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Scienza e tecnica
Mappa dell'Unità
Piccolo popolo – Torniamo agli arabi.
-Adesso ho capito! Gli arabi, traducendo Aristotele, acquisirono le conoscenze scientifiche dei greci, e le portarono
avanti.
-Me fecero delle nuove scoperte?
Ermetis – Certo. Soprattutto in matematica.
C’è un altro elemento da tenere in considerazione parlando della scienza antica. Se noi consideriamo la quantità di
conoscenze tecniche (e delle relative leggi fisiche) accumulate in epoca ellenistica, scopriamo una cosa stupefacente:
esse non erano affatto inferiori, per numero e qualità, alle conoscenze diffuse nell’Europa del XVI-XVII secolo. Tuttavia
non vi fu, per altri mille anni, nessun vero progresso, ovvero nessuna applicazione sistematica di tali conoscenze. Si può
dire che esse rimasero “sulla carta”, come delle curiosità da eruditi, senza nessun valore pratico. Nel XVII secolo,
invece, il progresso esplose all’improvviso, e portò a una rivoluzione sia scientifica che tecnologica di portata
impressionante. Perché questo? Per una ragione molto semplice: l’economia schiavistica non rendeva necessario
migliorare il lavoro umano. Quello che nella modernità poteva fare una macchina, nell’antichità cadeva tutto sulle spalle
degli schiavi, che ebbero sempre un prezzo di mercato irrisorio. Ma quando la schiavitù venne definitivamente bandita,
allora sorse il problema di come supplire alla mancanza di braccia, soprattutto nelle grandi opere, come lo scavo delle
miniere o il trasporto delle merci. Badate che lo stesso avvenne nell’America dell’Ottocento. Gli Stati americani del sud
furono, fino al 1860 circa, stati a economia schiavistica, mentre quelli del nord si basavano su un sistema di produzione
industriale di tipo molto più moderno. Avvenne così che, abolito lo schiavismo, l’economia del sud tracollò, poiché non
aveva elaborato le risorse sufficienti per sostituire il lavoro umano. E lo stesso principio vale per la Rivoluzione
industriale europea: poco a poco le macchine resero possibile l’enorme ampliamento della produzione, perché una sola
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di esse poteva fare il lavoro di cento uomini.
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Ragazzino schiavo, 1890 c.a.
Gli Arabi non furono, in questo, diversi dagli altri popoli dell’antichità; anch’essi fecero un massiccio ricorso al lavoro
schiavile, e per questa ragione la loro attenzione si rivolse soprattutto alle scienze più speculative, come la matematica
e l’astronomia, in considerazione del fatto che esse non richiedono alcuna attività manuale ma si possono risolvere nella
sfera del puro pensiero. Altre scienze più pratiche, come la medicina e la biologia, o l’ottica, riscuotevano interesse per il
fatto che avevano come oggetto di studio la natura, e l’uomo in particolare, e quindi perseguivano un ideale altamente
filosofico di benessere e armonia col cosmo.
Occorre per questo essere molto chiari: la concezione dominante dei nostri tempi è ancora legata, malgrado i progressi
avvenuti in campo teorico, alla visione positivista secondo la quale la scienza deve servire al progresso umano inteso in
senso eminentemente pratico. L’ideale ottocentesco di sviluppo, maturato in seguito al diffondersi in tutto l’Occidente
della grande Rivoluzione industriale inglese, fu essenzialmente di tipo – appunto - industriale: il sapere doveva dunque
mettersi al servizio incondizionato della tecnica. Ma non è sempre stato così, anzi: non era mai stato così, almeno fino al
Settecento illuminista (con l’eccezione, forse, di Bacone).
Il termine “scienza” (in latino: sapienza), è il corrispondente del greco “epistheme”, che significa “stabilire qualcosa
su...”, ovvero “affermare la verità attorno a un determinato fenomeno”. Platone e Aristotele oppongono l’epistheme
all’opinione: quest’ultima rappresenta l’errore, il luogo comune fondato su false credenze, mentre la prima è frutto del
ragionamento e della dimostrazione. Nella filosofia classica, e per tutto il medioevo fino all’età moderna avanzata, la
scienza non era al servizio di nulla ma della sola verità. Essa rappresentava il gradino più elevato del sapere, secondo
solo alla metafisica, che è essa stessa epistheme, non applicata al mondo naturale ma all’essere in quanto tale.
Fin dall’inizio di questa conversazione abbiamo constatato che il dibattito sulla scienza era materia eminentemente
filosofica; da qui forse può derivare un certo disorientamento nel comprendere la vera portata dei problemi e la ragione
per cui la geometria era tenuta in così alta considerazione. Ora dovrebbe essere più chiaro.
Piccolo popolo – Quindi, quando parliamo di “scienza antica”, parliamo di qualcosa di puramente teorico, senza
applicazioni pratiche?
Ermetis – Questo sarebbe eccessivo. Prendiamo l’esempio di Archimede, il celebre scienziato di Siracusa vissuto
all’epoca delle Guerre puniche. A lui si devono alcune delle invenzioni più straordinarie, dal punto di vista tecnico, di
tutta l’antichità ellenistica: la gru, la pompa idraulica, i famosi specchi ustori (antenati del nostro raggio laser), e altro
ancora. Ma è testimoniato da numerosi storici e biografi che tutto questo per Archimede fu solo accessorio: egli ideò le
sue invenzioni per le esigenze di sopravvivenza della sua città, stretta nella morsa mortale delle due grandi potenze in
conflitto, Roma e Cartagine. Senza la guerra e senza la lungimiranza dell’autocrate di Siracusa, Gerone, è probabile che
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Archimede si sarebbe concentrato con tutte le sue energie sui problemi della geometria e della fisica, che a detta di tutte
le testimonianze gli stavano ben più a cuore.
Personaggi simili ad Archimede ve ne furono molti, in epoca ellenista, e di essi rimangono testimonianze che ci fanno
intravedere un elevato sviluppo tecnologico, tuttavia fine a se stesso, inteso come passione per la ricerca e i misteri
della natura.
Giulio Giorello racconta Archimede il primo genio universale
Tuttavia, la speculazione matematica portò all’invenzione di strumenti che ebbero una grande importanza pratica anche
in quei tempi: pensiamo all’astrolabio, con cui si poteva calcolare l’ora notturna o la rotta delle navi in piena notte,
facendo così guadagnare tempo prezioso nei commerci o nelle operazioni militari.
Non sarebbe esatto quindi sostenere che la scienza antica non avesse scopi pratici, ovvero che fosse slegata dalla
tecnica: allora come oggi, vi erano scienziati puri, volti alla ricerca teorica, e scienziati pratici (che potrebbero
corrispondere, semplificando molto, ai nostri ingegneri), uomini cioè capaci di intravedere il valore pratico di certe
scoperte nel campo fisico e matematico, e di tradurle in fatti.
Piccolo popolo – Effettivamente, tra “scienziato” e “ingegnere” c’è una bella differenza.
-Ma alcuni scienziati sono anche ingegneri.
-Quindi la scienza in quanto tale non ha un valore pratico! Voglio dire: non si fa scienza per raggiungere qualche scopo,
ma per il piacere di sapere.
-Un sapere che può tradursi in qualcosa di pratico, però.
Ermetis – Che il “sapere” possa “servire”, fu un’idea che faticò molto a farsi largo. Non in assoluto, ma dal punto di vista
dei sapienti. Mi spiego: molti governanti, sia nel mondo antico che in quello moderno, si sono distinti per la loro mentalità
aperta e, come si suol dire, illuminata; hanno cioè compreso molto bene che lo sviluppo delle conoscenze può giovare
allo sviluppo della società, a cominciare dal buon governo. L’esistenza di questi politici illuminati ha segnato senza alcun
dubbio le epoche migliori del nostro passato, dall’Atene di Pericle all’Alessandria di Tolomeo I fino alla Roma di
Ottaviano Augusto, passando poi per Carlo Magno e arrivando fino alla Firenze dei Medici. E in questa sequenza va
sicuramente inserita anche la Bagdad degli Abbasidi. Ma in tutti questi casi la spinta venne dall’alto, dalla lungimiranza e
generosità di chi deteneva il potere, poiché senza questo sostegno materiale e ideologico gli intellettuali avrebbero
potuto fare ben poco, oltre che scrivere e studiare. In mancanza di questo, in mancanza cioè di un pubblico
riconoscimento, scienziati e intellettuali hanno per molti secoli avuto la tendenza o la necessità di costituirsi come un
corpo a sé, la cosiddetta Repubblica delle lettere, intendendo la propria professione come qualcosa di elitario e
aristocratico, di più elevato rispetto a tutte le pratiche artigianali o, come venivano definite, meccaniche.
Piccolo popolo – Già: “nel mezzo, vile meccanico!”
Ermetis – Esatto: Manzoni sapeva benissimo che quell’aggettivo nel Seicento non indicava un certo tipo di lavoratore
ma, molto più offensivamente, un uomo incolto e plebeo. Per la semplice ragione che, fino alle rivoluzioni del
Settecento, l’unico tipo di società concepibile fu quella aristocratico-feudale, nella quale il lavoro era considerato
degradante e indegno di un uomo libero. È la stessa ragione per la quale Platone considera lo studio della geometria
molto più nobile del lavoro del geometra.
Per concludere. Agli Arabi vanno attribuite alcune delle più importanti innovazioni in campo scientifico, come
l’introduzione dei numeri, che essi acquisirono dalla cultura indiana, e l’uso dello zero, che rese molto più efficace il
procedimento di calcolo aritmetico, per non parlare dell’algebra. In campo filosofico, poi, è grazie a loro se l’opera di
Aristotele ricominciò a circolare, penetrando successivamente nella cultura occidentale grazie alle traduzioni dall’arabo
al latino, dal X secolo in poi. La grande metafisica scolastica è la diretta conseguenza del lavoro svolto sui testi
aristotelici dai filosofi arabi come Avicenna e Averroè.
Ma la spinta innovativa dell’Islam si spense per le divisioni interne al mondo arabo e sotto il flagello delle guerre che
opposero cristiani e musulmani per lunghi secoli. Ancora una volta, il testimone del pensiero scientifico-filosofico passò
dalle mani dell’Oriente a quelle dell’Occidente.
È facile
Vai alle verifiche Il riferimento è a quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti.
«Costui, seguito da quattro bravi,
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s'avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all'alterigia e allo sprezzo. Tutt'e due
camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine,
gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa
della quale allora si faceva gran caso. L'altro pretendeva, all'opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e
che a Lodovico toccasse d'andar nel mezzo; e ciò in forza d'un'altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in
molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che
dava opportunità di fare una guerra, ogni volta che una testa dura s'abbattesse in un'altra della stessa tempra. Que' due
si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso,
il signor tale, squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente di voce: - fate
luogo. - Fate luogo voi, - rispose Lodovico. - La diritta è mia. - Co' vostri pari, è sempre mia. - Sì, se l'arroganza de'
vostri pari fosse legge per i pari miei. I bravi dell'uno e dell'altro eran rimasti fermi, ciascuno dietro il suo padrone,
guardandosi in cagnesco, con le mani alle daghe, preparati alla battaglia. La gente che arrivava di qua e di là, si teneva
in distanza, a osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de' contendenti. - Nel
mezzo, vile meccanico; o ch'io t'insegno una volta come si tratta co' gentiluomini. - Voi mentite ch'io sia vile. - Tu
menti ch'io abbia mentito -. Questa risposta era di prammatica. - E, se tu fossi cavaliere, come son io, - aggiunse quel
signore, - ti vorrei far vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu. - E un buon pretesto per dispensarvi
di sostener co' fatti l'insolenza delle vostre parole. - Gettate nel fango questo ribaldo, - disse il gentiluomo, voltandosi
a' suoi. - Vediamo! - disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada. Temerario! - gridò l'altro, sfoderando la sua: - io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue. Così
s'avventarono l'uno all'altro…» [Manzoni, I promessi sposi, cap. IV]
positivismo - Corrente di pensiero affermatasi in
Europa nella seconda metà del 19° sec., la quale, contro l’astrattezza e la sterilità della metafisica, riteneva che il solo
sapere reale fosse quello delle scienze (fisica, astronomia), e che anche la riflessione sulla storia dovesse ispirarsi al
metodo delle scienze. I maggiori rappresentanti del p. sono stati A. Comte in Francia, J.S. Mill e H. Spencer in
Inghilterra, e R. Ardigò in Italia. Comte ha enunciato la legge dei tre stadi: la storia (con riferimento particolare alla storia
europea) è passata per lo stadio teologico, poi per lo stadio metafisico, e infine è giunta nella sua piena maturità nello
stadio positivo o scientifico. In questo ultimo stadio gli uomini, nella considerazione dei fenomeni, non ricorrono più a
entità immaginarie soprannaturali, come nello stadio teologico, o ad astrazioni personificate, come nello stadio
metafisico, bensì si attengono rigorosamente ai fatti e alle loro relazioni. La visione che Comte aveva della storia era
dunque fondata sull’idea di progresso. Nello stadio positivo la società era, secondo Comte, organica e gerarchica, al suo
vertice stavano i filosofi positivi, ai quali spettavano le funzioni di arbitrato e di controllo. In tale società venivano
conservate tutte le classi della società moderna e i suoi istituti (famiglia, proprietà), ma essa era regolata in vista del
bene comune. La concezione di Mill era invece individualistica e, sul piano etico-politico, liberale. Lo Stato milliano
doveva intervenire nella vita economica, ma in senso antimonopolistico, per rimuovere gli ostacoli alla concorrenza. Mill
auspicava un progressivo associazionismo e la partecipazione degli operai ai profitti, ma anche in questa prospettiva
egli restava fedele al principio della concorrenza fra le varie aziende cooperative. Spencer, che concepiva lo sviluppo
sociale come un processo evolutivo, prevedeva un punto di approdo in cui i contrasti sociali sarebbero stati appianati, e
in cui privato e pubblico si sarebbero conciliati. In vista di questo punto di approdo, Spencer si oppose a qualunque
intervento dello Stato: bisognava lasciar svolgere il processo evolutivo senza favorire i «meno adatti», avendo fiducia
nel suo risultato positivo [Treccani.it]. Cosa spinge uno scienziato a ricercare? Trovare la soluzione ad un
problema pratico? Certo, ma in questo caso si tratta di uno scienziato pratico, una sorta di ingegnere.
Lo scienziato puro ricerca la verità. E la sua sapienza avrà delle conseguenze pratiche (delle invenzioni). Ma che non
erano la finalità del suo studio. Solo un effetto positivo.
Un po’ come a scuola. Te lo dicono sempre: non studiare per il voto, ma studia per te!
Gli Arabi incentivarono le scienze, intese come ricerche, fusioni di culture, apertura alla novità. I numeri, lo zero, il
calcolo algebrico, la riscoperta della filosofia aristotelica… sono innovazioni tutte arabe. Ecco perché si parla di
rinascimento islamico!
Questa spinta innovativa si spegne a causa delle guerre col cristianesimo.
Ed ecco che torniamo dall’Oriente all’Occidente.
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scienza. Terza giornata
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In questa unità
Testo: Storia delle idee
Autore: Maurizio Châtel
Curatore: Maurizio Châtel
Metaredazione: Erica Pellizzoni
Editore: BBN
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