Hitler, Adolf (1889-1945). Adolf Hitler nacque il 20 aprile 1889 a Braunau am Inn, una piccola città austriaca di confine, dove il padre lavorava come funzionario della dogana. Dopo cinque anni di scuola elementare si trasferí con la famiglia a Linz, poi in convitto in Stiria, e infine a Vienna nel 1907. Là il giovane Hitler, che manifestava aspirazioni artistiche, vendeva i suoi disegni e paesaggi della città ai turisti, e disegnava manifesti per i negozianti; a un certo punto, cercò senza riuscirvi, di entrare nell’Accademia di arti grafiche. Emarginato e amareggiato, aborrendo nel profondo dell’animo il multinazionale impero austro-ungarico - la cui stessa esistenza era un insulto per i razzisti e un certo tipo di nazionalisti tedeschi -, nel 1913 il giovane emigrò a Monaco, capitale della Baviera. Allo scoppio della guerra, l’agosto dell’anno successivo, si arruolò nell’esercito bavarese. Decorato due volte e promosso caporalmaggiore nel ‘17, nel corso della Grande Guerra Hitler poté constatare il senso di cameratismo che univa tutti i tedeschi di fronte a un comune nemico, un’unità a suo giudizio tragicamente assente nelle politiche della Germania del primo dopoguerra, che creavano solo divisione. Convalescente in ospedale dopo aver subito un attacco con gas tossici, Hitler apprese della resa della Germania - sulla scia, a suo avviso, non tanto della sconfitta militare quanto della rivoluzione interna che travolse il Reich nelle prime due settimane del novembre 1918, aprendo la strada all’esperimento di democrazia che fu la Repubblica di Weimar. Una volta dimesso dall’ospedale Hitler tornò a Monaco, dove si impegnò attivamente nei movimenti politici di estrema destra lavorando nel contempo come informatore per l’esercito. Si costruí rapidamente una reputazione di grande oratore all’interno di uno dei tanti gruppi razzisti e nazionalisti (völkisch) della città, il Deutsche Arbeiterpartei (DAF), capeggiato dal fabbro Anton Drexler - che univa all’antisemitismo un certo radicalismo sociale non ben definito, espresso soprattutto nell’ostilità verso la grande industria. Il 24 febbraio 1920 il gruppetto cambiò nome ribattezzandosi Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (NSDAP o Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi) e adottò un programma che chiedeva non solo la revisione del trattato di Versailles e la restituzione dei territori perduti in Francia e Polonia, ma anche l’unificazione di tutti i tedeschi etnici in un unico Reich e l’esclusione dalla cittadinanza di tutti gli ebrei. A queste rivendicazioni razziste e nazionaliste, tuttavia, il programma associava anche alcuni obiettivi sociali come l’espropriazione degli speculatori di guerra, la nazionalizzazione dei gruppi industriali, la socializzazione dei grandi magazzini e l’abolizione dei redditi non derivanti dal lavoro. Che Hitler si sia mai riconosciuto in un programma sociale cosí radicale non è certo, mentre non si può mettere in dubbio la sincerità dei suoi sentimenti razzisti e nazionalisti. In ogni caso, dato che il suo partito corteggiava ormai i ceti medi, Hitler sconfessò apertamente il radicalismo economico nel 1928, durante un comizio in cui spiegò al pubblico che uno stato nazista avrebbe confiscato le proprietà solo agli ebrei. All’inizio degli anni Venti, Hitler conobbe a Monaco molti di coloro che in seguito avrebbero avuto un ruolo di primo piano all’interno del movimento nazista pre1933 e poi all’interno del governo del Terzo Reich: Hermann Göring, Ernst Röhm, Rudolf Hess e Alfred Rosenberg. Con costoro aveva in comune la stessa convinzione che alla fine della guerra la Germania fosse stata vittima di un tradimento, che il paese fosse sotto la minaccia del marxismo e che la nazione dovesse sbarazzarsi degli ebrei. Alcuni di essi rimasero fedeli per tutta la vita a Hitler, il quale possedeva la capacità di legare a sé le persone. A quel tempo lo NSDAP era solo uno dei tanti gruppetti radicali di destra della città. Insieme ad alcuni di questi e al generale Erich Ludendorff, un vecchio eroe di guerra deluso dal presente, il Partito nazista intraprese un tentativo piuttosto patetico di prendere il potere, il cosiddetto Putsch della Birreria dell’8 novembre 1923. Sulla scia del fallimento del colpo di stato il Partito nazista venne dichiarato illegale e Hitler fini in carcere nella cittadina bavarese di Landsberg am Lech, dove avrebbe scritto Mein Kampf. Ammesso che possieda una struttura, Mein Kampf è in parte un’autobiografia e in parte un resoconto delle origini del Partito nazista. Entrambi gli aspetti sono poco veritieri, scritti male, ripetitivi, rozzi nelle argomentazioni e con il marchio evidente del pregiudizio. Buona parte del libro è dedicata alla questione della propaganda: Hitler riteneva che per guidare le masse si dovesse fare appello non ad argomenti di tipo logico o alla presentazione dei fatti documentati, ma alle emozioni e ai pregiudizi, attraverso la ripetizione costante di poche idee semplici ma espresse con forza. Questa premessa aiuta a spiegare le carenze del libro sul piano intellettuale e stilistico. Mein Kampf non si proponeva di essere un elegante saggio di prosa, ma semplicemente un eco della propaganda orale, 1 poiché Hitler riteneva che la voce fosse più efficace della scrittura. La parte più corrosiva di Mein Kampf, che ha lasciato un’impronta più duratura, è quella in cui Hitler espone il suo violento antisemitismo, fondato su una logica che fa acqua da tutte le parti e su una sorta di pseudo-scienza mal digerita. Nel capitolo centrale, «Popolo e razza», Hitler afferma che gli esseri umani si possono classificare in tre razze, tra le quali vige uno stato di guerra costante e inevitabile: i creatori di cultura, inevitabilmente “ariani” (termine abusato e mai definito con precisione); i portatori di cultura, dotati di capacità di imitazione ma non di capacità creativa (anche questi non ben definiti e normalmente confusi con la forza politica o militare); e i distruttori di cultura - gli ebrei. Sono piccoli gruppi di ariani ogni volta a creare la civiltà soggiogando i popoli inferiori, ma in seguito finiscono per mescolarsi con questi - commettendo un «peccato contro il sangue» - e ciò comporta inevitabilmente decadenza e distruzione. Pertanto Hitler era giunto alla conclusione che il massimo compito dello stato era quello di mantenere la purezza della razza ariana. Privo delle qualità che Hitler riteneva prerogativa esclusiva degli ariani (termine che per lui era sinonimo di “nordico” o “tedesco”) - ossia la dedizione al lavoro, il senso del dovere nei confronti dello stato e la capacità di sacrificarsi per il bene comune - l’ebreo (la cui ebraicità era vista come geneticamente determinata e non come una questione di religione) all’interno di questa visione del mondo era l’incarnazione stessa del male e della doppiezza. Il capo dei nazisti riteneva che gli ebrei fossero incapaci di sacrificarsi per un bene superiore; erano materialisti, egoisti che cercavano di controllare il mondo attraverso un improbabile complotto che vedeva il capitale finanziario mondiale alleato del marxismo internazionale. Gli ebrei miravano a sovvertire le vere nazioni-razze - termini che Hitler usa in modo interscambiabile - non solo attraverso il dominio capitalistico e la sovversione socialista, ma anche tramite i rapporti sessuali con la razza superiore ariana. Gli ebrei erano parassiti: erano topi di fogna, germi nocivi, una vera peste, e a loro andava attribuita la responsabilità della sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, dell’intervento americano, delle rivoluzioni scoppiate in Russia e in Germania nel 19171918, del Trattato di Versailles e perfino della sifilide. Il linguaggio usato per descrivere gli ebrei, nella sua assurda cattiveria, è anch’esso significativo: dipingere un gruppo sociale come non umano legittima il fatto di trattarlo in modo disumano; se gli ebrei erano insetti nocivi, dovevano essere trattati come tali e quindi eliminati. La tentazione di considerare queste chiacchiere antisemite come il prodotto di una sorta di psicopatologia è forte, e sono stati scritti molti libri nel tentativo di dimostrare che Hitler era pazzo. In effetti aveva un carattere di tipo ossessivo, era ipocondriaco ed estremamente schizzinoso rispetto al cibo - negli anni Trenta era diventato vegetariano. Si preoccupava esageratamente della propria pulizia personale, possedeva una fede incredibile nel proprio destino, trovava difficile se non impossibile accettare di essere contraddetto, e di tanto in tanto assumeva pubblicamente comportamenti che sembravano maniacali, come gli accessi di collera di fronte a diplomatici stranieri o l’isteria che sembra emergere dai filmati dei suoi discorsi pubblici. Ma considerare Hitler come vittima di processi psichici incontrollabili non sarebbe corretto. Spesso i comportamenti eccentrici che Hitler assumeva erano solo strumentali: i suoi discorsi erano preceduti da attente prove, e perfino i gesti venivano mimati davanti allo specchio. E abbastanza comprensibile anche il fatto che quando la guerra precipitò verso la sua disastrosa conclusione il Fiihrer perdesse il contatto con la realtà: nella primavera del 1945 viveva ormai in foreste isolate, dipendeva da una serie di droghe per alleviare le sue malattie reali o immaginarie, ed era oppresso da problemi militari e politici enormi. Prima delle sconfitte del ‘42, tuttavia, nel comportamento di Hitler vi erano ben pochi segnali di ciò che si potrebbe chiamare follia. La malattia mentale non era certo condizione necessaria per il suo feroce antisemitismo. L’ostilità di Hitler verso gli ebrei, come la sua viscerale antipatia per il socialismo, non erano significativamente diversi da quelli di molti abitanti dell’Europa centrale e orientale all’inizio del xx secolo. In realtà le sue opinioni erano relativamente comuni tra i frequentatori dei caffè viennesi. Probabilmente non è da trascurare il fatto che Hitler provenisse dall’Austria anziché dalle parti più occidentali della Germania, dove gli ebrei erano più integrati e molto meno numerosi che all’Est. Nell’Europa orientale la razza aveva assunto una valenza politica, anche perché i confini politici non coincidevano con quelli etnici. Inoltre, la crescente coscienza di sé di altri gruppi razziali all’interno del plurinazionale impero austro-ungarico suscitò una reazione da parte del gruppo etnico dominante, quello tedesco, all’interno del quale alcuni come Georg von Schónerer, il fondatore del pangermanesimo - giunsero a invocare la creazione di un unico Reich tedesco che accogliesse in sé tutti i tedeschi etnici. La violenza dell’antisemitismo, popolare in 2 alcune parti dell’Europa orientale, era anche una reazione al fatto che gli ebrei erano da un lato più numerosi che nel Reich tedesco e dall’altro più visibili, in quanto gli ebrei dell’Est erano meno assimilati e molto spesso vivevano in ghetti - al contrario degli ebrei che rappresentavano meno dell’uno per cento della popolazione della Repubblica di Weimar. Uno dei problemi principali è quello di stabilire se il brutale antisemitismo manifestato da Hitler nel Mein Kampf sia stato veramente il nucleo iniziale della politica razziale del Terzo Reich e in particolare della Soluzione finale - il tentativo di annientare gli ebrei d’Europa. Molti storici scorgono una linea diretta tra le violente affermazioni di quel libro e i campi di sterminio. Altri mettono in dubbio questa spiegazione dell’Olocausto in chiave “intenzionalista”, ponendo in evidenza il caos che caratterizzava i processi decisionali del governo, le molteplici pressioni provenienti da organismi in conflitto tra loro e “dal basso”, i clamorosi cambiamenti di rotta e le continue oscillazioni che hanno segnato l’evoluzione della politica dei nazisti. Tuttavia, anche se il Mein Kampf e le idee antisemite di Hitler non avessero condotto direttamente all’elaborazione di un piano generale per le politiche successive, tuttavia rappresentarono -, per usare le parole di Ian Kershaw - un «quadro di riferimento per l’azione» di coloro che ritenevano di realizzare i desideri del Fúhrer. Senza quelle idee, la Soluzione finale sarebbe stata inconcepibile. A parte la questione cruciale dell’antisemitismo, Mein Kampf indicava gli obiettivi di politica estera che la Germania doveva porsi: la revoca del Trattato di Versailles, il rientro in possesso dei territori ceduti alla Polonia e alla Francia in base a tale trattato, e l’unificazione di tutti i tedeschi etnici all’interno di un unico Reich (ein Volk, ein Reich). Quest’ultima rivendicazione già rivelava che le ambizioni territoriali di Hitler andavano ben oltre i confini del Secondo Reich; e lo stesso valeva per il suo concetto per cui il popolo tedesco costretto a vivere su un territorio sovraffollato doveva cercare uno «spazio vitale» (Lebensraum) altrove. Questo obiettivo non poteva realizzarsi attraverso un’espansione coloniale, che avrebbe significato mettersi contro l’Inghilterra (l’errore fatale della politica estera della Germania prima del 1914) e di cui non sarebbe stato facile difendere le conquiste, ma solo puntando a Est - in particolare alla Russia, dove, secondo Hitler, i bolscevichi erano saliti al potere grazie a un complotto ebraico. Pertanto una guerra per aprire un Lebensraum a Est sarebbe stata anche una guerra santa contro il comunismo e gli ebrei. Alla fine del 1924 Hitler venne rilasciato dal carcere di Landsberg e tornò a occuparsi di politica völkisch da una posizione di forza, poiché il processo aveva fatto di lui un. eroe in un momento in cui il NSDAP era lacerato dalle discordie interne. Quando questi conflitti sembrarono minacciare la sua stessa posizione, Hitler orchestrò un congresso di partito a Bamberg nel 1926, in cui si sbarazzò dei suoi avversari politici più radicali e di quelli della Germania del Nord. Da quel momento rimase sempre il capo indiscusso del movimento nazista, e anche alcuni ex avversari politici, come Joseph Goebbels, passarono dalla sua parte. Nei due anni successivi il partito subí una riorganizzazione radicale che lo mise in grado di cogliere le successive vittorie elettorali e di assorbire tutti gli altri gruppi razzisti di estrema destra. L’ascesa di Hitler all’interno del movimento nazista, tuttavia, non fu accompagnata da altrettanto successo politico all’esterno. Alle elezioni del Reichstag del 5928, per esempio, il NSDAP ottenne solo il 2,6 per cento dei voti. L’ascesa del Partito nazista e del suo leader Adolf Hitler verso il controllo della politica nazionale dopo il ‘28 fu tanto spettacolare quanto rapida. Alle elezioni del Reichstag del 1930 il NSDAP ottenne il 18,3 per cento dei voti, e nella prima delle due elezioni nazionali del ‘32 tale percentuale era già aumentata a1 37,4. Hitler era ormai a capo di quello che era di gran lunga il primo partito della Germania di Weimar, sebbene fosse ancora escluso dal governo del paese. L’importanza del ruolo personale del leader nazista ai fini del successo elettorale del partito è fuori dubbio. Fu lui a tenere insieme le fazioni rivali all’interno del movimento e a conferirgli il suo notevole dinamismo. La sua efficacia come oratore pubblico venne riconosciuta da molti contemporanei che assistettero alle adunanze del partito. Tuttavia il successo dello NSDAP fu dovuto anche allo sviluppo di una macchina di propaganda unica nel suo genere, la cui creazione è da attribuirsi principalmente a Joseph Goebbels. Il settore Propaganda di Goebbels non si limitava a fare leva sui temi politici tradizionalmente cari ai ceti medi conservatori - l’anticomunismo, l’antisocialismo, il nazionalismo e la denuncia del Trattato di Versailles - ma attraverso i suoi diversi uffici elaborava messaggi specifici rivolti a vari settori della popolazione. Ai piccoli commercianti vennero promessi protezione contro la concorrenza dei grandi magazzini e contro le importazioni agro-alimentari straniere, sussidi e ingenti sgravi fiscali; e alla grande industria lo smantellamento della legislazione a tutela dei lavoratori creata dalla Repubblica di Weimar - che veniva giudicata troppo favorevole ai sindacati -, la restituzione ai dirigenti del 3 «diritto di gestire» e una riduzione delle imposte e degli oneri sociali. Fattore forse ancora più importante, il Partito nazista si preoccupò di raggiungere con la sua propaganda tutta la provincia tedesca, che era sempre stata in buona parte ignorata dalle maggiori organizzazioni politiche. Non essendo mai stato al governo, e avendo un gruppo dirigente relativamente giovane e - si presumeva - non ancora corrotto, lo NSDAP associava al suo nazionalismo e all’antisocialismo la pretesa populista di parlare in nome dell’uomo qualunque e di coloro che in precedenza erano stati privati del diritto di voto - da qui la sua capacità di ottenere il sostegno di molti elettori che non avevano mai votato. Naturalmente l’abilità di Hitler e dei suoi esperti di propaganda spiega solo in parte la sua ascesa al potere. Il fatto più evidente è che il nazismo fu capace di sfruttare i molteplici problemi con cui la Repubblica di Weimar era alle prese: la sconfitta militare e l’umiliazione di Versailles; la diffusione dei valori antidemocratici presso la classe media tedesca; la perdita di potere e di privilegi da parte della grande industria, dell’agricoltura e dei militari a favore dei rappresentanti dei lavoratori e dei sindacati, che aveva portato a una profonda trasformazione delle relazioni industriali e all’avvento delle imposte dirette. Tuttavia anche questa combinazione di abilità da parte dei nazisti e difficoltà oggettive da parte del governo non è sufficiente a spiegare tutto. Perché, ad esempio, tutta questa abilità aveva prodotto risultati così scarsi prima del 1929? In effetti alcuni dati suggeriscono che, almeno nelle prime fasi, la propaganda e gli slogan elettorali dello NSDAP vennero dopo il successo elettorale, e quindi non ne furono la causa. Per esempio, fino al 1928 il partito dedicò la maggior parte dei suoi sforzi a raccogliere voti tra la classe lavoratrice della Germania urbana. Il fallimento di questa strategia infatti i primi successi elettorali dei nazisti nel ‘28 si ebbero in alcune zone rurali della Germania protestante, come la Bassa Sassonia e lo Schleswig-Holstein - indusse i nazisti a modificare l’asse portante della propria strategia di propaganda, che da allora si rivolse ai ceti medi e alle zone agricole. Come si spiega, allora, che dopo il 1929 la propaganda elettorale nazista abbia riscosso tanto successo? Uno dei fattori determinanti fu l’organizzazione sempre più professionale dello NSDAP, specialmente del settore propaganda, e il fatto che a partire dal ‘28 la propaganda del partito si sia posta obiettivi elettorali più proficui. Tuttavia vi furono altri fattori di carattere esogeno. L’esplodere della crisi economica mondiale dopo il crollo di Wall Street nell’aprile del 1929 aggravò le difficoltà di un’economia già fragile a causa della dipendenza dal credito estero, e in cui l’agricoltura e l’industria pesante - carbone, ferro e acciaio - manifestavano già forti problemi di domanda e di concorrenza estera. La crisi provocò un indebitamento massiccio degli agricoltori, che rese il peso fiscale gravante sulle comunità rurali più insopportabile rispetto agli anni 1918-22, quando i prezzi dei prodotti agricoli erano abbastanza elevati. La caduta dei prezzi azzerò i profitti della grande industria e ancora di più della piccola, rendendole infinitamente meno disposte a tollerare alcuni aspetti del sistema di Weimar gli oneri sociali, le imposte per finanziare il welfare e il presunto strapotere dei sindacati - rispetto all’immediato dopoguerra, quando i profitti erano elevati. Allo stesso tempo, le organizzazioni dei lavoratori, che avevano difeso la repubblica contro un tentativo di colpo di stato - il cosiddetto Putsch di Kapp - nel 1920, erano lacerate da fratture insanabili tra socialdemocratici e comunisti e dalle conseguenze della disoccupazione di massa provocata dalla Grande Depressione. L’affermazione che i disoccupati si siano gettati tra le braccia dei nazisti nel complesso è falsa, almeno per quanto riguarda la classe operaia che molto più probabilmente votava per il Partito comunista (KPD). Ma la disoccupazione metteva occupati contro disoccupati, maschi contro femmine, giovani contro vecchi, regione contro regione. Questa concomitanza tra impotenza dei lavoratori e senso di alienazione sempre più profonda di numerosi tedeschi dal sistema politico creò una situazione in cui Hitler e i suoi seguaci non solo riuscirono a mobilitare i loro sostenitori tradizionali, ma attirarono anche il voto di protesta - specialmente quello dei giovani e di coloro che non avevano mai votato - e la presa del potere da parte dei nazisti avvenne in modo relativamente indolore. Tuttavia il messaggio elettorale dello NSDAP fece più presa su alcuni gruppi di popolazione tedesca rispetto ad altri. La base più solida dell’elettorato nazista era rappresentata dai contadini della Germania protestante e rurale e tra il Mittelstand (i ceti medio-bassi, tra cui i piccoli artigiani e i commercianti) della Germania protestante urbana. Nel complesso l’elettorato cattolico continuò a sostenere il Partito di centro o il Partito popolare bavarese. Studi recenti hanno peraltro suggerito che anche una percentuale significativa delle classi più elevate e dei lavoratori tedeschi - in particoh’re quelli delle piccole imprese, della provincia, e delle regioni dove in precedenza la mobilitazione politica era stata scarsa - votò per Hitler. Tuttavia questo forte sostegno elettorale, da solo, non sarebbe 4 stato sufficiente a portare lo NSDAP e il suo capo al potere. Nella seconda elezione del Reichstag del 1932, in novembre, i nazisti persero 2 milioni di voti rispetto a luglio, e il partito precipitò in una crisi interna. Ciò che portò Hitler al seggio di cancelliere all’inizio del ‘33, pertanto, non furono solo le percentuali elettorali ma anche gli intrighi politici delle élite conservatrici, in particolare quelle militare e agricola, che decisero di scendere a patti con lui. Cosi il governo nominato dal presidente Paul von Hindenburg il 3o gennaio 1933 comprendeva solo tre nazisti, mentre il resto era composto da nazionalisti ingenuamente convinti di riuscire a manipolare Hitler e di strumentalizzarlo ai propri fini. Le politiche seguite da Hitler una volta giunto al potere, prima come cancelliere e poi come capo indiscusso (Führer), prevedevano - oltre all’antisemitismo -, l’eliminazione di qualsiasi opposizione, la creazione di un partito-stato, il controllo di tutti i settori della vita pubblica e privata da parte dello NSDAP e delle sue emanazioni, la rivitalizzazione dell’economia tedesca, il riarmo e la preparazione della guerra. In febbraio Hitler convinse i suoi alleati conservatori a indire nuove elezioni, con la motivazione che sarebbero state le ultime per un po’ di tempo. Segui il divieto di tutti gli incontri politici e la messa al bando delle pubblicazioni di opposizione, anche prima dell’incendio del Reichstag del 27 febbraio. L’attentato tuttavia venne utilizzato come pretesto per sospendere la libertà di stampa, di parola e di associazione. La polizia ausiliaria sotto il controllo di Goring, fu sguinzagliata contro gli attivisti socialdemocratici e comunisti nei giorni che precedettero le elezioni del marzo 1933. Anche questa volta, però, i nazisti non ottennero la maggioranza assoluta dei voti, ma solo il 44 per cento. Alleandosi con i nazionalisti Hitler riuscí comunque a ottenere una maggioranza in grado di approvare una legge che gli conferiva pieni poteri, autorizzandolo a governare la Germania senza il controllo del parlamento né l’approvazione del presidente. Il consolidamento del potere nazista attraverso i canali istituzionali a livello centrale fu accompagnato a livello locale da innumerevoli violenze, dato che i nazisti si vendicarono dei loro avversari politici uccidendone alcuni e gettandone altri nei cosiddetti campi di concentramento “selvaggi” (spontanei e privi di autorizzazione ufficiale). I singoli stati della federazione (Lander) del Reich furono privati dei loro poteri attraverso una convergenza analoga tra iniziative del governo centrale e azione diretta a livello locale. In diversi stati i commissari della polizia del Reich destituirono le autorità preesistenti, e nell’aprile 1933 in tutti gli stati si insediarono governatori nominati dal Reich - diciotto dei quali erano nazisti. Il controllo del Partito nazista sullo stato e sulla società fu rafforzato attraverso le purghe, che eliminarono dalla pubblica amministrazione tutti gli ebrei e i potenziali oppositori politici; i partiti e i gruppi di pressione indipendenti si sciolsero spontaneamente o furono messi fuorilegge. In questo modo, entro la metà del 1933 la Germania era già diventata un partito-stato. Le Chiese continuarono a godere di un certo margine di autonomia, ma da questo punto di vista costituirono un’eccezione. L’unica istituzione non di partito che rimase relativamente immune dal controllo nazista, in questa prima fase di presa del potere, fu l’esercito. Hitler aveva capito che interferire in questo ambito poteva risultare un errore fatale, specialmente mentre Hindenburg era ancora in vita; e quando l’eccessiva invadenza delle SA (squadre d’assalto) infastidí le alte gerarchie militari, i dirigenti dell’organizzazione vennero massacrati nella cosiddetta Notte dei Lunghi Coltelli, il 3o giugno 1934. Da quel momento la posizione personale di Hitler fu quasi inespugnabile, specialmente dopo la morte di Hindenburg quando l’esercito gli giurò fedeltà personale, il 2 agosto 1934. In questa corsa a sradicare tutte le potenziali leve dell’opposizione individuale e collettiva che si scatenò dopo il 1933, i mezzi d’informazione subirono la censura e infine vennero posti direttamente sotto il controllo del ministero della Propaganda di Goebbels, che organizzava le adunate pubbliche e le manifestazioni di massa del Terzo Reich. I programmi scolastici e universitari furono modificati per adattarli all’ideologia razzista e alle aspirazioni geopolitiche di Hitler e dei suoi fedeli del partito; quelle organizzazioni indipendenti e quei gruppi di pressione che avevano rappresentato i vari interessi economici e sociali - agendo come un cuscinetto tra questi e lo stato - vennero soppressi, disciolti e sostituiti da appositi organismi nazisti. Cosí i sindacati furono soppressi, i loro beni confiscati e il loro ruolo in teoria assunto da una nuova organizzazione, il Fronte del lavoro, capeggiato da Robert Ley. Il fine di questo movimento era di riconciliare gli interessi di lavoratori e imprenditori in vista di un obiettivo comune; in pratica, tuttavia, si trattava di un meccanismo per controllare la forza lavoro. Il diritto di sciopero fu abolito, e il Fronte non aveva alcun ruolo nella determinazione dei livelli retributivi. Altre organizzazioni naziste si incaricarono di controllare la vita privata e il tempo libero, nonché tutti gli ambiti di attività politica ed economica. I bambini dovevano aderire alla Gioventù hitleriana o alla Lega delle fanciulle tedesche; se non 5 lo facevano, le famiglie potevano avere problemi. Un’altra organizzazione, chiamata Forza attraverso la gioia (Kraft durch Freude), pose sotto i suoi auspici tutte le attività sportive e ricreative. L’abolizione di qualsiasi organizzazione indipendente dal partito o dallo stato nazista privò il dissenso della sua spina dorsale e rappresentò lo strumento cruciale del controllo totale sulla popolazione tedesca, che durò dal 1933 al ‘45. Il terrore istituzionalizzato aggravava le difficoltà e i rischi del dissenso. Nel Terzo Reich il singolo non aveva nessuna protezione legale contro gli abusi dello NSDAP, delle SA, delle SS, del Servizio del lavoro o della Wehrmacht. Con la cessazione delle libertà civili la legalità venne completamente sovvertita. Qualsiasi tentativo di opposizione si risolveva con tutta probabilità nel pestaggio e nell’arresto, nel carcere o nell’internamento in campo di concentramento. I primi internati a Dachau, che venne inaugurato nel 1933, a poche settimane dall’ascesa al potere di Hitler, furono gli avversari politici dei nazisti: socialdemocratici e comunisti. In seguito vennero internati nei campi tutti coloro che non rientravano nell’immagine che avevano i nazisti di cittadino tedesco “normale”: renitenti al lavoro, asociali (barboni, mendicanti e alcolizzati), omosessuali, testimoni di Geova e coloro che erano considerati inferiori sotto il profilo razziale (zingari ed ebrei). Nel trattamento riservato ai suoi nemici reali o immaginari il Terzo Reich era brutalmente diligente e sistematico. Fra il 1933 e il ‘39 12 000 tedeschi furono accusati di alto tradimento, e altri 15 000 vennero condannati a morte nel corso della guerra. Durante la vita del regime il numero minimo di persone detenute in campo di concentramento fu - nell’inverno 1936-37 - di 7500, cifra che non comprende coloro che erano in carcere per reati politici. La persecuzione dei membri del Partito comunista, che nel gennaio 1933 erano quasi 330 000, fu feroce: quasi la metà di essi sperimentò il carcere o il campo di concentramento, e circa 32 000 vennero uccisi. Non si può certo affermare che il regime hitleriano sia sopravvissuto solo grazie a questa violenta repressione. Molte delle sue politiche, come l’anticomunismo, la ripulitura delle strade dai barboni e dagli zingari e l’incarcerazione degli omosessuali, vennero accolte con entusiasmo da gran parte dell’opinione pubblica, specialmente tra i ceti medi. I successi della politica estera prima del 1939 - la rimilitarizzazione della Renana, la riunificazione con l’Austria e l’annessione della Cecoslovacchia contribuirono ancora di più a consolidare la posizione di Hitler, specialmente perché furono conseguiti senza ricorrere alla guerra. Tuttavia, per comprendere la relativa assenza di opposizione aperta al regime occorre tenere conto della violenza e dello strapotere delle organizzazioni naziste fra il 1933 e il ‘45. Il successo di tale repressione fu anche dovuto a un apparato capillare e invasivo di sorveglianza diffuso a ogni livello: il luogo di lavoro, il condominio, le organizzazioni del tempo libero e perfino la famiglia, in quanto la Gioventù hitleriana rappresentava per i giovani un’autorità alternativa a quella dell’insegnante, del prete e dei genitori. Infatti la Gestapo non disponeva certo di personale sufficiente per tenere d’occhio l’intera popolazione, e per raccogliere informazioni si affidava a persone comuni che denunciavano i propri concittadini alle forze di sicurezza. La maggior parte delle denunce tuttavia non era spinta da ragioni politiche quanto dai motivi più svariati e banali, come il desiderio di sbarazzarsi del coniuge o del vicino scomodo, l’invidia o la voglia di saldare vecchi conti personali. Lo stato dittatoriale si fondava sul concetto di Führerprinzip, secondo cui la parola del capo rappresenta l’unica fonte di autorità. Pertanto si dovrebbe pensare che in uno stato del genere Hitler desse gli ordini, e che questi fossero poi trasmessi attraverso la catena gerarchica dell’amministrazione pubblica e del partito fino ai vari funzionari responsabili della loro esecuzione. Certamente è vero che nessuno promosse mai politiche in contraddizione con il volere del Fiihrer; ed è altrettanto certo che qualsiasi iniziativa di politica estera venne intrapresa direttamente da Hitler. Per altri versi, tuttavia, i meccanismi di governo del Terzo Reich erano molto più complessi. Di fatto spesso si trattava di un processo caotico, confuso e pieno di contraddizioni, perché fra il 1933 e il ‘45 si assistette al proliferare di una miriade di organismi statali e di partito con limiti e responsabilità non chiaramente definiti, con ambiti di competenza spesso sovrapposti e privi di una gerarchia burocratica. Perfino in politica estera si registrava un conflitto tra i vari corpi diplomatici che facevano capo a Konstantin von Neurath e l’Ufficio di politica estera del partito, diretto da Joachim von Ribbentrop. Nella formulazione e nell’attuazione delle politiche economiche e di riarmo erano coinvolti la Wehrmacht, il ministero dell’Economia e, con un ruolo sempre più importante, l’Ufficio del piano quadriennale di Goring; tutte queste organizzazioni erano in competizione tra loro per accaparrarsi le leve del potere. L’Ufficio di Goring era il tipico esempio di un altro degli aspetti che caratterizzavano il modo di governare di Hitler, ossia la creazione di organismi con competenze specifiche indipendenti dalle preesistenti burocrazie di stato e di partito. Una di queste era l’Organizzazione Todt, il cui mandato era specificamente quello di sovrintendere ai lavori pubblici, e in seguito, sotto Albert 6 Speer, anche agli armamenti. Questi organismi finirono per assomigliare ad altrettanti feudi privati: le SS di Himmler, il Fronte del lavoro di Robert Ley, l’Ufficio di Goring. Liberi da qualsiasi regola o convenzione burocratica, erano eternamente in lite per spartirsi il bottino delle conquiste del Reich nell’Europa orientale dopo il 1939, e i loro capi assomigliavano ai signori della guerra che imperversavano nell’ultima fase della Cina imperiale. La conseguenza di questa struttura policratica di governo del Terzo Reich fu che i processi decisionali divennero sempre più frammentati e scoordinati, anche perché Hitler era sempre più incline a evitare le riunioni di gabinetto: nel r937 ne vennero convocate solo sei, e l’anno seguente una sola. La complessità dei rapporti di potere all’interno del regime nazista era esasperata dallo stile di direzione personale di Hitler, il quale si disinteressava ampiamente della gestione quotidiana della politica interna. Dopo la morte di Hindenburg spesso la mattina si alzava tardi, poi sfogliava con calma i giornali e magari si incontrava con qualche vecchio compagno di partito, dopo di che se ne andava a fare un giro con la limousine. A Hitler non piaceva stare a Berlino, e passava molto tempo nel suo ritiro di montagna a Berchtesgaden, in Baviera. In questo modo lasciava campo aperto allo sviluppo tumultuoso di iniziative intraprese da una molteplicità di organismi di partito e di governo regolarmente in conflitto. In realtà Hitler odiava dover prendere decisioni difficili e potenzialmente impopolari, e in molti casi manifestò un’estrema indecisione, come nel corso della crisi economica dell’inverno del 1935-36 o circa il problema se autorizzare o meno le corse dei cavalli durante la guerra. Tuttavia, sebbene in buona parte le politiche concrete nascessero “dal basso”, non vi è dubbio che i dirigenti di qualsiasi istituzione del partito considerassero il proprio operato come la realizzazione - se non addirittura come un’anticipazione - dei desideri del Führer, che era al vertice del partito, delle SA, delle SS, della pubblica amministrazione e delle forze armate. Questo potere illimitato aveva l’obiettivo di risollevare l’economia tedesca non solo per generare ricchezza e sradicare la disoccupazione, ma in ultima analisi per preparare la Germania alla guerra. In questo modo la disoccupazione venne finalmente eliminata entro il 1936, e nei due anni successivi uno dei maggiori problemi che afflissero il regime fu la carenza di manodopera qualificata e di materie prime. La scarsità di forza lavoro indusse anche un aumento dei salari reali, anche se questo fu determinato soprattutto dall’allungamento dell’orario di lavoro. Il merito di questa svolta economica non fu da attribuire all’adozione di politiche economiche innovative. In gran parte il calo dello disoccupazione si spiega - almeno inizialmente - con l’espulsione delle donne dal mercato del lavoro e l’arruolamento degli uomini nelle forze armate e nel Servizio del lavoro, nonché con la manipolazione delle statistiche da parte dello stato. Inoltre molte delle politiche che contribuirono a creare nuovi posti di lavoro erano state intraprese dai cancellieri precedenti, e grazie ad esse l’economia tedesca aveva già manifestato un miglioramento nella seconda metà del 1932. Per il resto ci si sforzò di tenere sotto controllo il disavanzo pubblico, di incoraggiare il risparmio e di mantenere alto il carico fiscale. Inoltre, la maggior parte delle politiche economiche del nazismo non rientrava nell’ambito di una strategia a lungo termine, ma veniva adottata caso per caso. La creazione di nuovi posti di lavoro fu dovuta in parte alla proliferazione dell’occupazione nell’amministrazione dello stato e del partito, in parte ai grandiosi investimenti in opere pubbliche, come la famosa Autobahn (autostrada). Il fattore più significativo fu comunque la produzione dell’industria bellica. I livelli sostenuti di consumo e lo sviluppo relativamente lento di una economia di guerra totale non furono tanto il frutto di politiche deliberate quanto una conseguenza delle inefficienze presenti nella pianificazione e nell’attuazione delle politiche, dovute in parte al conflitto di obiettivi tra i numerosi enti coinvolti nella gestione dell’economia e a una certa resistenza al cambiamento da parte degli interessi industriali. Tra gli obiettivi di Hitler vi erano da sempre la revoca del Trattato di Versailles e l’espansione del Reich. Sicuramente altri uomini politici anche stranieri - contribuirono a far esplodere la crisi dei Sudeti del 1938 o a innescare gli eventi che portarono all’invasione della Polonia nel ‘39, ma fu Hitler a prendere le decisioni che portarono alla guerra e a decidere nel ‘41 di compiere quell’errore fatale che fu l’invasione della Russia. Fu la guerra, che avrebbe dovuto culminare nella creazione del «Reich millenario» ma si concluse invece con la sconfitta del nazismo e la divisione della Germania, a rendere sempre più evidente la vera natura del nazismo: terrorismo, frammentazione del governo e brutale razzismo. L’impero delle SS di Heinrich Himmler - che nel 1944 vantava 40 000 guardie dei campi di concentramento,100 000 informatori di polizia, 45 000 ufficiali della Gestapo e 2,8 milioni di poliziotti -, insieme agli altri feudi nazisti, procedette sistematicamente al saccheggio dei territori occupati, mentre i rispettivi signori della guerra litigavano tra loro. I Gauleiter acquisirono sempre più potere a spese degli amministratori pubblici; e il processo di soppressione della legalità, già evidente prima dello scoppio della guerra, raggiunse nuovi abissi. Il 7 potere non incontrava alcun ostacolo, e le decisioni spesso erano assunte e poste in atto in assenza di qualsiasi procedura formale e senza alcun legame con la legalità o le convenzioni, cosa che si verificò ad esempio con la cosiddetta politica dell’eutanasia del Terzo Reich. Questa barbara operazione nacque da una richiesta rivolta a Hitler da un padre che chiedeva di «addormentare per sempre» il figlio sofferente di una grave deformazione. Hitler accolse la richiesta e inviò addirittura il suo medico personale a eseguire il compito. Da quel momento la cancelleria del Fiihrer segui l’esempio, dapprima riservando lo stesso trattamento a bambini in condizioni simili, e in seguito passando anche ai casi di adulti. Ebbe inizio in tal modo un programma in cui vennero uccisi circa 70 000 cittadini tedeschi e che fu deliberatamente sottratto al controllo del ministero degli Interni o delle autorità sanitarie. Non fu mai emanata una legge che autorizzasse l’eutanasia e nessun ministero fu mai consultato sull’argomento. Tutto cominciò con un caso singolo e senza autorizzazione scritta. La difesa della purezza della razza ariana e il perseguimento di un immaginario modello ideale di tipo eugenetico culminarono in quello che fu il risultato più noto, i provvedimenti antisemitici varati prima del 1939 e in seguito il tentativo di sterminio di tutti gli ebrei d’Europa. Tuttavia la violenza dello stato nazista contro gli esterni e contro i membri della sua stessa popolazione ritenuti non sani non si limitò alla persecuzione degli zingari e degli ebrei, ma si manifestò anche nel programma di eutanasia che - ufficialmente abbandonato nel 1942 a causa dell’opposizione soprattutto da parte della Chiesa cattolica - continuò a operare in segreto contro coloro che erano considerati mentalmente difettosi, incurabilmente malati o in qualche modo “anormali”. Le politiche a favore della natalità, che incoraggiavano le donne a restare a casa e fare figli per la patria, erano limitate agli “ariani” e ai “sani”. Le donne di origini ebree o zingare, coloro che in teoria erano portatori di tare ereditarie, gli alcolizzati e gli asociali vennero assoggettati a un programma di sterilizzazione obbligatoria; furono 400 000 a subirne le conseguenze. Al fondo di questa intolleranza vi erano le convinzioni personali pseudo-scientifiche e razziste di Hitler, anche se talvolta l’iniziativa parti da altri. Per il Führer la guerra, specialmente quella sul fronte orientale, era una guerra contro il marxismo, gli ebrei e gli slavi - era quasi, ai suoi occhi, una Guerra Santa, che secondo le sue aspettative non sarebbe durata più di qualche settimana, un errore di calcolo che segnò la sua rovina. Per quanto tentasse di scaricare la colpa su altri, Hitler non poteva più sfuggire all’accusa circa la propria responsabilità del disastro. Divenne cosí sempre più ansioso e depresso, passando sempre maggior tempo da solo, e perdendo progressivamente il contatto con la realtà. Il suo intervento nelle questioni militari, che risultava sempre più controproducente ai fini dello sforzo bellico della Germania, creò crescente insofferenza in alcuni settori dell’esercito. Il tentativo di assassinarlo con un attentato dinamitardo nel luglio 1944 - un complotto in cui erano coinvolti molti alti ufficiali ne esasperò i disturbi fisici e mentali. I suoi rari interventi di carattere sempre più arbitrario rivelavano depressione e insicurezza. Coloro che ebbero occasione di incontrarlo allora notarono un deterioramento fisico impressionante e i segni di un invecchiamento accelerato. Circondato dalla distruzione dei suoi sogni e di fronte alla sconfitta su tutti i fronti, il 30 aprile 1945 Hitler si suicidò nel bunker della cancelleria del Reich. Dick Geary Tratto da W. Laquer (a cura di), Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, Torino, 2001. 8