione nei rapporti di lavoro, posto dall’art. 2127 c.c. e dalla L. 1369/1969. Nel sistema originario del collocamento, il datore di lavoro aveva l’obbligo di procedere all’assunzione di lavoratori facendone richiesta all’ufficio del lavoro competente territorialmente. 52 Parte Quinta Inizialmente tale richiesta era numerica: il datore poteva indicare solo il numero dei prestatori di cui avesse bisogno per ogni qualifica sì che l’ufficio selezionava i lavoratori idonei e li avviava al lavoro. Questo sistema è rimasto sostanzialmente inalterato fino alla introduzione nel 1990 della chiamata nominativa. Con questo ultimo meccanismo si consentiva ai datori di lavoro di assumere i lavoratori già individuati facendone richiesta nominativamente ai competenti organi del collocamento. Gli uffici di collocamento avevano l’obbligo di provvedere all’avviamento dei lavoratori mediante un atto avente natura di provvedimento di autorizzazione, detto anche nulla-osta, permettendo l’esercizio del potere contrattuale dei privati, previo accertamento dell’esistenza dei requisiti per il valido esercizio del potere stesso. Potevano essere assunti direttamente dal datore di lavoro senza il nulla-osta degli uffici di collocamento soltanto alcune categorie di lavoratori, tra le quali, ad esempio, il coniuge, i parenti e gli affini, entro il 3° grado, del datore stesso, i dirigenti e i lavoratori destinati ad imprese con non più di 3 dipendenti. Il collocamento italiano, tuttavia, si è rivelato, negli anni, oneroso per le aziende, a causa delle lungaggini burocratiche, inutile per le persone in cerca di lavoro, in quanto incapace di intermediare realmente tra domanda e offerta di lavoro, nonché costoso ed obsoleto in quanto funzionava con modalità lontane dagli standard europei. 1 bis. Quali sono le principali innovazioni rispetto alla precedente regolamentazione nel collocamento pubblico? Attraverso una lunga evoluzione legislativa, il regime rigorosamente pubblico del collocamento è stato soppresso e la relativa disciplina è stata completamente innovata. I passaggi fondamentali della riforma sono stati tre: —l’introduzione del meccanismo dell’assunzione diretta del lavoratore da parte del datore di lavoro, con la L. 608/1996; —la legittimazione della mediazione privata, con il D.Lgs. 469/1997; —l’espressa abrogazione della L. 264/1949 e l’introduzione di nuovi principi di regolazione dell’organizzazione del mercato del lavoro, ad opera del D.Lgs. 276/2003. Mediazione pubblica e privata, assunzione del lavoratore e interventi pubblici 53 Il D.Lgs. 276/2003 rappresenta il punto di arrivo di tale evoluzione. Questo provvedimento, con l’obiettivo di garantire trasparenza al mercato del lavoro e di migliorare le capacità di inserimento professionale di chi cerca lavoro, adotta il modello organizzativo e gestionale della cooperazione e competizione tra strutture pubbliche, organismi convenzionati e agenzie private di collocamento. Alla base di tale intervento del legislatore c’è una nuova filosofia, secondo cui l’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro non è più considerata una funzione pubblica, ma viene concepita in termini di servizio ai lavoratori e alle imprese, che può essere reso tanto dagli operatori pubblici che da quelli privati. 2. A quale competenza legislativa, regionale o statale, appartiene l’organizzazione e la gestione del collocamento? Riferimenti normativi: art. 117 Cost.; D.Lgs. 469/1997 e D.Lgs. 276/2003. Disciplina: l’organizzazione e la gestione del collocamento sono oggetto della competenza legislativa ripartita tra Stato e Regioni. Domande consequenziali: funzioni dello Stato in materia di mercato del lavoro; ruolo delle Province. Articolazione della risposta In base all’art. 117 Cost., l’organizzazione e la gestione del collocamento sono oggetto della potestà legislativa regionale concorrente con quella statale. Alle Regioni compete pertanto di disciplinare autonomamente, con legge regionale, i servizi relativi all’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Nella determinazione della disciplina regionale, le Regioni devono osservare tuttavia determinati limiti, tra cui: i vincoli derivanti dalla Costituzione e dall’ordinamento internazionale in primis; e il limite rappresentato dalla dimensione nazionale del mercato del lavoro, di cui lo Stato è garante. Allo Stato spetta, invece, la definizione legislativa dei principi e dei criteri fondamentali entro cui, una volta stabiliti, può manifestarsi la potestà legislativa regionale, nonchè la determinazione dello standard essenziale dei servizi e degli interventi che deve essere assicurato in tutte le Regioni a garanzia dell’unità giuridica ed economica nazionale (art. 119 Cost.). 54 Parte Quinta 2 bis. Quali sono, secondo la Costituzione, le principali funzioni dello Stato in materia di mercato del lavoro? Dopo la riforma dell’art. 117 Cost., lo Stato ha perso il ruolo centrale che a lungo ha svolto in materia di collocamento, ma occupa comunque una posizione di rilievo: lo Stato deve, infatti, garantire su tutto il territorio nazionale i medesimi diritti essenziali e ha il compito di definire i principi fondamentali ed i criteri ai quali devono rifarsi le Regioni nell’organizzazione del collocamento e nelle politiche attive del lavoro. Oltre a ciò, alla competenza diretta dello Stato sono rimesse: —le funzioni di indirizzo, promozione e coordinamento delle politiche dell’impiego, in attuazione delle relative disposizioni dell’Unione Europea; —la vigilanza sull’osservanza delle norme di legislazione sociale e del lavoro, sull’applicazione dei contratti collettivi e della disciplina previdenziale; —la gestione del collocamento dei lavoratori extracomunitari ed i procedimenti di autorizzazione degli italiani per attività lavorativa all’estero. Rientrano inoltre in tale competenza diretta anche: la conciliazione delle controversie di lavoro individuali e plurime; la conduzione del Sistema informativo lavoro (SIL) e della Borsa continua nazionale del lavoro; la gestione dell’Albo delle agenzie private per il lavoro e la relativa potestà autorizzatoria ad operare sul piano nazionale; le procedure da svolgere in caso di eccedenze di personale. 2 ter. Nella suddivisione delle funzioni di governo del mercato del lavoro quali competenze spettano alle Province? Alla Provincia compete l’erogazione dei servizi per l’impiego. Inoltre alla Provincia può essere delegato dalla Regione il compito di svolgere parte delle proprie funzioni, con particolare riguardo agli interventi per promuovere l’occupazione e ad altri interventi di politica del lavoro. Si viene così a determinare un assetto del mercato del lavoro in cui la Regione ha un vero e proprio ruolo di regia, mentre la Provincia assume quello di centro erogatore dei servizi. Ciascuna Regione, con un proprio atto legislativo, deve istituire a livello provinciale, sulla base di bacini di utenza non inferiori a 100.000 abitanti, Mediazione pubblica e privata, assunzione del lavoratore e interventi pubblici 55 i centri per l’impiego che sono preposti alla concreta erogazione dei servizi a lavoratori e imprese. I centri per l’impiego, in particolare, si occupano della tenuta degli elenchi anagrafici e della distribuzione delle schede professionali (che hanno sostituito rispettivamente le vecchie liste di collocamento e il libretto di lavoro) e ricevono le comunicazioni obbligatorie relative all’instaurazione del rapporto di lavoro e alle vicende modificative dello stesso. 3. Quali sono le tipologie di attività, previste e disciplinate dalla legge, che possono essere svolte dai collocatori privati o pubblici? Riferimento normativo: art. 2 D.Lgs. 276/2003. Disciplina: illustrare le attività svolte dai soggetti pubblici e privati che si sostanziano in: — intermediazione; — ricerca e selezione del personale; — supporto alla ricollocazione professionale; — somministrazione di lavoro. Domande consequenziali: oggetto sociale dei collocatori privati; altri soggetti abilitati; divieto di oneri in capo ai lavoratori. Articolazione della risposta Le attività che possono essere svolte dai soggetti privati o pubblici sul mercato del lavoro sono: —l’intermediazione pura, ovvero l’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, anche in relazione all’inserimento lavorativo dei disabili e dei gruppi di lavoratori svantaggiati. È un’attività molto ampia che comprende, tra l’altro, la raccolta dei curricula dei potenziali lavoratori, la preselezione e la costituzione di relativa banca dati, gli adempimenti amministrativi per l’assunzione; —la ricerca e selezione del personale, ossia l’attività di consulenza di direzione finalizzata all’individuazione di candidature idonee a ricoprire una o più posizioni lavorative su specifico incarico di una azienda; —il supporto alla ricollocazione professionale, cioè l’attività finalizzata alla ricollocazione nel mercato del lavoro di singoli prestatori di lavoro o di gruppi di essi (cd. outplacement), che viene effettuata su specifico ed esclusivo incarico dell’organizzazione committente; 56 Parte Quinta —la somministrazione di lavoro, cioè la fornitura professionale di manodopera dal collocatore ad un’impresa per il soddisfacimento di esigenze produttive di quest’ultima. 3 bis.Una stessa agenzia può svolgere contemporaneamente più attività di mediazione? Sì, lo può fare. Con la riforma operata dal D.Lgs. 276/2003, gli operatori privati non hanno più l’obbligo di esclusività dell’oggetto sociale e possono essere autorizzati, con un unico atto, a svolgere più attività contemporaneamente. Ad esempio, una stessa agenzia può esercitare la somministrazione di lavoro e contemporaneamente l’intermediazione, la ricerca e selezione del personale e le attività di supporto alla ricollocazione professionale. 3 ter.A seguito della L. 183/2010, oltre alle agenzie per il lavoro, quali sono gli altri soggetti abilitati ad operare nel campo della mediazione tra domanda e offerta di lavoro? Il D.Lgs. 276/2003 individua ulteriori soggetti che possono effettuare l’attività di intermediazione, a condizione che operino senza finalità di lucro e con l’obbligo della interconnessione alla Borsa lavoro, ed in particolare: —le Università pubbliche e private, e le fondazioni universitarie aventi ad oggetto l’alta formazione, ambedue autorizzate di diritto; —i Comuni, le camere di commercio e gli istituti di scuola secondaria di secondo grado, statali e paritari; —le associazioni dei datori di lavoro e i sindacati dei lavoratori, comparativamente più rappresentativi e firmatarie di contratti collettivi nazionali di lavoro; —l’Ordine nazionale dei consulenti del lavoro mediante la costituzione di una apposita fondazione. A tali soggetti, la L. 4-11-2010, n. 183, cd. collegato lavoro (art. 48, co. 3), aggiunge anche i gestori di siti internet, a condizione che svolgano la predetta attività senza finalità di lucro e trasmettano ogni informazione per il funzionamento del mercato del lavoro alla Borsa continua nazionale del lavoro (art. 6, co. 3bis, D.Lgs. 276/2003). Mediazione pubblica e privata, assunzione del lavoratore e interventi pubblici 57 3 quater.È gratuita l’attività svolta dalle agenzie per il lavoro nei confronti di chi è in cerca di occupazione? Sì, è gratuita. Gli operatori, pubblici e privati, che svolgono servizi per l’impiego non possono esigere o percepire, direttamente o indirettamente, compensi dal lavoratore. In caso di inosservanza di tale divieto, la sanzione penale prevista è quella alternativa dell’arresto non superiore ad un anno o dell’ammenda da 2500 a 6000 euro. 4. Quale funzione svolge la Borsa continua nazionale del lavoro? Riferimenti normativi: artt. 15 e 16 D.Lgs. 276/2003. Nozione: precisare che si tratta di una grande rete telematica in cui affluiscono i dati relativi a lavoratori e imprese e che ha lo scopo di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Articolazione della risposta La Borsa continua nazionale del lavoro, istituita dal D.Lgs. 276/2003, è una grande banca dati nazionale organizzata su una rete telematica, che funge da sistema aperto e trasparente di incontro tra domanda e offerta di lavoro. La Borsa del lavoro ha la funzione di garantire l’effettivo godimento del diritto al lavoro di cui all’art. 4 della Costituzione, attraverso la realizzazione di una maggiore efficienza del mercato del lavoro. Questa enorme rete telematica è strutturata su un livello nazionale, presso il Ministero del Lavoro, e su un livello decentrato che si realizza attraverso i nodi informativi regionali, presso ciascuna Regione. Il funzionamento della Borsa è basato sulla raccolta di dati provenienti sia dagli operatori pubblici e privati, sia direttamente dai lavoratori e dalle imprese. In particolare, la L. 183/2010, cd. collegato lavoro (art. 48) ha previsto che le agenzie per il lavoro e gli operatori privati, ai fini dell’autorizzazione, sono tenute a garantire l’invio di ogni informazione strategica per un efficace funzionamento del mercato del lavoro. Le università pubbliche e private sono, invece, tenute a conferire alla Borsa continua nazionale del lavoro i curricula dei propri studenti, che devo- 58 Parte Quinta no essere resi pubblici anche nei siti internet dell’Ateneo per i 12 mesi successivi alla data di conseguimento del diploma di laurea. Il sistema deve garantire la libera accessibilità da parte dei lavoratori e delle imprese, che avranno facoltà di inserire nuove candidature o richieste di personale direttamente e senza rivolgersi ad alcun intermediario. L’accesso alla Borsa è possibile da un qualunque punto della rete, mediante centri di connessione disponibili presso gli operatori pubblici e privati. 5. Come avviene l’assunzione dei lavoratori? Riferimenti normativi: L. 608/1996; D.Lgs. 181/2000; L. 297/2002. Disciplina: il lavoratore può essere assunto direttamente dal datore di lavoro senza l’intervento degli uffici pubblici a cui l’assunzione deve essere soltanto comunicata. Elementi da evidenziare: l’assunzione diretta è esclusa per: — i lavoratori non appartenenti all’Unione europea; — il lavoro all’estero; — i lavoratori disabili. Domande consequenziali: termine per effettuare la comunicazione di assunzione; pluriefficacia della comunicazione di assunzione; eccezioni all’obbligo di comunicazione anticipata; altre comunicazioni obbligatorie relative a vicende modificative del rapporto di lavoro; termine per effettuare la comunicazione di assunzione nelle P.A. Articolazione della risposta Il datore di lavoro può assumere direttamente il lavoratore. In tale meccanismo i rapporti di lavoro si costituiscono senza l’intervento degli uffici pubblici, mediante contatto diretto tra lavoratore e datore di lavoro. In tale sistema, introdotto dalla L. 608/1996, l’unico adempimento che permane per i datori di lavoro è quello di effettuare una comunicazione ai centri per l’impiego. La procedura di assunzione diretta è stata nuovamente disciplinata, in maniera più organica, con la L. 297/2002. La modalità dell’assunzione diretta si estende a qualsiasi tipologia occupazionale, anche diversa dal rapporto a tempo pieno e indeterminato, quale ad esempio l’apprendistato o il contratto di lavoro a termine. Mediazione pubblica e privata, assunzione del lavoratore e interventi pubblici 59 Uniche esclusioni restano le assunzioni di lavoratori non appartenenti all’Unione Europea, di lavoratori italiani da impiegare o trasferire all’estero e di lavoratori disabili, che ancora fanno capo a forme di collocamento speciali. 5 bis. Qual è il termine per effettuare la comunicazione di assunzione al centro per l’impiego? La comunicazione obbligatoria di assunzione deve essere effettuata entro le ore 24 del giorno antecedente l’instaurazione del rapporto di lavoro, anche se si tratta di giorno festivo. La comunicazione preventiva, inizialmente prevista dal D.L. 223/2006 convertito in L. 248/2006 per il settore dei cantieri edili, è stata poi estesa a tutti i settori produttivi dalla L. 296/2006. La comunicazione deve essere effettuata, eccetto che per i rapporti di lavoro domestico, mediante modalità informatiche e con la modulistica ufficiale. L’obbligo di comunicare l’assunzione in anticipo rispetto all’effettivo inizio del rapporto è stato introdotto allo scopo di contrastare il lavoro nero: accadeva, infatti, frequentemente che i lavoratori in nero coinvolti in infortuni venivano fatti risultare assunti il giorno stesso dell’infortunio, proprio per la mancanza di adempimenti da espletare antecedentemente all’instaurazione del rapporto di lavoro. 5 ter. Che cosa si intende per “comunicazione unica pluriefficace di assunzione”? Si fa riferimento alla semplificazione amministrativa prevista dalla L. 296/2006, secondo cui la comunicazione anticipata di assunzione del lavoratore, inviata dal datore al centro per l’impiego, ha efficacia anche ai fini dell’assolvimento degli obblighi di comunicazione nei confronti delle Direzioni regionali e provinciali del lavoro, dell’INPS, dell’INAIL, nonché dello Sportello Unico per l’immigrazione nei casi di assunzione di lavoratori non appartenenti all’Unione Europea. Sarà poi il centro per l’impiego a dover inoltrare la comunicazione ricevuta al Ministero del Lavoro che, a sua volta, provvederà a trasmetterla agli altri enti. 60 Parte Quinta 5 quater.Sono previste delle eccezioni all’obbligo di comunicazione anticipata dell’assunzione? Le uniche eccezioni all’obbligo di comunicazione preventiva ricorrono: —per le assunzioni in caso di urgenza connessa ad esigenze produttive: in tal caso la comunicazione deve essere effettuata entro 5 giorni dall’instaurazione del rapporto di lavoro, ma è comunque necessario inviare una informativa il giorno prima; —nei casi di forza maggiore che giustificano una assunzione immediata: in questa ipotesi la comunicazione va fatta entro il primo giorno utile e, comunque, non oltre il quinto. 5 quinquies.Quali altri eventi relativi al rapporto di lavoro devono essere comunicati al centro per l’impiego? Oltre all’assunzione, il datore di lavoro è obbligato a comunicare al centro per l’impiego anche alcune vicende modificative del rapporto di lavoro, nonché la cessazione dello stesso. In particolare, vanno comunicate entro 5 giorni dal verificarsi dell’evento: —la trasformazione da rapporto di tirocinio o stage in rapporto di lavoro subordinato; —la proroga del termine inizialmente fissato nel lavoro a tempo determinato e la trasformazione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato; —la trasformazione da tempo parziale a tempo pieno; —la trasformazione da contratto di apprendistato, di formazione e lavoro e di inserimento a contratto a tempo indeterminato; —il trasferimento e il distacco del lavoratore; —la modifica della ragione sociale del datore di lavoro; —il trasferimento d’azienda o di ramo di essa; —la cessazione del rapporto di lavoro a tempo determinato (se avviene in data differente rispetto al termine comunicato all’atto dell’assunzione) e del lavoro a tempo indeterminato. 5 sexies.A seguito della L. 183/2010, entro quale termine le P.A. devono comunicare l’assunzione? La L. 183/2010, cd. collegato lavoro, ha previsto che per le P.A. (con esclusione degli enti pubblici economici) la comunicazione al competente cen- Mediazione pubblica e privata, assunzione del lavoratore e interventi pubblici 61 tro per l’impiego dell’instaurazione del rapporto di lavoro deve avvenire entro il ventesimo giorno del mese successivo alla data di assunzione, invece che anticipatamente come per la generalità dei datori di lavoro privati (art. 9bis, co. 2, D.Lgs. 181/2000, modif. dal collegato). Lo stesso termine del ventesimo giorno del mese successivo, invece che entro i 5 giorni successivi come per la generalità dei datori di lavoro privati, vale per le comunicazioni relative alla proroga, alla trasformazione e alla cessazione del rapporto di lavoro intervenute nel mese precedente (art. 4bis, co. 5, D.Lgs. 181/2000, modif. dal collegato). 6. Che cosa si intende per “politica attiva del lavoro”? Nozione: evidenziare che si tratta di un insieme di misure di competenza pubblica che hanno ad oggetto l’orientamento, la formazione e il reinserimento degli aspiranti lavoratori. Elemeniti da evidenziare: i soggetti beneficiari sono inoccupati e disoccupati. Domande consequenziali: stato di disoccupazione. Articolazione della risposta Con l’espressione «politica attiva del lavoro» si intende l’insieme di strategie ed interventi finalizzati alla qualificazione e all’incremento dell’occupazione, in grado di influenzare positivamente le dinamiche occupazionali e che presuppongono un comportamento attivo dei soggetti beneficiari. Vi rientrano gli interventi mirati all’orientamento, alla formazione e alla ricollocazione, attuati dallo Stato d’intesa con le Regioni, o dalle Regioni stesse direttamente, verso i soggetti inoccupati e disoccupati, con particolare riguardo ai percettori di forme di ammortizzatori sociali e agli individui di più difficile collocazione. La generalità degli interventi si rivolge al lavoratore appartenente a una categoria che abbia difficoltà ad entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro: sono considerati tali, ad esempio, i giovani con meno di 25 anni, gli invalidi, i disoccupati di lunga durata, i lavoratori extracomunitari. 6 bis. Come è disciplinato lo stato di disoccupazione del lavoratore? Lo stato di disoccupazione è la condizione di un soggetto privo di lavoro e immediatamente disponibile a svolgere attività lavorativa. 62 Parte Quinta Ciascuna Regione stabilisce le concrete modalità di accertamento dello stato di disoccupato, ferma restando l’osservanza dei criteri fissati dallo Stato, e quindi validi in tutte le Regioni, relativamente alla perdita e al mantenimento dello stato di disoccupazione. In base a tali criteri, lo stato di disoccupazione: —si conserva, anche se si svolge un’attività lavorativa, se il reddito annuale non è superiore ad un certo importo; —si perde in caso di rifiuto ingiustificato dell’interessato a partecipare attivamente agli interventi proposti dai servizi per l’impiego; —è sospeso, in caso di accettazione di un’offerta di lavoro a tempo determinato o di lavoro temporaneo di durata inferiore a 8 mesi, ovvero di 4 mesi se si tratta di giovani. L’ordinamento ricollega alla condizione di disoccupato una serie di benefici che vanno dall’erogazione al disoccupato per un certo periodo di tempo dell’indennità prevista dalla apposita assicurazione previdenziale sino ad una serie di agevolazioni, rappresentate soprattutto da un minore onere contributivo, per i datori di lavoro che assumono disoccupati. 7. In che modo l’ordinamento promuove l’occupazione delle persone disabili sul mercato del lavoro? Riferimenti normativi: art. 38, co. 3, Cost.; L. 68/1999. Nozione: mediante il collocamento mirato il legislatore consente la collocazione del lavoratore disabile nell’occupazione più idonea alle capacità lavorative dello stesso. Differenze: sottolineare la differenza rispetto al precedente sistema del collocamento obbligatorio che non valorizzava le capacità lavorative del lavoratore disabile ma prevedeva soltanto l’obbligo all’assunzione del datore di lavoro. Disciplina: i datori di lavoro con almeno 15 dipendenti sono tenuti ad assumere una determinata quota di lavoratori disabili. Domande consequenziali: prospetto informativo; modalità di assunzione dei disabili, peggioramento delle condizioni di salute del disabile, computabilità nella quota di riserva dei lavoratori divenuti inabili nel corso del rapporto di lavoro. Mediazione pubblica e privata, assunzione del lavoratore e interventi pubblici 63 Articolazione della risposta La Costituzione all’art. 38, co. 3 stabilisce che «gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale». L’impegno assunto dallo Stato nella Carta fondamentale ha avuto concreta attuazione per molti anni mediante l’istituto del collocamento obbligatorio che, tuttavia, è stato oggetto di una significativa riforma per effetto della L. 68/1999. Quest’ultima legge ha sostituito al rigido precedente impianto normativo, dal quale scaturiva meramente l’obbligo datoriale di assumere il disabile avviato dall’ufficio di collocamento, una disciplina in grado di valorizzare le residue capacità lavorative del disabile e di collocarlo nell’occupazione a lui più idonea e, al contempo, più proficua per l’impresa. Si è passati così dal collocamento obbligatorio al collocamento mirato. Il sistema del collocamento mirato è riservato ai soggetti con disabilità psicofisiche, che devono essere accertate dalle Commissioni mediche della ASL o dall’INAIL. Sono obbligati ad assumere disabili, per una percentuale che varia in base all’organico in forza, tutti i datori di lavoro che occupano da 15 dipendenti in poi. Tutti i datori di lavoro obbligati al rispetto della L. 68/1999 sono tenuti ad assumere una determinata quota (cd. quota di riserva) di lavoratori disabili che varia in ragione del numero dei lavoratori occupati, e pari a: —7% dei lavoratori occupati per i datori con più di 50 dipendenti; —due lavoratori per i datori che hanno tra i 36 e i 50 dipendenti; —un lavoratore per i datori che hanno tra i 15 e i 35 dipendenti. 7 bis. Che cos’è il prospetto informativo? I datori di lavoro debbono inviare entro il 31 gennaio di ogni anno appositi prospetti da cui risulta l’organico riferito all’anno precedente. Nel prospetto deve essere indicato il numero complessivo dei lavoratori dipendenti, il numero e i nominativi dei lavoratori da computare nella quota di riserva e i posti di lavoro e le mansioni disponibili per i lavoratori disabili. Il prospetto informativo: —deve essere inviato agli uffici competenti per le assunzioni dei disabili esclusivamente per via telematica; 64 Parte Quinta —non deve essere inoltrato se rispetto all’ultimo prospetto inviato, non avvengono cambiamenti nella situazione occupazionale tali da modificare l’obbligo o da incidere sul computo della quota di riserva. 7 ter.Anche alle persone disabili si applica la procedura di assunzione diretta? No, per tali categorie non è previsto il meccanismo dell’assunzione diretta. Circa le modalità di assunzione la L. 68/1999 prevede la richiesta nominativa da parte del datore per: —tutte le assunzioni cui sono tenuti i datori di lavoro privati che occupano da 15 a 35 dipendenti, nonché i partiti politici, le organizzazioni sindacali e sociali e gli enti da essi promossi; —il 50% delle assunzioni cui sono tenuti i datori di lavoro, che occupano da 36 a 50 dipendenti; —il 60% delle assunzioni cui sono tenuti i datori di lavoro, che occupano più di 50 dipendenti. La restante parte della quota deve essere coperta con avviamento da parte del centro per l’impiego degli iscritti nella graduatoria regionale. 7 quater.Cosa accade nel caso in cui le condizioni di salute del lavoratore disabile si aggravano? In caso di aggravamento delle condizioni di salute del disabile assunto, tale che sia incompatibile con la prosecuzione dell’attività lavorativa, o tale incompatibilità sia accertata con riferimento ad una intervenuta variazione dell’organizzazione del lavoro, il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibilità persista. Il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, l’apposita commissione A.S.L. accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda. In caso di risoluzione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a darne comunicazione, nel termine di 10 giorni, agli uffici competenti, al fine della sostituzione del lavoratore con altro disabile. Mediazione pubblica e privata, assunzione del lavoratore e interventi pubblici 65 7 quinquies.I lavoratori divenuti inabili in corso di rapporto possono essere computati ai fini dell’assolvimento della cd. quota di riserva? Sì. I lavoratori, assunti regolarmente, che divengono successivamente inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia possono essere computati nella quota di riserva alle seguenti condizioni (art. 4, co. 4, L. 68/1999 e circ. Min. Lav. 22-1-2010, n. 2): —la riduzione della capacità lavorativa deve essere almeno del 60%; —l’infortunio o la malattia che ha determinato l’inabilità non devono essere imputabili all’inadempimento da parte del datore di lavoro, accertato in sede giurisdizionale, delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro. Infatti, la legge prevede che per i predetti lavoratori l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori (con diritto alla conservazione del trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza). Qualora per i predetti lavoratori non sia possibile l’assegnazione a mansioni equivalenti o inferiori, gli stessi sono avviati, dagli uffici competenti, presso altra azienda, in attività compatibili con le residue capacità lavorative, senza inserimento nella graduatoria prevista dalla L. 68/1999. 8. Come avviene l’assunzione di lavoratori provenienti da uno Stato non appartenente all’Unione Europea? Riferimenti normativi: D.Lgs. 286/1998; D.P.R. 394/1999. Disciplina: l’ingresso dei lavoratori stranieri è contingentato nell’ambito di quote massime stabilite annualmente; la procedura prevista per l’ingresso e l’assunzione del lavoratore non appartenente all’Unione Europea fa capo allo Sportello unico immigrazione e prevede: — la richiesta del datore di lavoro; — rilascio del nulla-osta all’assunzione; — sottoscrizione del contratto di soggiorno per motivi di lavoro; — rilascio del permesso di soggiorno. Domande consequenziali: disciplina prevista per i lavoratori stranieri soggiornanti di lungo periodo; trattamento normativo ed economico del lavoratore straniero; sanzioni per il datore di lavoro che occupa un lavoratore senza permesso di soggiorno. 66 Parte Quinta Articolazione della risposta Le assunzioni dei lavoratori extracomunitari sono disciplinate dal D.Lgs. 25-7-1998, n. 286 (cd. Testo Unico degli stranieri) e dal relativo regolamento di attuazione, approvato con D.P.R. 31-8-1999, n. 394. Punto di partenza è il principio per cui l’ingresso del lavoratore straniero nel territorio italiano per motivi di lavoro deve avvenire nell’ambito di quote massime, distinte a seconda se trattasi di lavoro subordinato o autonomo, stabilite annualmente con decreto (cd. decreto flussi) del Presidente del Consiglio dei Ministri al fine di garantire la massima compatibilità degli ingressi con le potenzialità di inserimento nel mercato del lavoro (art. 21 D.Lgs. 286/1998 e art. 29 D.P.R. 394/1999). Per quanto riguarda l’assunzione dei lavoratori non appartenenti all’Unione Europea, è prevista una particolare procedura che prende avvio da una espressa richiesta, effettuata al competente Sportello unico per l’immigrazione, da parte del datore di lavoro che intende instaurare un rapporto di lavoro subordinato con uno straniero residente all’estero. La richiesta del datore dà avvio ad una procedura il cui esito, previo nulla-osta all’assunzione rilasciato dallo Sportello unico, è l’effettivo ingresso del lavoratore straniero in Italia, tramite visto consolare, e la successiva stipulazione del contratto di lavoro presso lo Sportello unico. Entro 8 giorni dall’ingresso in Italia, il lavoratore extracomunitario deve presentarsi presso il competente Sportello unico per la sottoscrizione del contratto di soggiorno per lavoro subordinato. Lo Sportello unico fa sottoscrivere contestualmente al lavoratore straniero la richiesta del permesso di soggiorno, che viene rilasciato dalla Questura per una durata corrispondente a quella stabilita dal contratto di lavoro. Lo straniero deve sottoscrivere anche un accordo di integrazione, articolato per crediti, con l’impegno ad aderire a specifici obiettivi di integrazione, da conseguire nel periodo di validità del permesso di soggiorno (art. 4bis D.Lgs. 286/1998 introdotto dalla L. 94/2009). Allo scadere del permesso di soggiorno, il lavoratore extracomunitario deve lasciare il territorio italiano e ritornare nel Paese di origine, salvo che non abbia ottenuto una nuova occupazione o il rinnovo del permesso ad altro titolo. Mediazione pubblica e privata, assunzione del lavoratore e interventi pubblici 67 8 bis.I cittadini stranieri che risiedono regolarmente in Italia da almeno 5 anni devono stipulare il contratto di soggiorno? No. I cittadini di Paesi extracomunitari che risiedono regolarmente in Italia da almeno 5 anni, in possesso da tale data del permesso di soggiorno ancora valido, possono ottenere il permesso di soggiorno comunitario per soggiornanti di lungo periodo, che è a tempo indeterminato. Il permesso di soggiorno CE consente al titolare di svolgere nel territorio dello Stato ogni attività lavorativa subordinata o autonoma senza necessità di stipulare il contratto di soggiorno di lavoro. 8 ter.Il lavoratore non appartenente all’Unione Europea riceve un trattamento economico e normativo diverso rispetto al lavoratore italiano? No. Per quanto concerne lo svolgimento del rapporto di lavoro, in ossequio al principio di non discriminazione, il trattamento normativo ed economico del lavoratore straniero deve essere equiparato a quello di un lavoratore italiano di pari mansioni e inquadramento. La perdita del posto di lavoro non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno al lavoratore straniero, in qualsiasi caso di cessazione del rapporto di lavoro. 8 quater.Come è sanzionato il datore di lavoro che occupa un lavoratore senza permesso di soggiorno? La fattispecie è disciplinata dall’art. 22, co. 12, D.Lgs. 286/1998 per il quale, il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa di 5.000 euro per ogni lavoratore impiegato. Qualora ne ricorrano le condizioni è applicabile anche la cosiddetta maxisanzione amministrativa (ex art. 3 D.L. 12/2002 conv. in L. 73/2002 come sostituito dall’art. 4 L. 183/2010, cd. collegato lavoro) che punisce non la condotta penalmente rilevante ma la fattispecie dell’occupazione di lavoratori non regolarizzabili (Min. Lav. circ. 12-11-2010, n. 38). 68 Parte Quinta Sul punto la giurisprudenza ha statuito che le prestazioni lavorative rese dal lavoratore extracomunitario privo del permesso di soggiorno rientrano nella disciplina prevista dall’art. 2126 c.c. per cui, se la prestazione lavorativa è lecita, il datore di lavoro è tenuto alla corresponsione della retribuzione e al versamento dei contributi all’INPS. Se invece si consentisse a chi viola la legge sull’immigrazione di fruire di condizioni più vantaggiose rispetto a quelle cui è soggetto il datore di lavoro che rispetti la disciplina in tema di immigrazione si avrebbe un’alterazione delle regole del mercato e della concorrenza (Cass. sez. lav. sent. 5-11-2010, n. 22559). Parte Sesta Decentramento produttivo, somministrazione di lavoro e appalto 1. In che cosa consiste la somministrazione di lavoro? Riferimenti normativi: artt. 20-28 D.Lgs. 276/2003. Definizione: è la fornitura professionale di manodopera da un’impresa (somministratore) ad un’altra (utilizzatore). Disciplina: si realizza un rapporto triangolare mediante la stipulazione di due contratti: uno tra somministratore e lavoratore, l’altro tra somministratore e utilizzatore. Elementi da evidenziare: il rapporto tra somministratore e lavoratore è regolato da un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato; somministratore e utilizzatore stipulano invece un contratto di natura commerciale a tempo determinato o indeterminato. Domande consequenziali: staff leasing; cause giustificatrici della somministrazione a tempo determinato. Articolazione della risposta La somministrazione può essere definita come la fornitura professionale di manodopera dall’agenzia autorizzata all’impresa richiedente per il soddisfacimento di esigenze produttive di quest’ultima. Si tratta di un istituto introdotto inizialmente dalla L. 24-6-1997, n. 196 (cd. Legge Treu) e poi ridisciplinato dal D.Lgs. 10-9-2003, n. 276 che nell’ambito di una vasta riforma del mercato del lavoro ha abrogato la disciplina del lavoro interinale ex L. 196/1997 e il divieto di intermediazione e interposizione nel rapporto di lavoro posto dalla L. 1369/1960. La somministrazione realizza un rapporto triangolare tra tre soggetti, somministratore, lavoratore e utilizzatore, di cui il primo, e cioè l’agenzia di somministrazione, deve possedere i requisiti previsti dalla legge ed essere iscritto nell’apposito Albo delle agenzie per il lavoro. I lavoratori sono assunti dall’agenzia di somministrazione ed il rapporto che si costituisce tra essi e l’agenzia è regolato da un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato o a termine. 70 Parte Sesta L’agenzia di somministrazione fornisce uno o più lavoratori alle imprese che ne facciano richiesta. Il rapporto tra l’agenzia e l’utilizzatore è regolato da un contratto di natura commerciale, denominato contratto di somministrazione di lavoro anch’esso a tempo determinato o indeterminato. 1 bis. Che cos’è lo staff leasing? Per staff leasing o leasing di manodopera si deve intendere la somministrazione a tempo indeterminato, introdotta dal D.Lgs. 276/2003 e per mezzo della quale si consente ad un’impresa che ha bisogno di forza lavoro di richiederne la fornitura senza limiti di tempo all’agenzia autorizzata, purchè si tratti di uno dei settori di attività individuati dallo stesso D. Lgs. 276/2003. La fattispecie della somministrazione a tempo indeterminato era stata abrogata dalla L. 24-12-2007, n. 247 ritenendo il legislatore che lo staff leasing rendesse giuridicamente possibile un processo di sostituzione, all’interno delle imprese, dei lavoratori dipendenti con lavoratori somministrati, con il conseguente generarsi di precarietà strutturali. Successivamente la somministrazione a tempo indeterminato è stata reintrodotta dalla L. 191/2009 (legge finanziaria 2010). 1 ter. Quando è ammessa la somministrazione a tempo determinato? La somministrazione a tempo determinato è ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore (art. 20, co. 4, D.Lgs. 276/2003). Ciò vuol dire che le ragioni giustificatrici del ricorso alla fornitura devono essere oggettive, ovvero verificabili, e possono riguardare anche la normale attività dell’utilizzatore: non devono essere necessariamente connesse a fatti eccezionali e non programmabili. Praticamente il datore di lavoro, purchè vi sia un fatto reale attinente l’organizzazione del lavoro o il processo produttivo, da porre a giustificazione, può liberamente decidere di fare ricorso al lavoro somministrato per un certo periodo di tempo, piuttosto che assumere un nuovo lavoratore. Nel corso di un eventuale giudizio, il giudice dovrà quindi limitarsi ad accertare l’esistenza delle cause legittimanti previste dalla legge, ma non potrà sindacare nel merito la scelta imprenditoriale. Decentramento produttivo, somministrazione di lavoro e appalto 71 2. Quali sono le ipotesi in cui la somministrazione è vietata? Riferimento normativo: art. 20, co. 5, D.Lgs. 276/2003. Disciplina: elencare le ipotesi vietate dal legislatore. Domande consequenziali: ammissibilità di deroghe a tali divieti. Articolazione della risposta In base a quanto previsto dal D.Lgs. 276/2003 (art. 20, co. 5), la somministrazione è vietata: —per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; —presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce la fornitura; —presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce la fornitura; —a favore di imprese che non abbiano effetto la valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, ai sensi del D.Lgs. 81/2008. 2 bis.Sono possibili deroghe ai divieti di somministrazione previsti dalla legge? Sì. Il contratto di somministrazione può essere stipulato anche presso le unità produttive interessate nei 6 mesi precedenti da licenziamenti collettivi, sospensione dei rapporti o riduzione dell’orario di lavoro che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione se lo prevede il contratto aziendale o se la fornitura avviene per la sostituzione di lavoratori assenti, con diritto alla conservazione del posto; per l’assunzione di lavoratori in mobilità; quando la durata iniziale del contratto di somministrazione non è superiore a 3 mesi (art. 2, co. 142, L. 191/2009). Inoltre, quando sono impiegati lavoratori in mobilità non operano le limitazioni previste per la somministrazione a tempo determinato e indeterminato (art. 20, co. 5bis, D.Lgs. 276/2003) (in tal caso, in pratica, la somministrazione è completamente liberalizzata). 72 Parte Sesta 3. Durante lo svolgimento della somministrazione da quale soggetto è esercitato nei confronti del lavoratore il potere direttivo e di controllo della prestazione? Riferimento normativo: art. 20, co. 2, D.Lgs. 276/2003. Disciplina: evidenziare che nella somministrazione, data la dissociazione tra datore di lavoro e il soggetto che utilizza le prestazioni di lavoro, si determina una singolare ripartizione dei tipici poteri del datore di lavoro, per cui: — il potere organizzativo e direttivo compete all’utilizzatore; — il potere disciplinare è esercitato dall’agenzia di somministrazione. Domande consequenziali: trattamento economico e normativo; mancato pagamento della retribuzione al lavoratore. Articolazione della risposta La peculiarità del rapporto di lavoro derivante dalla somministrazione determina una singolare ripartizione dei tipici poteri del datore di lavoro: tale ruolo è ricoperto dalla agenzia di somministrazione che gestisce direttamente tutti gli aspetti connessi al rapporto di lavoro, mentre l’utilizzatore rappresenta il soggetto che si avvale, per tutta la durata della somministrazione dell’attività dei lavoratori per cui anche ad esso competono determinati poteri. In particolare, il potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori è esercitato dall’utilizzatore al fine di conformarne la prestazione alle concrete esigenze della propria organizzazione aziendale. La legge, infatti, prevede espressamente che, per tutta la durata della somministrazione, «i lavoratori svolgono la propria attività nell’interesse nonché sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore». Il potere disciplinare spetta, invece, all’agenzia di somministrazione e, per consentirne l’esercizio, l’impresa utilizzatrice deve comunicare all’agenzia le eventuali infrazioni commesse dai lavoratori, che formeranno oggetto della contestazione ai sensi dell’art. 7 della L. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori). 3 bis. Come si determina il trattamento economico e normativo del lavoratore somministrato? Il lavoratore ha diritto a ricevere, dall’agenzia di somministrazione che lo ha assunto, un trattamento economico e normativo complessivamente non Decentramento produttivo, somministrazione di lavoro e appalto 73 inferiore a quello praticato dall’impresa utilizzatrice nei confronti dei propri dipendenti di pari livello e a parità di mansioni svolte (art. 23 D.Lgs. 276/2003). Il trattamento economico del lavoratore è erogato direttamente dall’agenzia di somministrazione, ma ricade sull’utilizzatore che deve rimborsare l’agenzia. I contributi previdenziali e assicurativi sono versati e sostenuti dall’agenzia di somministrazione. 3 ter.Se l’agenzia di somministrazione non paga la retribuzione, il lavoratore può chiederne il pagamento all’impresa utilizza-trice? Sì, lo può fare perché esiste un regime di solidarietà tra utilizzatore e agenzia di somministrazione per l’effettivo pagamento del trattamento economico al lavoratore e per il versamento dei contributi previdenziali agli enti competenti. Inoltre, non esiste alcun obbligo per il lavoratore di escutere prima il somministratore e poi l’utilizzatore. 4. Che differenza c’è tra somministrazione fraudolenta e irregolare? Riferimenti normativi: artt. 27-28 D.Lgs. 276/2003. Elemento distintivo: deve essere individuato nel dolo specifico che caratterizza la somministrazione fraudolenta. Articolazione della risposta Si ha somministrazione irregolare quando si realizza una fornitura di lavoro al di fuori dei limiti e delle condizioni previste dal D.Lgs. 276/2003. Si tratta di tutte le situazioni illegittime di somministrazione, in quanto prive dei necessari requisiti sostanziali (ad es. ragioni giustificatrici) o formali (ad es. obbligo di forma scritta del contratto), indipendentemente dal perseguimento di un intento di tipo frodatorio da parte del somministratore e dell’utilizzatore. In tali casi, ferme restando le sanzioni in capo all’utilizzatore e al somministratore previste dalla legge, si riconosce al lavoratore il diritto ad agire in giudizio per la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, con effetto dall’inizio della somministrazione. 74 Parte Sesta Si ha, invece, somministrazione fraudolenta quando la fornitura di lavoro è posta in essere con la finalità specifica di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore. Anche se non viene esplicitamente stabilito dal legislatore, i lavoratori devono essere considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore. Inoltre somministratore e utilizzatore sono puniti con la sanzione penale dell’ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e ciascun giorno di somministrazione, ferma restando l’applicazione di ulteriori sanzioni. 5. Quali sono i requisiti dell’appalto previsti dalla legge? Riferimenti normativi: art. 29 D.Lgs. 276/2003; art. 1655 c.c. Nozione: illustrare i requisiti dell’appalto quali: organizzazione dei mezzi necessari e assunzione del rischio d’impresa da parte dell’appaltatore. Disciplina: in assenza di tali elementi l’appalto è illecito e sanzionato con le norme previste dal D.Lgs. 276/2003 (artt. 27, 28). Domande consequenziali: regime di solidarietà tra committente e appaltatore; differenza tra somministrazione e appalto. Articolazione della risposta Ai sensi dell’art. 1655 c.c., l’appalto è il «contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro». Pertanto si sarà in presenza di una forma lecita di appalto quando sussistono le caratteristiche del contratto definito nell’art. 1655 c.c., richiamato dallo stesso art. 29 D.Lgs. 276/2003, ed in particolare: —organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto; —assunzione del rischio d’impresa da parte dell’appaltatore, il quale cioè risponde del risultato finale davanti al committente. Decentramento produttivo, somministrazione di lavoro e appalto 75 Questi requisiti, sono assunti come indici della genuinità dell’appalto ovvero della sua veridicità: l’appaltatore è effettivamente tale e a lui fa veramente capo l’organizzazione necessaria per eseguire in concreto il servizio e l’opera commissionati, non limitandosi a fornire solo manodopera. In mancanza di tali caratteristiche, si tratterà di una fornitura di prestazioni di lavoro illecita, in quanto non svolta da soggetti in possesso della specifica autorizzazione, e cioè le agenzie di somministrazione, né alle condizioni stabilite nel D.Lgs. 276/2003 per l’appalto di lavoro. Pertanto scatteranno le sanzioni: in particolare, il lavoratore potrà agire in giudizio per chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la prestazione. Si applicheranno, inoltre, le sanzioni per la somministrazione irregolare o fraudolenta prevista dal D.Lgs. 276/2003. 5 bis. Quali tutele sono previste dalla legge per i dipendenti dell’appaltatore? L’appalto di opere e di servizi è caratterizzato dall’assunzione di un’obbligazione solidale tra il committente e l’appaltatore: ciò significa che i lavoratori dipendenti dell’appaltatore possono rivolgersi, entro due anni dalla fine del contratto di appalto, al committente per riscuotere la retribuzione e i contributi previdenziali dovuti, nel caso in cui il loro datore di lavoro non li abbia pagati (art. 29 D.Lgs. 276/2003). Il lavoratore non può, però, rivolgersi al committente se questo è una persona fisica che non esercita attività di impresa o professionale. È previsto inoltre un regime di solidarietà anche tra appaltatore e subappaltatore per l’effettuazione il versamento delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente e il versamento dei contributi previdenziali e assicurativi dei dipendenti a cui è tenuto il subappaltatore (art. 35, co. 28, D.L. 223/2006 conv. in L. 248/2006). Il regime di solidarietà tra committente e appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, sussiste anche per i danni relativi ad infortuni sul lavoro o malattie professionali per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell’INAIL (art. 26, co. 4, D.Lgs. 81/2008). 76 Parte Sesta 5 ter. Qual è la differenza tra somministrazione e appalto? L’appaltatore è un soggetto che fornisce all’impresa committente un’opera o un servizio mediante la propria organizzazione di mezzi e/o di risorse umane. L’agenzia di somministrazione, invece, fornisce, per un certo periodo di tempo, ad altra impresa mere prestazioni di lavoro mediante lavoratori da essa stessa assunti e retribuiti. Facendo un esempio, si può dire che mentre l’appaltatore è direttamente produttore dell’opera o del servizio fornito, l’agenzia di somministrazione non svolge alcuna attività produttiva, ma si limita ad assumere lavoratori per poi fornirli ad altre imprese. La distinzione tra appalto e somministrazione si ha dunque nella diversità dell’oggetto: un fare nell’appalto poiché l’appaltatore fornisce un’opera o un servizio da realizzare mediante la propria organizzazione di uomini e mezzi; un dare nella somministrazione in cui il somministratore si limita a fornire ad un terzo forza lavoro da lui assunta (Min. Lav. 11-22011, n. 5). 6. In che cosa consiste il distacco del lavoratore? Riferimento normativo: art. 30 D.Lgs. 276/2003. Nozione: si configura quando il lavoratore è posto a disposizione di un altro soggetto e sussistono l’interesse del datore distaccante e la temporaneità del distacco. Disciplina: se il distacco avviene in violazione delle norme poste dal legislatore a tutela del prestatore di lavoro, il lavoratore interessato può chiedere, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ha utilizzato la prestazione. Elementi da evidenziare: sono previste garanzie di tipo economico e normativo per il lavoratore distaccato. Domande consequenziali: distacchi transnazionali; regime di sicurezza sociale applicabile. Articolazione della risposta Il distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa (art. 30 D.Lgs. 276/2003). Decentramento produttivo, somministrazione di lavoro e appalto 77 Interesse del datore distaccante e temporaneità del distacco costituiscono i requisiti essenziali perché il distacco possa essere configurato come tale: si avrebbe somministrazione o appalto fraudolenti se ad esempio il distacco fosse attuato nell’interesse non del datore distaccante ma dell’impresa presso cui il lavoratore viene distaccato; una vera e propria cessione di dipendente se il distacco fosse definitivo. Nel caso in cui il distacco sia attuato in assenza di detti requisiti, il lavoratore interessato può fare ricorso in giudizio per la costituzione di un rapporto di lavoro con il soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, cioè il datore di lavoro presso cui è stato distaccato. Per quanto riguarda le tutele, quella principale è che il datore di lavoro distaccante rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore distaccato. A ciò si aggiungono altre due garanzie per il lavoratore, e cioè che: —è richiesto il consenso del lavoratore in caso di distacco che comporti un mutamento di mansioni; —il distacco deve essere giustificato con comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive quando comporti un trasferimento ad una unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il lavoratore è adibito. 6 bis. Come sono tutelati i lavoratori in caso di distacchi transnazionali in Italia? Il fenomeno dei distacchi transnazionali si realizza quando, in base ad un accordo commerciale tra imprese residenti in Stati diversi della UE, una impresa distacca temporaneamente all’estero i propri dipendenti per eseguire lavori nel territorio di uno Stato membro diverso dallo Stato in cui essi sono abitualmente occupati. Per quanto riguarda la tutela in favore dei lavoratori distaccati in Italia da parte di imprese di Stati dell’Unione Europea, la legge italiana (D.Lgs. 72/2000), in attuazione della direttiva comunitaria 96/71, prevede: —la garanzia delle medesime condizioni di lavoro applicate ai lavoratori italiani; —la possibilità di far valere i propri diritti anche innanzi all’autorità giudiziaria di altro Stato con il quale esista una convenzione internazionale in tema di giurisdizione in materia di rapporti di lavoro. 78 Parte Sesta A tali garanzie generali, se ne aggiungono altre nel caso in cui la prestazione di servizi transnazionale realizzi anche una forma di appalto o di somministrazione di lavoro. Nel primo caso, l’appaltante (imprenditore nazionale) è obbligato in solido con l’appaltatore (imprenditore di altro Stato UE) per i trattamenti da corrispondere ai lavoratori, dipendenti da quest’ultimo, distaccati in Italia per l’esecuzione dell’appalto all’interno dell’impresa appaltante (art. 3 D.Lgs. 72/2000). Nel secondo caso, le imprese fornitrici (di altro Stato UE) di lavoratori temporanei distaccati in Italia ad operare presso imprese nazionali (utilizzatrici), sono assoggettate alla disciplina nazionale sulla somministrazione di lavoro (art. 4 D.Lgs. 72/2000). 6 ter. A quale sistema di sicurezza sociale sono sottoposti i lavoratori subordinati temporaneamente distaccati in un altro Stato membro? Secondo la legislazione europea (reg. CE 883/2004, integrato e modif. dal reg. 988/2009) i lavoratori che si spostano sul territorio dell’Unione sono soggetti alla legislazione di un solo Stato. In particolare, vige il principio della lex loci laboris, per cui il regime di sicurezza sociale applicabile ai lavoratori subordinati o autonomi che si spostano da uno Stato membro a un altro per ragioni professionali è quello stabilito dalla legislazione dello Stato membro in cui l’attività è svolta. Tuttora, per quanto riguarda specificamente i lavoratori distaccati, al fine di promuovere al massimo la libera circolazione dei lavoratori e di evitare disagi e complicazioni amministrative per il lavoratore e le imprese, sono previste delle deroghe a tale principio generale. È infatti stabilito che il lavoratore distaccato possa continuare ad essere soggetto alla legislazione dello Stato membro di invio a determinate condizioni: —l’attività lavorativa nello Stato di destinazione deve essere svolta per conto del datore di lavoro da cui normalmente dipende; —la durata prevedibile di tale attività non deve essere superiore a 24 mesi; —il lavoratore distaccato non deve essere inviato in sostituzione di un lavoratore che è giunto al termine del periodo massimo di 24 mesi. Decentramento produttivo, somministrazione di lavoro e appalto 79 Inoltre, ulteriore presupposto necessario per il mantenimento della legislazione dello Stato membro di invio è che il datore di lavoro di norma svolga attività di adeguata rilevanza sul territorio dello Stato in cui ha stabilito la propria sede (circ. INPS 1-7-2010, n. 83). 7. Cosa si intende per trasferimento d’azienda? Riferimento normativo: art. 2112 c.c. Nozione: mutamento della titolarità dell’azienda senza che abbia alcuna rilevanza la tipologia negoziale o il provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato. Domande consequenziali: tutele per i lavoratori; deroghe al regime di tutela. Articolazione della risposta Secondo il dettato dell’art. 2112 c.c., come modificato dal D.Lgs. 276/2003, si deve intendere per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o a fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità. Elemento essenziale è il mutamento della titolarità dell’azienda e non ha alcuna rilevanza la tipologia negoziale o il provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato: sono comprese anche le ipotesi di usufrutto e di affitto d’azienda. Il regime di tutela dei lavoratori previsto dall’art. 2112 c.c., inoltre, è stato esteso alle ipotesi in cui oggetto del trasferimento sia solo una parte dell’azienda (cd. ramo d’azienda) dotata di autonomia funzionale e riconosciuta come tale dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento. Con il D.Lgs. 276/2003, dunque, il legislatore, anche su espresso impulso del diritto comunitario, ha ampliato la nozione di trasferimento di azienda aumentando, per questa via, il numero di lavoratori destinatari delle garanzie previste dall’art. 2112 c.c. 7 bis. Quali sono le tutele di cui beneficia il lavoratore in caso di trasferimento d’azienda? Le garanzie offerte al lavoratore in caso di trasferimento d’azienda sono le seguenti (art. 2112 c.c.): a) la continuazione del rapporto di lavoro con il nuovo titolare dell’azienda (cessionario); 80 Parte Sesta b) il lavoratore mantiene i diritti già maturati (ad es. diritto alla percezione delle retribuzioni non ancora corrisposte, anzianità di servizio etc.); c) sussiste una responsabilità solidale del cedente e del cessionario, a garanzia del soddisfacimento dei crediti vantati dal lavoratore all’epoca del trasferimento; d) il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi (dello stesso livello) applicabili all’impresa del cessionario; e) il trasferimento d’azienda non costituisce un giustificato motivo di licenziamento. Resta, comunque, ferma la facoltà, del cedente e del cessionario, di esercitare il recesso secondo la normativa vigente; f) il lavoratore ha diritto a rassegnare le dimissioni nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, quando le condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica. 7 ter.In quali casi di trasferimento d’azienda non si applica la disciplina di tutela dei lavoratori prevista dalla legge? La L. 20-11-2009, n. 166, di conv. del D.L. 135/2009, ha riconosciuto la facoltà per la contrattazione collettiva di prevedere deroghe alla disciplina garantistica dell’art. 2112 c.c. Ciò è legittimo, però, solo ove sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento dell’occupazio­ne e si tratti di aziende in crisi o per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria (art. 47, co. 4bis, L. 428/1990, introdotto ex art. 19quater D.L. 135/2009 conv. in L. 166/2009). Analoga limitazione vale in caso di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coat­ta amministrativa o amministrazione straordinaria (art. 47, co. 5, L. 428/1990). La disciplina dell’art. 2112 c.c. può essere derogata nelle ipotesi previste dall’art. 47 L. 428/1990 e in particolare: —per le aziende in cui sia accertato lo stato di crisi aziendale, o in amministrazione straordinaria, in caso di continuazione dell’attività: l’art. 2112 c.c. trova applicazione con le limitazioni previste dall’accordo che stabilisce il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione (co. 4 bis inserito dal D.L. 135/2009, conv. in L. 166/2009); Decentramento produttivo, somministrazione di lavoro e appalto 81 —per le imprese sottoposte a fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa o amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta e sia stato raggiunto un accordo per il mantenimento anche parziale dell’occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione l’art. 2112 c.c., salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore (co. 5). Parte Settima Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 1. Che cosa sono le mansioni? Riferimento normativo: art. 2103 c.c. Nozione: indicano l’insieme dei compiti e delle concrete operazioni che il lavoratore è chiamato ad eseguire e che possono essere pretesi dal datore di lavoro. Caratteristiche: concorrono ad identificare l’oggetto della prestazione di lavoro, sono individuate dal contratto di lavoro (principio di contrattualità delle mansioni). Domande consequenziali: differenza tra mansioni e qualifiche; categorie legali e contrattuali; inquadramento unico; obbligo di informazione del datore. Articolazione della risposta Le mansioni indicano l’insieme dei compiti e delle concrete operazioni che il lavoratore è chiamato ad eseguire e che possono essere pretesi dal datore di lavoro. Esse individuano, in sostanza, l’oggetto specifico dell’obbligazione lavorativa, le attività concretamente espletate, e valgono a fornire il criterio di determinazione qualitativa della prestazione dovuta. Le mansioni del lavoratore sono individuate nel contratto di lavoro. È questo il cd. principio di contrattualità delle mansioni e della qualifica desumibile dall’art. 2103 c.c., secondo cui «il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto». 1 bis. Che cosa sono le qualifiche e che differenza c’è con le mansioni? La qualifica designa lo status professionale del lavoratore, legalmente e contrattualmente identificato secondo il contenuto delle mansioni. In particolare, essa esprime il tipo ed il livello di una figura professionale e concorre con le mansioni a determinare la posizione del lavoratore nella struttura organizzativa dell’impresa, e quindi il suo trattamento normativo ed economico. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 83 La determinazione delle qualifiche del personale dipendente spetta al datore di lavoro entro limiti ben precisi. Infatti: — le qualifiche vanno identificate secondo i criteri legali e contrattuali di classificazione delle mansioni; — le qualifiche devono essere distribuite per gradi, entro le varie categorie di dipendenti, in modo che sia prestabilito l’ordinamento gerarchico dell’impresa. Si può dire quindi che qualifiche e mansioni si distinguono, in quanto la qualifica indica l’oggetto generico dell’obbligazione lavorativa inerente allo status professionale ricoperto dal lavoratore, mentre le mansioni individuano l’oggetto specifico dell’obbligo, i concreti compiti che il lavoratore esegue in base alle direttive del datore. 1 ter. Quali sono le categorie in cui è possibile inquadrare i vari profili professionali? L’art. 2095 c.c. individua, in relazione alla natura del lavoro prestato, quattro categorie di lavoratori subordinati, e cioè dirigenti, quadri, impiegati e operai, rinviando alle leggi speciali ed alla contrattazione collettiva l’esatta determinazione dei requisiti di appartenenza. In aggiunta a tali categorie legali, la contrattazione collettiva ne ha introdotto altre (cd. categorie contrattuali). Le figure professionali che si individuano in tale ambito sono quelle dei funzionari e degli intermedi. 1 quater.Che cos’è l’inquadramento unico dei lavoratori? È un sistema di classificazione professionale, introdotto dalla contrattazione collettiva a partire dagli anni ’70, non più fondato sulla separazione tra impiegati ed operai, ma su una pluralità di livelli professionali, di regola 7 o 8, comuni ad entrambi ed ordinati in una unica scala. Le principali novità introdotte da tale sistema rispetto al precedente, sono: — il superamento parziale della distinzione tra impiegati ed operai, con l’adozione di una scala di classificazione unica ordinata per livelli professionali; — la riduzione del numero dei livelli per gruppi omogenei, indipendentemente dalla categoria di impiegato o operaio, in cui si raggruppano le mansioni ai fini retributivi; — la tendenziale unificazione del trattamento economico e normativo. 84 Parte Settima 1 quinquies.Il datore di lavoro è tenuto ad informare il lavoratore delle mansioni a cui sarà assegnato? Sì, il D.Lgs. 152/1997 sancisce l’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro. Le informazioni che devono essere fornite al lavoratore sono le seguenti: l’identità della controparte contrattuale; il luogo di lavoro; la data di inizio del rapporto di lavoro e la durata, precisando se si tratta di rapporto di lavoro a tempo determinato o indeterminato, nonché la durata del periodo di prova, se previsto; l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuiti al lavoratore. Inoltre, deve essere indicato l’importo iniziale della retribuzione e i relativi elementi costitutivi, con l’indicazione del periodo di pagamento, la durata delle ferie retribuite, l’orario di lavoro e i termini del preavviso in caso di recesso. Alcune informazioni possono essere sostituite da rinvii al contratto collettivo. 1 sexies.Come è adempiuto l’obbligo informativo a cui è tenuto il datore di lavoro? Il D.L. 112/2008, convertito in L. 133/2008, ha previsto che l’obbligo informativo in questione possa essere adempiuto con la consegna al lavoratore, all’atto dell’assunzione, prima dell’inizio dell’attività di lavoro, di copia della comunicazione preventiva di assunzione effettuata al centro per l’impiego. Il provvedimento prevede inoltre che l’obbligo può essere adempiuto anche con la consegna al lavoratore, prima dell’inizio dell’attività lavorativa, di copia del contratto individuale di lavoro (che deve contenere però tutte le informazioni previste dal D.Lgs. 152/1997). 2. Il datore di lavoro può modificare le mansioni del lavoratore? Riferimento normativo: art. 2103 c.c. Disciplina: il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto. Il legislatore prevede che: — è vietata la mobilità verso il basso (demansionamento); — è possibile lo spostamento a mansioni superiori (mobilità verticale); — è possibile lo spostamento a mansioni equivalenti (mobilità orizzontale). Domande consequenziali: deroghe al divieto di demansionamento; concetto di mansioni equivalenti; conseguenze del rifiuto di svolgere mansioni inferiori; regime dei patti contrari. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 85 Articolazione della risposta Sì, il datore di lavoro ha il potere di modificare unilateralmente le mansioni del lavoratore durante lo svolgimento del rapporto di lavoro rispetto a quanto concordato al momento dell’assunzione. L’esercizio di tale potere, denominato jus variandi, è disciplinato dall’art. 2103 c.c. secondo cui «il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione». Secondo la norma, dunque, è vietato adibire il lavoratore a mansioni inferiori (cd. demansionamento o mobilità verso il basso), nonché privarlo delle stesse. È consentito, invece, al datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle per le quali lo ha assunto, purchè siano, rispetto ad esse, superiori o equivalenti. Se il lavoratore è assegnato a mansioni superiori (cd. mobilità verticale), ha diritto alla relativa retribuzione. L’assegnazione diviene definitiva dopo un periodo fissato dai contratti collettivi nazionali che comunque non può essere superiore a tre mesi (cd. diritto alla promozione), a meno che il datore l’ha disposta per sostituire prestatori assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro. In questo caso, oppure se l’assegnazione ha avuto una durata tale da non determinare la promozione, il lavoratore ha comunque diritto a ricevere la retribuzione per l’attività svolta. L’art. 2103 c.c. consente anche l’assegnazione del lavoratore a mansioni equivalenti (cd. mobilità orizzontale) alle ultime effettivamente svolte senza alcuna diminuzione della retribuzione: con quest’ultima espressione si afferma l’importante principio di irriducibilità della retribuzione, in base al quale il mutamento delle mansioni non può implicare che venga ridotta la retribuzione. 2 bis.Sono previste deroghe al divieto di demansionamento? Sì, il divieto di demansionamento può essere derogato in specifiche ipotesi previste dal legislatore, ed in specie (tra le più rilevanti): —in presenza di esigenze straordinarie sopravvenute e temporanee; —nell’ipotesi prevista dall’art. 7 D.Lgs. 151/2001 che vieta al datore di adibire le lavoratrici durante il periodo di gestazione e fino a 7 mesi dopo il parto a mansioni pregiudizievoli della salute autorizzandolo, a 86 Parte Settima tal fine, a spostare le lavoratrici anche a mansioni inferiori. In tal caso la lavoratrice adibita a mansioni inferiori conserva la retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originaria; —nel caso di cui all’art. 4 L. 223/1991, secondo cui gli accordi sindacali stipulati nel corso di una procedura di mobilità, che prevedono il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire che questi siano assegnati a mansioni inferiori, mantenendo però retribuzione e qualifica; —nel caso di cui all’art. 42 D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico della sicurezza sul lavoro) che formula esplicitamente il principio di ricollocazione del lavoratore divenuto, per motivi di salute, inidoneo alla mansione, sino ad ora affermatosi solo in sede giurisprudenziale. La norma, allo scopo di rafforzare la tutela del lavoratore in caso di inidoneità alla mansione specifica, prevede che il lavoratore possa essere adibito anche a mansioni inferiori, conservando la retribuzione corrispondente alle precedenti mansioni e la qualifica originaria. Alle ipotesi legislative, la giurisprudenza ne ha aggiunte altre. Così, ad esempio, il demansionamento è stato ritenuto lecito: se l’assegnazione del lavoratore a diverse mansioni è temporanea e finalizzata ad acquisire una più ampia professionalità (Cass. 1-3-2001, n. 2948); se il lavoratore è adibito a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purchè non appartengano alla competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e l’attività prevalente da lui svolta rientri fra le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza (Cass. 2-5-2003, n. 6714); per evitare la perdita del posto di lavoro in conseguenza di fattori sopraggiunti come nel caso del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione per motivi connessi al suo stato di salute (Cass. 14-3-2007, n. 5112). 2 ter. Cosa si intende per “mansioni equivalenti”? Sono considerate equivalenti le mansioni che consentono al lavoratore di adoperare il bagaglio di esperienze e di competenze acquisito. Pertanto, l’equivalenza va riferita al patrimonio professionale del lavoratore, nel senso che le nuove mansioni devono essere di valore professionale comparabile con quelle precedenti. L’equivalenza quindi non coincide necessariamente con la parità di trattamento economico, per cui non basta che due posizioni di lavoro siano retribuite in misura uguale (cd. equivalenza retributiva) per poter affermare che le rispettive mansioni siano equivalenti. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 87 2 quater.Se un lavoratore viene assegnato a mansioni inferiori può rifiutarsi di svolgerle? Sì. Al di là delle ipotesi di demansionamento ammesse dalla legge e dalla giurisprudenza, il lavoratore può sempre opporre il proprio rifiuto allo svolgimento di mansioni inferiori, in forza dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., senza quindi esporsi ad alcuna responsabilità disciplinare. 2 quinquies.È valido il patto con cui il lavoratore accetta di essere adibito a mansioni inferiori? No. L’art. 2103, co. 2, c.c. sancisce la nullità di ogni patto contrario, giacchè detta norma, ispirata all’esigenza di tutelare la professionalità del prestatore, sarebbe frustrata dalla stipula di accordi contrari fra le parti, sia alla nascita del rapporto che nel corso del suo svolgimento. La nullità comporta l’inefficacia di ogni modificazione in senso peggiorativo, con l’attribuzione al lavoratore di un diritto alla restituzione delle mansioni originarie o equivalenti o, in alternativa, al risarcimento del danno alla professionalità. Occorre, tuttavia, tenere presente l’orientamento giurisprudenziale che, partendo dalla ratio della norma, di tutela del lavoratore, ritiene legittimo lo spostamento del lavoratore a mansioni inferiori quando esso sia motivato dalla necessità di evitare la perdita del posto di lavoro in conseguenza di fattori sopraggiunti. In specie è il caso del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione per motivi connessi al suo stato di salute: in questa ipotesi il patto con cui egli verrebbe spostato a mansioni inferiori non si configura come una eccezione all’art. 2103 c.c., ma come «un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso e dall’interesse del lavoratore» (Cass. 14-3-2007, n. 5112). 3. In cosa consistono gli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà gravanti sul lavoratore? Riferimenti normativi: artt. 2104, 2105 c.c. Disciplina: evidenziare che si tratta di obblighi integrativi che concorrono a definire il contenuto dell’obbligazione contrattuale del lavoratore: — la diligenza del lavoratore indica l’esattezza e la scrupolosità nell’eseguire la prestazione dovuta; 88 Parte Settima — l’obbedienza si sostanzia nell’osservanza alle direttive impartite dal datore di lavoro; — la fedeltà del lavoratore impone un comportamento leale verso il datore e si sostanzia nel divieto di concorrenza e nell’obbligo di riservatezza. Domande consequenziali: parametri per la valutazione della diligenza; violazione del dovere di obbedienza come giustificato motivo di licenziamento; distinzione tra divieto di concorrenza ex art. 2105 c.c. e patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. Articolazione della risposta L’obbligazione principale del lavoratore è lo svolgimento della prestazione lavorativa. La legge, inoltre, pone a carico del lavoratore ulteriori obblighi cd. integrativi che specificano il contenuto della prestazione di lavoro subordinato. Essi sono l’obbligo di diligenza, l’obbligo di obbedienza e l’obbligo di fedeltà. L’art. 2104, co. 1, c.c. sancisce l’obbligo di diligenza cui il lavoratore è tenuto per il corretto e puntuale espletamento delle sue attività. La diligenza indica quel complesso di cautele, cure ed attenzioni che devono informare l’esecuzione della prestazione. L’obbedienza si sostanzia nell’obbligo di osservare le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del lavoro che l’imprenditore o i suoi collaboratori impartiscono per conformare la prestazione lavorativa alle esigenze dell’impresa (art. 2104, co. 2, c.c.). L’obbligo di obbedienza del prestatore di lavoro discende dal potere direttivo del datore nei suoi confronti. Il lavoratore è subordinato al datore, in quanto svolge l’attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore: egli pertanto ha il dovere di obbedire alle disposizioni impartite. L’obbligo di fedeltà è previsto dall’art. 2105 c.c. e si sostanzia nell’obbligo a comportarsi con lealtà verso il datore di lavoro e di tutelarne gli interessi. Esso pone in capo al lavoratore due distinti obblighi di non fare: il divieto di concorrenza e l’obbligo di riservatezza. In particolare, il divieto di concorrenza comporta l’obbligo di astenersi dal trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore. Ne è fondamento il contratto di lavoro e pertanto esso ha vigenza solo per la durata del rapporto, estinguendosi con la cessazione di questo. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 89 L’obbligo di riservatezza (o segretezza), impone il divieto di divulgare o utilizzare a vantaggio proprio o altrui, notizie attinenti all’organizzazione ed ai metodi di produzione dell’impresa in modo da arrecare ad essa pregiudizio. Quest’ultimo dovere tutela l’interesse aziendale a che non siano diffuse notizie particolari e/o esclusive attinenti all’organizzazione, metodi e risultati produttivi dell’impresa. La sua durata si protrae anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro per il ragionevole lasso di tempo in cui l’interesse alla segretezza può permanere. 3 bis. Quali sono i parametri per la valutazione della diligenza? L’art. 2104, co. 1, c.c. stabilisce espressamente che il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Per valutare se il lavoratore svolge l’attività lavorativa diligentemente, si deve tener conto innanzitutto della natura della prestazione dovuta, che è il criterio, trasportato in ambito lavoristico, espresso in via generale dall’art. 1176, co. 2, c.c. secondo cui nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata. Pertanto, occorre riferirsi alla qualità del lavoro prestato, come risulta dalle mansioni, dalla qualifica e dal profilo professionale: non deve cioè adottarsi l’astratto criterio della diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176, co. 1, c.c.), bensì quello più concreto del soggetto in possesso delle esperienze e competenze richieste per fornire una prestazione di normale qualità. L’art. 2104 c.c. utilizza anche altri due criteri di valutazione della diligenza del lavoratore: l’interesse dell’impresa e quello superiore della produzione nazionale. Il primo parametro sta a significare che la prestazione lavorativa deve collegarsi alle esigenze organizzative del datore di lavoro e pertanto il lavoratore è diligente se il lavoro svolto può utilmente coordinarsi con l’attività degli altri prestatori. Quanto al criterio dell’interesse superiore della produzione nazionale, esso deve ritenersi superato per effetto della fine dell’ordinamento corporativo. 90 Parte Settima 3 ter. È legittimo il licenziamento di un lavoratore che abbia violato il dovere di obbedienza? Sì, se la violazione del dovere di obbedienza integra un grave inadempimento degli obblighi contrattuali e quindi gli estremi del giustificato motivo di licenziamento ove consista in ripetute manifestazioni di insubordinazione e di inosservanza delle regole di correttezza, sufficienti ad evidenziare l’insofferenza e rifiuto verso l’uso legittimo dei poteri di controllo e di disciplina del datore di lavoro (Cass. 3199/1987). 3 quater.Che differenza c’è tra il patto di non concorrenza ex art. 2125 c.c. e il divieto di concorrenza che discende dall’art. 2105 c.c.? Il divieto di concorrenza che deriva dall’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. è operativo, senza bisogno di alcuna pattuizione, e soltanto nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro. Il patto di non concorrenza disciplinato dall’art. 2125 c.c., invece, indica l’accordo tra datore di lavoro e lavoratore avente ad oggetto il divieto di svolgere attività concorrenziali con quelle dell’imprenditore anche nel periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. Tale patto è legittimo purchè sussistano i seguenti requisiti previsti a pena di nullità: deve essere redatto in forma scritta; deve essere contenuto entro determinati limiti di oggetto e di luogo; la durata non deve essere superiore a 5 anni per i dirigenti e a 3 anni per gli altri prestatori di lavoro; deve essere fissato un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro. La ratio del divieto contrattualmente assunto è quella di consentire al datore di lavoro di cautelarsi nei confronti dell’ex dipendente che passi al servizio di un’altra impresa. 4. Come vengono normalmente classificati i “diritti dei lavoratori”? Nozione: definire i diritti del lavoratore come situazioni giuridiche attive classificabili in: — diritti patrimoniali; — diritti personali; — diritti sindacali. Domande consequenziali: esistenza di un diritto ad eseguire la prestazione lavorativa. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 91 Articolazione della risposta I diritti del lavoratore costituiscono le situazioni giuridiche attive, riferibili alla prestazione lavorativa, che si esprimono in facoltà, libertà e prerogative riconosciute al lavoratore. I diritti del lavoratore vengono solitamente classificati nel seguente modo: —diritti patrimoniali, tra cui sono ricompresi il diritto alla retribuzione, quale trattamento economico complessivo derivante dal rapporto di lavoro, il diritto al trattamento di fine rapporto e le diverse indennità speciali; —diritti personali, ossia il complesso di diritti e di valori inerenti alla personalità dell’individuo, costituzionalmente garantiti, concernenti l’integrità fisica, la salute, la libertà, la dignità e la riservatezza. In tale ambito si collocano: il diritto all’integrità fisica ed alla salute, nel quale rientra anche il diritto al riposo giornaliero e settimanale e il diritto alle ferie, la libertà di opinione e protezione della riservatezza e della dignità del lavoratore, il diritto allo studio per i lavoratori studenti; —diritti sindacali, che comprendono le espressioni tipiche dell’attività sindacale, riconosciuta ai singoli lavoratori: ad esempio, diritto di sciopero, libertà di organizzazione ed attività sindacale, diritto di affissione, diritto di partecipare alle assemblee. 4 bis.Esiste un «diritto» del lavoratore ad eseguire la prestazione? Sì, poiché anche se l’esecuzione della prestazione lavorativa costituisce, per il lavoratore, un obbligo, vi sono casi in cui assume specifica rilevanza l’interesse personale e professionale del lavoratore stesso ad eseguire la prestazione. È il caso, ad esempio, dell’apprendistato, nel quale lo svolgimento dell’attività è finalizzato alla formazione professionale del lavoratore; del lavoratore in prova, che ha interesse a completare il periodo per l’assunzione definitiva; dei lavori artistici, sportivi o giornalistici, in quanto l’effettiva prestazione rappresenta un’occasione necessaria per valorizzare e mantenere la professionalità. Si tratta di ipotesi nelle quali l’effettiva esecuzione della prestazione caratterizza la causa tipica del rapporto, come nell’apprendistato e nel lavoro di prova, ovvero costituisce un ineludibile strumento di crescita professionale. 92 Parte Settima Pertanto, la giurisprudenza individua già da tempo nel rapporto di lavoro non più unicamente uno scambio di obbligazioni o prestazioni aventi contenuto meramente patrimoniale, ma considera la prestazione di lavoro anche il mezzo attraverso il quale il lavoratore accresce la propria professionalità, sicchè impedirgli di eseguirla può configurare una responsabilità del datore di lavoro. A tal proposito, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che in base all’art. 2103 c.c. il lavoratore non solo ha diritto ad essere adibito alle sue mansioni o a mansioni equivalenti, ma ha altresì diritto, a maggior ragione, a non essere allontanato da ogni mansione, cioè ha diritto all’esecuzione della prestazione lavorativa, ed il datore di lavoro (tradizionalmente creditore esclusivo della medesima) ha il correlativo obbligo di applicarlo, non lasciandolo in forzata inattività, poiché il lavoro costituisce un mezzo non solo di guadagno ma anche di estrinsecazione della personalità (Cass. 15-9-2004, n. 8537). Il datore di lavoro quindi ha l’obbligo di tenere i comportamenti necessari affinché il lavoratore possa eseguire la sua prestazione. Trattandosi di un’obbligazione, in caso di inadempimento il lavoratore può chiedere al giudice la condanna del datore di lavoro all’adempimento giudiziale, in pratica l’adibizione del lavoratore alle mansioni, salvo in ogni caso il risarcimento del danno. 5. Che cos’è il mobbing? Riferimento normativo: precisare che non esiste una definizione normativa di mobbing. Definizione: secondo la giurisprudenza e la dottrina, il mobbing è un insieme di atti persecutori posti in essere con l’intenzione di arrecare danno al lavoratore. Elementi della fattispecie: aggressione psicologica, scopo di danneggiare il lavoratore. Elementi da evidenziare: in mancanza di una delimitazione normativa della fattispecie, la sussistenza del mobbing è rimessa alla valutazione del giudice. Distinzioni: evidenziare la differenza tra mobbing orizzontale e verticale. Domande consequenziali: tutela del lavoratore vittima di mobbing; la prova del mobbing; differenza con lo stalking. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 93 Articolazione della risposta Si tratta di un fenomeno ormai diffuso in vari contesti lavorativi, pubblici e privati, ma del quale manca ancora una regolamentazione di tipo normativo. Il mobbing può essere definito come l’insieme di quegli atti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro, capi, intermedi e colleghi, che si traducono in atteggiamenti persecutori, attuati con specifica determinazione e continuità, tali da arrecare danni rilevanti alla condizione psicofisica del lavoratore, anche al solo fine di allontanarlo dalla collettività nel cui ambito presta la propria opera. In generale, il mobbing si può identificare, dunque, nell’aggressione psicologica, effettuata con comportamenti atipici o tipici o con gli uni e gli altri insieme, svolta in modo sistematico per un apprezzabile periodo temporale. Tale attività persecutoria ha lo scopo di danneggiare il lavoratore, inducendolo a dimettersi o a rinunciare ad eventuali incarichi, ovvero di creare tutti i presupposti affinché la vittima designata venga progressivamente e lentamente estromessa ed emarginata dal contesto lavorativo. Da tali caratteristiche emerge la difficoltà di una univoca delimitazione della fattispecie: spesso, infatti, la violenza da mobbing si concretizza in atti e comportamenti che, se considerati singolarmente, possono essere anche leciti. La concreta sussistenza del mobbing è quindi rimessa alla singola valutazione del giudice. Le forme più frequenti di mobbing sono costituite dalla dequalificazione professionale del lavoratore al solo fine di mortificarlo, da comportamenti fastidiosi ed offensivi ripetuti ovvero da atti di svilimento ed isolamento della persona, continue critiche e umiliazioni. Si è, inoltre, soliti distinguere tra mobbing orizzontale, quando le aggressioni o vessazioni provengono da lavoratori di pari grado rispetto alla vittima, e mobbing verticale, quando l’aggressione è provocata dal datore di lavoro o altro superiore gerarchico del lavoratore (anche detto bossing se presenta i caratteri di una strategia aziendale per provocare l’estromissione del lavoratore). 5 bis. Che tipo di tutela può ricevere il lavoratore vittima di mobbing? La mancanza di una specifica disciplina normativa del mobbing non implica anche un’assenza di tutela del lavoratore mobbizzato. 94 Parte Settima Nel nostro ordinamento giuridico, il fenomeno assume infatti rilevanza sotto un duplice profilo, sia civile che penale. Sotto il primo aspetto, il mobbing è stato innanzitutto inquadrato nell’ambito dell’art. 2087 c.c. che pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di sicurezza ovvero di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore e quindi anche di impedire eventuali atti e/o comportamenti aggressivi e vessatori posti in essere dai suoi collaboratori o dai colleghi della vittima di mobbing. Ne consegue che del danno subito dal lavoratore mobbizzato è responsabile il datore di lavoro: si tratta di una responsabilità di natura contrattuale, perché egli non ha adempiuto ad un obbligo che nasce dal rapporto di lavoro. Al fine di rafforzare la tutela del lavoratore mobbizzato, si ritiene possibile considerare il datore di lavoro responsabile anche ai sensi dell’art. 2043 c.c., per violazione dell’obbligo generale di non arrecare ad altri un danno ingiusto. La norma offre una tutela a prescindere dall’esistenza di un rapporto contrattuale tra danneggiante e danneggiato, ed infatti in tal caso incomberà sul primo una responsabilità di natura extracontrattuale (o aquiliana). Sotto il profilo penale, va premesso che il nostro ordinamento non prevede il reato di mobbing. Tuttavia, ben può accadere che la condotta mobbizzante possa avere le caratteristiche di uno specifico reato punito dalla legge. In altre parole, la condotta può assumere la connotazione della lesione, della violenza privata, dell’abuso d’ufficio etc. In tali casi, quindi, vengono in rilievo, a seconda del tipo di comportamento avuto dal mobber, le seguenti norme (a titolo esemplificativo): —art. 323 c.p. se le vessazioni, compiute nell’ambito di un ufficio pubblico, configurino il delitto di abuso di ufficio; —artt. 582-583 c.p., nei casi più gravi, se dal mobbing sono derivate lesioni; —art. 594 c.p. se il mobbing si è sostanziato anche in ingiurie; —art. 609bis c.p. se i comportamenti hanno assunto la veste della violenza sessuale. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 95 5 ter. Come può essere provato il mobbing? Molto spesso è difficile per il lavoratore dimostrare in un giudizio di essere vittima di mobbing: o perché non riesce a precostituirsi delle prove valide (es. certificati medici) o perché deve ricorrere a testimoni spesso inaffidabili (es. è difficile che un lavoratore testimoni contro il proprio datore di lavoro) o perché è complicato dimostrare l’entità dei danni subiti. In considerazione di ciò, in giurisprudenza si cerca di favorire il lavoratore nel fornire la prova del mobbing, anche se non mancano giudici che, pur nella consapevolezza delle difficoltà che incontra il lavoratore, si attengono in modo rigoroso alla regola generale in tema di ripartizione del cd. onere probatorio (per cui ciascuna parte, il lavoratore da un lato ed il datore di lavoro dall’altro, deve provare, con documenti, testimoni etc., la fondatezza di ciò che afferma, ex art. 2697 c.c.). In generale, deve tenersi presente che la prova è diversa a seconda del tipo di tutela richiesta dal lavoratore. Se il lavoratore mobbizzato invoca la tutela ex art. 2087 c.c. — violazione dell’obbligo generale di sicurezza e conseguente responsabilità contrattuale del datore di lavoro — deve provare: il mobbing (es. comportamenti ripetuti nel tempo eventualmente collegati da un unico disegno persecutorio), il danno subito ed il nesso di causalità (per la maggior parte della giurisprudenza, tra il danno e il comportamento del datore di lavoro; per altra giurisprudenza, tra il danno e lo svolgimento della prestazione lavorativa). Il lavoratore non deve dimostrare però la colpa o il dolo del datore di lavoro. Quest’ultimo, se vuole evitare la condanna deve provare di aver ottemperato all’obbligo di sicurezza, cioè di aver adottato tutte le misure necessarie per salvaguardare l’integrità psico-fisica del prestatore, sicché il danno subìto dal lavoratore non è a lui addebitabile (non è dipeso da una sua colpa o è stato da lui voluto), ma è stato determinato da un evento imprevisto e imprevedibile (non è imputabile al datore di lavoro). Se il lavoratore mobbizzato invoca la tutela ex art. 2043 c.c. — violazione dell’obbligo generale di non arrecare agli altri un danno ingiusto, con conseguente responsabilità extracontrattuale del datore di lavoro — deve provare: il fatto, il danno, il nesso di causalità, nonché il dolo o la colpa del datore di lavoro. 96 Parte Settima 5 quater. Che differenza c’è tra mobbing e stalking? Lo stalking è una nuova figura di reato introdotta dalla L. 11/2009. L’art. 612 bis c.p., sotto la rubrica atti persecutori, punisce «chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita». In proposito, è stato evidenziato che mentre il mobbing attiene al luogo di lavoro, lo stalking invece attiene alla sfera privata della vittima. Il legame fra le due fattispecie è tuttavia talmente evidente che si parla anche di stalking occupazionale quando l’attività persecutoria inizia sul luogo di lavoro e si protrae nella sfera privata del mobbizzato. 6. In presenza di invenzioni del lavoratore come sono regolati i diritti e gli obblighi delle parti del rapporto di lavoro? Riferimenti normativi: art. 2590 c.c.; D.Lgs. 30/2005. Definizione: sono considerate invenzioni del lavoratore le attività inventive realizzate durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, per le quali sia chiesto il brevetto entro un anno. Elementi da evidenziare: chiarire che l’invenzione industriale non brevettata non può essere considerata un bene giuridico. Disciplina: dalla concessione del brevetto derivano il diritto morale e i diritti patrimoniali. Domande consequenziali: distinzione tra i vari tipi di invenzione; tutela giudiziaria dei diritti relativi alle invenzioni. Articolazione della risposta L’art. 2590, co. 1, c.c. stabilisce espressamente che il prestatore di lavoro ha diritto di essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro, mentre i diritti patrimoniali che ne discendono possono appartenere al datore di lavoro in modo diverso a seconda del tipo di invenzione realizzata dal lavoratore. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 97 La materia è disciplinata dal D.Lgs. 10-2-2005, n. 30 recante il «Codice della proprietà industriale», che ha disciplinato in un unico testo normativo i vari aspetti connessi ai diritti derivanti da proprietà industriale. Secondo tale normativa, si considerano invenzioni dei lavoratori le attività inventive realizzate durante l’esecuzione del contratto o del rapporto di lavoro o d’impiego, per le quali sia chiesto il brevetto entro un anno da quando l’inventore ha lasciato l’azienda privata o l’amministrazione pubblica nel cui campo di attività l’invenzione rientra. Sono brevettabili le invenzioni nuove che implicano un’attività inventiva e sono idonee ad avere un’applicazione industriale. Di per sé, l’invenzione non attribuisce diritti soggettivi né al datore di lavoro, né al lavoratore; la loro insorgenza è infatti subordinata alla condizione dell’avvenuta brevettazione dell’invenzione. Con la concessione del brevetto sono conferiti i seguenti diritti esclusivi: —il diritto morale d’invenzione, inalienabile e intrasferibile, consistente nel diritto di chi ha realizzato l’invenzione di esserne riconosciuto autore e che può essere fatto valere anche dopo la sua morte dai superstiti, come ad esempio dal coniuge; —i diritti patrimoniali, connessi alle invenzioni industriali, che sono alienabili e trasmissibili. Tra questi va ricompreso anche il diritto al brevetto per l’invenzione industriale, consistente nella facoltà spettante all’autore dell’invenzione e ai suoi aventi causa di attuare l’invenzione e di trarne profitto. 6 bis. Tutti i diritti connessi alle invenzioni competono al lavoratore? Fermo restando che spetta al lavoratore il diritto morale di essere riconosciuto autore dell’invenzione realizzata nello svolgimento del rapporto di lavoro, per quanto concerne la titolarità degli altri diritti occorre distinguere a seconda del tipo di invenzione come disciplinato dall’art. 64 D.Lgs. 30/2005 (modif. dall’art. 37 D.Lgs. 131/2010). In caso di invenzione fatta in adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro, i diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione, compreso quello di brevetto, appartengono al datore di lavoro. Si tratta delle cd. invenzioni di servizio, che sussistono quando oggetto del contratto o del rapporto è proprio lo svolgimento di un’attività inventiva retribuita: ne è un esempio il lavoratore dipendente di azienda farmaceutica assunto per svolgere attività di ricerca. 98 Parte Settima Altra ipotesi è quella dell’invenzione fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro, ma non prevista nell’attività dedotta in contratto: si parla in tal caso di invenzioni di azienda in cui l’attività inventiva non è oggetto del contratto di lavoro e non è specificamente retribuita. In questa fattispecie i diritti derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro e se il datore o i suoi aventi causa ottengono il brevetto o utilizzano l’invenzione in regime di segretezza industriale, il lavoratore ha diritto ad un equo premio che va determinato tenendo conto di una serie di fattori, quali l’importanza dell’invenzione, le mansioni svolte, la retribuzione, il contributo che il lavoratore ha comunque ricevuto dall’organizzazione del datore di lavoro. Terzo tipo di invenzione è quella non connessa all’attività lavorativa ma rientrante nel campo di attività del datore di lavoro: si tratta delle cd. invenzioni occasionali che esulano dal contenuto della prestazione di lavoro, essendo realizzate al di fuori dell’orario e del luogo di lavoro, ma riguardano il campo di attività del datore. In tal caso, il lavoratore è titolare dei diritti patrimoniali e di brevetto. Se però non intende sfruttare personalmente l’invenzione, il datore di lavoro ha diritto di opzione per l’uso (esclusivo o non) dell’invenzione e per l’acquisto del brevetto, da esercitare entro tre mesi dalla data di ricevimento della comunicazione dell’avvenuto deposito della domanda di brevetto. L’esercizio di tale prelazione comporta però l’obbligo di pagare al lavoratore una somma di danaro, dalla quale va dedotto il valore degli aiuti ricevuti dal datore per pervenire all’invenzione. 6 ter.A chi spetta la tutela giurisdizionale dei diritti del lavoratore relativi alle proprie invenzioni? Tutte le controversie in materia di proprietà industriale, comprese quelle relative alle invenzioni dei dipendenti e dei ricercatori delle Università e degli enti pubblici di ricerca, rientrano nella competenza delle apposite sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale del Tribunale (art. 134 D.Lgs. 30/2005 come modif. dalla L. 99/2009. Le controversie che riguardano l’ammontare dell’equo premio possono essere rimesse, anche se l’inventore è un dipendente pubblico, ad un collegio di arbitratori che vi provvede secondo le regole di un arbitrato rituale. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 99 7. Quali sono i poteri del datore di lavoro e quale limite di ordine generale è previsto dallo Statuto dei lavoratori? Riferimenti normativi: artt. 2104 e 2105 c.c.; art. 15 L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori). Disciplina: illustrare la struttura dei poteri afferenti la sfera datoriale e distinguibili in: — potere direttivo; — potere di vigilanza e controllo; — potere disciplinare. Elementi da evidenziare: evidenziare che il divieto di discriminazione, quale limite di ordine generale ai poteri del datore, non corrisponde all’affermazione di un generale principio di parità di trattamento economico-normativo nel rapporto di lavoro. Articolazione della risposta La posizione giuridica del datore di lavoro nel rapporto lavorativo assume, come per il lavoratore, una struttura complessa. Ciò per la compresenza di situazioni attive e passive, di diritti e di doveri strutturalmente contrapposti e funzionalmente collegati con i correlativi diritti ed obblighi del lavoratore. In particolare, la configurazione dei poteri connessi alla posizione datoriale è legata alla posizione di preminenza che il codice civile riconosce al datore di lavoro rispetto alla soggezione e subordinazione del lavoratore. Si pensi alle previsioni degli artt. 2094 («il prestatore collabora nell’impresa alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore»), 2086 (l’imprenditore è definito «capo dell’impresa da cui dipendono gerarchicamente» i lavoratori subordinati), 2104 (il lavoratore «deve osservare le disposizioni per l’esecuzione e la disciplina del lavoro impartita dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dal quale gerarchicamente dipendono»). Essi si distinguono in: —potere direttivo; —potere di vigilanza e controllo; —potere disciplinare. La posizione di supremazia del datore (improntata alla logica autoritaria dell’organizzazione gerarchica dell’impresa) ha subìto una limitazione con l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori (L. 300/1970) e di ulteriori leggi (ad es. la L. 223/1991 sui licenziamenti collettivi) nonché per effetto della contrattazione collettiva. 100 Parte Settima Ne è seguita una sostanziale reinterpretazione dei poteri autoritativi del datore di lavoro attraverso l’attribuzione di posizioni attive di controllo a favore del lavoratore e di poteri e diritti collettivi alle rappresentanze sindacali dei lavoratori. Al di là delle specifiche limitazioni previste da singole norme (fra tutte gli artt. 2, 3, 4, 5, 6, St. Lav.), occorre richiamare il limite di carattere generale del divieto di discriminazione previsto dall’art. 15 dello Statuto dei lavoratori. In base a tale norma sono nulli tutti i patti e gli atti diretti a ledere in qualsiasi modo la posizione del lavoratore per motivi sindacali, politici, religiosi, di sesso, etnici, di lingua, di razza, di handicap, di età, nonché basati sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali. È importante precisare che la norma contenuta nell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori non sancisce un generale principio di eguaglianza nel rapporto di lavoro, in quanto è riferita a discriminazioni per motivi specifici, ma impone al datore di lavoro un dovere di esercizio non arbitrario bensì imparziale dei propri poteri, che si riferisce alla maggior parte delle manifestazioni del potere imprenditoriale, come, ad esempio, trasferimenti, promozioni, aumenti retributivi. 8. Quali sono i limiti posti dalla legge al potere direttivo e di controllo spettante al datore di lavoro? Riferimenti normativi: artt. 1-8 L. 300/1970 (Statuto dei lavoratori). Disciplina: elencare le garanzie per i lavoratori introdotte con la L. 300/1970 (St. lav.). Domande consequenziali: rilievo delle opinioni del lavoratore nelle imprese di tendenza; deroghe al divieto di controlli a distanza; controllo sullo stato di malattia del lavoratore assente; visite preassuntive. Articolazione della risposta Le norme dello Statuto dei lavoratori, dirette a salvaguardare la personalità fisica e morale del dipendente, pongono una serie di divieti a carico del datore di lavoro e di limiti all’esercizio del suo potere direttivo e di controllo. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 101 Innanzitutto, vanno menzionate le due norme fondamentali di carattere generale poste a tutela del principio di libertà del lavoratore, e precisamente: —l’art. 1 che riconosce il diritto dei lavoratori di manifestare liberamente, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, il proprio pensiero nei luoghi di lavoro, «nel rispetto dei principi della Costituzione e dello Statuto dei lavoratori»; —l’art. 8, completando il principio posto all’art. 1, vieta al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione e nel corso del rapporto, di effettuare indagini, anche tramite terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché sui fatti non rilevanti ai fini della valutazione della sua attitudine professionale. Per quanto concerne gli ulteriori limiti posti dallo Statuto dei lavoratori, bisogna ricordare: —il divieto assoluto di servirsi, per il controllo dell’attività lavorativa, delle guardie giurate, utilizzabili solo per la tutela del patrimonio aziendale. Ad esse viene conseguentemente precluso l’accesso nei locali di lavorazione, tranne che per motivate esigenze attinenti alla salvaguardia dei beni aziendali; —l’obbligo del datore di lavoro di comunicare preventivamente ai lavoratori i nominativi e le specifiche mansioni del personale di vigilanza sul lavoro di cui intende avvalersi; —il divieto della sorveglianza a distanza, cioè il controllo mediante impianti audiovisivi, come ad esempio le televisioni a circuito chiuso, o altre apparecchiature; —il divieto per il datore di lavoro di effettuare accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore, direttamente o mediante medico di propria fiducia; —il divieto delle visite personali di controllo, cioè le perquisizioni sulla persona del lavoratore e negli oggetti in suo possesso (es. borse), salvo che risultino indispensabili per la tutela del patrimonio aziendale, in ragione della qualità delle materie prime lavorate o del valore intrinseco degli strumenti di lavoro. 102 Parte Settima 8 bis.Sono ammesse deroghe al divieto di indagini sulle opinioni del lavoratore? Sì. Una parziale deroga a tale divieto è possibile nelle imprese di tendenza, cioè quelle che perseguono finalità altamente ideologiche, come i partiti politici, le confessioni religiose, i sindacati. In tali ambiti, infatti, le opinioni politiche, religiose o sindacali dei lavoratori assumono una diversa rilevanza: l’organizzazione di queste imprese è in funzione della tendenza ideologica ed è diretta alla sua affermazione, per cui anche il rapporto di lavoro è costituito ed opera in funzione della medesima. Ne deriva, quindi, l’ammissibilità di una indagine sulle opinioni del lavoratore, in quanto diretta a valutare l’adeguatezza di queste all’ideologia o tendenza espressa nell’organizzazione. 8 ter.In quale ipotesi può essere derogato il divieto di controlli a distanza? La sorveglianza a distanza dell’attività dei lavoratori, mediante impianti audiovisivi o altre apparecchiature, è consentita solo per comprovate esigenze organizzative e produttive o per motivi di sicurezza, previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali (RSA o RSU). Se non si raggiunge un accordo tra RSA/RSU e datore di lavoro, quest’ultimo può rivolgersi alla Direzione provinciale del lavoro, che provvede con atto impugnabile dinanzi al Ministero del lavoro e poi innanzi all’autorità giudiziaria competente. 8 quater.In che modo il datore di lavoro può verificare lo stato di malattia di un proprio dipendente? Per l’art. 5 dello Statuto dei lavoratori, il datore di lavoro non può procedere al controllo dell’autenticità della malattia denunciata dal lavoratore attraverso medici da lui incaricati, ma solo attraverso i servizi pubblici competenti, e cioè i medici del Servizio sanitario nazionale. In concreto, per il controllo della malattia, il datore può rivolgersi o all’ASL o all’INPS. Le visite di controllo domiciliari devono avvenire, inoltre, entro determinate fasce orarie. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 103 8 quinquies.Il datore di lavoro può effettuare visite mediche sui lavoratori prima dell’assunzione? No, non lo può fare, perché l’art. 5 dello Statuto dei lavoratori, che demanda il controllo dell’idoneità fisica del lavoratore ai medici di strutture pubbliche, trova applicazione anche nella fase di selezione e valutazione degli aspiranti alla assunzione, che precede la costituzione del rapporto. Le visite mediche effettuate prima dell’assunzione sono legittime soltanto quando sono finalizzate ad accertare l’idoneità del lavoratore alla mansione specifica ed a condizione che siano fatte eseguire dal datore di lavoro dai servizi pubblici competenti. 9. Quali sono i requisiti di legittimità della sanzione disciplinare? Riferimenti normativi: art. 2106 c.c. e art. 7 St. lav. Disciplina: illustrare i requisiti sostanziali necessari per la legittimità delle sanzioni, quali: — sussistenza ed imputabilità del fatto; — adeguatezza della sanzione; — limite alla rilevanza della recidiva. Domande consequenziali: tipologia delle sanzioni e limiti quantitativi e qualitativi. Articolazione della risposta Per irrogare una sanzione disciplinare è necessario rispettare dei requisiti sostanziali quali: —sussistenza ed imputabilità del fatto: innanzitutto, è necessario che il fatto addebitato al lavoratore sussista in concreto e che sia ascrivibile ad un comportamento colpevole e, perciò, imputabile; —adeguatezza della sanzione: è un presupposto che si sostanzia nella proporzionalità tra infrazione e sanzione; —limite alla rilevanza della recidiva: la legge attenua sul piano temporale la circostanza che una data infrazione sia già stata commessa dal lavoratore, stabilendo che non può tenersi conto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione. 104 Parte Settima 9 bis. Quali tipi di sanzioni può applicare il datore di lavoro ed entro quali limiti? La tipologia delle sanzioni applicabili al lavoratore è predeterminata dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori che prevede: il richiamo verbale, l’ammonizione scritta, la multa, la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione, e il licenziamento. Tale norma stabilisce anche i seguenti limiti quantitativi e qualitativi delle sanzioni: —la sanzione non può consistere in un mutamento definitivo del rapporto di lavoro, salvo il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo: il divieto riguarda, ad esempio, una retrocessione di categoria o di qualifica; —la multa non può essere comminata per un importo superiore a 4 ore della retribuzione base; —la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione non può essere disposta per un periodo superiore a 10 giorni. 10. Quali sono i presupposti formali e procedimentali per la legittima irrogazione delle sanzioni al lavoratore? Riferimento normativo: art. 7 St. lav. Disciplina: illustrare i presupposti formali e procedimentali: predeterminazione del codice disciplinare; pubblicità del codice disciplinare; preventiva e specifica contestazione dell’addebito; diritto di difesa del lavoratore. Domande consequenziali: luogo di affissione del codice disciplinare; ammissibilità di più procedimenti disciplinari per le stesse infrazioni. Articolazione della risposta L’art. 7 dello Statuto dei lavoratori stabilisce le modalità di esercizio del potere disciplinare, prevedendo dei veri e propri presupposti formali e procedimentali per la legittimità delle sanzioni da irrogare. I presupposti sono i seguenti: —predeterminazione del codice disciplinare e cioè di un testo, in genere il regolamento d’azienda, che contempli le infrazioni e le relative san- Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 105 zioni. La disposizione mira a garantire un principio di certezza e tassatività delle sanzioni, che consenta di conoscere preventivamente i comportamenti vietati, al fine di evitare soprusi e prevaricazioni da parte del datore di lavoro; —pubblicità del codice disciplinare: l’art. 7, co. 1, impone che il codice disciplinare sia portato a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti; —preventiva e specifica contestazione dell’addebito: la contestazione dell’addebito, con la quale il datore manifesta la volontà di considerare il fatto compiuto dal lavoratore come illecito disciplinare, deve essere specifica, cioè indicare i fatti imputati con sufficiente precisione, e immediata, cioè essere portata tempestivamente a conoscenza del lavoratore. Salva l’ipotesi del rimprovero verbale, la contestazione deve essere effettuata in forma scritta; —diritto di difesa del lavoratore: dopo la contestazione dell’infrazione, il datore deve aspettare almeno 5 giorni per la concreta adozione e applicazione della sanzione. Fatta eccezione del rimprovero verbale, questo è il tempo minimo previsto dalla legge affinché il lavoratore possa esercitare il suo diritto di difesa chiedendo al datore di essere ascoltato o presentando difese scritte. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante sindacale. 10 bis.Dove deve essere affisso il codice disciplinare? Sul punto la giurisprudenza (Cass. sez. lav. 3-10-2007, n. 20733) ha affermato che è necessario che il codice disciplinare sia affisso in luoghi accessibili liberamente ai lavoratori e che la possibilità di recarsi nei locali in cui sono esposte le norme disciplinari deve essere effettiva, non meramente teorica. La corte di cassazione ha però escluso l’obbligo di effettuare l’affissione in locali in cui i dipendenti devono passare necessariamente o in bacheche aziendali, che possono mancare o essere destinate ad altre comunicazioni. 10 ter.Il lavoratore può essere sottoposto due volte a procedimenti disciplinari per gli stessi fatti? No. Secondo la giurisprudenza il datore di lavoro, consuma il potere disciplinare che ha già esercitato legittimamente e non può esercitarlo di nuo- 106 Parte Settima vo per sanzionare il medesimo lavoratore che commette ancora gli stessi fatti costituenti infrazioni. A norma dell’art. 7, co. 8, dello Statuto dei lavoratori il datore di lavoro, può invece tenere conto delle sanzioni già applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonché dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati (Cass., sez. lav., sent. 22-10-2010, n. 21760). 11. Quali sono gli obblighi del datore di lavoro? Riferimenti normativi: artt. 2087, 2099, 2114, 2115 c.c.; art. 9 St. lav.; art. 5, L. 190/1985. Nozione: evidenziare che gli obblighi del datore costituiscono espressione della tutela dei diritti del lavoratore. Disciplina: elencare alcuni degli obblighi fondamentali a cui è tenuto il datore di lavoro. Domande consequenziali: ambito soggettivo dell’obbligo di assicurare i lavoratori contro la responsabilità civile verso terzi. Articolazione della risposta La posizione giuridica del datore di lavoro risulta costituita, oltre che da poteri, anche da una serie di doveri cui corrispondono altrettanti diritti del lavoratore. Gli obblighi del datore di lavoro sono i seguenti: —obbligo di corrispondere la retribuzione e il trattamento di fine rapporto; —obbligo di tutela delle condizioni di lavoro e della integrità fisica del lavoratore (cd. obbligo di sicurezza); —obbligo di tutela assicurativa e previdenziale del lavoratore mediante le assicurazioni obbligatorie previste dalla legge; —obbligo di assicurare i dipendenti contro il rischio di responsabilità civile verso terzi, conseguente a colpa nello svolgimento delle loro mansioni; —obbligo d’informazione che si articola in due direzioni: nei confronti del lavoratore, al quale devono essere comunicati, ad esempio, qualifica, mansioni, periodi di ferie, prospetto paga; nei confronti del sinda- Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 107 cato, che deve essere informato non solo sullo svolgimento dei rapporti di lavoro, ma anche sulla gestione complessiva dell’azienda; —obbligo di procedere ad accertamenti sanitari prima dell’assunzione (presso strutture pubbliche) o in costanza di rapporto (tramite medico competente ex art. 2 D.Lgs. 81/2008, cd. Testo Unico della sicurezza sul lavoro) nei casi in cui sia obbligatoria la sorveglianza sanitaria. 11 bis.Il datore di lavoro è obbligato ad assicurare tutti i dipendenti contro la responsabilità civile verso terzi? No, perché tale obbligo è generale per tutti i lavoratori con la qualifica di quadro intermedio, mentre per le altre qualifiche (dirigenti, impiegati, operai) è limitato ai dipendenti che, a causa del tipo di mansioni svolte, siano particolarmente esposti al rischio di responsabilità civile verso terzi. 12. Come viene tutelata nel nostro ordinamento la riservatezza dei lavoratori? Riferimenti normativi: art. 8 St. lav.; D.Lgs. 196/2003. Disciplina: è vietato al datore di lavoro l’acquisizione di dati personali del lavoratore per finalità estranee alla assunzione e allo svolgimento del rapporto di lavoro; nel caso in cui il trattamento dei dati personali è legittimo è necessario tutelare la privacy del lavoratore secondo le disposizioni del D.Lgs. 196/2003. Elementi da evidenziare: sottolineare il rapporto tra il Codice della privacy e l’art. 8 St. lav. Domande consequenziali: nozione di dato personale; trattamento dei dati sensibili; diffusione a terzi dei dati sensibili. Articolazione della risposta Nel nostro ordinamento esistono due riferimenti normativi della tutela della riservatezza dei lavoratori: l’art. 8 dello Statuto dei lavoratori e il D.Lgs. 196/2003, cd. Codice della privacy. L’art. 8 dello St. lav. ha da sempre costituito la pietra miliare della tutela della riservatezza del lavoratore: tale norma, tuttavia, se da un lato vieta in termini assoluti l’acquisizione di dati personali concernenti il lavoratore, estranei alla sua professionalità e non necessari alla gestione del rapporto di la- 108 Parte Settima voro, d’altra parte non pone alcun tipo di limitazione allorché tali dati siano necessari. Tale lacuna è stata colmata con la L. 675/1996 confluita poi nel D.Lgs. 196/2003: quest’ultimo, infatti, detta specifiche disposizioni per garantire che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali. Tale normativa tutela la privacy del lavoratore in tutti quei casi in cui il trattamento dei dati personali è legittimo in quanto necessario per la gestione del rapporto. In base alle disposizioni dello Statuto dei lavoratori (art. 8) e del Codice della privacy, e tenuto conto delle linee guida dell’autorità di garanzia per la protezione dei dati personali, al fine di tutelare la riservatezza del lavoratore, il datore di lavoro: —deve acquisire e trattare esclusivamente i dati strettamente necessari per adempiere a specifici obblighi o compiti previsti dal D.Lgs. 196/2003 e, di conseguenza, i dati devono risultare corretti, pertinenti ed esatti. Pertanto, il datore di lavoro non può richiedere al lavoratore dati o informazioni – né può svolgere indagini per acquisirli – su fatti non rilevanti ai fini della valutazione della sua attitudine professionale o ai fini della gestione del rapporto di lavoro, dovendo rispettare in ogni caso la riservatezza del dipendente circa le sue opinioni politiche, religiose o sindacali; —non può effettuare operazioni sui dati che non siano necessari e deve adottare modalità tecniche idonee a garantire il rispetto delle finalità perseguite dalla legge; —deve informare il lavoratore circa le finalità e le modalità del trattamento dei dati, la natura obbligatoria o facoltativa del loro conferimento, gli eventuali soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati. Il lavoratore, cui attengono i dati personali da raccogliere o già raccolti, deve normalmente manifestare il suo consenso a che essi vengano trattati. Non occorre invece il consenso del lavoratore quando il trattamento dei dati è necessario per adempiere ad obblighi di legge, di regolamento o della normativa comunitaria o derivanti dal contratto di lavoro. Il rapporto di lavoro: struttura e contenuto 109 12 bis. Cosa si intende per dato personale? Per dato personale deve intendersi qualunque informazione relativa a una persona fisica, persona giuridica, ente o associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente. In concreto, si tratta di dati anagrafici, biometrici (ad es. impronte digitali), fotografie e dati sensibili, che possono essere contenuti in atti e documenti consegnati dallo stesso lavoratore, al momento dell’assunzione o durante lo svolgimento del rapporto, ovvero di informazioni inserite in documenti o file elaborati dal datore di lavoro e poi raccolti e conservati in archivi cartacei o elettronici. 12 ter. Che cosa sono i dati sensibili e quali particolari tutele sono previste per essi? I dati sensibili sono i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. Tali dati sono in grado di svelare la sfera più personale e intima di un individuo e pertanto il loro trattamento è, in linea di principio, vietato. È consentito solo se è necessario alla gestione del rapporto di lavoro ed avviene nel rispetto delle prescrizioni contenute nelle cd. autorizzazioni generali per il trattamento di dati sensibili, rilasciate dal Garante per la privacy. Il provvedimento, attualmente in vigore, dell’Autorità garante autorizza il trattamento dei dati sensibili allorché esso risulti indispensabile per una serie di finalità, tra cui: —ai fini dell’instaurazione, gestione ed estinzione del rapporto di lavoro, nonché per l’applicazione della normativa in materia di previdenza ed assistenza anche integrativa, o in materia di igiene e sicurezza del lavoro, nonché in materia fiscale, sindacale, di tutela della salute, dell’ordine e della sicurezza pubblica; —ai fini della tenuta della contabilità o della corresponsione di stipendi, assegni, premi etc.; —per perseguire finalità di salvaguardia della vita o dell’incolumità fisica dell’interessato o di un terzo; 110 Parte Settima —per la tutela dei diritti in sede giudiziaria, amministrativa o nelle procedure di arbitrato e di conciliazione; —per garantire le pari opportunità. L’osservanza di tali finalità fa sì che il datore sia esonerato dalla necessità di acquisire il consenso scritto dell’interessato, potendo così assolvere più semplicemente ad una serie di obblighi connessi al rapporto di lavoro. In tutte le altre ipotesi di trattamento dei dati sensibili, non previste come casi di esonero, e cioè non incluse nell’autorizzazione generale del Garante, il consenso scritto del lavoratore è invece obbligatorio (sempre che l’acquisizione di tali informazioni sia lecita ai sensi dell’art. 8 St. lav.). 12 quater.Il datore di lavoro può comunicare a terzi i dati sensibili raccolti? Sì, i dati sensibili possono essere comunicati e, ove necessario, diffusi, nei limiti strettamente pertinenti a obblighi o adempimenti connessi al rapporto di lavoro, a soggetti pubblici o privati, come ad esempio fondi di previdenza integrativa, patronati, centri di assistenza fiscale, agenzie per il lavoro, associazioni sindacali. Fanno eccezione i dati idonei a rivelare lo stato di salute, che non possono essere diffusi, salvo che agli enti pubblici affinché questi possano erogare le indennità stabilite dalla legge. Parte Ottava La retribuzione 1. Che cos’è la retribuzione e quali sono i principi costituzionali in materia? Riferimenti normativi: artt. 2094, 2099 c.c.; art. 36 Cost. Nozione: è il corrispettivo del lavoro prestato. Disciplina: è sancito e tutelato dalla Costituzione come diritto soggettivo irrinunciabile i cui requisiti essenziali sono la proporzionalità e la sufficienza. Domande consequenziali: natura giuridica della retribuzione; giusta retribuzione, inesistenza del principio di parità retributiva. Articolazione della risposta La retribuzione costituisce la prestazione fondamentale cui è obbligato il datore di lavoro nei confronti del lavoratore. Essa indica il corrispettivo del lavoro prestato e cioè il complessivo trattamento economico che deve essere corrisposto al lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro come diritto soggettivo irrinunciabile sancito e tutelato dalla Costituzione. L’art. 36 della Costituzione sancisce che la retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, nonché in ogni caso sufficiente a garantire al lavoratore ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. Si tratta di due requisiti essenziali della retribuzione: inderogabili cioè non solo dall’autonomia individuale e collettiva ma anche dal potere legislativo. In virtù del carattere della proporzionalità, la retribuzione deve essere determinata secondo un criterio obiettivo di equivalenza alla quantità e qualità del lavoro prestato, tenendo cioè presente tutti gli elementi di valutazione della prestazione, come, ad esempio, orario di lavoro, tipo di mansioni etc. Il requisito della sufficienza impone, invece, una misura minima di livello retributivo idonea, in particolare, ad assicurare non solo al lavoratore, ma anche alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa: libera, nel senso 112 Parte Ottava di salvaguardare l’esigenza di non essere oppressi dal bisogno economico; dignitosa, nel senso di godere di un tenore di vita decoroso. Per quanto riguarda la vincolatività di tali principi, la giurisprudenza e la dottrina attribuiscono all’art. 36 Cost. natura immediatamente precettiva, per cui la norma è direttamente vincolante nei confronti della autonomia privata, e ogni pattuizione che non attribuisce al lavoratore una giusta retribuzione, secondo quanto previsto dalla norma costituzionale, è invalida. 1 bis. Qual è la natura giuridica della retribuzione? Poiché la retribuzione può essere corrisposta anche se il lavoratore non adempie alla prestazione lavorativa, come, ad esempio, in caso di malattia o infortunio, si ritiene che la retribuzione abbia natura giuridica mista e complessa, cioè non solo corrispettiva (nel senso di compenso per il lavoro prestato), ma anche previdenziale ed in senso lato alimentare. Per tale motivo si distingue tra: —retribuzione diretta, strettamente corrispettiva in quanto correlata alla prestazione eseguita dal lavoratore; —retribuzione indiretta, che ricomprende le attribuzioni corrisposte indipendentemente dalla esecuzione della prestazione lavorativa (ferie annuali, malattia, infortuni, gravidanza) o differite nel tempo e volte a compensare la prestazione complessiva fornita nell’anno (13° mensilità) o nell’intero rapporto (T.F.R.), senza un rigoroso riferimento al lavoro effettivamente svolto. 1 ter.Se il lavoratore eccepisce l’inadeguatezza della retribuzione ricevuta dal datore, in che modo il giudice determina la giusta retribuzione? In tal caso, come anche in assenza di pattuizione della retribuzione tra le parti, in virtù dell’art. 2099 c.c. l’autorità giurisdizionale, nel determinare la giusta retribuzione, fa riferimento ai minimi retributivi stabiliti dal contratto collettivo applicabile al caso concreto, anche se le parti del rapporto di lavoro non aderiscono alle associazioni sindacali che lo hanno stipulato. La giurisprudenza ritiene, infatti, che la retribuzione costituzionalmente garantita corrisponde, in linea generale, a quella determinata dai contratti collettivi. La retribuzione 113 Tuttavia, è sempre possibile che il giudice si discosti dalle previsioni collettive prevedendo emolumenti inferiori ai minimi retributivi, essendo questi ultimi soltanto indici sintomatici dell’equa retribuzione. 1 quater.Il datore di lavoro può corrispondere retribuzioni differenti a lavoratori che hanno pari mansioni e qualifica? Sì, lo può fare, a condizione che la corresponsione di una diversa retribuzione non sia determinata da motivi discriminatori (di sesso, politici, sindacali etc.), ma sia giustificata da ragioni oggettive, quali, ad esempio, mansioni di alta specializzazione oppure la qualificazione professionale del prestatore. Secondo quanto affermato dalla Cassazione a sezioni unite (6030/1993), infatti, nel nostro ordinamento giuridico deve escludersi l’esistenza di un principio di parità retributiva dei lavoratori a parità di mansioni, in quanto non sussiste una automatica equazione qualifica-retribuzione: gli unici limiti per il datore di lavoro sono il principio di non discriminazione (art. 16 St. lav.) e quello della garanzia del minimo retributivo. 2. Quali tipi di retribuzione sono previsti dalla legge? Riferimento normativo: art. 2099 c.c. Tipologie: elencare i diversi tipi di retribuzione secondo la distinzione tra forme ordinarie e speciali della stessa. Disciplina: evidenziare che i vari sistemi retributivi costituiscono dei metodi per calcolare la retribuzione e che la regola generale è quella della retribuzione a tempo. Domande consequenziali: differenza tra cottimo puro e misto; ipotesi di cottimo obbligatorio e casi vietati. Articolazione della risposta L’art. 2099 c.c. contempla diverse tipologie retributive, stabilendo che la retribuzione può essere determinata: a tempo, a cottimo, con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione ed, infine, in natura. Tra i vari sistemi retributivi, si distingue tra forme ordinarie e forme speciali di retribuzione. 114 Parte Ottava Rappresentano forme ordinarie di retribuzione: —la retribuzione a tempo, che costituisce il sistema classico e più diffuso di retribuzione consistente nella corresponsione di una somma di denaro stabilita in rapporto al tempo di lavoro (euro per ora, giorno, mese ed anno). Pertanto, è importante sapere l’orario di lavoro effettuato, che funge da base per la determinazione della retribuzione indipendentemente dal risultato raggiunto; —la retribuzione a cottimo rappresenta l’altro fondamentale sistema di retribuzione, nel quale si tiene conto, per la determinazione della retribuzione, non soltanto del tempo impiegato, ma anche del risultato, della produttività del lavoro e, quindi, del rendimento fornito dal lavoratore (ad es. numero di scarpe prodotto in una determinata unità di tempo). Vengono qualificate come speciali le ulteriori forme retributive previste dall’art. 2099 c.c. In particolare: —la retribuzione in natura si sostanzia nella fornitura al lavoratore di determinati beni o servizi, come ad es. vitto e alloggio, in cambio della prestazione lavorativa. Costituisce un’ipotesi residuale che trova applicazione limitatamente a certe forme di lavoro domestico, agricolo e nel settore della pesca; —la provvigione consiste in una percentuale sugli affari conclusi dal lavoratore nei casi in cui oggetto della prestazione sia la trattazione di affari in nome e per conto del datore di lavoro (ad es. rappresentanti, piazzisti, venditori in genere); —la partecipazione agli utili e al capitale dell’impresa è un sistema retributivo nel quale il compenso è legato al risultato dell’impresa, in quanto viene commisurato agli utili netti che, nel caso di imprenditore obbligato alla pubblicazione del bilancio, sono quelli risultanti dall’ultimo bilancio approvato e pubblicato; —la retribuzione differita, nella quale si fanno rientrare tutti quegli emolumenti, quali la 13° mensilità o gratifica natalizia, la 14° o gratifica di bilancio, il trattamento di fine rapporto etc., che maturano nel corso del rapporto di lavoro, ma vengono erogati in un momento successivo. Tali sistemi costituiscono dei metodi per calcolare l’ammontare della retribuzione, a sua volta determinata dai contratti collettivi o dagli accordi individuali. La retribuzione 115 In pratica il metodo adoperato in maniera esclusiva è quello della retribuzione a tempo, in quanto le altre forme indicate costituiscono compensi parziali o elementi della retribuzione, la quale mantiene sempre una parte fissa, determinata a tempo, al fine di garantire al lavoratore un minimo retributivo dovuto per il semplice fatto di aver prestato l’attività per un determinato periodo di tempo. 2 bis. Che differenza c’è tra il cottimo puro e il cottimo misto? Il cottimo misto si ha quando la retribuzione a cottimo si combina con la retribuzione a tempo. Il cottimo si configura, in questo caso, come una maggiorazione (cd. percentuale o utile di cottimo) integrativa della retribuzione fissa (o paga base) calcolata a tempo. In concreto nel cottimo misto la retribuzione si suddivide in tre fasce: paga base, pari alla retribuzione a tempo; cottimo minimo garantito; cottimo effettivo, che oscilla di volta in volta. Di regola, nella prassi e nella contrattazione collettiva, il cottimo è misto. Costituisce perciò un’eccezione il cottimo puro o pieno, nel quale la retribuzione viene interamente determinata in base al sistema del cottimo. La sua principale applicazione avviene nel lavoro a domicilio, in cui il lavoro non si svolge nell’impresa e quindi non può essere controllato il tempo impiegato per il suo svolgimento, potendosi al contrario valutare unicamente il risultato. 2 ter.In quali casi il cottimo è obbligatorio e quando invece è vietato? Il lavoratore deve essere obbligatoriamente retribuito con il sistema del cottimo quando è vincolato all’osservanza di un determinato ritmo produttivo (ad es. catena di montaggio) e nel caso in cui la retribuzione è calcolata in base a minute rilevazioni che accertano i tempi di lavoro per ogni singola operazione. Ulteriore ipotesi di cottimo obbligatorio si ha per il lavoro a domicilio, perché in tal caso il lavoratore non è direttamente controllabile dal datore nel tempo impiegato, ma solo quanto al risultato. È, invece, vietato il cottimo nell’apprendistato allo scopo di evitare che il giovane apprendista sia spinto ad incentivare la quantità del proprio lavoro, con pregiudizio dell’attività formativa, che è alla base del rapporto, e dell’integrità psico-fisica.