Scribano 1..16

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Ia bozza il 7-4-2010
Galilæana, VII, 2010, pp. 000-000
RASSEGNE / ESSAY REVIEWS
EMANUELA SCRIBANO
ATTORNO A STEVEN NADLER,
IL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILE.
UNA STORIA DI FILOSOFI, DI DIO E DEL MALE
Nelle difficoltà nelle quali si dibattono gli studi umanistici in Italia, e,
seppure forse non con l’acutezza raggiunta nel nostro paese, anche in Europa, la filosofia si organizza per trovare strategie di sopravvivenza all’altezza di un dato di fatto: anche quando i professori di storia dell’arte, di letteratura, di musica e di filosofia non sembrano personaggi simpatici o
interessanti, gli uomini non possono fare a meno degli artisti, dei letterati,
dei poeti, dei musicisti e anche dei filosofi. Sono fatti cosı̀, e quando le vie
della ricerca accademica si restringono, il torrente della filosofia trova altre
strade per proseguire la sua corsa. Assistiamo cosı̀ ad un fenomeno caratteristico di questi anni: la divulgazione filosofica non scolastica. Le opere
dei classici della filosofia si trovano in edicola, un pubblico numeroso assiste a conferenze in festivals filosofici, si organizzano persino crociere filosofiche, e sugli scaffali delle librerie crescono romanzi che hanno per oggetto i filosofi o la filosofia e ‘‘noir’’ su vicende biografiche oscure, storie di
avvelenamenti presunti o di trafugamenti di cadaveri, che tentano la via
dello scoop per attrarre un pubblico più ampio che non siano gli studiosi
della disciplina. Certo, in molti di questi fenomeni, conta anche la strada
della pura apparenza imboccata ormai da molti anni dalla società nella quale viviamo, ma, piacciano o non piacciano queste forme di divulgazione, esse dimostrano che l’interesse per la filosofia, anche per quella del passato, è
vivo al di fuori della cultura accademica.
Il libro di Steven Nadler The Best of All Possible World. A Story of Philosophers, God, and Evil, uscito nel 2008, e ora disponibile, per Einaudi, nella bella traduzione italiana di Francesco Piro, percorre una via peculiare e
assai meno facile di quelle sopra descritte per raggiungere un pubblico
più ampio che non sia la cerchia degli specialisti: Nadler offre infatti i risultati della ricerca scientifica più rigorosa, che da anni conduce nel campo della storia della filosofia moderna, spogliandoli dell’apparato erudito di note e
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di discussione delle interpretazioni, e presentandoli con uno stile piano, brillante e disinvolto dal quale risulta un libro che si legge ‘‘come un romanzo’’,
ma che, per fortuna, non ‘‘è’’, né pretende di essere, un romanzo – genere
che merita di essere lasciato a chi pratica professionalmente la letteratura.
L’operazione di Nadler è facilitata dal fatto che il tema di cui si tratta è di
quelli che da sempre hanno spinto gli uomini, anche i più semplici, a porsi
domande filosofiche: il male e la sua origine e, per chi è convinto che esista
un Dio che ha progettato e creato il mondo, la domanda su perché Dio abbia
permesso che nel mondo il male ci fosse. Ma la scrittura di Nadler è in ogni
caso una bellissima lezione di attenzione per il lettore, anche non specialista,
e, assieme, di rispetto per la ricerca in ambito storico-filosofico.
Il libro, dunque, si occupa del problema del male in un crocicchio della
storia del pensiero teologico nel quale sembra che questo tema, da sempre
percorso dalla teologia filosofica, raggiunga all’improvviso una fibrillazione
estrema, prima di essere, provvisoriamente, dichiarato esaurito da Kant, nel
brevissimo scritto dedicato al Fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea. Come spesso succede, forse era proprio necessario arrivare all’esasperazione delle possibili soluzioni di un problema antico, perché questo
fosse costretto non certo ad uscire di scena – niente esce mai di scena
nel palcoscenico dei problemi filosofici –, ma certamente a cambiare abito.
L’arco degli eventi che interessano lo studio di Nadler si dispiega tra il
1672, data di arrivo di Leibniz a Parigi e il 1716, anno della morte di Leibniz, e ha per protagonista Leibniz – le cui riflessioni sul tema del male sono
evocate nel titolo – e i due filosofi che con lui e al suo fianco intrecciarono
riflessioni filosofiche sul filo del problema del male e della giustificazione di
Dio, Malebranche e Arnauld.
I primi tre capitoli del volume ruotano appunto attorno a Leibniz, e al
suo soggiorno parigino, nel quale si intrecciano progetti politici di ampio
respiro e maturazione di idee filosofiche, un soggiorno iniziato nella primavera del 1672 e protrattosi, per l’ostinazione di Leibniz a non abbandonare
l’adorata capitale francese, fino all’autunno del 1676. E subito Nadler ci
seduce col suo modo pieno di grazia e di leggerezza di inserire nella trama
di questo resoconto personaggi di grande peso per il pensiero moderno:
Pierre-Daniel Huet compare come insegnante di greco, la filosofia di Cartesio viene evocata attorno all’urna che ne riporta in patria le ossa, Foucher
apre la strada alla lettura – emozionante e insieme urtante- della Recherche
de la vérité, opera di esordio – e di tutta una vita- del secondo protagonista
di questo libro, Nicolas Malebranche, che a Parigi iniziò una conversazione
filosofica a tutto campo con Leibniz, destinata a protrarsi per quarant’anni.
Ma è in solitudine, nel terzo capitolo, che, in questa trama di vita parigina,
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appare il terzo attore del dialogo su Dio e il male, il grande Arnauld, all’epoca -siamo nel 1685- ancora molto amico di Malebranche, che ci introduce al pensiero dei giansenisti e alla sua vita di perseguitato e poi di esule di
prestigio. Una solitudine, quella di Arnauld, del tutto giustificata dalla lontananza, che progressivamente diverrà un abisso, da Leibniz, e, soprattutto,
da Malebranche.
Ora che il fondale della scena è stato calato e che i tre attori sono entrati in scena, può cominciare il gioco filosofico sulla domanda: perché in
un mondo creato da un Dio buono e potente c’è il male? Il quarto capitolo
presenta la conclusione che Leibniz trae dalle meditazioni parigine e, soprattutto, dalla decisione di rispondere alla sfida lanciata nel frattempo
da Pierre Bayle, che del problema del male farà il simbolo e la prova del
fallimento di ogni teologia che pretenda di utilizzare la ragione. Leibniz accetterà la sfida di Bayle riprendendo l’impianto della giustificazione di Dio
inaugurata da Agostino e approfondita e sistematizzata da Tommaso, secondo la quale il male non è un’entità positiva, e contribuisce alla bontà
del mondo, un contributo che però risulterebbe percepibile solo a chi potesse accedere ad uno sguardo d’insieme sull’universo. Da questa altezza si
vedrebbe bene che quel che chiamiamo male contribuisce alla perfezione
del tutto, come, in un quadro, la funzione estetica delle ombre è chiara solo
a chi contempla l’insieme. A questo impianto tradizionale Leibniz aggiungerà però alcune considerazioni sull’agire di Dio alla luce della sua metafisica e della sua teoria dell’azione, e dalle quali trarrà una conclusione senza
precedenti, ossia che non solo questo mondo è un mondo buono, malgrado
le ombre e le dissonanze che ospita, e anzi proprio grazie a queste, ma che
questo mondo è il migliore di tutti i mondi possibili. L’essere il migliore,
spiega Nadler, non significa che esso massimizzi la felicità di ogni individuo, e forse nemmeno la felicità dell’insieme degli individui, ma che massimizza la quantità di realtà, ovvero che nel mondo scelto da Dio il numero
e la diversificazione degli individui è la massima possibile. Il valore della
massima realtà si somma a quello della semplicità delle leggi di natura:
nel mondo migliore possibile si realizza il maggior grado di realtà compatibile con la massima semplicità delle leggi di natura.
Ma qui siamo, appunto, alla conclusione del percorso leibniziano, alla
grande risposta che gli Essais de théodicée inviano a un Bayle ormai deceduto. Quando questo percorso era appena iniziato, nel 1680, viene pubblicato
il Traité de la nature et de la grâce di Malebranche. Nel 1684 Bayle recensisce
sulle Nouvelles de la republique des lettres la versione del Traité del 1684, ed
è allora, presumibilmente, che Leibniz lo legge. E Leibniz scopre di non essere solo: tra le vie possibili per spiegare la presenza del male nel mondo,
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Malebranche e Leibniz hanno scelto la stessa. Come già sapeva Epicuro, e
come ripeterà ai nostri giorni Hans Jonas, per discolpare un Dio personale
e provvidente dalla presenza del male nel mondo, ci sono due vie maestre: o
si opera sulla bontà o si opera sulla potenza. Nel primo caso, si dirà che il
concetto di bontà che gli uomini adoperano non può essere trasferito sulle
scelte divine, che la potenza divina pone Dio al di là del giudizio umano, che
sarebbe volerlo ridurre a dimensione umana giudicarlo con i valori con i
quali gli uomini giudicano le azioni; nel secondo caso, si dirà che la bontà
spingerebbe Dio a eliminare dalla realtà creata ogni ombra di male, ma
che qualcosa glielo impedisce. È, quest’ultima, la via imboccata dai manichei, che sostengono che un principio malvagio pone limiti al principio buono, ma, non volendo porre al di fuori di Dio, come facevano questi eretici,
qualcosa che gli impedisca di ottenere ciò che egli desidera, Leibniz e Malebranche preferiranno porre i limiti della potenza divina all’interno della sua
stessa natura. Entrambi, infatti, ritengono che sia l’intelletto divino a porre
limiti alla potenza, ovvero entrambi ritengono che ci siano ragioni cogenti
per cui il valore della massima bontà del mondo debba venire a patti con
altri valori che la ragione riconosce come tali e che devono essere tenuti presenti nella creazione. Questa tesi rifulge nella celebre formula con la quale
Leibniz condensò la sua teodicea: il nostro è il migliore dei mondi possibile,
e per questo Dio lo ha scelto né poteva scegliere altrimenti. Col che Leibniz
operava una triplice rottura nei confronti della tradizione tomista: asseriva,
in primo luogo, che esiste un mondo migliore di tutti, in secondo luogo, che
Dio non avrebbe potuto non scegliere questo mondo, infine che questo
mondo non è l’ottimo, ma solo il migliore possibile: un mondo che fosse privo dei difetti riscontrabili in questo è reso impossibile dai vincoli che la struttura preconfezionata dei mondi che Dio contempla nel proprio intelletto impongono alla scelta divina. Insomma, Dio non è libero di scegliere la
composizione interna dei mondi possibili, se li trova davanti in pacchetti
già formati da leggi logiche che non dipendono dal suo arbitrio, in forza delle quali la quantità massima di realtà può essere ottenuta grazie a eventi che,
in loro stessi, sono manchevoli, ma che non possono essere separati dagli altri, e quindi deve scegliere non il mondo ottimo, ma il migliore, ovvero il più
ricco di realtà, tra quelli che trova nel suo intelletto. Dio deve accontentarsi,
insomma, ma questo non è un sacrificio perché le leggi della logica sono inscritte nel suo intelletto, fanno parte della sua natura, e il vincolo che impongono al suo operare non lo costringe a niente che lui stesso non approvi e
non ritenga conforme alla sua saggezza, e quindi non voglia.
La tesi secondo la quale si danno ragioni che impongono limiti alle scelte divine fa capire quale sia l’immagine che di Dio si fanno Leibniz e Ma-
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lebranche: entrambi pensano che Dio agisca razionalmente, e che delle sue
azioni si possa dare ragione. Entrambi, osserva Nadler, «concordavano nel
concepire Dio come un essere razionale che agisce per un fine intelligibile e
oggettivo» (p. 150). Queste ragioni, però, pongono vincoli all’arbitrio divino, e Malebranche arriverà a dire che la saggezza rende Dio «impotente»,
mentre Leibniz, per parte sua, dichiarerà che l’intelletto divino assolve allo
stesso compito che i Manichei affidavano al principio del male, ovvero pone vincoli all’azione divina. L’immagine di un Dio la cui azione è vincolata
dai dettami della ragione costituisce uno dei luoghi più controversi della
teodicea di Malebranche e di Leibniz, e susciterà la reazione dei teologi
che sceglieranno invece la via della potenza senza limiti di Dio, per giustificarne l’azione, Arnauld in primo luogo. Ma anche un pensatore meno noto, assai combattivo, e importante per capire la reazione Pierre Bayle, ovvero Pierre Jurieu, evocato molto marginalmente nel testo di Nadler,
sceglierà con irruenza il fronte della difesa della potenza di Dio.
Leibniz e Malebranche sono dunque alleati in una delle due possibili
vie maestre per spiegare la presenza del male nel mondo. E il tempo è maturo per tornare sul terzo personaggio, il ‘‘grande’’ Arnauld, la cui filosofia
viene presentata nel capitolo sesto. La sua filosofia, e non la sua teodicea,
perché Arnauld, al contrario di Malebranche e di Leibniz, non elaborò una
teodicea: e non per reticenza, ma perché la stessa posizione teologica di Arnauld rende impossibile giustificare Dio con qualche argomento razionale.
Dio, infatti, è al di sopra dei criteri di bene e di male, la sua potenza è infinita, sarebbe una blasfemia trascinarlo di fronte ad un tribunale umano:
«nonostante le apparenze, Arnauld non fornı̀ in realtà nessuna teodicea. In
effetti, egli considerava l’intero progetto di una teodicea fuorviante e basato sull’umana presunzione» (pp. 180-181). Arnauld, prima amico di Malebranche, aprı̀ una battaglia feroce contro l’autore del Traité de la nature et
de la grâce, destinata a durare tutta la vita, una battaglia apparentemente
incentrata su un tema estraneo alla teodicea, ma in realtà ad esso strettamente intrecciato, ovvero la natura delle idee: «Il problema stava nel fatto
che Malebranche eliminava ogni differenza tra il modo in cui è Dio a conoscere le cose e quello in cui le conoscono gli esseri umani» (p. 170). E
questo è un punto di fondamentale importanza: Malebranche e Leibniz
non si limitavano ad asserire che ci sono ragioni nell’operare divino, ma
pensavano che queste ragioni fossero riconoscibili come tali anche dall’intelletto umano, dando cosı̀ compimento alla rivoluzione metafisica moderna: la sottomissione dell’infinito alle leggi della logica umana. Alla univocità
tra ragione umana e ragione divina Arnauld si ribellò fin da quando ne individuò le radici nel Traité de la nature et de la grâce.
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Nel capitolo 7 sappiamo perché Arnauld non volle né poté produrre
una teodicea: il cuore di Arnauld batteva per la teoria cartesiana cosiddetta
della libera creazione delle verità eterne, ovvero per la teoria secondo la
quale Dio ha creato liberamente le leggi della logica e della morale umane,
e quindi si colloca al di là del bene e del vero. Arnauld non si pronunciò
mai esplicitamente su questo punto, ma tutto il suo modo di argomentare
e anche le osservazioni che indirizzò contro il riassunto del Discours de métaphysique inviatogli da Leibniz per riceverne un parere, dimostrano che la
sua simpatia andava in quella direzione, verso l’esaltazione della potenza di
Dio, l’insindacabilità delle sue ragioni, la totale separatezza tra la mente
umana e quella divina, ovvero l’esatto contrario di quel che pensavano
Leibniz e da Malebranche, che, neanche a dirlo, di quella dottrina furono
feroci avversari.
Infine nel capitolo ottavo troviamo Leibniz intento a combattere tra
l’attrazione per l’antiteodicea di Spinoza e il tentativo di difendersi dalle
accuse di tangenzialità allo stesso Spinoza. Spinoza che agisce come una calamita attirando a sé anche Malebranche e Arnauld.
Lo studio di Nadler si chiude sulla morte dei tre duellanti.
***
Nell’affresco di Nadler rimangono sullo sfondo coloro che approfittarono anche di queste tensioni teologiche per buttare all’aria il tavolo da gioco condiviso dai tre duellanti: Bayle prima di tutto. Spinoza, cui Nadler ha
dedicato molta ricerca, è evocato per lo spettro del necessitarismo, ma non
per la dissoluzione della nozione di bene e di male e quindi per la dissoluzione stessa del problema di teodicea. È evidente che Nadler è interessato a
ricostruire le posizioni di chi impostava il problema del male a partire da
un Dio personale, e che era convinto di poterlo risolvere, quel problema.
Meno interessato a chi decideva di disfarsi del problema come di non pertinenza della ragione o a chi, come Spinoza, pensava che la questione del
male fosse un falso problema. L’interesse di Nadler è dunque per l’analisi
del pensiero di coloro che una teodicea razionale la ritennero davvero possibile.
Nel disegnare le posizioni intrecciate di Leibniz, Malebranche e Arnauld, il libro di Nadler ha il grande merito di mostrare che le teorie hanno
un’anima, un’ossatura forte riconoscibile al di là dei dettagli, ed è quanto
gli permette di delineare con nettezza lo schieramento dei tre duellanti:
non si tratta, infatti, di un gioco a tre, ma di due fronti che si oppongono,
Leibniz a fianco di Malebranche, da un lato, Arnauld dall’altro, e bene fa
Nadler a ricercare l’ispirazione di fondo delle teologie di questi filosofi per
ritrovarvi, al di là delle sfumature, il motore che ne comanda il sistema. Na-
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dler lascia in parte indecisa la risposta alla domanda se la convergenza di
Leibniz e Malebranche sia casuale o se si tratti di un vero e proprio debito
del primo nei confronti del secondo (p. 156). Verso la convergenza milita il
fatto che l’opzione per la razionalità delle scelte divine è originaria, in Leibniz, che la argomenta già nel dialogo inedito Confessio philosophi, scritto a
Parigi attorno al 1672. D’altro canto non si può minimizzare l’impatto che
ebbe su Leibniz la lettura del Traité de la nature et de la grâce di Malebranche. In ogni caso la scelta di Nadler di lasciare questo punto indeciso mi
pare quanto mai opportuna: se Leibniz ha assorbito con entusiasmo la teodicea di Malebranche è perché si è riconosciuto in Malebranche, ovvero
perché ha subito captato l’assonanza profonda delle loro teologie. E questo
ci dice molto su come avvengono le scelte di fondo e gli schieramenti dei
filosofi. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di affinità elettive su visioni
del mondo non giustificabili razionalmente: perché un Dio arbitro assoluto
delle proprie scelte piaccia o spaventi, e perché un Dio le cui scelte seguono un criterio razionale sembri consolante o invece immiserito, la filosofia
non lo può dire; le scelte di fondo dei filosofi si compiono per temperamento, per gusto, per affinità, appunto, lasciando alla filosofia il compito
di trarre conseguenze rigorose da quelle scelte primitive che si sottraggono
alla giustificazione filosofica.
Semmai, sarà da chiedersi come sia possibile questa alleanza di fondo
tra due filosofi dei quali l’uno – Leibniz – accetta il principio agostiniano-tomista della non realtà del male, se considerato dalla prospettiva dell’insieme del mondo e utilizza a piene mani la metafora del contributo delle
ombre alla bellezza del quadro, mentre l’altro – Malebranche – afferma la
realtà del male anche dal punto di vista del tutto e irride al paragone delle
ombre con la luce. In altri termini, qual è l’ispirazione di fondo in Malebranche e Leibniz: quella che oppone i due filosofi sulla realtà del male
o quella che li unisce nell’adesione alla tesi secondo la quale Dio era obbligato da buone ragioni a scegliere questo e non altri mondi? E come possono trovarsi sullo stesso fronte i due filosofi se, magari d’accordo su una delle due tesi, sono poi in dissenso sull’altra? Su questo problema, a suo
tempo, già Gueroult si era opposto a Laporte, e entrambi avevano buoni
argomenti, Laporte per sottolineare l’assonanza tra Malebranche e Leibniz
sulla scelta necessaria, da parte di Dio, di uno e un solo mondo, Gueroult
per mostrare l’opposizione radicale sulla natura del male e sul ruolo che
questo svolge nella perfezione del mondo.1 Questa mi pare, ora, la doman1 J. LAPORTE, La liberté selon Malebranche, «Revue de métaphysique et de morale», 45
(1938), pp. 338-410; M. GUEROULT, Malebranche, II, Les cinq abı̂mes de la providence, I, L’ordre
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da cui rispondere: se Nadler ha ragione – come ce l’ha – nello schierarsi a
fianco di Laporte e nel raffigurare Leibniz e Malebranche come solidali
nella loro strategia di teodicea, come resiste questa solidarietà a quella
che appare una opposizione profonda tra i due filosofi? Come possono essere alleati tra di loro un nemico e un amico della teodicea agostiniano-tomista? Finché non si risponde in modo soddisfacente a questa domanda,
l’alternativa a suo tempo rappresentata da Laporte e da Gueroult è destinata a riproporsi. Lo stesso Nadler, del resto, non manca di sottolineare le
stoccate che Leibniz avrebbe inserito contro Malebranche nel Discours de
métaphysique e a rilevare, accanto alle ragioni dell’alleanza, quelle del conflitto (pp. 147-148, 193), prestando il fianco a chi, in nome di queste divergenze, volesse contestare lo spessore dell’alleanza tra i due.
Partiamo allora da un dato di fatto: Leibniz, nella Théodicée, è il primo
a minimizzare le differenze che lo oppongono a Malebranche su una questione cosı̀ rilevante come quella della realtà del male: «il faut juger qu’encore les souffrances et les monstres sont dans l’ordre; et il est bon de considérer non seulement qu’il valait mieux admettre ces défauts et ces monstres
que de violer les lois générales, comme raisonne quelquefois le R.P. Malebrance; mais aussi que ces monstres mêmes sont dans les règles, et se trouvent conformes à des volontés générales, quoique nous ne soyons point capables de démeler cette conformité» (§ 241). La grande novità di
Malebranche, in materia di teodicea, ossia il fatto che il mondo contiene
veri difetti, che sono tali anche agli occhi di Dio, e che rendono la sua opera meno buona di quanto potrebbe essere, è presentata da Leibniz come un
elemento di dettaglio nella teodicea di Malebranche: – «comme raisonne
quelquefois le R.P. Malebranche» – e la tesi secondo la quale una considerazione globale dell’universo permette di percepire l’armonia alla quale il
male contribuisce è presentata da Leibniz quasi come una sfumatura rispetto alla tesi malebranchiana secondo la quale il male resta tale da qualunque
prospettiva: «il est bon de considerer que non seulement il valait mieux admettre ces défauts et ces monstres que de violer les lois generales ... mais
aussi que ces monstres mêmes sont dans les règles». Per spiegare l’atteggiamento di Leibniz, Gueroult faceva appello al «constant parti pris de conciliation et de syncrétisme» di Leibniz.2 E anche Nadler concede qualcosa
allo spirito diplomatico e all’insincerità di Leibniz (p. 147). E tuttavia il
«partito preso» di cui parlava Gueroult non è mai presente quando si tratta
et l’occasionalisme, Paris, Aubier-Montaigne, 1959, pp. 180-207: 196: «Il n’y a donc pas entre
Leibniz et Malebranche l’étroite analogie qu’on a cru pouvoir découvrir».
2 M. GUEROULT , Malebranche. Les cinq abimes de la providence, cit., p. 180.
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di contrastare Cartesio o Spinoza sugli stessi problemi di teodicea. Leibniz
non era affatto conciliante quando aveva davanti veri nemici. E poi, per
quanto si sia di buon carattere e si voglia andar d’accordo con tutti, come
è possibile trattare come un problema secondario, sul quale si può fare
sfoggio di diplomazia, nientemeno che la questione della realtà o apparenza
del male, sulla quale è nata la teodicea agostiniana contro i manichei, destinata a dominare largamente e lungamente nel pensiero cristiano?
Ora, il Discours de métaphysique, steso da Leibniz sull’onda della lettura del Traité de la nature et de la grâce di Malebranche, non accenna nemmeno al problema della natura del male, e, se si scorrono con attenzione i
primi paragrafi, si rintraccerà la mappa di una alleanza fortissima con Malebranche, esente dalle prese di distanza che anche Nadler vi vede. I primi
tre paragrafi del Discours sono destinati a individuare i nemici: coloro che
pensano che il mondo non abbia un valore intrinseco, coloro che negano
che la bontà sia qualcosa di oggettivo, coloro che fanno derivare la bontà
del mondo da una scelta arbitraria di Dio, e, infine, coloro che ritengono
che Dio avrebbe potuto fare un mondo migliore, cui Leibniz dedica una
rapida confutazione nel § 3. L’aggettivo «migliore» continua a ingenerare
l’equivoco che Leibniz si riferisca qui a Malebranche, ma è piuttosto la
scuola tomista, Suarez compreso, che vi è individuata, come si vede dal fatto che la tesi secondo la quale Dio avrebbe potuto creare un mondo migliore è utilizzata dai filosofi criticati da Leibniz per avallare la libertà di indifferenza in Dio, cosa che certo Malebranche era lontano da fare. Il punto,
infatti, è che sia Leibniz sia Malebranche sostengono che esiste un mondo e
un solo mondo che ha un valore intrinseco massimo («migliore», preferisce
dire Leibniz, «più perfetto», avrebbe detto Malebranche), e si oppongono
quindi entrambi a coloro che sostengono che Dio avrebbe potuto creare un
mondo che, rispetto ai valori che i due filosofi eleggono a guida della scelta
divina, superasse la perfezione del mondo scelto. Insomma, se c’è una differenza tra Malebranche e Leibniz, questa è nei valori o nella miscela di
valori che essi pongono all’apice della scala cui la scelta divina deve ispirarsi: la semplicità dei mezzi, per Malebranche è un valore competitivo con il
valore della bontà del mondo, mentre per Leibniz la semplicità dei mezzi fa
parte della bontà del mondo. Ma i due sono concordi sul fatto che, rispetto
al valore o alla miscela di valori che occupa il vertice della scala, Dio non
avrebbe potuto fare di meglio.
Una volta esclusa la presenza di Malebranche nella mappa degli avversari dispiegata nei primi tre paragrafi, è impossibile non osservare che
quando, finalmente, nel § 5, i riferimenti a Malebranche diventano inequivocabili, Malebranche è presentato solo come un alleato, contro qualunque
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teologia precedente. In questo stesso paragrafo, Leibniz accetta il principio
malebranchiano secondo il quale la semplicità dei mezzi, ovvero delle leggi
di natura, è un valore che regola la scelta divina tanto quanto la ricchezza
dei risultati, e i due valori devono trovare un equilibrio tra di loro. Né vi si
accenna ai distinguo che Leibniz svilupperà invece nella Théodicée su questo punto, sostenendo che la semplicità delle vie non impedisce affatto la
massimizzazione del bene, perché essa stessa è un bene accanto agli altri.
Non solo quindi la questione della realtà del male non è nemmeno sfiorata
nel Discours, ma la tesi malebranchiana secondo la quale Dio è obbligato a
commisurare i fini (la bontà del mondo) ai mezzi (la semplicità delle vie) vi
è accettata, per la prima volta, e incondizionatamente. Segno palese dell’entusiasmo che il Traité ha suscitato in Leibniz.
Ma c’è di più. Il paragrafo di adesione senza condizioni alle tesi di Malebranche porta anche traccia della lettura recente delle Réflexions philosophiques et théologiques sur le nouveau système de la nature et de la grâce,
che Arnauld andava redigendo contro il Traité di Malebranche e delle quali, quando Leibniz scrive, era appena comparso il primo libro. Nel § 13 del
primo Discours del Traité de la nature et de la grâce, Malebranche aveva paragonato Dio a un eccellente operaio che «doit proportionner son action à
son ouvrage; il ne fait point par des voyes fort composées, ce qu’il peut executer par de plus simples; in n’agit point sans fin, et ne fait jamais d’efforts
inutiles».3 Per meglio criticare la tesi di Malebranche, Arnauld si era impadronito del paragone tra Dio e l’operaio e aveva tradotto la semplicità delle
leggi di natura che, secondo Malebranche, sarebbero state utilizzate da Dio
per produrre la propria opera, in una questione di denaro disponibile per
la costruzione di una casa: solo colui che ha a sua disposizione una somma
limitata per la costruzione di una casa deve fare attenzione a che il risultato
non superi la sua capacità di spesa: «Il est vrai qu’il y a des rencontres où
les hommes doivent proportionner l’ouvrage aux moyens de l’exécuter.
Mais c’est par une raison qui ne peut regarder Dieu. C’est parce que celui
qui entreprend un ouvrage doit prendre garde, si en le voulant faire trop
beau, il ne s’engagera point à une dépense qui passe ses forces». Ma una
considerazione di questo tipo non ha luogo per quanto riguarda l’azione
divina, «puisque toutes les voies d’exécuter ses desseins lui sont également
faciles... Il faut donc reconnaı̂tre – concludeva Arnauld – ou que ses
comparaisons des ouvriers de la terre avec l’ouvrier infini et tout-puissant
ne prouvent rien, ou qu’elles prouvent au contraire de ce que l’on prétend,
3 N. MALEBRANCHE , Traité de la nature et de la grâce, éd. G. Dreyfus, in N. MALEBRANCHE,
Oeuvres complètes, V, Paris, Vrin, 1958, p. 28.
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qu’il n’a eu en vue que de donner au monde qu’il voulait créer la perfection
qu’il lui a plu, sans avoir eu besoin de consulter auparavant par quelles
voies il pourroit se produire ou se conserver». 4 Ora, Leibniz, nel § 5 del
Discours, schierandosi a fianco di Malebranche, si prepara nello stesso tempo ad addolcire le critiche che Arnauld aveva già indirizzato contro Malebranche, e che Arnauld avrebbe potuto riprodurre contro lo stesso Leibniz. Anche Leibniz traduce l’equilibrio tra fini e mezzi nell’equilibrio tra
bellezza dell’edificio che si intende realizzare e spese che si possono sopportare, e, come riprendendo le fila del discorso con qualcuno, ovvero lo
stesso Arnauld, che avesse sostenuto che Dio ha sufficiente denaro per affrontare qualunque spesa, aggiunge: «Il est vrai que rien ne coute à Dieu ...
mais en matiére de sagesse, les décrets ou hypothèses tiennent lieu de dépenses ...» ed è dunque con piena pertinenza che si può sostenere che «la
raison veut qu’on évite la multiplicité dans les hypothèses ou principes...».
La traduzione della semplicità delle vie nella oculatezza delle spese di cui
Arnauld aveva parlato nel primo libro delle Reflexions tornerà, in seguito,
nella Théodicée: «C’est comme si l’on disait qu’une maison a été la meilleure qu’on ait pu faire avec la même dépense» (§ 208).5
La presenza di una risposta criptica alle critiche che Arnauld aveva rivolto al Traité di Malebranche sottolinea l’intenzione di Leibniz di esibire il
suo accordo con Malebranche e di difenderlo, questo accordo, di fronte
alle critiche prevedibili di Arnauld. Insomma, se c’è un esercizio di diplomazia in Leibniz, questo è rivolto interamente nei confronti di Arnauld, a
protezione e a difesa preventiva della sua solidarietà con Malebranche, fin
troppo esibita nel Discours. Il filo del ragionamento che si svolge nei primi
paragrafi del Discours rende chiara la ragione di fondo dell’accordo di
Leibniz con Malebranche: Malebranche è il solo teologo che abbia pensato,
4 A. ARNAULD , Reflexions sur le système de la nature et de la grâce, livre I, in Oeuvres, ParisLausanne, Sigismond d’Arnay, 1775-83, vol. 39, pp. 188-190.
5 Lo stesso inizio del § 5 può essere letto come un tentativo di prevenire le critiche che Arnauld avrebbe potuto rivolgere contro Leibniz, dopo la lettura del Discours: «de connaitre en
particulier les raisons qui l’ont pu mouvoir à choisir cet ordre de l’univers, à souffrir les péchés,
à dispenser ses grâces salutaires d’une certaine manière, cela passe les forces d’un esprit fini, surtout quand il n’est pas encore parvenu à la jouissance de la vue de Dieu». Una delle critiche di
fondo che Arnauld aveva rivolto contro Malebranche nel primo libro delle Réflexions, infatti, era
stata quella di pretendere di conoscere i fini di Dio e i mezzi con i quali Dio li persegue. Avendo
preliminarmente reso omaggio a una regola di prudenza quando si parla dei fini di Dio, Leibniz
può poi riprodurre sotto forma di «quelques remarques generales touchant la conduite de la providence dans le gouvernement des choses» l’equilibrio tra semplicità dei mezzi e fecondità dei
risultati sui quali Malebranche aveva fondato la sua teodicea. Insomma, Leibniz vuol fare sapere
ad Arnauld che la ricerca su qualche linea generale del comportamento divino condotta da Malebranche e ripresa da Leibniz è compatibile con la proibizione di investigare nel dettaglio i fini di
Dio rivendicata da Arnauld.
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come ora pensa anche Leibniz, che il mondo abbia un valore intrinseco indipendente dalla scelta divina, e che esista un mondo che raggiunge il più
alto livello nella scala dei valori, obbligando, di conseguenza, Dio a fermare
su questo la sua scelta. Quello che Leibniz chiamerà il «principio del meglio» è la ragione per la quale Leibniz, a dispetto di ogni ammirazione per
Arnauld, si riconosce in Malebranche. Come dirà nel § 203 della Théodicée, Arnauld «n’a pas eu raison de combattre ce que ce Père a dit d’approchant de ce que nous disons de la règle du meilleur».
Se nel Discours de métaphysique non c’è alcun riferimento alla natura
del male, nella Théodicée questo tema diviene centrale, e, con il problema
del male, ci si aspetterebbe di veder sorgere una opposizione di fondo con
Malebranche. Ma cosı̀ non è, come si diceva, e la ragione di tanta morbidezza su una questione dall’apparenza cosı̀ impegnativa sta nel fatto che il
nocciolo dell’alleanza tra Leibniz e Malebranche, ossia il «principio del meglio», ha, tra le sue conseguenze, anche quella di rendere largamente irrilevante quella che, invece, nella teodicea agostiniano-tomista, era stata la
questione centrale, ovvero la questione della realtà o apparenza del male.
Lo si vede bene nel § 204 della Théodicée, nel quale Leibniz riprende gli
elogi del Traité de la nature et de la grâce di Malebranche, sottolineando
la giustezza di quel che Malebranche vi ha sostenuto, ovvero che «les évenements qui naissent de l’exécution des lois générales ne sont point l’objet
d’une volonté particulière de Dieu»: «Il n’y a point de doute que quand
Dieu s’est déterminé à agir au-dehors, il n’ait fait choix d’une manière
d’agir qui fut digne de l’être souverainement parfait, c’est-à-dire, qui fut
infiniment simple et uniforme, et néanmoins d’une fécondité infinie. On
peut même s’imaginer que cette manière d’agir par des volontés générales
lui a paru préférable, quoiqu’il en dut résulter quelques événements superflus (et même mauvais en les prenant à part, c’est ce que j’ajoute) à une
autre manière plus composée et plus regulière, selon ce Père». Se si è sicuri
a priori che questo mondo è il migliore possibile, ovvero il mondo che massimizza i valori tenendo conto degli impedimenti insuperabili a far ancora
di meglio, la presenza di qualcosa che, considerata in quanto tale – «en la
prenant à part», come dice Leibniz, possa essere giudicata un vero male,
non è più un vero problema, e il dissenso con Malebranche sul fatto
che, anche rispetto all’insieme del mondo, i difetti rimangono tali, può essere trattato come una questione di dettaglio al confronto con le ragioni di
accordo.
Il richiamo a considerare il mondo nel suo insieme e il paragone del male
alle ombre del quadro che piaceva tanto a Leibniz e che era respinto con disprezzo da Malebranche non è sufficiente ad assicurare il ritorno ad una teo-
IL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILE. UNA STORIA DI FILOSOFI, DI DIO E DEL MALE
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dicea agostiniano-tomista, e quindi non può costituire una ragione di incomunicabilità tra Leibniz e Malebranche, perché Leibniz nega un caposaldo
di questa teodicea, ossia che il mondo non abbia un valore non in sé, tale da
imporsi alla scelta divina, ma il suo valore gli derivi solo dal fatto di essere
opera di Dio. Non per nulla la prima tesi confutata nel Discours, nel § 2,
era stata quella che affermava che la bontà del mondo derivava dalla sua causa: «je suis fort éloigné du sentiment de ceux qui soutiennent qu’il n’y a
point de règles de bonté et de perfections dans la nature des choses, ou dans
les idées que Dieu en a; et que les ouvrages de Dieu ne sont bons que par
cette raison formelle que Dieu les a faits», una tesi che Leibniz, nello stesso
paragrafo, e con notevole disinvoltura, associava a quella cartesiana della libera creazione dei valori. Ma era nientemeno che Tommaso il filosofo che,
in sintonia con Agostino, sosteneva la tesi secondo la quale «les ouvrages de
Dieu ne sont bons que par cette raison formelle que Dieu les a faits». Per
Tommaso qualunque cosa fosse uscita dalle mani del creatore era, in quanto
tale, buona, e non solo relativamente al tutto, ma in quanto portava comunque l’immagine della sua causa: «non potest facere aliquid Deus, quod non
sit conveniens sapientiae et bonitate ipsius».6
Il fatto è che Leibniz oppone alla libera creazione delle verità eterne teoria cui giustamente Nadler fa giocare un ruolo cruciale nelle scelte di
teodicea- non il ritorno alla identificazione del bene con la natura divina
proposto da Tommaso, ma il valore in sé delle cose, un platonismo esasperato, potremmo dire, che era stato inaugurato da Suarez, e che aveva rappresentato, in effetti, il bersaglio vero della teoria cartesiana. Questa è la
caratteristica di fondo che segna la modernità della teodicea leibniziana,
la pone nel solco della indipendenza dei valori da Dio, con la quale Ugo
Grozio aveva inaugurato il diritto naturale moderno, e fa capire perché
la linea prescelta da Leibniz, come da Malebranche, nel giustificare Dio
sia quella di limitarne la potenza, come a suo tempo avevano fatto i manichei: anche per Malebranche e per Leibniz, come per i manichei, c’è qualcosa su cui Dio non ha potere e che è dotato di una realtà propria.
Il cambiamento di strategia rispetto alla teodicea antica si rivela proprio
nell’identico atteggiamento che Malebranche e Leibniz mettono in campo
contro gli eretici che avevano sempre assunto come punto di partenza delle
loro tesi la realtà del male, e che della teodicea agostiniana erano stati il
principale bersaglio. Di fronte ai manichei, non si tratta, per Leibniz come
per Malebranche, di negare la realtà del male e che il male abbia una causa
6
ST, I, qu. 21, a. 4, c.
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positiva, ma di sottrarre il male a un principio esterno a Dio, e di ricondurlo all’interno di Dio, la cui innocenza è assicurata, da un lato, dall’impotenza a impedire il male, e, dall’altro, dal fatto che il male non è l’oggetto di
una volontà espressa e particolare: «Il y a véritablement deux principes,
mais ils sont tous deux en Dieu, savoir, son entendement et sa volonté.
L’entendement fournit le principe du mal, sans en être terni, sans être mauvais; il représente les natures comme elles sont dans les vérités éternelles; il
contient en lui la raison pour laquelle le mal est permis, mais la volonté ne
va qu’au bien».7 E non passerà inosservato che, nella lista degli avversari di
Leibniz in materia di teodicea, più volte stilata nel Discours come nella
Théodicée, non figurano i manichei. Questa strategia, in Leibniz, è già
del tutto chiara fin dalla Confessio philosophi, come farà notare lo stesso
Leibniz nella ricostruzione del suo percorso fornita nel § 211 della Théodicée: «Ce principe que je soutiens ici, savoir que le péché avait été permis à
cause qu’il avait été enveloppé dans le meilleur plan de l’univers, y était déjà employé.»
Questa circostanza non è sfuggita ad Arnauld e a Fénelon che, nelle
loro differenti risposte a Malebranche, sono d’accordo su di un punto: la
tesi di Malebranche distrugge la strategia seguita da Agostino contro i manichei e dà dunque nuova forza alle obiezioni di questi eretici. Il rifiuto della strategia agostiniana contro i manichei è evidente, perché Malebranche
accetta che nell’opera di Dio si trovino creature che non sono buone. Al
contrario, è necessario ritornare alla tesi secondo la quale «toute substance
est nécessairement bonne, comme dit souvent S. Augustin et il n’y a que les
Manichéens qui puissent croire qu’il y en ait de mauvaises».8 Anche i mostri sono in loro stessi un bene, in quanto opera comunque mirabile del
sommo artefice. Ne segue che, per tornare allo spirito della teodicea agostiniana contro i manichei, non è sufficiente dire che i mostri contribuiscono alla bellezza dell’insieme; è necessario aggiungere che gli stessi mostri
sono, in quanto opera di Dio, un bene.9
Fénelon darà lo stesso giudizio, sempre contro Malebranche, stavolta
sottolineando che il paragone tante volte abusato tra le ombre del quadro
LEIBNIZ, Essais de théodicée, § 149.
A. ARNAULD, Reflexions philosophiques et théologiques sur le nouveau système de la nature
et de la grâce, in A. ARNAULD, Oeuvres, 43 voll., Sigismond d’Arnay, Paris et Lausanne, 1775-83,
39, p. 203.
9 Ibid.: «Il en est de même des animaux monstrueux. Ils sont moins parfaits que les autres
de leur espece, qui ont de plus justes proportions: mais ils le sont plus que des pierres, et il ne
laisse pas d’y avoir mille choses admirables dans la structure de ces corps informes, qui ne peuvent être que l’effet d’un art divin; comme un tableau dont un excellent Peintre n’auroit achevé
qu’une partie, et auroit barbouillé le reste, ne laisseroit pas de valoir son prix.»
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e il male nel mondo non è sufficiente ad assicurare la disfatta dei manichei.
Bisogna aggiungere che qualunque essere, in quanto tale, e in quanto uscito
dalle mani di Dio, è un bene: «Prenez garde que quand saint Augustin a
parlé du moindre degré d’être et de perfection, il ne l’a point considéré
en tant que joint aux autres degrés supérieurs, pour former l’ouvrage le
plus parfait. Les manichéens ne désavouoient pas que l’ouvrage qui réunissait tous les degrés de perfection ne fût bon; mais sant Augustin vouloit
leur montrer deux choses, l’une, que le mal n’est rien de positif, et n’est
qu’une absence de perfection; l’autre que quand on oteroit à l’ouvrage
de Dieu tous les degrés de perfection qu’il a, excepté un seul, ce degré
d’être et de perfection restant seroit encore véritablement bon et digne
de Dieu: en sorte qu’il ne faudroit point l’attribuer à un mauvais principe».10 Fénelon scrive queste parole verso il 1687-88, nella Réfutation
de Malebranche destinata a rimanere inedita, ma le ripeterà tali e quali
nel 1713, dunque dopo l’uscita della Théodicée, in una lettera dedicata a
«la liberté de Dieu pour créer, ou pour ne créer pas». Malebranche non
è nominato direttamente e gli avversari di Fénelon si nascondono sotto
una formula generica: «Rien n’est donc plus faux de ce que j’entends dire,
savoir que Dieu est nécessité par l’ordre, qui est lui-même, à produire tout
ce qu’il pouvait faire de plus parfait».11 Vista la genericità della formula,
questa volta, anche Leibniz potrebbe essere il bersaglio della critica di Fénelon. E Fénelon sottolinea ancora una volta che Agostino, contro i Manichei, ha sostenuto non solo che l’insieme dell’universo è buono ma che
«tout ce qui existe est bon et parfait dans un certain genre».12 Ora, come
dimostra il titolo di questa lettera di Fénelon – «la liberté de Dieu pour
créer, ou pour ne créer pas» – la tesi secondo la quale ogni ente in quanto
tale è un bene è la premessa necessaria per rivendicare la libertà di indifferenza in Dio: Dio avrebbe potuto creare qualunque mondo, perché qualunque mondo sarebbe stato ugualmente buono in quanto creato da Dio.
L’appello di Leibniz alla scelta necessaria del migliore tra i mondi possibili impedisce di utilizzare questo argomento. Infine, l’accordo di fondo
di Leibniz con Malebranche è possibile perché Leibniz non ritorna ad una
teodicea agostiniano-tomista, e quel che era allora il punto centrale della
difesa di Dio – la realtà del male – è stato relegato, nella nuova teodicea,
FÉNELON, Réfutation du système du Père Malebranche sur la nature et la grâce, in FÉNEOeuvres, éd. Jacques Le Brun, II, Paris, Gallimard, 1997, pp. 327-505: 340.
11 FÉNELON , Lettre IV. Sur l’idée de l’infini, et sur la liberté de Dieu de créer ou de ne pas
créer, in FÉNELON, Oeuvres II, cit., pp. 783-793: 792. Corsivo mio.
12 Ivi, p. 793.
10
LON ,
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in secondo piano. Il che giustifica pienamente la noncuranza con la quale
questo punto di dissenso con Malebranche viene trattato dall’autore della
Théodicée. Se tutto quel che avrebbe potuto essere creato da Dio è un bene, come Agostino sosteneva contro i manichei, allora Dio avrebbe potuto
scegliere un mondo qualunque; se invece ha dovuto scegliere questo mondo perché questo mondo è il migliore, esso rimane tale malgrado -e anzi
grazie- a tutti i difetti che vi si possano riscontrare: «si le moindre mal
qui arrive dans ce monde y manquait, ce ne serait plus ce monde, qui ...
a été trouvé le meilleur par le créateur qui l’a choisi» (§ 9). Contro questi
difetti Dio non può nulla, dal momento che sono contenuti in un mondo il
cui valore si impone alla scelta divina.
In questo modo sia Leibniz sia Malebranche, lontani da Agostino e da
Tommaso, giustificarono Dio attraverso la sua impotenza a eliminare il male – poco o molto che fosse – nel mondo creato, e pensarono entrambi che
il male presente nel mondo fosse necessario, offrendo una giustificazione di
Dio di sapore manicheo che sembrò a Kant, e giustamente, un attentato
alla sensibilità morale, e quindi la peggior risposta possibile alla domanda
sulla presenza del male nel mondo, una domanda che da quella stessa sensibilità morale aveva avuto origine.
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