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Su un termine
fondamentale
dell’identità
europea
Ambivalenza
del Logos?
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on capita tutti i giorni che un termine
basilare del pensiero filosofico riesca a
catturare l’attenzione delle reti mediatiche mondiali. Questo è accaduto il
16 settembre 2006 e non solo questo.
Il capo supremo della Chiesa cattolica,
Benedetto XVI, in una lectio magistralis (Regno-doc. 17,2006,540ss) tenuta all’Università di
Regensburg parla del Logos, per evidenziare ciò che costituisce, a suo avviso, lo specifico del pensiero cristiano
su Dio. Ma la collocazione del termine nel quadro di una
citazione, critica nei riguardi dell’islam, da parte di un
imperatore della Chiesa orientale, del resto decisamente
ostile anche ai cattolici, scatena subito un’ondata di proteste a livello mondiale, comprese vere e proprie azioni
violente nel mondo islamico.
Un evento linguistico con conseguenze
Così i veri destinatari della sottolineatura critica, effettivamente presente in quel passo della lezione di Regensburg, finirono a tal punto nell’ombra da essa proiettata
che poterono prendere la parola solo a distanza di settimane. I veri destinatari erano i rappresentanti delle tradizioni protestanti, che – come del resto già anche i teologi della fine del Medioevo e dell’epoca precedente alla
Riforma – cercavano e cercano di allentare o di sciogliere il legame esistente fra il discorso cristiano su Dio e il
concetto filosofico di ragione. Le motivazioni possono essere diverse: spaziano dall’intenzione di esprimere così la
sovranità di Dio, che non è legata neppure alla ragione,
fino alla tesi moderna secondo cui l’intreccio fra tradizione biblica e pensiero greco in funzione di una spiegazione della prima l’avrebbe falsata e avrebbe di conseguenza raffreddato il calore dell’originario messaggio cristiano: la cosiddetta tesi dell’ellenizzazione, che oggi trova
dei seguaci, sotto vari segni, anche in ambito cattolico,
ad esempio nel quadro del cosiddetto dibattito sull’inculturazione, ma anche nel contesto della nuova teologia
politica, che rimprovera alla propria corporazione – simbolicamente parlando – di attribuire la ragione ad Atene
e la fede a Gerusalemme, dividendo così in due lo Spirito. Su tutto questo vi sarebbe molto da dire e quindi da
discutere (cosa che del resto si comincia a fare, compresi
interessanti interventi da parte di ambienti islamici).
Comunque nelle pagine che seguono non tratterò di
tale questione, ma mi limiterò a una riflessione sul termine filosofico fondamentale «logos», che appartiene senza
dubbio al patrimonio dell’identità culturale dell’Europa;
e proprio mediante ciò è un concetto che penetra
profondamente anche nel campo del pensiero religioso.
Al tempo stesso, questo concetto diventa – certamente
anche a causa della sua valenza religiosa e specialmente
cristiana – uno dei segni distintivi della modernità, nella
quale gioca un ruolo decisamente ambivalente, per cui
viene duramente attaccato nel breve periodo del cosiddetto post-moderno, e oggi sembra ritornare nuovamente alla ribalta, perlomeno là dove si attribuisce al progetto «modernità» una certa capacità di futuro. Ma questo
è, al tempo stesso, il contesto nel quale Benedetto XVI
iscrive il suo ricorso al Logos, inclusa la critica della vio-
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Ritornare sulla lezione di Regensburg è oggi
proficuamente possibile. Una volta diradate le polemiche sulla questione islamica,
del resto a latere nel discorso di papa
Ratzinger, è opportuno affrontare il tema
centrale e decisivo per il cristianesimo occidentale: il legame tra il discorso cristiano
su Dio e il concetto filosofico di ragione.
Analogamente, emergono con chiarezza i
veri interlocutori dell’intervento di
Ratzinger: i rappresentanti delle tradizioni
protestanti e della cultura laica europea.
Klaus Müller, della Facoltà teologica
dell’Università di Münster, sceglie
d’intervenire sul termine filosofico
e teologico fondamentale della lezione di
Regensburg: logos. Esso è parte costitutiva
dell’identità culturale dell’Europa e
condetermina il pensiero religioso.
Segno distintivo dell’età moderna, fortemente criticata dall’approccio postmoderno
e oggi recuperato, il termine logos gioca un
ruolo ambivalente e irrisolto tra ragione
strumentale e fondamento teologico.
lenza a esso collegata nella citazione menzionata sopra.
Qui di seguito cercherò di valutare la consistenza e pertinenza di una tale posizione. Ma anzitutto bisogna chiarire che cosa significa propriamente il termine «logos».
Percorsi filosofici
Penso sia meglio non cominciare questa chiarificazione con la questione formale della traduzione del termine
greco, perché una traduzione indipendente dal contesto
è impossibile e, inversamente, i contesti richiedono traduzioni diverse del termine nelle lingue moderne: «elenco», «calcolo», «senso», «fondamento», «parola», «ordinamento», «legge», «deduzione», «giustificazione», per
limitarci ad alcune possibilità. Mi sembra più utile un
breve ricorso a colui che ha promosso il termine greco al
rango di parola filosofica basilare: il presocratico Eraclito. Questo ionico di Efeso, vissuto a cavallo fra il V e il
IV secolo a.C., veniva contrassegnato, già nell’antichità,
come «l’oscuro»; certamente perché di lui ci sono pervenuti solo molti piccoli frammenti, per lo più avulsi dal loro contesto.
In base a un’attenta analisi linguistica, Hans-Georg
Gadamer, sulla base di una più attenta osservazione del
linguaggio, ha proposto un criterio abbastanza affidabile
per individuare i frammenti autentici di Eraclito:
«Quando ci troviamo di fronte a espressioni brevi, concise, paradossali, allora abbiamo a che fare con Eraclito».1 Il più noto dei suoi detti è certamente quello del fiume: «Acque sempre diverse scorrono per coloro che si
immergono negli stessi fiumi. Nello stesso fiume non è
possibile scendere due volte». «[Il fiume] distrugge e…
riunisce… si raccoglie e scorre via… si avvicina e si allontana».2
Nel corso della sua trasmissione, il paragone ha per
così dire acquistato un maggior dinamismo, rafforzando
così l’immagine tradizionale di Eraclito, che viene associato con il famoso detto del panta rei (tutto scorre) e presentato come il grande avversario dell’altro presocratico,
Parmenide, e della sua concezione dell’unità del pensiero orientato a un fine. Ma questa grande contrapposizione fra i due è piuttosto superficiale, perché anche il pensiero di Eraclito è attraversato da una forte riflessione
sull’unità. Alimentato dalle antiche teorie del divenire e
dalla ripresa della riflessione pitagorica, in Eraclito culmina un pensiero, che comprende tutti i cambiamenti
come regolati e bilanciati – quindi sotto la norma di un
equilibrio, che, dal punto di vista di questa funzione, si
chiama anche logos: per Eraclito si tratta nientemeno
che di un’«unità configurata»,3 che risulta dalla consonanza di realtà contrapposte e mira, contro ogni monotonia, al «monismo» (ossia a un’unità dell’intero) di una
molteplicità ordinata, prodotta da tensioni. Più esattamente:4 in Eraclito non si tratta della successione di stati
diversi e della loro unione e conseguente scomparsa,
bensì della contemporaneità dell’uno e del molteplice; in
relazione al succitato frammento del fiume, si tratta
dell’«unità del corso del fiume e dell’irrequietezza del
suo scorrere».5
Alla luce di altre contrapposizioni evocate da Eraclito, come ad esempio vita-morte, potenza-impotenza,
sonno-veglia, risulta ancor più evidente che si tratta di un
rapido cambiamento, nel quale una parte era già da
sempre nell’altra, mentre la parte rispettivamente nascosta improvvisamente appare – il che significa, inversamente, che le parti in sé e per sé sono nulla e che l’Uno
è il solo sapiente, come dice Eraclito: «hen to sophon».6
Esso deve essere colto attraverso le differenze e le opposizioni, ma non per questo viene considerato un ente, ma
è qualcosa che parla a partire dal tutto come logos. Riguardo a questo Uno, Eraclito afferma: «L’Uno, pur discordando in se stesso, si congiunge sempre in se stesso,
armonia contrastante».7
L’elemento decisivo in questo detto è «si». Qualcosa
«si» muove, «si» dispiega, «si» modifica. Gadamer dice
testualmente: «Eraclito oppone all’idea della contrapposizione dei milesi questo “si”, che è presente, uno e identico in ogni “cambiamento”. L’accendersi del fuoco, il
muoversi del vivente, il ritorno in sé di chi si sveglia e il
pensarsi del pensiero sono manifestazioni dello stesso logos, che sempre è».8
In virtù del suo potere d’integrazione al di là e al di
sopra delle differenze, un potere che ordina e implica un
riferimento a se stesso, il logos fa del pensiero di Eraclito
qualcosa di più e di diverso da un’altra cosmologia, ma
conserva qualcosa di quella naturalezza originaria, non
infranta, dei fenomeni, che è caratteristica delle cosmologie antiche. In Platone e Aristotele il logos assume una
valenza concettuale più limitata, mentre nella Stoà, la
corrente filosofica certamente più diffusa dell’antichità
classica, riacquista la sua piena valenza concettuale e gli
stoici vedono «mediata dal logos (…) la molteplicità del
mondo con l’unità del fondamento divino del mondo
(…).9 In fondo, in questo modo si intona già il leitmotiv
che governa la recezione e il caricamento teologico del
termine logos.
Trasformazioni teologiche
Questo processo inizia ancora prima dell’avvento del
cristianesimo. Il terreno era stato preparato dai contatti
fra il pensiero filosofico greco e le tradizioni bibliche già
negli strati tardivi dell’Antico Testamento, divenuti particolarmente intensi con la traduzione greca dell’Antico
Testamento – la Settanta – risalente in parte al III secolo a.C.. Poi, a cavallo fra i due Testamenti, stimolato dalla struttura costitutiva interna della relazione con il termine logos, il filosofo ebreo Filone di Alessandria attribuisce al logos la funzione di istanza mediatrice fra il Dio
trascendente e il cosmo, e fonde per così dire insieme
questo logos filosofico e la Torah o, più in generale, la parola creatrice di Dio, per farne l’espressione della costituzione basilare di tutto il reale.
Proprio su questa strada, non molto tempo dopo, si
giunge a quell’identificazione fra Gesù di Nazaret e il Logos, che costituisce la spettacolare apertura del Vangelo
di Giovanni diventando, da una parte, il leitmotiv certamente più potente della teologia cristiana e, dall’altra, affascinando la filosofia – quella moderna ancora più di
quella medievale. Per comprendere la pretesa filosofica
collegata a questo atto teologico, bisogna considerare per
un momento l’ambiente del pensiero greco precristiano.
Esso si era interessato alla relazione fra ragione e religione, considerandola addirittura una questione centrale.
Prima della nascita della filosofia, quindi grosso modo prima del VII secolo a.C., i responsabili del discorso
sugli dèi e sulla religione erano i poeti e i cantori, come
Omero, Esiodo o gli orfici. Si chiamavano theologoi, cioè
coloro che parlavano di Dio. Poi già alcuni presocratici,
soprattutto Senofonte di Colofone ed Eraclito, e in seguito anche Socrate, Platone e in un certo senso lo stesso
Aristotele, quindi tutti i grandi della filosofia greca, assunsero una posizione decisamente critica nei riguardi di
questo primo discorso su Dio e, pur essendo filosofi, si
considerarono da questo punto di vista i migliori teologi,
cioè coloro che liberavano il loro discorso su Dio da rappresentazioni inadeguate e affrontavano in un modo criticamente più adeguato tale questione fondamentale della realtà e della vita.
Ma, nella prima fase della teologia cristiana, questa
relazione si capovolge letteralmente: coloro che cominciano a riflettere in modo sistematico sul Dio delle tradizioni bibliche, quindi dell’Antico Testamento, e sul Dio
di Gesù Cristo, si considerano – pur essendo teologi – i
migliori filosofi in comparazione con i filosofi greci precristiani ed evitano a lungo la designazione di «teologi»,
non volendo avere nulla a che vedere con i cantori greci
dei miti, che originariamente portavano quel nome.
Questa «migliore» filosofia, elaborata a partire dallo spirito dell’Antico Testamento e del Vangelo, assunse due
diversi profili.
Da una parte, un atteggiamento molto critico nei riguardi della filosofia greca, contrapponendole la propria
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filosofia come l’unica autentica. Questa posizione poteva
richiamarsi soprattutto alla discordanza e alle riserve con
cui l’apostolo Paolo e il suo ambiente affrontavano la
sophia (sapienza) greca, sospettandola di derivare dall’arroganza umana e di essere sorda al messaggio cristiano
centrale della croce. In 1Cor 1,18-31 Paolo oppone alla
filosofia il suo «logos tou staurou», il logos della croce, come una sapienza di Dio superiore alla sapienza del mondo, che agli occhi dei greci rimane stoltezza. Il primo
grande teologo latino, l’africano Tertulliano, ha determinato con enfasi questa posizione, facendone una delle
due regole in base alle quali valutare tutto il resto – questo, in fondo, fino ai nostri giorni.
Dall’altra, un collegamento neotestamentario, propiziato e alimentato dalla tradizione giovannea, con il termine logos, che, arricchito con connotazioni derivanti
dall’Antico Testamento, dagli ambienti sapienziali con la
loro concezione della sapienza, diventa la grande cifra di
Cristo: «In principio era il logos, e il logos era presso Dio,
e il logos era Dio (...). E il logos si fece carne (...)» (Gv 1,12.14).
Anche questo profilo della costellazione ragione-fede
venne, come quello paolino del periodo precedente, continuato e sviluppato. Il primo a riprenderlo e svilupparlo
fu Giustino, denominato in seguito «filosofo e martire»,
il più importante dei cosiddetti apologeti (difensori della
fede) degli inizi del cristianesimo. Fu il primo a cercare di
gettare, attorno al 150 d.C., un ponte fra la tradizione
cristiana e la filosofia. A tale scopo si ricollegò anche al
termine logos, considerando tutto ciò che c’era di vero al
di fuori del cristianesimo come logoi spermatikoi, «semi»
di quella verità che si era manifestata in tutta la sua pienezza in Cristo. Ovviamente anche la sua relazione con
la filosofia non fu del tutto esente da polemica. Giustino
sosteneva che Pitagora e Platone avevano conosciuto gli
scritti di Mosè, quindi il Pentateuco e i libri dei profeti, vi
avevano attinto e li avevano spesso riprodotti in modo
sbagliato.
Anche Clemente di Alessandria († 215), il grande fondatore della scuola catechetica della città, cercò di includere la versione locale del neoplatonismo nei primi tentativi di sistematizzazione del patrimonio concettuale
cristiano. Anch’egli, come Giustino, partiva dal logos e
vedeva nella filosofia, dono del logos, il pedagogo che introduceva i pagani al cristianesimo. Una posizione analoga venne assunta da Origene, il maggiore teologo greco della Chiesa delle origini. Ed è significativo che l’eminente critico intellettuale del cristianesimo, il neoplatonico pagano Celso, pubblicasse la sua virulenta critica dei
cristiani con il titolo Alethes Logos (Logos vero o Discorso
vero), un titolo ovviamente polemico con cui intendeva
denunciare l’appropriazione di questo termine basilare
da parte del cristianesimo.
Il logos segnava la linea del fronte nella battaglia attorno all’identità e superiorità delle due forme di pensiero concorrenti (il neoplatonismo, in quanto sistema di
pensiero, è più religione che filosofia). La battaglia fu vinta dal cristianesimo. Le ragioni di quella vittoria sono sicuramente complesse, ma vi ha certamente contribuito
anche il fatto che la concezione cristiana del logos era ta-
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le da non limitarsi alla dimensione intellettuale, ma da
includere, nel Logos fatto carne, anche la dimensione
carnale-materiale.
Anche Agostino (354-430), il teologo latino più importante della Chiesa antica, fece propria quella scelta.
Nelle sue celebri Confessiones racconta di aver letto, da
giovane, l’Ortensio di Cicerone, un protrettico (cioè un invito, un’esortazione) alla filosofia, rimanendone affascinato, a parte la delusione di non trovarvi il nome di Gesù Cristo.10 Per lui sapienza e Cristo erano la stessa cosa,
per cui apprezzava la filosofia come amor sapientiae o
studium sapientiae. E proprio per amore della sapienza
si vedrà in seguito costretto a oltrepassare ciò che era stato detto dai filosofi. Perciò Agostino considerava il suo
pensiero cristiano, la sua teologia, il compimento della filosofia, più precisamente il compimento del platonismo.
Era fermamente convinto che, se fossero ritornati i grandi platonici, vedendo le chiese piene accanto ai templi
vuoti e il modo in cui gli uomini apprezzavano le cose
spirituali, avrebbero detto: «Questo [il cristianesimo] è
l’ideale, che noi non osammo predicare alle folle!»;11 e
avrebbero confessato, dopo minimi cambiamenti nel loro vocabolario e nei loro insegnamenti, Cristo, impressionati dalla piena concordanza fra teoria e prassi.
Traducendo logos con verbum, Agostino avvia anche
un’importante e influente tradizione linguistica che, attraverso Anselmo di Canterbury e Tommaso d’Aquino,
giunge fino ad Hans-Georg Gadamer nel XX secolo –
caratterizzata dall’idea che la ragione, e ciò che essa coglie, può essere espressa solo «perché essa stessa è già parola nel senso di Logos. Ma era proprio questo il senso di
Logos in Eraclito e Platone».12
È proprio in questa tradizione del logos, con il suo
stretto legame fra ragione e fede, filosofia e Vangelo, che
si colloca decisamente anche Benedetto XVI, come vedremo. Ma prima dobbiamo seguire un percorso del tutto diverso dalla riflessione sul logos, un percorso che viene posto, in genere, in contrapposizione netta alla storia
dell’influenza cristiano-teologica che abbiamo fin qui descritto13 – ma forse questa è solo una mezza verità o anche meno. Intendo, con questo, la filosofia dell’epoca
moderna.
Il logos e la modernità
Possiamo delimitare la posizione dell’epoca moderna
in merito alla nostra prospettiva ricordando due percorsi singolari.
a) Da una parte, Kant, con la sua filosofia critica, fissa i confini della ragione umana e del sapere certo e lo fa
in modo tale da costituire una sfida fondamentale anche
per la teologia. In conseguenza del suo approccio nel
campo della ragione teoretica, non può più esistere un
sapere su Dio, cioè una conoscenza scientifica paragonabile con quella di altre discipline, perché in questo caso
manca il momento dell’esperienza sensibile necessario
per il sapere certo. Tuttavia la ragione teoretica non si libera del pensiero di Dio, anzi deve necessariamente pensarlo per esaurire il suo compito. E così si interroga sul
senso di questa necessità del pensiero, la quale, da parte
sua, in quanto emergente nella ragione, deve essere ra-
zionale. Questo senso si schiude a essa sotto forma di un
necessario postulato dell’essere di Dio nel campo della
ragione pratica, culminante nel concetto di libertà, per
cui essa, mediante una trasformazione della metafisica in
teologia morale filosofica, giunge a una forma specifica
di sapere su Dio, il che include naturalmente una modifica fondamentale dei concetti teologici basilari, come,
ad esempio, quello di rivelazione. Questa è la situazione
di partenza.
b) Dall’altra, nell’immediata generazione post-kantiana, giovani studenti di teologia, per lo più evangelici,
raccolgono la sfida posta da Kant, ma scoprono al tempo stesso delle lacune nel suo impianto della conoscenza
filosofica e cercano di superare sfida e lacune con una sola mossa. Sono convinti che la risposta vincente alla richiesta e al progetto di Kant possa essere una sola: mostrare in quei confini, senza riguardo a livello filosofico
per i limiti della ragione, anche un passaggio verso il sapere assoluto e l’esistenza di un collegamento intrinseco
fra l’assolutezza di questo sapere e l’Assoluto in quanto
tale, che la teologia chiama «Dio» (il che è assolutamente evidente, perché non possono esistere due Assoluti).
Così inizia il movimento dell’idealismo filosofico. Nella
loro riflessione filosofica i suoi protagonisti, Fichte, Hegel, Schelling, Hölderlin – per limitarci solo ai più importanti –, vogliono essere, in qualche modo mediante un ritorno strutturale alla situazione del discorso precristiano,
i migliori teologi, in confronto con i rappresentanti della
tradizione teologica. E, in questo caso, l’essere migliori
significa concepire una teologia che può rispettare la
norma della ragione critica ed essere inserita in una concezione razionale sulla totalità del reale, comprese le sue
differenziazioni interne.
All’unità delle prestazioni della ragione, procedenti
da un unico movimento della stessa, deve corrispondere
l’unità di tutto il reale nella sua articolazione in modo tale che entrambe le cose siano congiunte, anche in sé stesse, in un’identità di identità e differenza. In questo progetto si sente risuonare la voce di Eraclito. Ma qui il ritorno alla situazione del discorso precristiano viene effettuato in modo tale da integrare il logos cristiano – formulato nella cristologia come il cuore della teologia cristiana – come filigrana o abbozzo del programma dell’intera concezione filosofica, per poi essere reinterpretato a
partire dalla sua elaborazione come la presentazione paradigmatica e rappresentativa del significato razionale,
in linea di principio, di tutto il reale. Deriva proprio di
qui il fascino esercitato su tutti gli idealisti dalla figura di
Cristo in generale, e dal prologo di Giovanni, con il suo
inno al Logos, in particolare. Così, in un certo senso, dal
punto di vista dei contenuti, la filosofia moderna, e specialmente l’idealismo, sono più impregnati di pensiero
cristiano della stessa scolastica.
Per concretizzare quest’aspetto vorrei citare almeno
un esempio: Johann Gottlieb Fichte (1762-1814). Fin
dall’inizio, Fichte è personalmente convinto che la sua
dottrina della scienza – ne elabora faticosamente non
meno di 20 abbozzi – concorda con la rivelazione cristiana, ne è anzi la vera spiegazione. Per lui il vero nucleo
cristologico di un vitale filosofare si concretizza nel mes-
saggio dell’incarnazione, più precisamente nel modo in
cui il prologo del Vangelo di Giovanni e le Lettere di
Giovanni intonano il mistero dell’incarnazione sotto forma di mistica del Logos incarnato: auto-espressione di
Dio, effettuata fin dall’inizio in lui come Volontà che comunica se stessa, esprimendo il suo essere più intimo,
perciò appartenente inseparabilmente a lui e tuttavia distinguibile da lui; perché in questo verbum internum si
prepara la comparsa dell’inafferrabile nell’orizzonte della ragione finita. Già nel 1797, secondo la testimonianza
di altri, Friedrich Heinrich Jacobi aveva affermato, fra il
serio e il faceto, che si potevano trovare i principi della
dottrina della scienza di Fichte nel prologo del Vangelo
di Giovanni.
Probabilmente, dal suo particolare punto di vista, Jacobi non comprese mai pienamente la verità di quella
sua affermazione. Fichte lo riconosce espressamente nella sua Introduzione alla vita beata. Le sue riflessioni culminano in una spiegazione del prologo di Giovanni, che
condensa, a suo avviso, in modo insuperabile, l’elemento autenticamente cristiano. E, nella successiva spiegazione del prologo, Fichte parte ovviamente dalla sua
quinta parola: logos. Ciò che lo affascina è il suo esserein-Dio senza origine, il suo essere-Dio, perché questo significa che l’esistenza di Dio è immediatamente coscienza di se stesso: la vita di Dio è il suo conoscere/sapere se
stesso, e in lui il mondo e le cose sono conosciute e comprese, e questa auto-espressione di Dio costituisce la sua
esistenza.
«Tutto è stato fatto per mezzo di lui – il Logos – e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui
era la vita e la vita era la luce degli uomini»14 – tutto il
reale e tutto il sapere derivano dall’auto-presenza di Dio
a se stesso. Sono, del resto, idee che hanno, mi si passi
l’aggettivo, una «sfacciata» vicinanza con alcuni passi
che si potevano leggere in un libro che era stato scritto
circa sette secoli prima: il Monologion (1070) di Anselmo
di Canterbury. Fichte se ne distingue per il fatto di includere nella sua riflessione, per così dire, anche il luogo nel
quale si scorge direttamente la presenza di Dio a se stesso: ovviamente nel pensiero dell’io. Anche quando penso che io sono «io» devo essere stato già da molto tempo
in me, perché altrimenti non potrei sapere che intendo
me stesso quando dico «io».
Tutti i modelli di riflessione per il chiarimento di questa conoscenza di sé giungono in ritardo. Naturalmente,
in base al pensiero di Fichte, anche questa conoscenza di
sé, come ogni conoscenza, deriva dall’auto-presenza di
Dio a se stesso. Ma, poiché la conoscenza dell’io sull’io
come derivato corrisponde pienamente, in base alla sua
struttura, a ciò da cui deriva, le due realtà – il derivato e
la sua origine, quindi l’io e Dio – formano una cosa sola.
Ma attenzione! Fichte non dice che l’io è Dio, o cose del
genere; ma dice «soltanto» (fra virgolette) che è proprio
l’essere-io a collegarci nel modo più intimo con Dio. Notare che egli lo dice sotto il segno cristologico, per cui
pensa il nostro essere-io secondo il modello dell’autoespressione di Dio nella figura del Logos, recuperando in
tal modo l’idea cristiana centrale, secondo cui i credenti
diventano figli e figlie di Dio nella misura in cui essi as-
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sumono, nella forma della sequela, l’essere figlio dell’Unigenito.
Bisogna anche notare che Fichte vincola la sua concezione della vita beata, quindi redenta, al pensiero dell’io, a un’istanza che ricollega intersoggettivamente – in
un modo così costitutivo, come nessun altro prima di
lui–, ancorando questa genesi dell’essere-io e dell’esseresé ad atti d’ingiunzione e riconoscimento da parte di altri, quindi, in termini moderni, all’amore del prossimo.
Così come bisogna certamente riconoscere che Fichte
presenta Gesù come la figura del mistico insuperabile, bisognerà anche riconoscere che personalmente si muove
nella scia di una mistica ispirata da Giovanni. Lo stesso
si potrebbe affermare riguardo a Hegel e Schelling e, in
modo ancor più denso, essendo sostenuto da una propria
poetica, riguardo a Hölderlin.
Che questa impregnazione teologica del termine Logos non interrompa assolutamente l’impulso critico derivante da Kant, ma lo accentui, risulta chiaramente dalla
critica radicale, proprio a partire dal termine logos, di
concetti fondamentali, come, ad esempio, quello di creazione, da parte di Fichte. Non a caso, proprio nell’Introduzione alla vita beata, così vicino allo stile della predicazione omiletica, Fichte bolla l’idea di creazione come
«l’assoluto errore fondamentale di ogni falsa metafisica e
dottrina della religione»,15 «perché è impossibile pensare
correttamente – cosa che significa pensare veramente –
una creazione e nessun uomo l’ha ancora mai pensata»;16 per cui anche il prologo del Vangelo di Giovanni
corregge l’inizio della Genesi mediante l’idea del Logos:
«(…) in diretta contrapposizione, e cominciando con le
stesse parole, ma invece che dalla seconda, falsa, ponendo allo stesso posto quella giusta, per eliminare la contraddizione, Giovanni dice, in principio (…), cioè in origine e prima di ogni tempo, Dio non creò, e non aveva
bisogno di alcuna creazione – ma – era già, era la Parola – e solo attraverso di essa sono create tutte le cose».17
Se si volesse ricostruire la struttura fondamentale del
pensiero idealistico, senza il suo medium teologico, bisognerebbe affermare che l’idealismo è caratterizzato:
a) dalla convinzione di una conoscibilità e comprensibilità fondamentali di tutto il reale, che implica b) il riconoscimento che tutto il reale è, in definitiva, qualcosa di
spirituale, perché noi veramente fino in fondo possiamo
conoscere solo noi stessi e la nostra vita spirituale, in
quanto solo lì abbiamo la possibilità di una relazione diretta con il conosciuto. Di conseguenza, la conoscenza
fondamentale del reale può avvenire solo in relazione a
una realtà che è per sua natura spirituale, che ha quindi
la forma del logos.
Già Platone era convinto che l’anima può conoscere
veramente solo ciò con cui è intimamente imparentata,
ossia lo spirituale.18 E questo significa, a sua volta, che
conoscibile, conoscere e conosciuto costituiscono per così dire un continuo, sono inseriti in una totalità o unità
del tutto, che acquista il suo pieno significato dal fatto
che in essa il differente è strettamente congiunto e ricco
di tensioni al tempo stesso: ecco, ancora una volta, il vecchio motivo di Eraclito. Ovviamente la pretesa conciliante di questa spiegazione moderna dell’idea del logos
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non era esente da contraddizioni problematiche, andando così incontro a un destino del tutto particolare, su cui
vale la pena riflettere.
L’altro dal la ragione
Già verso la fine dell’attività di Hegel, quindi negli ultimi vent’anni del XIX secolo, entra in scena quello che
viene normalmente etichettato come «crollo del pensiero sistematico». Il crollo è determinato essenzialmente
da due cause, fra loro interdipendenti.
1. Gli abbozzi dei giovani idealisti – come i contemporanei schizzi dell’architettura rivoluzionaria – erano
straordinariamente arditi, ma prestavano poca attenzione alla statica, cioè, filosoficamente parlando, all’accordo con la realtà pratica.
2. La problematicità che ne derivava veniva ulteriormente incrementata dalla contemporanea differenziazione storico-sociale e scientifico-tecnica del mondo.
Industrializzazione, proletariato, rivoluzione, miseria
sociale, sono tutti fattori che favoriscono il sospetto di
una mancanza di senso della tradizione, della storia, della religione e dell’essere uomo, e che mobilitano le filosofie dell’irrazionale, culminate in Nietzsche. Già nella sua
primissima opera filosofica intitolata La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872), Nietzsche persegue una riflessione, derivante da un’origine preclusa al
logos, che Heidegger chiamerà poi «Ab-Grund» (abisso).
«Mentre Hegel vorrebbe comprendere tutto il reale come razionale, Nietzsche afferma che tutto ciò che esiste
è giusto e ingiusto e in entrambi i casi ugualmente giustificato»,19 scrive Hansjürgen Verweyen in una pertinente
contrapposizione fra i due autori.
Il santo patrono della casa di Nietzsche è Prometeo,
che distrugge l’ordine naturale e il mondo morale con la
sua azione empia, permettendo così la nascita, sulle rovine del vecchio mondo, di un mondo nuovo, quello della tecnica, e così all’infinito. Non bisogna interrogarsi sul
senso del tutto. La verità e i concetti sono pretesti della
natura al servizio della sopportabilità dell’esistenza. Qui
ci muoviamo nel campo e nell’orizzonte di quello che oggi viene volentieri chiamato «l’altro dalla ragione», in
una sorta di deserto sconfinato, nel quale una fata Morgana di tanto in tanto ci fa credere d’intravedere un’oasi
del logos. La contraddizione e la contrapposizione hanno la prima e l’ultima parola sulla realtà.
Su questa scia, autori successivi, apostrofati comunemente come post-strutturalisti, ma per lo più (e meno felicemente) come post-moderni, partendo da questo sospetto fondamentale di Nietzsche del quale – una volta
formulato – il pensiero non riesce più a sbarazzarsi, hanno costruito un programma critico radicale. Gli autori
inclusi in questa categoria sono soprattutto i francesi Michel Foucault (1926-1984), Jacques Derrida (1930-2004),
Jean-François Lyotard (1924-1998) e in Italia Gianni
Vattimo, che cercano di collegarsi direttamente a Nietzsche e a Heidegger; e Jacques Lacan (1901-1981) e, sulla sua scia, Slavoi Zizek (*1949), che si ricollegano a
Freud, per decostruire, come dicono, il logocentrismo del
pensiero occidentale, il suo monolitico potere storico e,
quindi, la sua violenza strutturale. Costoro danno per
scontato che il pensiero del logos cerca di cancellare o di
reprimere, in una sorta di smania d’identità e di unità, le
differenze, le lacerazioni e, nel discorso dominante, ciò
che non è valido.
Naturalmente una ricerca più accurata sul concetto
integrale di ragione dell’epoca moderna mostrerebbe che
gran parte di questo – giustificato – desiderio è stato sottolineato e valorizzato già molto prima, ad esempio, se si
tenesse conto della presenza del lato oscuro di ragione e
illuminismo nell’idealismo e nei romantici, o nella tradizione della filosofia della natura collegata a Schelling.
Quanto più l’idealismo, e quanto lo segue, ritornano al
centro dell’interesse filosofico, tanto più il post-moderno,
nel senso di un passaggio d’epoca, si rivela un intermezzo segnato dalla crisi considerato più importante del dovuto, il cui tramonto è in corso già da molto tempo. Anche l’apoteosi dell’uno o dell’altro dei suoi protagonisti,
come quella recente di Jacques Derrida a opera di Peter
Sloterdijk in occasione del primo anniversario della sua
morte, non cambia lo stato delle cose.20
In ogni caso, appare sempre più chiaramente che
non basta contrapporre a questo logocentrismo una radicale pluralità di sensi al posto del senso, di storie al posto della storia, di verità al posto della verità, e assoggettare tutto al destino di una definitiva incommensurabilità, se si vuole ancora poter attribuire alla ragione una
fiducia in se stessa che sia, almeno in parte, solida e affidabile. Da questo punto di vista mi sembra altamente
stupefacente e assolutamente stimolante che a questo
punto del discorso intervenga, spaccando il capello in
quattro, l’appello a favore di una ragione forte, che ha seminato uno scompiglio senza precedenti in tutto il mondo intellettuale: la difesa del logos nella sua lectio magistralis di Regensburg da parte di Benedetto XVI.
Che quest’appello non rappresenti solo un’opinione,
ma costituisca anche la base di un’opposizione fondamentale alla proclamazione del primato dell’irrazionale
da parte di Nietzsche, può essere colto solo da chi ascolta la lezione, prestando attenzione al suo basso continuo
e ricollocandola, a partire di lì, in tutto il percorso del
pensiero di Joseph Ratzinger – questo ci consentirà di fare una scoperta piuttosto sbalorditiva.
A metà strada…
o di un’esitazione infondata
Il ricorso al concetto logos nella lectio magistralis di
Regensburg può essere sufficientemente compreso solo
tenendo presente anche il modo in cui tale idea viene sviluppata da Ratzinger già in Introduzione al cristianesimo
nel 196821 e poi sintetizzata, ancora una volta, nel 1999
in un Colloquio alla Sorbona sulla questione dell’estensione della pretesa di validità della conoscenza nel campo delle scienze naturali. Ecco come l’allora cardinale
formula la questione: «Si tratta di sapere se la ragione o
il razionale sia all’inizio di tutte le cose e al loro fondamento. Si tratta di sapere se il reale sia sorto in base al
caso e alla necessità (…), provenga quindi dall’irrazionale, se la ragione sia di conseguenza un sottoprodotto casuale dell’irrazionale e, in definitiva, anche priva di significato nell’oceano dell’irrazionale; oppure se sia vero ciò
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che costituisce la convinzione basilare della fede cristiana e della sua filosofia: “In principio erat Verbum” – all’inizio di tutte le cose c’è la forza creatrice della ragione.
La fede cristiana opta oggi, come in passato, per la priorità della ragione e del razionale».22
Questo passo apparentemente semplice nasconde
un’argomentazione anti-nietzschiana molto complessa:
se nel mondo c’è ragione, e con essa conoscenza e scienza, allora, strettamente parlando, anche la sua fonte, la
sua provenienza, deve avere la forma del razionale. Se
così non fosse, la ragione non potrebbe fidarsi di se stessa. Sarebbe derivata da un irrazionale, funzionerebbe
così come funziona, ma dovrebbe astenersi da ogni pretesa di validità. Sarebbe – per dirla con Nietzsche – un’illusione, a proposito della quale abbiamo dimenticato che
di tale si tratta.23 Infatti, a partire da dove la ragione dovrebbe essere capace di verità e di sapere, se questo non
si può dire già della sua origine?!
In realtà, qui si tratta di un’opzione, quindi di una decisione a favore di una determinata descrizione del mondo. Questa opzione non si basa ancora una volta su una
prova, non ha bisogno di una prova o non ne è neppure
capace, se si ammette che esiste qualcosa come la ragione. Essa è sostenuta da una fiducia ultima della ragione
in se stessa, nella sua capacità di verità, un’idea nota anche a Friedrich Heinrich Jacobi, a Johann Gottlieb Fichte e ricondotta da Ludwig Wittgenstein alla lapidaria affermazione secondo cui tutto il sapere si basa in definitiva sul riconoscimento.24 Oppure, con la domanda posta
da Joseph Ratzinger: «(…) può la ragione rinunciare alla priorità del razionale di fronte all’irrazionale, alla posizione originaria del logos, senza eliminare se stessa?».25
Ovviamente la risposta è «no». Tuttavia la ragione
può ancora decidere a favore della priorità dell’irrazionale, ma in questo caso deve ragionevolmente rinunciare a ogni pretesa di validità, quindi a se stessa – cioè la
ragione dovrebbe effettuare persino la smentita di se
stessa in base al criterio della razionalità, se vuole che la
sua affermazione sia più di un semplice fruscìo privo di
senso. La supposizione di un fondamento a-razionale
della realtà sospingerebbe la ragione umana in una contraddizione performativa di se stessa. E proprio a partire da questo punto il papa conclude che se c’è ragione
nel mondo, lo stesso fondamento del mondo, dal quale
tutto proviene, quindi teologicamente Dio, deve essere
ragione.
Anche la prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est (25.12.2005), si colloca interamente in questa linea argomentativa. Facendo proprio il collegamento,
che si ritrova continuamente già prima, fra il motivo della ragione e l’amore, egli identifica l’immagine metafisica di Dio della «ragione primordiale»26 con quella di «un
amante con tutta la passione di un vero amore».27 Anche
il fondamento di questo collegamento si trova in Ratzinger già presente decenni prima nell’Introduzione al cristianesimo e precisamente là dove evidenzia la «trasformazione cui soggiace il Dio dei filosofi»,28 consistente appunto nel mantenere insieme ragione e fede: al riguardo,
ricorda un detto derivante da un anonimo gesuita e posto da Hölderlin nel frontespizio del suo romanzo Iperio-
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ne: «“Non coerceri maximo, contineri tamen a minimo, divinum est” – “Non venir coartati dalle cose più grandi,
non accondiscendere a lasciarsi racchiudere dalle più
piccole, è una peculiarità veramente divina”».29
E Ratzinger commenta: «Quella mente sconfinata
che cela in sé la totalità dell’essere, si libra ancora altissima sopra i “valori massimi”, che per essa sono sempre
una quisquilia; e si abbassa sino al fattore minimo, proprio perché nulla è troppo minuscolo ai suoi occhi. Precisamente questo superamento del valore più grandioso
e questo raggiungimento del più piccolo, costituisce la
vera essenza dello Spirito assoluto. Qui, però, si verifica
al contempo un’inversione di valori che è quanto mai caratteristica per la comprensione cristiana della realtà».30
Solo da questa «primordiale identità fra verità e amore»31 si può comprendere il Logos come creatore e così
pensare che al di fuori dell’Assoluto c’è ancora qualcosa
d’altro. Tuttavia nell’opzione di Benedetto XVI a favore
di un primato del Logos, di cui qui ci occupiamo, c’è ancora un altro tratto che vale la pena considerare – tanto
più che esso implica una notevole sorpresa.
Orecchi filosoficamente ben intonati lo hanno forse
già notato nell’ultima citazione di Ratzinger, dove si parlava della «vera natura dello Spirito assoluto». L’espressione non sa di idealismo? Non solo sa di idealismo, ma
lo è. Alcune pagine dopo, nell’Introduzione al cristianesimo, Ratzinger sviluppava il primato del Logos esattamente come aveva fatto, e continua a fare, la tradizione idealistica nei suoi rappresentanti migliori. Se la ragione –
come già spiegato – ha per amore di se stessa delle motivazioni per optare a favore di un primato del Logos, allora ne consegue che l’intero dell’essere, in base alla sua
struttura più intima, è logico, quindi pensiero. Ciò che di
spirito oggettivo si trova nelle cose è «impronta ed
espressione»32 di un precedente essere pensato creatore
da parte di uno spirito soggettivo, per cui il nostro pensiero è letteralmente un pensiero successivo di quello
stesso pensare. A partire di qui Ratzinger perviene alla
sua ardita sintesi: «Dire “Credo in Deum” – “Io credo in
Dio” esprime la convinzione che lo spirito oggettivo è un
derivato dello spirito soggettivo, ed è in grado di sussistere unicamente come sua forma di declinazione; per dirla in altri termini, la connotazione di essere-pensato (così come la rileviamo quale struttura stessa del mondo) è
assolutamente impossibile senza pensiero».33
Ma per lui questo significa che anche la materia è, in
definitiva, «un elemento pensato, un pensiero oggettivato»34 – una convinzione che il successivo cardinale
avrebbe espresso nuovamente decenni dopo nel già menzionato Colloquio alla Sorbona, in risposta alla preminente posizione contraria di Jacques Monod del puro caso come unica ipotesi pensabile.35 In breve, Ratzinger afferma che se esiste un primato del Logos, allora «(…)
ogni essere è, in ultima analisi, un qualcosa di pensato,
per cui va fatto risalire allo spirito quale realtà originaria.
In tal modo, ci troviamo davanti alla via “idealistica”».36
E le cose stanno effettivamente così. Joseph Ratzinger
condivide da sempre il nocciolo di quest’approccio, del
resto, anche con il primo Karl Rahner a partire da Uditori della parola del 1941.37 E tuttavia cerca anche di di-
stinguersi dalle posizioni storicamente avanzate dell’idealismo filosofico, dato che nell’Introduzione al cristianesimo scrive: «Certo anche la nostra fede dirà che l’essere è essere-pensato, che la materia rinvia al pensare come ciò che è previo e più originario. Ma contro la posizione dell’idealismo, che riduce ogni essere a momento
di una coscienza universale, la fede cristiana ci dirà: l’essere è sì un essere-pensato, non però nel senso che esso
rimanga unicamente pensiero, sicché l’aspetto presentato dalla sua autonomia si dimostri, a uno sguardo più
profondo, una mera parvenza. La fede cristiana in Dio
sottintende invece che le cose siano esseri-pensati da una
coscienza creatrice, con un atto di libertà creatrice, e che
tale coscienza creatrice, da cui tutte le cose sono sostenute, abbia immesso il pensato nel suo proprio e autonomo
essere».38
Ma è proprio questa demarcazione a non convincere. Chi si occupa delle fonti del pensiero idealistico e ne
ha una certa familiarità, può portare facilmente prove a
favore di ciò che Ratzinger afferma criticamente essere
una lacuna dell’idealismo filosofico. Mi limito a un unico esempio, ma particolarmente pertinente: Schelling
descrive la relazione fra l’Assoluto e il finito, fra Dio e il
creato, in base alla logica dell’immagine. Poiché tutto è
immagine di Dio, in quest’immagine è raffigurata anche
l’autonomia di Dio, che si fa sentire come posizione autonoma dell’ente: «Ciò che è in definitiva proprio dell’assolutezza è il fatto di conferire alla sua contro-immagine,
insieme alla sua essenza, anche l’autonomia. Questo essere-in-se-stesso, questa realtà propria e vera (…) dell’immagine è libertà».39
La demarcazione dall’idealismo operata da Ratzinger si dimostra, sistematicamente considerata, artificiale.
Voglio dire che una teologia che opta inequivocabilmente per il primato del Logos deve necessariamente imboccare, per sua logica interna, una strada idealistica. Le varie controversie critiche con gli idealismi classici effettivamente elaborati, a cominciare già da Kant, passando per
Fichte, Schelling, Hegel, fino a Hölderlin, non solo non
lo escludono, ma lo includono. Purtroppo, con il passare
del tempo, Ratzinger ha sempre più dissolto tutta quest’area dell’epoca filosofica moderna e sviluppato, a livello filosofico, il suo radicamento cristiano-idealistico quasi esclusivamente in dialogo con Platone. Nonostante
l’indiscutibile stima per Platone, questo è limitativo, dal
momento che proprio negli idealisti moderni, più che altrove, si possono trovare risorse per quell’«(…) ampliamento del nostro concetto e uso della ragione»40 che Benedetto XVI ha reclamato, nella sua lectio magistralis di
Regensburg, contro una spiegazione che si limita unicamente alla ragione strumentale.41 Proprio lì si troverebbero facilmente anche spunti per presentare, con una
particolare sensibilità nei riguardi della teodicea, la «ragione del cosmo»42 che si rivela come amore, «come
quella razionalità più grande, che assume e guarisce anche l’oscuro e l’irrazionale».43
E sarebbe proprio questa la forma di un pensiero del
logos, che non cade nell’ambivalenza che subentra quando il logos umano si limita allo strumentale, dimenticando così i suoi limiti e staccandosi dal suo fondamento –
che teologicamente si chiama «Dio».
Klaus Müller
1
H.G. GADAMER, Der Anfang des Wissens, Stuttgart 1999 (Reclam U.-B.; 9756), 51.
2
ERACLITO, I presocratici: testimonianze e frammenti, vol. I, Laterza, Bari 1969, 199 e 215.
3
E. ANGEHRN, Der Weg zur Metaphysik, Velbrueck GmbH 2005,
119.
4
Cf. su ciò che segue GADAMER, cit., 41-77.
5
Ivi, 42.
6
ERACLITO, «Unica cosa è la saggezza», fr. 41, cit., 205.
7
ERACLITO, cit., fr. 51, 208. Secondo GADAMER, cit., 41.
8
GADAMER, cit., 92.
9
N. SLENZA, «Logos», II, Fundamentaltheologisch, RGG 4, Aufl.
Bd. 5, 495.
10
Cf. AGOSTINO, Confessiones III, 4, 7.
11
AGOSTINO, De vera religione, 4, 6.
12
G. FIGAL, «Logos», III, Philosophisch, RGG 4, Aufl. Bd. 5,
500.
13
Cf. ad esempio, SLENZA, «Logos», II, Fundamentaltheologisch,
498.
14
Gv 1,3-4.
15
J.G. FICHTE, Anweisung zum seligen Leben, 117s; tr. it.: Introduzione alla vita beata, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
2004.
16
Ivi, 118.
17
Ivi.
18
Cf. F. KUTSCHERA VON, Die Wege des Idealismus, Paderborn
2006, 252-261.
19
Cf. H. VERWEYEN, Philosophie und Theologie. Vom Mythos zum
Logos zum Mythos, Darmstadt 2005, 372.
20
Cf. P. SLOTERDIJK, Derrida ein Ägypter. Über das Problem der
jüdischen Pyramide, Frankfurt a.M. 2007 (es; 2502).
21
Cf. J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo: lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1969.
22
BENEDETTO XVI, Gott und die Vernunft. Aufruf zum Dialog
der Kulturen, Sankt Ulrich Verlag 2007, 40.
23
Cf. F. NIETZSCHE, «Ueber Wahrheit und Lüge im aussermora-
lischen Sinne», in ID., Sämtliche Werke, Walter de Gruyter, Berlin
1969.
24
Cf. L. WITTGENSTEIN, Über Gewißheit, a cura di G.E.M. ANSCOMBE e G.H. VON WRIGHT, Bd. 8, Frankfurt a.M. 1984, nr. 378.
25
BENEDETTO XVI, Gott und die Vernunft, cit., 41.
26
BENEDETTO XVI, lett. enc. Deus caritas est sull’amore cristiano, 25.12.2005, n. 10; Regno-doc. 1,2006,69 (Suppl.); EV 23/1558.
27
Ivi.
28
RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, cit., 104.
29
Ivi, 106.
30
Ivi, 106-107.
31
Ivi, 108.
32
Ivi, 102.
33
Ivi, 114-115.
34
Ivi, 115.
35
Cf. RATZINGER, Glaube – Wahrheit – Toleranz, 121-122; tr. it.:
ID., Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo,
Editore Cantagalli, Siena 2003.
36
RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, cit., 115.
37
K. RAHNER, Hörer des Wortes. Zur Grundlegung einer Religionsphilosophie, 1941, 21963, citato da SW 4, 80; tr. it.: Uditori della parola, Borla, Torino 1967.
38
RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, cit., 116.
39
F.W. SCHELLING, VI, 39, citato da H. FUHRMANS, Schellings
Philosophie der Weltalter, Düsseldorf 1954, 65.
40
BENEDETTO XVI, Gott und die Vernunft, cit., 29.
41
Cf. S.A. BONK, «“… der Vernunft ihre ganze Weite wieder
eröffnen?” Eine Nachfrage und der Versuch ihrer Beantwortung», in
C. DOHMEN (a cura di), Die «Regensburger Vorlesung» Papst Benedikts XV, im Dialog der Wissenschaften, Regensburg 2007, 73-85, qui
soprattutto 78-84.
42
RATZINGER, Glaube – Wahreit – Toleranz, cit., 126.
43
Ivi.
Alle pp. 416-417: BOTTICELLI, Compianto sul Cristo morto, 1495;
Monaco, Alte Pinakothek.
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