5. RIFLESSIONE. BENEDETTO XVI: ADOTTARE IN OGNI

5. RIFLESSIONE. BENEDETTO XVI: ADOTTARE IN OGNI CIRCOSTANZA UN MODO DI VIVERE
RISPETTOSO DELL'AMBIENTE
[Attraverso Paolo Candelari (per contatti: [email protected]) riceviamo il
testo del discorso tenuto dal pontefice cattolico Benedetto XVI il 9 giugno
2011, cosi' come pubblicato dall'"Osservatore romano"]
I primi sei mesi di quest'anno sono stati caratterizzati da innumerevoli
tragedie che hanno riguardato la natura, la tecnica e i popoli. L'entita' di
tali catastrofi ci interpella. E' l'uomo che viene per primo, ed e' bene
ricordarlo. L'uomo, al quale Dio ha affidato la buona gestione della natura, non
puo' essere dominato dalla tecnica e divenirne il soggetto. Una tale presa di
coscienza deve portare gli Stati a riflettere insieme sul futuro a breve termine
del pianeta, di fronte alle loro responsabilita' verso la nostra vita e le
tecnologie.
L'ecologia umana e' una necessita' imperativa. Adottare in ogni circostanza un
modo di vivere rispettoso dell'ambiente e sostenere la ricerca e lo sfruttamento
di energie adeguate che salvaguardino il patrimonio del creato e non comportino
pericolo per l'uomo devono essere priorita' politiche ed economiche.
In questo senso, appare necessario rivedere totalmente il nostro approccio alla
natura. Essa non e' soltanto uno spazio sfruttabile o ludico. E' il luogo in cui
nasce l'uomo, la sua "casa", in qualche modo. Essa e' fondamentale per noi. Il
cambiamento di mentalita' in questo ambito, anzi gli obblighi che cio' comporta,
deve permettere di giungere rapidamente a un'arte di vivere insieme che rispetti
l'alleanza tra l'uomo e la natura, senza la quale la famiglia umana rischia di
scomparire.
Occorre quindi compiere una riflessione seria e proporre soluzioni precise e
sostenibili. Tutti i governanti devono impegnarsi a proteggere la natura e ad
aiutarla a svolgere il suo ruolo essenziale per la sopravvivenza dell'umanita'.
Le Nazioni Unite mi sembrano essere il quadro naturale per una tale riflessione,
che non dovra' essere offuscata da interessi politici ed economici ciecamente di
parte, cosi' da privilegiare la solidarieta' rispetto all'interesse particolare.
Occorre inoltre interrogarsi sul giusto posto che deve occupare la tecnica. I
prodigi di cui e' capace vanno di pari passo con disastri sociali ed ecologici.
Estendendo l'aspetto relazionale del lavoro al pianeta, la tecnica imprime alla
globalizzazione un ritmo particolarmente accelerato. Ora, il fondamento del
dinamismo del progresso corrisponde all'uomo che lavora e non alla tecnica, che
non e' altro che una creazione umana. Puntare tutto su di essa o credere che sia
l'agente esclusivo del progresso o della felicita' comporta una reificazione
dell'uomo, che sfocia nell'accecamento e nell'infelicita' quando quest'ultimo le
attribuisce e le delega poteri che essa non ha. Basta constatare i "danni" del
progresso e i pericoli che una tecnica onnipotente e in ultimo non controllata
fa correre all'umanita'. La tecnica che domina l'uomo lo priva della sua
umanita'. L'orgoglio che essa genera ha fatto sorgere nelle nostre societa' un
economismo intrattabile e un certo edonismo, che determina i comportamenti in
modo soggettivo ed egoistico.
L'affievolirsi del primato dell'umano comporta uno smarrimento esistenziale e
una perdita del senso della vita. Infatti, la visione dell'uomo e delle cose
senza riferimento alla trascendenza sradica l'uomo dalla terra e,
fondamentalmente, ne impoverisce l'identita' stessa. E' dunque urgente arrivare
a coniugare la tecnica con una forte dimensione etica, poiche' la capacita' che
ha l'uomo di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo per mezzo del
suo lavoro, si compie sempre a partire dal primo dono originale delle cose fatto
da Dio (Giovanni Paolo II, Centesimus annus, n. 37). La tecnica deve aiutare la
natura a sbocciare secondo la volonta' del Creatore. Lavorando in questo modo,
il ricercatore e lo scienziato aderiscono al disegno di Dio, che ha voluto che
l'uomo sia il culmine e il gestore della creazione. Le soluzioni basate su
questo fondamento proteggeranno la vita dell'uomo e la sua vulnerabilita', come
pure i diritti delle generazioni presenti e future. E l'umanita' potra'
continuare a beneficiare dei progressi che l'uomo, per mezzo della sua
intelligenza, riesce a realizzare.
Consapevoli del rischio che corre l'umanita' dinanzi a una tecnica vista come
una "risposta" piu' efficiente del volontarismo politico o del paziente sforzo
educativo per civilizzare i costumi, i Governi devono promuovere un umanesimo
rispettoso della dimensione spirituale e religiosa dell'uomo. Infatti, la
dignita' della persona umana non cambia con il fluttuare delle opinioni. Il
rispetto della sua aspirazione alla giustizia e alla pace consente la
costruzione di una societa' che promuove se stessa quando sostiene la famiglia o
quando rifiuta, per esempio, il primato esclusivo delle finanze.
Un Paese vive della pienezza della vita dei cittadini che lo compongono, essendo
ognuno consapevole delle proprie responsabilita' e potendo far valere le proprie
convinzioni. Inoltre, la tensione naturale verso il vero e verso il bene e'
fonte di un dinamismo che genera la volonta' di collaborare per realizzare il
bene comune. Cosi', la vita sociale puo' arricchirsi costantemente, integrando
la diversita' culturale e religiosa attraverso la condivisione di valori, fonte
di fraternita' e di comunione. Dovendo considerare la vita in societa' anzitutto
come una realta' di ordine spirituale, i responsabili politici hanno la missione
di guidare i popoli verso l'armonia umana e verso la saggezza tanto auspicate,
che devono culminare nella liberta' religiosa, volto autentico della pace.
Arturo Paoli, scrive:
Nella tempesta suscitata dalla lezione magistrale pronunziata da Benedetto XVI nell’aula magna
della Università di Regensburg il dodici settembre, nella preghiera mattutina mi sono ricordato
improvvisamente di un libro che mi proponevo di leggere in un oggi sempre spostato nel tempo. E
quale migliore oggi di questa polemica che invita tutto l’occidente cristiano a montare la guardia?
La Piccola Sorella Annunziata mi presenta dei particolari sul viaggio del beato Charles de Foucauld
nel Marocco che mi erano sconosciuti. Nella lontana gioventù lessi il libro di Renè Bazin come un
libro di avventure. È noto che, stanco della vita militare, come per un improvviso accorgersi di una
vita inutile, l’ufficiale de Foucauld decide di fare un viaggio di esplorazione in Marocco chiuso agli
europei “cristiani”.Non è possibile riportare qui tutte le espressioni di entusiasmo per l’accoglienza
affettuosa, fraterna ricevute in quell’occasione. Il francese individualista, aristocratico non trova
parole per esprimere la sua gioiosa sorpresa di incontrare gente che non avrebbe mai pensato
esistessero: << La devozione ai loro amici la spingono fino agli estremi limiti. Questo nobile
sentimento fa fare ogni giorno le più belle azioni…non un uomo che non abbia rischiato varie volte
la vita per i suoi compagni, per degli ospiti di qualche ora >>[1]. L’eremita di Tamarrasset
ricordando queste esperienze di ospitalità assolutamente impensabili nel nostro mondo cristiano
troppo colto e civilizzato, dirà che il suo vero grande dolore è stato sempre separarsi da questi
amici. È come se questi incontri avessero la capacità di cancellare l’io egoista che incoscientemente
inquietava la sua esistenza, e facessero nascere quello che diverrà poi il fratello universale. E lo
commenterà più volte nelle sue oltre settecento lettere che invia alla cugina Madame di Bondy.
<<Hajj bu rim Bel qasem el Hamuzi che mi avete a rischio dei vostri giorni protetto nel pericolo,
voi a cui devo la vita, voi il cui ricordo lontano mi riempie d’emozione e di tristezza, dove siete a
quest’ora? Vivete ancora? Vi vedrò mai più? Come esprimere la mia riconoscenza, e il mio
rammarico di non potervelo provare?>>. È partito per il Marocco unicamente per fare dei rilievi
geografici, prestando un servizio alla Francia sempre in attesa di estendere il territorio delle sue
colonie, e vi trova la dimensione umana che gli è sconosciuta e di cui incoscientemente ha sempre
sentito la mancanza per la morte precoce dei genitori. Subito appare a lui che la liberazione di
questa forza affettiva repressa è la verità intera dell’essere, la sola che possa dar senso all’esistenza.
La piccola Sorella Annunziata dall’ampia documentazione del viaggiatore in terra musulmana trae
questa conclusione:<< L’esperienza del Marocco lascia nel suo animo un’impronta indelebile, tanto
da costituire per lui il modello, lo stile di preghiera e d’ospitalità, sia riguardo a se stesso, sia
riguardo alle future fraternità. Né va dimenticato il contatto che cercherà di mantenere direttamente
o indirettamente, e per tutta la vita, con il Marocco, anche quando, divenuto prete, e stabilitosi a
Beni Abbes, gli sarà impedito di tornarvi. In periodi differenti, alle persone più importanti, padre
Huvelin, Madame de Bondy, padre Guèrin, padre de Foucauld rivelerà fino a che punto il Marocco
lo ha segnato, e continua ad interpellarlo. Questa esperienza che è per noi piccoli fratelli il modello
delle relazioni, superando le differenze di razza, di religione, di opinioni politiche, pone oggi la
chiesa di fronte ad una domanda che non può eludere: è possibile una conciliazione, una convivenza
pacifica e una condivisione positiva ed esemplare per la società attuale attraverso incontri di
carattere dottrinario-filosofico? Se nell’incontro di Assisi Giovanni Paolo II avesse chiesto ai
religiosi partecipanti di riunirsi nel Sacro Convento per esporre sinteticamente il contenuto e il
senso della propria religione per metterle a confronto, ne sarebbero usciti in pace? Sappiamo che le
religioni hanno una lunga storia di conflitti, di guerre e di delitti.
La luminosa esposizione del professore Ratzinger anche fra noi non può non creare controversie e
separazioni. Ho assistito per qualche momento al dibattito di Ballarò in tv, ed è venuta fuori la
solitudine del Papa in questa iniziativa della sua agenda di viaggio e qualcuno ritorna al solito
lamento sulle radici cristiane dell’Europa, molto simile al lamento degli Ebrei sui resti del tempio.
Mi chiedo spesso se questi cristiani hanno riflettuto sulle parole di Gesù che “un albero buono si
conosce dai frutti”? Dovremmo finalmente aprire gli occhi sul mondo cristiano e non tenerli sempre
aperti sul messaggio di Gesù. In un secolo quante guerre abbiamo organizzato e quanto tempo
abbiamo dedicato la nostra superiorità intellettuale a progettare le armi che nel minor tempo
possibile possano alleggerire la comunità umana del maggior numero di esseri “esuberi”. Da dove
sono partiti i missili nucleari caduti sul Giappone e sulla Russia? E mi fermo qui: il cristianesimo è
pace, giustizia, fratellanza universale e i noi cristiani ogni otto secondi spediamo un bambino fra gli
angeli, malato solo di fame. Gesù, che conosco, mi appare sempre disposto a perdonare i peccatori
più peccatori ma non può perdonare quelli che innalzano i monumenti ai profeti del passato e
condannano alla morte, quelli in vita. Ed è proprio la filosofia celeste, quella astratta, purissima, la
responsabile di questa contraddizione insanabile.
Eppure questa nostra terra del tramonto continua a produrre tante speranze di vita da affidare al
mondo. Una di queste speranze possiamo coglierla nel discorso del Papa che ci fa pensare al
discorso di Paolo all’Areopago di Atene. Il Logos, cui fa riferimento il Papa, un giorno nella
sinagoga di Nazareth, ha dichiarato <<di essere mandato a portare la liberazione ai prigionieri, il
dono della vista ai ciechi, a liberare gli oppressi>>. Ha rivelato la sua identità e si è fatto conoscere
come amore compassionevole, amore misericordioso, e l’aggettivo misericordioso copre una
relazione con la miseria. Questo Logos sa che la gente ha fame e si muove a compassione perché
non mangiano da tre giorni, che potrebbero essere tre secoli. Il logos greco è lontano dalla terra e si
muove a suo agio nel mondo delle idee; quando la ragione si incontra con altra ragione, è scontro;
quando scende fra gli uomini e ne accoglie il clamore, e si solidarizza con loro, diffonde amore e
pace. <<Ho udito il grido del mio popolo e scendo a soccorrerlo>>. Questo logos è Colui che invita
i laici di buona volontà a spogliarsi del mantello, dei sandali, a gettare in terra il bastone, a
presentarsi così disarmati nelle case annunziando una sola parola: Pace. Il logos non è restato
invisibile e ha preso un’identità che può essere quella sola. Paolo entra in mezzo ad un conflitto
creato dal confronto fra i logos greci e pronunzia un verdetto biblico senza commenti <<distruggerò
la sapienza dei sapienti, e squalificherò l’intelligenza degli intelligenti. Dio ha scelto quello che gli
uomini considerano ignorante per coprire di vergogna i sapienti, ha scelto quello che gli uomini
considerano deboli per distruggere quelli che si credono forti. (1Cor. 1)>>.
Un segno della discesa di questo logos che misteriosamente vigila sulle nostre vite, mi sembra
essere la svolta della filosofia occidentale che si è sentita accusata dal confronto con la crudeltà e la
stoltezza della nostra vantata civiltà. Ed è stato un ebreo a scoprire la vera causa di questa svolta
nell’apparizione improvvisa di un volto marcato da tutte le sciagure di cui l’occidente è la causa.
Evidentemente il volto è un simbolo e il pensiero filosofico non potrà mai più distogliersi da questa
visione, che inchioda il pensiero e prima di farlo proseguire lo obbliga a rispondere. La filosofia si
licenzia per sempre dal servizio prestato alla teologia, cancella l’assioma di ancilla theologiae, e si
fa filosofia dell’ascolto del logos che dalla creazione del mondo è saggezza, amore misericordioso,
solidarietà infrangibile con l’uomo. Questo nuovo illuminismo messo in cammino dall’apparizione
dell’oppresso, che i filosofi non hanno avuto tempo di vedere, illumina il senso di una identità che
lo spirito Santo ha dato chiaramente alla Chiesa del nostro tempo: <<Chiesa dei poveri>>.
Naturalmente Chiesa del dialogo ma anche della denunzia della struttura economica che semina
morte nel mondo. Perché struttura economica e non politica? Perché la globalizzazione ha
sottomesso la politica all’economia. In questo quadro si presenta sola la teologia della Liberazione e
il Cristo liberatore. Non come un prodotto del pensiero dei teologi, ma come una discesa gridata,
attesa dalle vittime accumulate dalla razionalità europea.
Un’ultima domanda si presenta alla mia mente: è possibile la pace senza una conversione
personale? E una conversione di fondo del pensiero? La risposta è contenuta nella domanda. Il Papa
nella sua lezione magistrale tocca un punto nevralgico: <<il soggetto decide in base alle sue
esperienze che cosa appare religiosamente sostenibile e la coscienza soggettiva diventa, in
definitiva, l’unica istanza etica… è questa una condizione negativa per l’umanità>>. Anche se
giusto questo rilievo, e documentabile da tutte le follie che appaiono in questo scorcio di tempo
nella terra del tramonto: il consumismo, la sessualità divenuta oggetto di consumo, un progetto
globale che sta in piedi solo provocando guerre e la distruzione di parte dell’umanità, non risponde
ad una domanda: il rimedio? La discesa del logos cioè la ragione diventata saggezza, responsabilità,
presa di coscienza della solidarietà che non è una decisione ma una legge intrinseca della
condizione umana. E la sola forza su cui possiamo contare è l’apparizione del volto del fratello
oppresso. <<Sono venuto a liberare gli schiavi, a portare una buona notizia a quelli che hanno
ricevuto solo la notizia di sfratto: voi siete solo degli esuberi>>. Il cardinale Martini uscendo dal
Conclave annunziò: <<questo Papa vi sorprenderà>>. E lo Spirito Santo è pratico di queste
sorprese. Il Papa filosofo imposta nel suo discorso un grande problema umano, a cui hanno già dato
risposta i filosofi laici: che cos’è finalmente il logos? È amore. Colui che ascolta il lamento degli
oppressi e viene in loro aiuto. È il logos che ha dichiarato di dare la vita al mondo, e c’è tanta morte
in questo nostro mondo. La fede deve accettare l’abbandono dell’ancella fedele, e si alleerà con
un’etica che sarà risposta concreta al lamento degli schiavi di questo tempo. Questa parola: vita,
così essenziale al Vangelo, è certamente eterna ma non è quella dei beati abitanti in un mondo che
non è il nostro. Il logos si è fatto carne, ha preso un volto, un corpo, delle mani che si sono stese
sulle piaghe dell’umanità per sanarle. E non possiamo pensarlo fuori da questa identità e da questo
impegno che si è preso per tutti i secoli. Solo così l’occidente potrà mutare la sua razionalità non nel
vuoto, non nella stoltezza ma a quella in saggezza che sola può produrre la pace che è il più urgente
bisogno dell’umanità attuale.