S 416 IL REGNO - AT T UA L I T À 12/2008 studio del mese Su un termine fondamentale dell’identità europea Ambivalenza del Logos? IL REGNO - AT T UA L I T À 12/2008 417 tudio del mese S N on capita tutti i giorni che un termine basilare del pensiero filosofico riesca a catturare l’attenzione delle reti mediatiche mondiali. Questo è accaduto il 16 settembre 2006 e non solo questo. Il capo supremo della Chiesa cattolica, Benedetto XVI, in una lectio magistralis (Regno-doc. 17,2006,540ss) tenuta all’Università di Regensburg parla del Logos, per evidenziare ciò che costituisce, a suo avviso, lo specifico del pensiero cristiano su Dio. Ma la collocazione del termine nel quadro di una citazione, critica nei riguardi dell’islam, da parte di un imperatore della Chiesa orientale, del resto decisamente ostile anche ai cattolici, scatena subito un’ondata di proteste a livello mondiale, comprese vere e proprie azioni violente nel mondo islamico. Un evento linguistico con conseguenze Così i veri destinatari della sottolineatura critica, effettivamente presente in quel passo della lezione di Regensburg, finirono a tal punto nell’ombra da essa proiettata che poterono prendere la parola solo a distanza di settimane. I veri destinatari erano i rappresentanti delle tradizioni protestanti, che – come del resto già anche i teologi della fine del Medioevo e dell’epoca precedente alla Riforma – cercavano e cercano di allentare o di sciogliere il legame esistente fra il discorso cristiano su Dio e il concetto filosofico di ragione. Le motivazioni possono essere diverse: spaziano dall’intenzione di esprimere così la sovranità di Dio, che non è legata neppure alla ragione, fino alla tesi moderna secondo cui l’intreccio fra tradizione biblica e pensiero greco in funzione di una spiegazione della prima l’avrebbe falsata e avrebbe di conseguenza raffreddato il calore dell’originario messaggio cristiano: la cosiddetta tesi dell’ellenizzazione, che oggi trova dei seguaci, sotto vari segni, anche in ambito cattolico, ad esempio nel quadro del cosiddetto dibattito sull’inculturazione, ma anche nel contesto della nuova teologia politica, che rimprovera alla propria corporazione – simbolicamente parlando – di attribuire la ragione ad Atene e la fede a Gerusalemme, dividendo così in due lo Spirito. Su tutto questo vi sarebbe molto da dire e quindi da discutere (cosa che del resto si comincia a fare, compresi interessanti interventi da parte di ambienti islamici). Comunque nelle pagine che seguono non tratterò di tale questione, ma mi limiterò a una riflessione sul termine filosofico fondamentale «logos», che appartiene senza dubbio al patrimonio dell’identità culturale dell’Europa; e proprio mediante ciò è un concetto che penetra profondamente anche nel campo del pensiero religioso. Al tempo stesso, questo concetto diventa – certamente anche a causa della sua valenza religiosa e specialmente cristiana – uno dei segni distintivi della modernità, nella quale gioca un ruolo decisamente ambivalente, per cui viene duramente attaccato nel breve periodo del cosiddetto post-moderno, e oggi sembra ritornare nuovamente alla ribalta, perlomeno là dove si attribuisce al progetto «modernità» una certa capacità di futuro. Ma questo è, al tempo stesso, il contesto nel quale Benedetto XVI iscrive il suo ricorso al Logos, inclusa la critica della vio- 418 IL REGNO - AT T UA L I T À 12/2008 Ritornare sulla lezione di Regensburg è oggi proficuamente possibile. Una volta diradate le polemiche sulla questione islamica, del resto a latere nel discorso di papa Ratzinger, è opportuno affrontare il tema centrale e decisivo per il cristianesimo occidentale: il legame tra il discorso cristiano su Dio e il concetto filosofico di ragione. Analogamente, emergono con chiarezza i veri interlocutori dell’intervento di Ratzinger: i rappresentanti delle tradizioni protestanti e della cultura laica europea. Klaus Müller, della Facoltà teologica dell’Università di Münster, sceglie d’intervenire sul termine filosofico e teologico fondamentale della lezione di Regensburg: logos. Esso è parte costitutiva dell’identità culturale dell’Europa e condetermina il pensiero religioso. Segno distintivo dell’età moderna, fortemente criticata dall’approccio postmoderno e oggi recuperato, il termine logos gioca un ruolo ambivalente e irrisolto tra ragione strumentale e fondamento teologico. lenza a esso collegata nella citazione menzionata sopra. Qui di seguito cercherò di valutare la consistenza e pertinenza di una tale posizione. Ma anzitutto bisogna chiarire che cosa significa propriamente il termine «logos». Percorsi filosofici Penso sia meglio non cominciare questa chiarificazione con la questione formale della traduzione del termine greco, perché una traduzione indipendente dal contesto è impossibile e, inversamente, i contesti richiedono traduzioni diverse del termine nelle lingue moderne: «elenco», «calcolo», «senso», «fondamento», «parola», «ordinamento», «legge», «deduzione», «giustificazione», per limitarci ad alcune possibilità. Mi sembra più utile un breve ricorso a colui che ha promosso il termine greco al rango di parola filosofica basilare: il presocratico Eraclito. Questo ionico di Efeso, vissuto a cavallo fra il V e il IV secolo a.C., veniva contrassegnato, già nell’antichità, come «l’oscuro»; certamente perché di lui ci sono pervenuti solo molti piccoli frammenti, per lo più avulsi dal loro contesto. In base a un’attenta analisi linguistica, Hans-Georg Gadamer, sulla base di una più attenta osservazione del linguaggio, ha proposto un criterio abbastanza affidabile per individuare i frammenti autentici di Eraclito: «Quando ci troviamo di fronte a espressioni brevi, concise, paradossali, allora abbiamo a che fare con Eraclito».1 Il più noto dei suoi detti è certamente quello del fiume: «Acque sempre diverse scorrono per coloro che si immergono negli stessi fiumi. Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte». «[Il fiume] distrugge e… riunisce… si raccoglie e scorre via… si avvicina e si allontana».2 Nel corso della sua trasmissione, il paragone ha per così dire acquistato un maggior dinamismo, rafforzando così l’immagine tradizionale di Eraclito, che viene associato con il famoso detto del panta rei (tutto scorre) e presentato come il grande avversario dell’altro presocratico, Parmenide, e della sua concezione dell’unità del pensiero orientato a un fine. Ma questa grande contrapposizione fra i due è piuttosto superficiale, perché anche il pensiero di Eraclito è attraversato da una forte riflessione sull’unità. Alimentato dalle antiche teorie del divenire e dalla ripresa della riflessione pitagorica, in Eraclito culmina un pensiero, che comprende tutti i cambiamenti come regolati e bilanciati – quindi sotto la norma di un equilibrio, che, dal punto di vista di questa funzione, si chiama anche logos: per Eraclito si tratta nientemeno che di un’«unità configurata»,3 che risulta dalla consonanza di realtà contrapposte e mira, contro ogni monotonia, al «monismo» (ossia a un’unità dell’intero) di una molteplicità ordinata, prodotta da tensioni. Più esattamente:4 in Eraclito non si tratta della successione di stati diversi e della loro unione e conseguente scomparsa, bensì della contemporaneità dell’uno e del molteplice; in relazione al succitato frammento del fiume, si tratta dell’«unità del corso del fiume e dell’irrequietezza del suo scorrere».5 Alla luce di altre contrapposizioni evocate da Eraclito, come ad esempio vita-morte, potenza-impotenza, sonno-veglia, risulta ancor più evidente che si tratta di un rapido cambiamento, nel quale una parte era già da sempre nell’altra, mentre la parte rispettivamente nascosta improvvisamente appare – il che significa, inversamente, che le parti in sé e per sé sono nulla e che l’Uno è il solo sapiente, come dice Eraclito: «hen to sophon».6 Esso deve essere colto attraverso le differenze e le opposizioni, ma non per questo viene considerato un ente, ma è qualcosa che parla a partire dal tutto come logos. Riguardo a questo Uno, Eraclito afferma: «L’Uno, pur discordando in se stesso, si congiunge sempre in se stesso, armonia contrastante».7 L’elemento decisivo in questo detto è «si». Qualcosa «si» muove, «si» dispiega, «si» modifica. Gadamer dice testualmente: «Eraclito oppone all’idea della contrapposizione dei milesi questo “si”, che è presente, uno e identico in ogni “cambiamento”. L’accendersi del fuoco, il muoversi del vivente, il ritorno in sé di chi si sveglia e il pensarsi del pensiero sono manifestazioni dello stesso logos, che sempre è».8 In virtù del suo potere d’integrazione al di là e al di sopra delle differenze, un potere che ordina e implica un riferimento a se stesso, il logos fa del pensiero di Eraclito qualcosa di più e di diverso da un’altra cosmologia, ma conserva qualcosa di quella naturalezza originaria, non infranta, dei fenomeni, che è caratteristica delle cosmologie antiche. In Platone e Aristotele il logos assume una valenza concettuale più limitata, mentre nella Stoà, la corrente filosofica certamente più diffusa dell’antichità classica, riacquista la sua piena valenza concettuale e gli stoici vedono «mediata dal logos (…) la molteplicità del mondo con l’unità del fondamento divino del mondo (…).9 In fondo, in questo modo si intona già il leitmotiv che governa la recezione e il caricamento teologico del termine logos. Trasformazioni teologiche Questo processo inizia ancora prima dell’avvento del cristianesimo. Il terreno era stato preparato dai contatti fra il pensiero filosofico greco e le tradizioni bibliche già negli strati tardivi dell’Antico Testamento, divenuti particolarmente intensi con la traduzione greca dell’Antico Testamento – la Settanta – risalente in parte al III secolo a.C.. Poi, a cavallo fra i due Testamenti, stimolato dalla struttura costitutiva interna della relazione con il termine logos, il filosofo ebreo Filone di Alessandria attribuisce al logos la funzione di istanza mediatrice fra il Dio trascendente e il cosmo, e fonde per così dire insieme questo logos filosofico e la Torah o, più in generale, la parola creatrice di Dio, per farne l’espressione della costituzione basilare di tutto il reale. Proprio su questa strada, non molto tempo dopo, si giunge a quell’identificazione fra Gesù di Nazaret e il Logos, che costituisce la spettacolare apertura del Vangelo di Giovanni diventando, da una parte, il leitmotiv certamente più potente della teologia cristiana e, dall’altra, affascinando la filosofia – quella moderna ancora più di quella medievale. Per comprendere la pretesa filosofica collegata a questo atto teologico, bisogna considerare per un momento l’ambiente del pensiero greco precristiano. Esso si era interessato alla relazione fra ragione e religione, considerandola addirittura una questione centrale. Prima della nascita della filosofia, quindi grosso modo prima del VII secolo a.C., i responsabili del discorso sugli dèi e sulla religione erano i poeti e i cantori, come Omero, Esiodo o gli orfici. Si chiamavano theologoi, cioè coloro che parlavano di Dio. Poi già alcuni presocratici, soprattutto Senofonte di Colofone ed Eraclito, e in seguito anche Socrate, Platone e in un certo senso lo stesso Aristotele, quindi tutti i grandi della filosofia greca, assunsero una posizione decisamente critica nei riguardi di questo primo discorso su Dio e, pur essendo filosofi, si considerarono da questo punto di vista i migliori teologi, cioè coloro che liberavano il loro discorso su Dio da rappresentazioni inadeguate e affrontavano in un modo criticamente più adeguato tale questione fondamentale della realtà e della vita. Ma, nella prima fase della teologia cristiana, questa relazione si capovolge letteralmente: coloro che cominciano a riflettere in modo sistematico sul Dio delle tradizioni bibliche, quindi dell’Antico Testamento, e sul Dio di Gesù Cristo, si considerano – pur essendo teologi – i migliori filosofi in comparazione con i filosofi greci precristiani ed evitano a lungo la designazione di «teologi», non volendo avere nulla a che vedere con i cantori greci dei miti, che originariamente portavano quel nome. Questa «migliore» filosofia, elaborata a partire dallo spirito dell’Antico Testamento e del Vangelo, assunse due diversi profili. Da una parte, un atteggiamento molto critico nei riguardi della filosofia greca, contrapponendole la propria IL REGNO - AT T UA L I T À 12/2008 419 tudio del mese S 420 filosofia come l’unica autentica. Questa posizione poteva richiamarsi soprattutto alla discordanza e alle riserve con cui l’apostolo Paolo e il suo ambiente affrontavano la sophia (sapienza) greca, sospettandola di derivare dall’arroganza umana e di essere sorda al messaggio cristiano centrale della croce. In 1Cor 1,18-31 Paolo oppone alla filosofia il suo «logos tou staurou», il logos della croce, come una sapienza di Dio superiore alla sapienza del mondo, che agli occhi dei greci rimane stoltezza. Il primo grande teologo latino, l’africano Tertulliano, ha determinato con enfasi questa posizione, facendone una delle due regole in base alle quali valutare tutto il resto – questo, in fondo, fino ai nostri giorni. Dall’altra, un collegamento neotestamentario, propiziato e alimentato dalla tradizione giovannea, con il termine logos, che, arricchito con connotazioni derivanti dall’Antico Testamento, dagli ambienti sapienziali con la loro concezione della sapienza, diventa la grande cifra di Cristo: «In principio era il logos, e il logos era presso Dio, e il logos era Dio (...). E il logos si fece carne (...)» (Gv 1,12.14). Anche questo profilo della costellazione ragione-fede venne, come quello paolino del periodo precedente, continuato e sviluppato. Il primo a riprenderlo e svilupparlo fu Giustino, denominato in seguito «filosofo e martire», il più importante dei cosiddetti apologeti (difensori della fede) degli inizi del cristianesimo. Fu il primo a cercare di gettare, attorno al 150 d.C., un ponte fra la tradizione cristiana e la filosofia. A tale scopo si ricollegò anche al termine logos, considerando tutto ciò che c’era di vero al di fuori del cristianesimo come logoi spermatikoi, «semi» di quella verità che si era manifestata in tutta la sua pienezza in Cristo. Ovviamente anche la sua relazione con la filosofia non fu del tutto esente da polemica. Giustino sosteneva che Pitagora e Platone avevano conosciuto gli scritti di Mosè, quindi il Pentateuco e i libri dei profeti, vi avevano attinto e li avevano spesso riprodotti in modo sbagliato. Anche Clemente di Alessandria († 215), il grande fondatore della scuola catechetica della città, cercò di includere la versione locale del neoplatonismo nei primi tentativi di sistematizzazione del patrimonio concettuale cristiano. Anch’egli, come Giustino, partiva dal logos e vedeva nella filosofia, dono del logos, il pedagogo che introduceva i pagani al cristianesimo. Una posizione analoga venne assunta da Origene, il maggiore teologo greco della Chiesa delle origini. Ed è significativo che l’eminente critico intellettuale del cristianesimo, il neoplatonico pagano Celso, pubblicasse la sua virulenta critica dei cristiani con il titolo Alethes Logos (Logos vero o Discorso vero), un titolo ovviamente polemico con cui intendeva denunciare l’appropriazione di questo termine basilare da parte del cristianesimo. Il logos segnava la linea del fronte nella battaglia attorno all’identità e superiorità delle due forme di pensiero concorrenti (il neoplatonismo, in quanto sistema di pensiero, è più religione che filosofia). La battaglia fu vinta dal cristianesimo. Le ragioni di quella vittoria sono sicuramente complesse, ma vi ha certamente contribuito anche il fatto che la concezione cristiana del logos era ta- IL REGNO - AT T UA L I T À 12/2008 le da non limitarsi alla dimensione intellettuale, ma da includere, nel Logos fatto carne, anche la dimensione carnale-materiale. Anche Agostino (354-430), il teologo latino più importante della Chiesa antica, fece propria quella scelta. Nelle sue celebri Confessiones racconta di aver letto, da giovane, l’Ortensio di Cicerone, un protrettico (cioè un invito, un’esortazione) alla filosofia, rimanendone affascinato, a parte la delusione di non trovarvi il nome di Gesù Cristo.10 Per lui sapienza e Cristo erano la stessa cosa, per cui apprezzava la filosofia come amor sapientiae o studium sapientiae. E proprio per amore della sapienza si vedrà in seguito costretto a oltrepassare ciò che era stato detto dai filosofi. Perciò Agostino considerava il suo pensiero cristiano, la sua teologia, il compimento della filosofia, più precisamente il compimento del platonismo. Era fermamente convinto che, se fossero ritornati i grandi platonici, vedendo le chiese piene accanto ai templi vuoti e il modo in cui gli uomini apprezzavano le cose spirituali, avrebbero detto: «Questo [il cristianesimo] è l’ideale, che noi non osammo predicare alle folle!»;11 e avrebbero confessato, dopo minimi cambiamenti nel loro vocabolario e nei loro insegnamenti, Cristo, impressionati dalla piena concordanza fra teoria e prassi. Traducendo logos con verbum, Agostino avvia anche un’importante e influente tradizione linguistica che, attraverso Anselmo di Canterbury e Tommaso d’Aquino, giunge fino ad Hans-Georg Gadamer nel XX secolo – caratterizzata dall’idea che la ragione, e ciò che essa coglie, può essere espressa solo «perché essa stessa è già parola nel senso di Logos. Ma era proprio questo il senso di Logos in Eraclito e Platone».12 È proprio in questa tradizione del logos, con il suo stretto legame fra ragione e fede, filosofia e Vangelo, che si colloca decisamente anche Benedetto XVI, come vedremo. Ma prima dobbiamo seguire un percorso del tutto diverso dalla riflessione sul logos, un percorso che viene posto, in genere, in contrapposizione netta alla storia dell’influenza cristiano-teologica che abbiamo fin qui descritto13 – ma forse questa è solo una mezza verità o anche meno. Intendo, con questo, la filosofia dell’epoca moderna. Il logos e la modernità Possiamo delimitare la posizione dell’epoca moderna in merito alla nostra prospettiva ricordando due percorsi singolari. a) Da una parte, Kant, con la sua filosofia critica, fissa i confini della ragione umana e del sapere certo e lo fa in modo tale da costituire una sfida fondamentale anche per la teologia. In conseguenza del suo approccio nel campo della ragione teoretica, non può più esistere un sapere su Dio, cioè una conoscenza scientifica paragonabile con quella di altre discipline, perché in questo caso manca il momento dell’esperienza sensibile necessario per il sapere certo. Tuttavia la ragione teoretica non si libera del pensiero di Dio, anzi deve necessariamente pensarlo per esaurire il suo compito. E così si interroga sul senso di questa necessità del pensiero, la quale, da parte sua, in quanto emergente nella ragione, deve essere ra- zionale. Questo senso si schiude a essa sotto forma di un necessario postulato dell’essere di Dio nel campo della ragione pratica, culminante nel concetto di libertà, per cui essa, mediante una trasformazione della metafisica in teologia morale filosofica, giunge a una forma specifica di sapere su Dio, il che include naturalmente una modifica fondamentale dei concetti teologici basilari, come, ad esempio, quello di rivelazione. Questa è la situazione di partenza. b) Dall’altra, nell’immediata generazione post-kantiana, giovani studenti di teologia, per lo più evangelici, raccolgono la sfida posta da Kant, ma scoprono al tempo stesso delle lacune nel suo impianto della conoscenza filosofica e cercano di superare sfida e lacune con una sola mossa. Sono convinti che la risposta vincente alla richiesta e al progetto di Kant possa essere una sola: mostrare in quei confini, senza riguardo a livello filosofico per i limiti della ragione, anche un passaggio verso il sapere assoluto e l’esistenza di un collegamento intrinseco fra l’assolutezza di questo sapere e l’Assoluto in quanto tale, che la teologia chiama «Dio» (il che è assolutamente evidente, perché non possono esistere due Assoluti). Così inizia il movimento dell’idealismo filosofico. Nella loro riflessione filosofica i suoi protagonisti, Fichte, Hegel, Schelling, Hölderlin – per limitarci solo ai più importanti –, vogliono essere, in qualche modo mediante un ritorno strutturale alla situazione del discorso precristiano, i migliori teologi, in confronto con i rappresentanti della tradizione teologica. E, in questo caso, l’essere migliori significa concepire una teologia che può rispettare la norma della ragione critica ed essere inserita in una concezione razionale sulla totalità del reale, comprese le sue differenziazioni interne. All’unità delle prestazioni della ragione, procedenti da un unico movimento della stessa, deve corrispondere l’unità di tutto il reale nella sua articolazione in modo tale che entrambe le cose siano congiunte, anche in sé stesse, in un’identità di identità e differenza. In questo progetto si sente risuonare la voce di Eraclito. Ma qui il ritorno alla situazione del discorso precristiano viene effettuato in modo tale da integrare il logos cristiano – formulato nella cristologia come il cuore della teologia cristiana – come filigrana o abbozzo del programma dell’intera concezione filosofica, per poi essere reinterpretato a partire dalla sua elaborazione come la presentazione paradigmatica e rappresentativa del significato razionale, in linea di principio, di tutto il reale. Deriva proprio di qui il fascino esercitato su tutti gli idealisti dalla figura di Cristo in generale, e dal prologo di Giovanni, con il suo inno al Logos, in particolare. Così, in un certo senso, dal punto di vista dei contenuti, la filosofia moderna, e specialmente l’idealismo, sono più impregnati di pensiero cristiano della stessa scolastica. Per concretizzare quest’aspetto vorrei citare almeno un esempio: Johann Gottlieb Fichte (1762-1814). Fin dall’inizio, Fichte è personalmente convinto che la sua dottrina della scienza – ne elabora faticosamente non meno di 20 abbozzi – concorda con la rivelazione cristiana, ne è anzi la vera spiegazione. Per lui il vero nucleo cristologico di un vitale filosofare si concretizza nel mes- saggio dell’incarnazione, più precisamente nel modo in cui il prologo del Vangelo di Giovanni e le Lettere di Giovanni intonano il mistero dell’incarnazione sotto forma di mistica del Logos incarnato: auto-espressione di Dio, effettuata fin dall’inizio in lui come Volontà che comunica se stessa, esprimendo il suo essere più intimo, perciò appartenente inseparabilmente a lui e tuttavia distinguibile da lui; perché in questo verbum internum si prepara la comparsa dell’inafferrabile nell’orizzonte della ragione finita. Già nel 1797, secondo la testimonianza di altri, Friedrich Heinrich Jacobi aveva affermato, fra il serio e il faceto, che si potevano trovare i principi della dottrina della scienza di Fichte nel prologo del Vangelo di Giovanni. Probabilmente, dal suo particolare punto di vista, Jacobi non comprese mai pienamente la verità di quella sua affermazione. Fichte lo riconosce espressamente nella sua Introduzione alla vita beata. Le sue riflessioni culminano in una spiegazione del prologo di Giovanni, che condensa, a suo avviso, in modo insuperabile, l’elemento autenticamente cristiano. E, nella successiva spiegazione del prologo, Fichte parte ovviamente dalla sua quinta parola: logos. Ciò che lo affascina è il suo esserein-Dio senza origine, il suo essere-Dio, perché questo significa che l’esistenza di Dio è immediatamente coscienza di se stesso: la vita di Dio è il suo conoscere/sapere se stesso, e in lui il mondo e le cose sono conosciute e comprese, e questa auto-espressione di Dio costituisce la sua esistenza. «Tutto è stato fatto per mezzo di lui – il Logos – e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini»14 – tutto il reale e tutto il sapere derivano dall’auto-presenza di Dio a se stesso. Sono, del resto, idee che hanno, mi si passi l’aggettivo, una «sfacciata» vicinanza con alcuni passi che si potevano leggere in un libro che era stato scritto circa sette secoli prima: il Monologion (1070) di Anselmo di Canterbury. Fichte se ne distingue per il fatto di includere nella sua riflessione, per così dire, anche il luogo nel quale si scorge direttamente la presenza di Dio a se stesso: ovviamente nel pensiero dell’io. Anche quando penso che io sono «io» devo essere stato già da molto tempo in me, perché altrimenti non potrei sapere che intendo me stesso quando dico «io». Tutti i modelli di riflessione per il chiarimento di questa conoscenza di sé giungono in ritardo. Naturalmente, in base al pensiero di Fichte, anche questa conoscenza di sé, come ogni conoscenza, deriva dall’auto-presenza di Dio a se stesso. Ma, poiché la conoscenza dell’io sull’io come derivato corrisponde pienamente, in base alla sua struttura, a ciò da cui deriva, le due realtà – il derivato e la sua origine, quindi l’io e Dio – formano una cosa sola. Ma attenzione! Fichte non dice che l’io è Dio, o cose del genere; ma dice «soltanto» (fra virgolette) che è proprio l’essere-io a collegarci nel modo più intimo con Dio. Notare che egli lo dice sotto il segno cristologico, per cui pensa il nostro essere-io secondo il modello dell’autoespressione di Dio nella figura del Logos, recuperando in tal modo l’idea cristiana centrale, secondo cui i credenti diventano figli e figlie di Dio nella misura in cui essi as- IL REGNO - AT T UA L I T À 12/2008 421 tudio del mese S 422 sumono, nella forma della sequela, l’essere figlio dell’Unigenito. Bisogna anche notare che Fichte vincola la sua concezione della vita beata, quindi redenta, al pensiero dell’io, a un’istanza che ricollega intersoggettivamente – in un modo così costitutivo, come nessun altro prima di lui–, ancorando questa genesi dell’essere-io e dell’esseresé ad atti d’ingiunzione e riconoscimento da parte di altri, quindi, in termini moderni, all’amore del prossimo. Così come bisogna certamente riconoscere che Fichte presenta Gesù come la figura del mistico insuperabile, bisognerà anche riconoscere che personalmente si muove nella scia di una mistica ispirata da Giovanni. Lo stesso si potrebbe affermare riguardo a Hegel e Schelling e, in modo ancor più denso, essendo sostenuto da una propria poetica, riguardo a Hölderlin. Che questa impregnazione teologica del termine Logos non interrompa assolutamente l’impulso critico derivante da Kant, ma lo accentui, risulta chiaramente dalla critica radicale, proprio a partire dal termine logos, di concetti fondamentali, come, ad esempio, quello di creazione, da parte di Fichte. Non a caso, proprio nell’Introduzione alla vita beata, così vicino allo stile della predicazione omiletica, Fichte bolla l’idea di creazione come «l’assoluto errore fondamentale di ogni falsa metafisica e dottrina della religione»,15 «perché è impossibile pensare correttamente – cosa che significa pensare veramente – una creazione e nessun uomo l’ha ancora mai pensata»;16 per cui anche il prologo del Vangelo di Giovanni corregge l’inizio della Genesi mediante l’idea del Logos: «(…) in diretta contrapposizione, e cominciando con le stesse parole, ma invece che dalla seconda, falsa, ponendo allo stesso posto quella giusta, per eliminare la contraddizione, Giovanni dice, in principio (…), cioè in origine e prima di ogni tempo, Dio non creò, e non aveva bisogno di alcuna creazione – ma – era già, era la Parola – e solo attraverso di essa sono create tutte le cose».17 Se si volesse ricostruire la struttura fondamentale del pensiero idealistico, senza il suo medium teologico, bisognerebbe affermare che l’idealismo è caratterizzato: a) dalla convinzione di una conoscibilità e comprensibilità fondamentali di tutto il reale, che implica b) il riconoscimento che tutto il reale è, in definitiva, qualcosa di spirituale, perché noi veramente fino in fondo possiamo conoscere solo noi stessi e la nostra vita spirituale, in quanto solo lì abbiamo la possibilità di una relazione diretta con il conosciuto. Di conseguenza, la conoscenza fondamentale del reale può avvenire solo in relazione a una realtà che è per sua natura spirituale, che ha quindi la forma del logos. Già Platone era convinto che l’anima può conoscere veramente solo ciò con cui è intimamente imparentata, ossia lo spirituale.18 E questo significa, a sua volta, che conoscibile, conoscere e conosciuto costituiscono per così dire un continuo, sono inseriti in una totalità o unità del tutto, che acquista il suo pieno significato dal fatto che in essa il differente è strettamente congiunto e ricco di tensioni al tempo stesso: ecco, ancora una volta, il vecchio motivo di Eraclito. Ovviamente la pretesa conciliante di questa spiegazione moderna dell’idea del logos IL REGNO - AT T UA L I T À 12/2008 non era esente da contraddizioni problematiche, andando così incontro a un destino del tutto particolare, su cui vale la pena riflettere. L’altro dal la ragione Già verso la fine dell’attività di Hegel, quindi negli ultimi vent’anni del XIX secolo, entra in scena quello che viene normalmente etichettato come «crollo del pensiero sistematico». Il crollo è determinato essenzialmente da due cause, fra loro interdipendenti. 1. Gli abbozzi dei giovani idealisti – come i contemporanei schizzi dell’architettura rivoluzionaria – erano straordinariamente arditi, ma prestavano poca attenzione alla statica, cioè, filosoficamente parlando, all’accordo con la realtà pratica. 2. La problematicità che ne derivava veniva ulteriormente incrementata dalla contemporanea differenziazione storico-sociale e scientifico-tecnica del mondo. Industrializzazione, proletariato, rivoluzione, miseria sociale, sono tutti fattori che favoriscono il sospetto di una mancanza di senso della tradizione, della storia, della religione e dell’essere uomo, e che mobilitano le filosofie dell’irrazionale, culminate in Nietzsche. Già nella sua primissima opera filosofica intitolata La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872), Nietzsche persegue una riflessione, derivante da un’origine preclusa al logos, che Heidegger chiamerà poi «Ab-Grund» (abisso). «Mentre Hegel vorrebbe comprendere tutto il reale come razionale, Nietzsche afferma che tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto e in entrambi i casi ugualmente giustificato»,19 scrive Hansjürgen Verweyen in una pertinente contrapposizione fra i due autori. Il santo patrono della casa di Nietzsche è Prometeo, che distrugge l’ordine naturale e il mondo morale con la sua azione empia, permettendo così la nascita, sulle rovine del vecchio mondo, di un mondo nuovo, quello della tecnica, e così all’infinito. Non bisogna interrogarsi sul senso del tutto. La verità e i concetti sono pretesti della natura al servizio della sopportabilità dell’esistenza. Qui ci muoviamo nel campo e nell’orizzonte di quello che oggi viene volentieri chiamato «l’altro dalla ragione», in una sorta di deserto sconfinato, nel quale una fata Morgana di tanto in tanto ci fa credere d’intravedere un’oasi del logos. La contraddizione e la contrapposizione hanno la prima e l’ultima parola sulla realtà. Su questa scia, autori successivi, apostrofati comunemente come post-strutturalisti, ma per lo più (e meno felicemente) come post-moderni, partendo da questo sospetto fondamentale di Nietzsche del quale – una volta formulato – il pensiero non riesce più a sbarazzarsi, hanno costruito un programma critico radicale. Gli autori inclusi in questa categoria sono soprattutto i francesi Michel Foucault (1926-1984), Jacques Derrida (1930-2004), Jean-François Lyotard (1924-1998) e in Italia Gianni Vattimo, che cercano di collegarsi direttamente a Nietzsche e a Heidegger; e Jacques Lacan (1901-1981) e, sulla sua scia, Slavoi Zizek (*1949), che si ricollegano a Freud, per decostruire, come dicono, il logocentrismo del pensiero occidentale, il suo monolitico potere storico e, quindi, la sua violenza strutturale. Costoro danno per scontato che il pensiero del logos cerca di cancellare o di reprimere, in una sorta di smania d’identità e di unità, le differenze, le lacerazioni e, nel discorso dominante, ciò che non è valido. Naturalmente una ricerca più accurata sul concetto integrale di ragione dell’epoca moderna mostrerebbe che gran parte di questo – giustificato – desiderio è stato sottolineato e valorizzato già molto prima, ad esempio, se si tenesse conto della presenza del lato oscuro di ragione e illuminismo nell’idealismo e nei romantici, o nella tradizione della filosofia della natura collegata a Schelling. Quanto più l’idealismo, e quanto lo segue, ritornano al centro dell’interesse filosofico, tanto più il post-moderno, nel senso di un passaggio d’epoca, si rivela un intermezzo segnato dalla crisi considerato più importante del dovuto, il cui tramonto è in corso già da molto tempo. Anche l’apoteosi dell’uno o dell’altro dei suoi protagonisti, come quella recente di Jacques Derrida a opera di Peter Sloterdijk in occasione del primo anniversario della sua morte, non cambia lo stato delle cose.20 In ogni caso, appare sempre più chiaramente che non basta contrapporre a questo logocentrismo una radicale pluralità di sensi al posto del senso, di storie al posto della storia, di verità al posto della verità, e assoggettare tutto al destino di una definitiva incommensurabilità, se si vuole ancora poter attribuire alla ragione una fiducia in se stessa che sia, almeno in parte, solida e affidabile. Da questo punto di vista mi sembra altamente stupefacente e assolutamente stimolante che a questo punto del discorso intervenga, spaccando il capello in quattro, l’appello a favore di una ragione forte, che ha seminato uno scompiglio senza precedenti in tutto il mondo intellettuale: la difesa del logos nella sua lectio magistralis di Regensburg da parte di Benedetto XVI. Che quest’appello non rappresenti solo un’opinione, ma costituisca anche la base di un’opposizione fondamentale alla proclamazione del primato dell’irrazionale da parte di Nietzsche, può essere colto solo da chi ascolta la lezione, prestando attenzione al suo basso continuo e ricollocandola, a partire di lì, in tutto il percorso del pensiero di Joseph Ratzinger – questo ci consentirà di fare una scoperta piuttosto sbalorditiva. A metà strada… o di un’esitazione infondata Il ricorso al concetto logos nella lectio magistralis di Regensburg può essere sufficientemente compreso solo tenendo presente anche il modo in cui tale idea viene sviluppata da Ratzinger già in Introduzione al cristianesimo nel 196821 e poi sintetizzata, ancora una volta, nel 1999 in un Colloquio alla Sorbona sulla questione dell’estensione della pretesa di validità della conoscenza nel campo delle scienze naturali. Ecco come l’allora cardinale formula la questione: «Si tratta di sapere se la ragione o il razionale sia all’inizio di tutte le cose e al loro fondamento. Si tratta di sapere se il reale sia sorto in base al caso e alla necessità (…), provenga quindi dall’irrazionale, se la ragione sia di conseguenza un sottoprodotto casuale dell’irrazionale e, in definitiva, anche priva di significato nell’oceano dell’irrazionale; oppure se sia vero ciò IL REGNO - AT T UA L I T À 12/2008 423 tudio del mese S 424 che costituisce la convinzione basilare della fede cristiana e della sua filosofia: “In principio erat Verbum” – all’inizio di tutte le cose c’è la forza creatrice della ragione. La fede cristiana opta oggi, come in passato, per la priorità della ragione e del razionale».22 Questo passo apparentemente semplice nasconde un’argomentazione anti-nietzschiana molto complessa: se nel mondo c’è ragione, e con essa conoscenza e scienza, allora, strettamente parlando, anche la sua fonte, la sua provenienza, deve avere la forma del razionale. Se così non fosse, la ragione non potrebbe fidarsi di se stessa. Sarebbe derivata da un irrazionale, funzionerebbe così come funziona, ma dovrebbe astenersi da ogni pretesa di validità. Sarebbe – per dirla con Nietzsche – un’illusione, a proposito della quale abbiamo dimenticato che di tale si tratta.23 Infatti, a partire da dove la ragione dovrebbe essere capace di verità e di sapere, se questo non si può dire già della sua origine?! In realtà, qui si tratta di un’opzione, quindi di una decisione a favore di una determinata descrizione del mondo. Questa opzione non si basa ancora una volta su una prova, non ha bisogno di una prova o non ne è neppure capace, se si ammette che esiste qualcosa come la ragione. Essa è sostenuta da una fiducia ultima della ragione in se stessa, nella sua capacità di verità, un’idea nota anche a Friedrich Heinrich Jacobi, a Johann Gottlieb Fichte e ricondotta da Ludwig Wittgenstein alla lapidaria affermazione secondo cui tutto il sapere si basa in definitiva sul riconoscimento.24 Oppure, con la domanda posta da Joseph Ratzinger: «(…) può la ragione rinunciare alla priorità del razionale di fronte all’irrazionale, alla posizione originaria del logos, senza eliminare se stessa?».25 Ovviamente la risposta è «no». Tuttavia la ragione può ancora decidere a favore della priorità dell’irrazionale, ma in questo caso deve ragionevolmente rinunciare a ogni pretesa di validità, quindi a se stessa – cioè la ragione dovrebbe effettuare persino la smentita di se stessa in base al criterio della razionalità, se vuole che la sua affermazione sia più di un semplice fruscìo privo di senso. La supposizione di un fondamento a-razionale della realtà sospingerebbe la ragione umana in una contraddizione performativa di se stessa. E proprio a partire da questo punto il papa conclude che se c’è ragione nel mondo, lo stesso fondamento del mondo, dal quale tutto proviene, quindi teologicamente Dio, deve essere ragione. Anche la prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est (25.12.2005), si colloca interamente in questa linea argomentativa. Facendo proprio il collegamento, che si ritrova continuamente già prima, fra il motivo della ragione e l’amore, egli identifica l’immagine metafisica di Dio della «ragione primordiale»26 con quella di «un amante con tutta la passione di un vero amore».27 Anche il fondamento di questo collegamento si trova in Ratzinger già presente decenni prima nell’Introduzione al cristianesimo e precisamente là dove evidenzia la «trasformazione cui soggiace il Dio dei filosofi»,28 consistente appunto nel mantenere insieme ragione e fede: al riguardo, ricorda un detto derivante da un anonimo gesuita e posto da Hölderlin nel frontespizio del suo romanzo Iperio- IL REGNO - AT T UA L I T À 12/2008 ne: «“Non coerceri maximo, contineri tamen a minimo, divinum est” – “Non venir coartati dalle cose più grandi, non accondiscendere a lasciarsi racchiudere dalle più piccole, è una peculiarità veramente divina”».29 E Ratzinger commenta: «Quella mente sconfinata che cela in sé la totalità dell’essere, si libra ancora altissima sopra i “valori massimi”, che per essa sono sempre una quisquilia; e si abbassa sino al fattore minimo, proprio perché nulla è troppo minuscolo ai suoi occhi. Precisamente questo superamento del valore più grandioso e questo raggiungimento del più piccolo, costituisce la vera essenza dello Spirito assoluto. Qui, però, si verifica al contempo un’inversione di valori che è quanto mai caratteristica per la comprensione cristiana della realtà».30 Solo da questa «primordiale identità fra verità e amore»31 si può comprendere il Logos come creatore e così pensare che al di fuori dell’Assoluto c’è ancora qualcosa d’altro. Tuttavia nell’opzione di Benedetto XVI a favore di un primato del Logos, di cui qui ci occupiamo, c’è ancora un altro tratto che vale la pena considerare – tanto più che esso implica una notevole sorpresa. Orecchi filosoficamente ben intonati lo hanno forse già notato nell’ultima citazione di Ratzinger, dove si parlava della «vera natura dello Spirito assoluto». L’espressione non sa di idealismo? Non solo sa di idealismo, ma lo è. Alcune pagine dopo, nell’Introduzione al cristianesimo, Ratzinger sviluppava il primato del Logos esattamente come aveva fatto, e continua a fare, la tradizione idealistica nei suoi rappresentanti migliori. Se la ragione – come già spiegato – ha per amore di se stessa delle motivazioni per optare a favore di un primato del Logos, allora ne consegue che l’intero dell’essere, in base alla sua struttura più intima, è logico, quindi pensiero. Ciò che di spirito oggettivo si trova nelle cose è «impronta ed espressione»32 di un precedente essere pensato creatore da parte di uno spirito soggettivo, per cui il nostro pensiero è letteralmente un pensiero successivo di quello stesso pensare. A partire di qui Ratzinger perviene alla sua ardita sintesi: «Dire “Credo in Deum” – “Io credo in Dio” esprime la convinzione che lo spirito oggettivo è un derivato dello spirito soggettivo, ed è in grado di sussistere unicamente come sua forma di declinazione; per dirla in altri termini, la connotazione di essere-pensato (così come la rileviamo quale struttura stessa del mondo) è assolutamente impossibile senza pensiero».33 Ma per lui questo significa che anche la materia è, in definitiva, «un elemento pensato, un pensiero oggettivato»34 – una convinzione che il successivo cardinale avrebbe espresso nuovamente decenni dopo nel già menzionato Colloquio alla Sorbona, in risposta alla preminente posizione contraria di Jacques Monod del puro caso come unica ipotesi pensabile.35 In breve, Ratzinger afferma che se esiste un primato del Logos, allora «(…) ogni essere è, in ultima analisi, un qualcosa di pensato, per cui va fatto risalire allo spirito quale realtà originaria. In tal modo, ci troviamo davanti alla via “idealistica”».36 E le cose stanno effettivamente così. Joseph Ratzinger condivide da sempre il nocciolo di quest’approccio, del resto, anche con il primo Karl Rahner a partire da Uditori della parola del 1941.37 E tuttavia cerca anche di di- stinguersi dalle posizioni storicamente avanzate dell’idealismo filosofico, dato che nell’Introduzione al cristianesimo scrive: «Certo anche la nostra fede dirà che l’essere è essere-pensato, che la materia rinvia al pensare come ciò che è previo e più originario. Ma contro la posizione dell’idealismo, che riduce ogni essere a momento di una coscienza universale, la fede cristiana ci dirà: l’essere è sì un essere-pensato, non però nel senso che esso rimanga unicamente pensiero, sicché l’aspetto presentato dalla sua autonomia si dimostri, a uno sguardo più profondo, una mera parvenza. La fede cristiana in Dio sottintende invece che le cose siano esseri-pensati da una coscienza creatrice, con un atto di libertà creatrice, e che tale coscienza creatrice, da cui tutte le cose sono sostenute, abbia immesso il pensato nel suo proprio e autonomo essere».38 Ma è proprio questa demarcazione a non convincere. Chi si occupa delle fonti del pensiero idealistico e ne ha una certa familiarità, può portare facilmente prove a favore di ciò che Ratzinger afferma criticamente essere una lacuna dell’idealismo filosofico. Mi limito a un unico esempio, ma particolarmente pertinente: Schelling descrive la relazione fra l’Assoluto e il finito, fra Dio e il creato, in base alla logica dell’immagine. Poiché tutto è immagine di Dio, in quest’immagine è raffigurata anche l’autonomia di Dio, che si fa sentire come posizione autonoma dell’ente: «Ciò che è in definitiva proprio dell’assolutezza è il fatto di conferire alla sua contro-immagine, insieme alla sua essenza, anche l’autonomia. Questo essere-in-se-stesso, questa realtà propria e vera (…) dell’immagine è libertà».39 La demarcazione dall’idealismo operata da Ratzinger si dimostra, sistematicamente considerata, artificiale. Voglio dire che una teologia che opta inequivocabilmente per il primato del Logos deve necessariamente imboccare, per sua logica interna, una strada idealistica. Le varie controversie critiche con gli idealismi classici effettivamente elaborati, a cominciare già da Kant, passando per Fichte, Schelling, Hegel, fino a Hölderlin, non solo non lo escludono, ma lo includono. Purtroppo, con il passare del tempo, Ratzinger ha sempre più dissolto tutta quest’area dell’epoca filosofica moderna e sviluppato, a livello filosofico, il suo radicamento cristiano-idealistico quasi esclusivamente in dialogo con Platone. Nonostante l’indiscutibile stima per Platone, questo è limitativo, dal momento che proprio negli idealisti moderni, più che altrove, si possono trovare risorse per quell’«(…) ampliamento del nostro concetto e uso della ragione»40 che Benedetto XVI ha reclamato, nella sua lectio magistralis di Regensburg, contro una spiegazione che si limita unicamente alla ragione strumentale.41 Proprio lì si troverebbero facilmente anche spunti per presentare, con una particolare sensibilità nei riguardi della teodicea, la «ragione del cosmo»42 che si rivela come amore, «come quella razionalità più grande, che assume e guarisce anche l’oscuro e l’irrazionale».43 E sarebbe proprio questa la forma di un pensiero del logos, che non cade nell’ambivalenza che subentra quando il logos umano si limita allo strumentale, dimenticando così i suoi limiti e staccandosi dal suo fondamento – che teologicamente si chiama «Dio». Klaus Müller 1 H.G. GADAMER, Der Anfang des Wissens, Stuttgart 1999 (Reclam U.-B.; 9756), 51. 2 ERACLITO, I presocratici: testimonianze e frammenti, vol. I, Laterza, Bari 1969, 199 e 215. 3 E. ANGEHRN, Der Weg zur Metaphysik, Velbrueck GmbH 2005, 119. 4 Cf. su ciò che segue GADAMER, cit., 41-77. 5 Ivi, 42. 6 ERACLITO, «Unica cosa è la saggezza», fr. 41, cit., 205. 7 ERACLITO, cit., fr. 51, 208. Secondo GADAMER, cit., 41. 8 GADAMER, cit., 92. 9 N. SLENZA, «Logos», II, Fundamentaltheologisch, RGG 4, Aufl. Bd. 5, 495. 10 Cf. AGOSTINO, Confessiones III, 4, 7. 11 AGOSTINO, De vera religione, 4, 6. 12 G. FIGAL, «Logos», III, Philosophisch, RGG 4, Aufl. Bd. 5, 500. 13 Cf. ad esempio, SLENZA, «Logos», II, Fundamentaltheologisch, 498. 14 Gv 1,3-4. 15 J.G. FICHTE, Anweisung zum seligen Leben, 117s; tr. it.: Introduzione alla vita beata, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2004. 16 Ivi, 118. 17 Ivi. 18 Cf. F. KUTSCHERA VON, Die Wege des Idealismus, Paderborn 2006, 252-261. 19 Cf. H. VERWEYEN, Philosophie und Theologie. Vom Mythos zum Logos zum Mythos, Darmstadt 2005, 372. 20 Cf. P. SLOTERDIJK, Derrida ein Ägypter. Über das Problem der jüdischen Pyramide, Frankfurt a.M. 2007 (es; 2502). 21 Cf. J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo: lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1969. 22 BENEDETTO XVI, Gott und die Vernunft. Aufruf zum Dialog der Kulturen, Sankt Ulrich Verlag 2007, 40. 23 Cf. F. NIETZSCHE, «Ueber Wahrheit und Lüge im aussermora- lischen Sinne», in ID., Sämtliche Werke, Walter de Gruyter, Berlin 1969. 24 Cf. L. WITTGENSTEIN, Über Gewißheit, a cura di G.E.M. ANSCOMBE e G.H. VON WRIGHT, Bd. 8, Frankfurt a.M. 1984, nr. 378. 25 BENEDETTO XVI, Gott und die Vernunft, cit., 41. 26 BENEDETTO XVI, lett. enc. Deus caritas est sull’amore cristiano, 25.12.2005, n. 10; Regno-doc. 1,2006,69 (Suppl.); EV 23/1558. 27 Ivi. 28 RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, cit., 104. 29 Ivi, 106. 30 Ivi, 106-107. 31 Ivi, 108. 32 Ivi, 102. 33 Ivi, 114-115. 34 Ivi, 115. 35 Cf. RATZINGER, Glaube – Wahrheit – Toleranz, 121-122; tr. it.: ID., Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Editore Cantagalli, Siena 2003. 36 RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, cit., 115. 37 K. RAHNER, Hörer des Wortes. Zur Grundlegung einer Religionsphilosophie, 1941, 21963, citato da SW 4, 80; tr. it.: Uditori della parola, Borla, Torino 1967. 38 RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, cit., 116. 39 F.W. SCHELLING, VI, 39, citato da H. FUHRMANS, Schellings Philosophie der Weltalter, Düsseldorf 1954, 65. 40 BENEDETTO XVI, Gott und die Vernunft, cit., 29. 41 Cf. S.A. BONK, «“… der Vernunft ihre ganze Weite wieder eröffnen?” Eine Nachfrage und der Versuch ihrer Beantwortung», in C. DOHMEN (a cura di), Die «Regensburger Vorlesung» Papst Benedikts XV, im Dialog der Wissenschaften, Regensburg 2007, 73-85, qui soprattutto 78-84. 42 RATZINGER, Glaube – Wahreit – Toleranz, cit., 126. 43 Ivi. Alle pp. 416-417: BOTTICELLI, Compianto sul Cristo morto, 1495; Monaco, Alte Pinakothek. IL REGNO - AT T UA L I T À 12/2008 425