Comunione ereditaria, prelazione e retratto successorio

Comunione ereditaria e vendita del bene prima della divisione
Prelazione e retratto successorio - Analisi dell’art. 732 c.c.
di Alessandra Loiacono
Spesso, quando si apre una successione ereditaria, capita che gli eredi si trovino a doversi
spartire uno o più beni lasciati indivisi dal de cuius. Fintanto che la spartizione non abbia
materialmente luogo, gli eredi si trovano in uno stato di comunione indotta dalla successione –
ciò vuol dire che sono tutti contemporaneamente proprietari dei beni lasciati loro dal de cuius
ma che nessuno lo è in maniera assoluta e svincolata dagli altri – e si designano, tecnicamente,
con il termine di “coeredi”.
Oggetto del presente articolo è, in particolare, il caso in cui uno tra questi coeredi intenda
disporre della propria parte d’eredità mentre questa si trova ancora in comunione tra tutti.
Può, uno degli eredi in comunione, disporre validamente di un bene se questo non gli è stato
ancora definitivamente assegnato quale parte, a lui spettante, dell’eredità? E se dovesse
disporne, gli altri coeredi hanno, in qualche maniera, l’opportunità di agire per la reintegrazione
del patrimonio ereditario che, essendo ancora indiviso, spetta a tutti loro come fosse un unico
bene?
La risposta a queste domande si trova nell’art. 732 del codice civile, secondo il quale l’erede può
validamente disporre della propria parte, ancorché non definita, di eredità, purché, nel farlo,
rispetti determinate formalità; ed il rispetto di queste formalità conduce, inevitabilmente, a
garantire che gli altri coeredi possano impedire, se questo è il loro interesse, che soggetti
estranei all’originario nucleo dei chiamati all’eredità possano fare ingresso nella comunione.
Si legge, nella norma, che «il coerede, che vuole alienare a un estraneo la sua quota o parte di
essa, deve notificare la proposta di alienazione, indicandone il prezzo, agli altri coeredi, i quali
hanno diritto di prelazione» (art. 732, comma 1, c.c.). In altre parole, solo di fronte al rifiuto
oppostogli da tutti gli altri coeredi, quello tra loro che intenda disporre della propria quota
d’eredità è libero di farne offerta, alle stesse condizioni, a soggetti estranei alla comunione
ereditaria stessa.
Ancora, «in mancanza della notificazione, i coeredi hanno diritto di riscattare la quota
dall’acquirente e da ogni successivo avente causa, finché dura lo stato di comunione ereditaria»
(art. 732, comma 1, c.c.). Si tratta, perciò, di un diritto potestativo reale, opponibile erga omnes.
Occorre, a questo punto, puntualizzare determinati aspetti del dettato legislativo.
Innanzi tutto, la norma parla espressamente di “alienazione della quota”. Come debba
correttamente intendersi questo termine ci viene specificato dalla giurisprudenza la quale,
ormai tradizionalmente, ne estende la portata fino a ricomprendervi tutte quelle ipotesi di
negozi traslativi a titolo oneroso caratterizzati dalla fungibilità della prestazione. Quest’ultimo
aspetto – quello della fungibilità della prestazione – rappresenta propriamente la peculiarità
della nozione, in quanto chi esercita la prelazione (il coerede che intende impedire l’entrata di
terzi estranei nella comunione) va, nel contratto di alienazione stipulato tra coerede-alienante
ed estraneo-acquirente, a sostituirsi a quest’ultimo soggetto. E’, quindi, fondamentale che la
sua prestazione – la prestazione dell’originario estraneo-acquirente – possa venire fornita, al
coerede-alienante, dal prelazionario, come da qualsiasi altro acquirente, in maniera
esattamente uguale a quella che gli sarebbe stata fornita dall’estraneo-acquirente.
Rientrano, quindi, pianamente in questa nozione la vendita della piena proprietà della quota, la
vendita nella nuda proprietà sulla stessa (si tratta, in effetti, di un’alienazione che comporterà
l’acquisto futuro ma certo della piena proprietà), la vendita con riserva di proprietà, dopo che il
compratore abbia acquistato la proprietà col pagamento dell’ultima rata di prezzo. Maggiori
incertezze creano le ipotesi di vendita con patto di riscatto (secondo parte della dottrina, il
retratto successorio potrebbe operarsi unicamente in pendenza del termine per esercitare il
riscatto producendosi, in detto arco di tempo, tutti gli effetti reali di una normale vendita) e di
datio in solutum (nel caso in cui l’estraneo-acquirente sia specificamente interessato alla quota
ereditaria, per il coerede-alienante potrebbero non verificarsi le stesse condizioni nel vendere a
questi piuttosto che al coerede-prelazionario).
Non sussiste il diritto di prelazione dei coeredi, invece, nel caso in cui venga concluso un mero
contratto preliminare di vendita (dove vi sono solo effetti obbligatori e dove la stessa volontà
di alienare è soltanto in divenire), nel caso in cui, tra coerede ed estraneo, si faccia luogo ad una
transazione o ad una donazione (in entrambi i casi mancherebbe la parità di condizioni tra
estraneo e prelazionario) e nel caso in cui il trasferimento della quota ereditaria assuma le
forme di un conferimento in società.
Anche la qualità di “estraneo”, cui fa riferimento la norma in commento, è stata meglio
specificata dalle applicazioni che la magistratura giusdicente ne ha fatto. Non può considerarsi
“estraneo” non solo chi partecipi, in qualunque veste – quindi, anche quale legatario –
all’eredità di cui la quota faccia parte, ma nemmeno colui che sia legato da parentela con i
coeredi del de cuius.
L’alienazione, stante la lettera dell’art. 732 c.c., deve avere ad oggetto l’intera quota ereditaria
o parte di essa. Come si deve intendere questa seconda eventualità? Deve considerarsi quotaparte solo la porzione ideale dell’intero complesso relitto dal de cuius o anche il singolo bene
rientrante in un più consistente compendio ereditario? E’ da notare che, sposare la prima delle
suaccennate accezioni, vorrebbe dire che il coerede sarebbe sempre libero di alienare un
singolo bene, facente parte del complesso ereditario, senza doverne mettere a parte gli altri
coeredi e, nel caso in cui poi quello specifico bene non dovesse venirgli assegnato all’atto della
divisione, gli effetti dell’alienazione, precedentemente posta in essere, verrebbero a cadere ex
tunc.
La giurisprudenza ha recentemente preso posizione sul punto. Vista la ratio dell’istituto della
prelazione, che è quella di impedire che terzi estranei abbiano accesso alla comunione
ereditaria, è necessario, nel caso in cui venga alienato un singolo bene, indagare le concrete
intenzioni con cui tale alienazione è stata posta in essere dalle parti. Quando, con l’alienazione
di beni specifici e determinati, i contraenti non abbiano inteso sostituire il terzo nella posizione
del coerede o comunque immetterlo nel patrimonio ereditario comune, non sussisterebbe la
condizione fondante l’azione di riscatto; l’alienazione sarebbe, quindi, perfettamente valida,
pur rimanendo sottoposta alla condizione sospensiva dell’effettiva assegnazione del bene al
coerede-alienante all’atto di divisione. Al contrario, quando la fattispecie concreta evidenziasse
la volontà di considerare il bene quale rappresentazione della quota, quindi quale porzione
ideale della comunione ereditaria, scatterebbe, per i coeredi pretermessi, la possibilità di
riscattare il bene alienato.
Per concorde giurisprudenza, la notificazione, ai coeredi, della proposta di alienazione o
dell’offerta ricevuta dal terzo può assumere qualsiasi forma (parte della dottrina, invece,
reputa necessaria la forma scritta quando la quota da riscattare comprenda beni immobili). La
notificazione deve, ovviamente, render conto in maniera chiara e compiuta delle condizioni e
dell’eventuale prezzo a cui l’alienazione andrebbe conclusa, in modo da garantire ad entrambe
le parti del rapporto, coerede-alienante e coerede-prelazionario, di tutelare i propri interessi.
Ciò in quanto il coerede-alienante non comunque è tenuto ad alienare al coerede-prelazionario
se questi non gli assicura un ritorno economico almeno pari a quello che gli sarebbe venuto dal
terzo acquirente; per contro, al coerede-prelazionario, che voglia impedire che la comunione
venga aperta a soggetti estranei, non è imposto di sopportare un onere superiore, anche di
poco, a quello che un altro acquirente sarebbe disposto a tollerare. Va da sé, però, che nel caso
in cui il bene o i beni di cui si tratta rivestano un particolare valore agli occhi di un terzo, per cui
questi sarebbe disposto a sborsare, pur di averli, ben più del loro valore, il coerede, che ne
voglia impedire l’acquisto, debba prendere, quale base per determinare il prezzo della propria
prelazione, la somma che il terzo sarebbe disposto ad offrire, senza poter in alcun modo
reclamare. Non v’è alcuno spazio applicativo, nella disciplina del retratto successorio, per
nozioni quali “giusto prezzo” o “prezzo di mercato”, ne’ per l’applicazione di alcun genere di
indice o di criterio indicativo.
Il diritto di prelazione, secondo il dettato normativo, è esercitabile nel termine di due mesi
dall’ultima delle notificazioni. Nel caso in cui, invece, il coerede-alienante abbia disposto del
bene o della quota senza metterne a parte gli altri coeredi, questi hanno il diritto di riscattarli
da chiunque ne abbia, a qualunque titolo, la disponibilità, finché duri lo stato di comunione
ereditaria. Si comprende facilmente il motivo per cui il legislatore abbia limitato la facoltà di
riscatto nel tempo, pur lasciandola, invece, sostanzialmente indeterminata sul punto della
soggettività passiva alla stessa.
La comunione – la condizione per cui più soggetti siano, contemporaneamente, proprietari di
tutti i beni comuni e nessuno possa dirsi proprietario di un determinato bene fra i tanti –
implica, logicamente, che nessuno dei comproprietari possa disporre di uno o di più beni
comuni se non ledendo il diritto di proprietà degli altri, tutti, allo stesso modo, proprietari dei
medesimi. Perché questo stato di necessaria immobilità possa aver termine occorre procedere
a spartire i diversi beni e ad assegnarli tra i comproprietari. Solo a seguito di questa operazione,
ciascuno tra i soggetti precedentemente facenti parte della comunione può dirsi titolare a tutti
gli effetti – fino a poterne disporre come meglio ritiene – di alcuni, ben determinati beni.
Solitamente questa spartizione e questa assegnazione è condotta in modo da ripartire
uniformemente tra tutti non tanto i beni in sé quanto il valore che questi, complessivamente,
contribuivano a formare (ma nulla vieta che i criteri distributivi siano i più vari, salva sempre la
volontà delle parti sul punto).
Il legislatore, col limitare la facoltà di riscatto alla persistenza della comunione ereditaria, ha
inteso proteggere e mantenere lo stato di immobilità necessaria che questa porta con sé,
assicurando ai coeredi che, fino ad una loro volontaria e cosciente presa di posizione in merito
alla sorte dei beni comuni, questi sarebbero stati, in ogni caso, riconducibili al compendio
ereditario da cui, di fatto, sarebbero stati anticipatamente estratti in maniera innaturale e
patologica. E diritto dei coeredi è recuperare detti beni ovunque si trovino, non solo dal loro
primo prenditore ma da chiunque, a qualunque titolo, li detenga.
La volontà di protezione del legislatore, come è ovvio, non si spinge però fino al punto di
imporre, a qualsivoglia tra gli eredi in comunione, di conservare la disponibilità dei beni contro
la propria volontà. Il diritto di retratto è diritto disponibile e il coerede, che ne sia titolare, può
scegliere di non avvalersene, esprimendo tale scelta sia esplicitamente che in maniera tacita,
semplicemente col non riscattare il bene o la quota. La stessa cosa può dirsi del diritto di
prelazione, di cui il diritto di riscatto è un modo di esercizio: purché il coerede-alienante abbia
effettivamente notificato, agli aventi diritto, la sua intenzione di disporre del bene o della quota
ereditaria e le condizioni di tale disposizione, ciascuno tra i coeredi può validamente decidere di
non avvalersi del proprio diritto ad essere preferiti al terzo acquirente. E’ però necessaria la
notifica da parte del coerede-alienante, non potendosi, altrimenti, ritenere una rinuncia tacita
all’esercizio di un diritto che, di fatto, è esistente ma di cui non vengano in essere le condizioni
di esercizio.