Giuseppe Volpato, Concorrenza, Impresa, Strategie, Il Mulino, 2008 Capitolo dodicesimo CONCORRENZA E STRATEGIE 12.1. Il concetto di strategia Se guardiamo al complesso degli studi sulle strategie d'impresa il minimo che si può dire è che si corre il rischio di diventare strabici. Se da un lato è innegabile il successo che riscuote questo tipo di problematica, dall'altro mi sembra altrettanto evidente il ventaglio di posizioni espresse sull’argomento risulta così ampio e indefinito, per cui i risultati proposti dai vari studiosi mostrano una tendenza molto più netta verso un reciproco azzeramento, che verso il sostegno e la complementarità. In altre parole i risultati delle ricerche, siano esse prevalentemente teoriche o applicative, manifestano uno spiccato orientamento a contraddirsi reciprocamente. In generale il contrasto delle tesi non è affatto scandaloso 1 , anzi, credo che tutti ritengano che è proprio da un confronto serrato e puntuale delle posizioni espresse dagli studiosi in materia che si può sperare di far emergere l'impostazione o le impostazioni più valide, generando quello che in senso lato si chiama il “progresso conoscitivo”. Tuttavia, affinché la dialettica delle tesi e delle opinioni sia in grado di innescare un corretto processo di “selezione” delle posizioni più valide, è necessario che siano presenti alcune condizioni di ordine metodologico che assicurino che: 1. i partecipanti a questo ideale dibattito stiano discutendo della stessa cosa (omogeneità di problematica); 2. vi sia un linguaggio sufficientemente omogeneo, affinché vi sia cor rispondenza fra ciò che uno dice e ciò che viene recepito dagli altri (omogeneità di linguaggio); 3. vi sia chiarezza nel metodo con cui ciascuno cerca di convalidare le proprie tesi (trasparenza nelle procedure di convalida). La sensazione di strabismo a cui accennavo in partenza, e il disappunto che spesso si prova nel leggere studi e ricerche sulle strategie d'impresa, derivano proprio dalla marcata percezione che il gran parlare che si fa sul pensiero strategico avvenga in una condizione di assenza quasi totale delle condizioni di omogeneità di problematica, di linguaggio e di verifica. In sostanza gli studi di strategia sembrano alimentare una specie di “guerra delle opinioni” in cui il processo di selezione delle migliori risulta inceppato. Se non si vuole finire fatalmente in 1 I primi studi di natura pionieristica sulla problematica strategica risalgono sostanzialmente alla fase immediatamente successiva al secondo conflitto mondiale e vanno considerati un classico esempio di evoluzione teorica a seguito di una profonda trasformazione economica. La trasformazione economica era rappresentata dall’emergere della grande impresa americana che sviluppò a partire dalla seconda metà del 1800. Un primo effetto di questa trasformazione si ebbe nel 1933 con le elaborazioni dei modelli di concorrenza imperfetta di Chamberlin e della Robinson. Successivamente lo studio delle strategie delle grandi imprese si manifestò sia sul versante dell’industrial organization che su quello del management. Sul primo versante si ebbero innanzitutto gli studi di Mason (1939) e Bain (1948, 1956, 1959) che portarono all’elaborazione del modello “Struttura-ComportamentoRisultati”. Sul secondo versante sono da segnalare gli studi fioriti ad Harvard attraverso l’analisi di casi aziendali e lo sviluppo di un approccio di long range planning con il quale inizialmente si indicavano gli studi di strategia. Si vedano in proposito Ewing (1956), Payne (1957). Tuttavia le opere che hanno dato il maggior impulso alla disciplina sono più tarde e fra queste segnaliamo: Chandler (1962), Ansoff (1965), Sloan (1964), Learned et al. (1965), Porter (1980). 1 questa babele occorre fare uno sforzo di chiarificazione volto innanzitutto a chiarire il proprio pensiero e quindi a relazionarlo a quello degli altri. Questa strada impervia, ma non rinviabile inizia necessariamente con la definizione del concetto di strategia. Si tratta di un termine relativamente recente, nel campo degli studi manageriali 2 , ma entrato in gran voga sulla scia del successo di alcune pubblicazioni che ne hanno mostrato tutta l’importanza nella interpretazione del comportamento imprenditoriale e competitivo, ma sul cui significato e valore concettuale continua una notevole disparità di vedute. Comunque, fra quanti riconoscono al concetto di strategia un significativo valore euristico vi è una sostanziale convergenza nell'assegnare a questo concetto il ruolo di scelta degli obiettivi di lungo periodo dell'impresa, e quindi delle relazioni fra l'impresa stessa e l'ambiente in cui essa opera, e innanzi tutto il settore (o i settori) di diretta attività. A questa impostazione si contrappongono tre generi di critica. a. La prima sostiene che il termine strategia non sarebbe che una nuova etichetta per delle problematiche vecchie. Da sempre l'impresa assume, se non altro nei fatti, degli obiettivi inerenti sia alla propria strutturazione interna, sia ai rapporti con l'ambiente in generale e alla concorrenza in particolare. L’osservazione è senz’altro vera, ma pare eccessivo negare la validità di questa denominazione rispetto ad altre, certamente anteriori come ad esempio la pianificazione (long range planning), che tuttavia hanno contenuti che appare importante tenere distinti da quelli della strategia 3 . b. La seconda contesta invece la possibilità di definire delle strategie in senso normative contraddistinte da contenuti di razionalità in quanto la strategia si riferisce ad una realtà: l’impresa che, in quanto istituzione composta da una pluralità di soggetti, non ha una propria strategia basata su canoni di razionalità (nemmeno in via tentativa), essa si estrinseca soltanto attraverso un confronto di interessi fra le parti. Non esiste quindi una strategia, per lo meno nel senso di progetto coerente d'azione elaborato ex ante, ma al massimo un sentiero strategico desunto ex post dalla sequenza di decisioni e di azioni effettivamente realizzatesi 4 . 2 Ovviamente il termine “strategia” ha una storia assai antica che risale alla cultura greca nella quale lo “stratega” aveva il ruolo di comandante dell’esercito, designato per le sue particolari abilità di condottiero. Analogamente la strategia stava ad indicare l’arte militare di vincere le guerre, mentre la “tattica” indicava l’arte militare di vincere le battaglie. 3 Sui motivi culturali di questo atteggiamento avverso al termine strategia si veda: Canziani (1984). 4 La natura caotica, indefinita e indefinibile, del processo di decisione inerente alle questioni strategiche, è una elaborazione che si è sviluppata a partire dalla posizione metodologica assunta da Lindblom [1959]. Fra gli autori che si inseriscono in questo filone segnaliamo in particolare Quinn (1977). Le argomentazioni che Quinn porta per negare ciò che egli considera un atteggiamento “astrattamente razionalistico” sono essenzialmente due: 1) il futuro è troppo complesso per essere previsto: È letteramente impossibile predire tutti gli eventi e le forze di una certa importanza che potrebbero influenzare il futuro dell'impresa, per non parlare dell'effetto totale della loro interazione; 2) di fatto le imprese non usano uno schema di riferimento di tipo strategico : “Quando grandi e sofisticate organizzazioni realizzano significativi mutamenti di strategia, gli approcci da loro utilizzati hanno ben poco a che vedere con i sistemi razionalistici così spesso proposti nella letteratura relativa alla pianificazione”. Quinn [1984]. Francamente ci paiono motivazioni inconsistenti. Anche accettando il fatto che le grandi imprese trascurino di elaborare un piano strategico ciò non ne dimostrerebbe affatto l'inutilità. Quanto poi alla pretesa impossibilità di effettuare una previsione, evidentemente Quinn non ha capito che il profitto d'impresa non è legato (a parità delle altre condizioni), alla effettuazione di una previsione esatta "di tutti gli eventi e le forze che 2 c. Infine la terza posizione svolge una critica simile alla precedente, ma spostando la propria attenzione da un’ottica collettiva caratterizzata da un conflitto di interessi a un’ottica individuale caratterizzata da una concezione strettamente behavioristica dell'impresa che nega l'esistenza di un legame di razionalità fra obiettivi e mezzi a livello individuale, e che basa il comportamento esclusivamente su routine selezionate dal meccanismo competitivo del mercato 5 . In questa sede non è possibile affrontare il ventaglio di problemi inerenti alla confutazione di queste posizioni 6 . Ci limitiamo solamente ad osservare che, al di là dell'effettivo grado di razionalità mostrato dalle imprese e della validità concreta manifestata dagli studi di orientamento strategico, l'assunzione di un disegno strategico da parte del top management aziendale appare come una opzione necessaria allo stesso sforzo di analisi del comportamento dell'impresa 7 . Naturalmente qui non si vuole affatto negare che, nella definizione delle strategie, imprenditori e manager possano assumere atteggiamenti non solo caratterizzati da razionalità limitata, vincolo al quale nessun soggetto reale può sottrarsi, ma perfino da totale irrazionalità o da forme di spontaneismo più o meno marcato. Quello che si vuol sottolineare è che se si è inclini a considerare queste forme di comportamento come le forme canoniche di comportamento imprenditoriale, per cui l'elaborazione di una strategia assume più la natura di libera manifestazione artistica 8 , come sembrano assumere taluni studiosi, piuttosto che analisi economica possibilmente fredda e documentata, l'economia non dispone degli strumenti per effettuare una analisi di questi comportamenti, che invece saranno oggetto di studio di altre discipline come la psicologia e la sociologia. La manifestazione artistica appare infatti qualcosa che sfugge sistematicamente non solo all'analisi e alla teorizzazione, ma anche e soprattutto alla sua strutturazione in regole e quindi al suo apprendimento. In sostanza le posizioni sintetizzate nei precedenti punti b. e c., se sviluppate coerentemente, portano alla negazione della possibilità di costruire una scienza del comportamento tout court. Si tratta di una posizione scientifica rispettabile, ma a mio avviso non convincente. Iniziamo allora il tentativo di dare una caratterizzazione operativa al concetto di strategia interrogandoci sull'utilità di questo concetto. Se la definizione della strategia si concretizza nella individuazione degli obiettivi d'impresa non basta l'orientamento al profitto a fungere da bussola alle scelte imprenditoriali? La precisazione del concetto di strategia, allo scopo di collocarne la posizione all'interno della catena di fini-mezzi in cui si articola il potrebbero influenzare il futuro dell'impresa". Basta invece una previsione meno imperfetta di quella fatta dai concorrenti. Del resto se le previsioni fossero assolutamente inattendibili la gestione di un'azienda potrebbe essere fatta sulla base di decisioni prese a caso e verrebbe quindi meno la possibilità di dare un senso al comportamento dei soggetti. In ogni caso in uno scritto di poco successivo a quello menzionato Quinn da una immagine completamente diversa della strategia “La strategia è il modello o lo schema che coordina gli obiettivi, le politiche e le linee di condotta principali di un’organizzazione in una sintesi unitaria e coerente. Una strategia ben studiata consente di ordinare e distribuire le risorse di un’organizzazione secondo una disposizione unica ed attuabile, fondata sulle sue competenze e i suoi limiti interni, sulla capacità di prevedere le mutazioni dell’ambiente e le relative mosse di avversari intelligenti. Quinn (1980). 5 Il testo di riferimento classico di questa impostazione è Cyert e March [1963]. 6 In merito rimandiamo alle articolate argomentazioni svolte da Di Bernardo e Rullani [1985]. 7 Un comportamento non teleologico, cioè privo di un progetto, non può essere interpretato, ma solo descritto. Cfr Romano [1970]. 8 Su questa posizione decisamente paradossale sembra porsi ad esempio Mintzberg [1989]. 3 processo decisorio, può essere elaborata a partire dal fatto che l'acquisizione di un profitto nel lungo periodo, considerato come l'obiettivo finale dell'impresa operante in una economia capitalista, non presenta i requisiti necessari ad orientare concretamente il complesso delle scelte che la struttura dell'impresa è chiamata continuamente ad assumere. In altre parole l'acquisizione del profitto appare come un metaobiettivo tanto generico quanto generale e permanente dell'impresa. Esistono infatti molte vie, molti comportamenti, che possono consentire all'impresa l'acquisizione di un profitto. Esso non è quindi in grado di fornire indicazioni operative sul che fare. Solo ex post è possibile (peraltro non senza dubbi e difficoltà) esprimere una valutazione di efficacia delle scelte in merito alla loro capacità di assicurare il profitto. Ex ante la guida dell’impresa sulla base del solo “orientamento al profitto” potrebbe consentire l'applicazione di regole decisionali solo in ipotesi di particolare semplicità. Di fronte a due modalità differenti di compiere una certa operazione economica (per esempio fabbricare un certo prodotto) la scelta della modalità meno costosa in termini di risorse utilizzate appare come una regola efficace ed efficiente solo se le due alternative producessero esattamente gli stessi effetti sotto ogni profilo, tranne che in quello del costo. Se potessi ottenere lo stesso prodotto, in tutto e per tutto, con entrambe le alternative produttive sarebbe evidente la convenienza a preferire quella meno dispendiosa, e sarebbe altrettanto ovvio che l'obiettivo della massimizzazione del profitto consentirebbe di individuare la soluzione più vantaggiosa. Ma se a fronte di una differenza di costo si producesse anche una qualche variazione di altro genere, il cui significato economico pur se evidente non è immediatamente monetizzabile (per esempio un maggior costo si associa ad una variazione positiva di qualità), tale quindi da essere portato a bilanciamento del costo del maggior costo di produzione, il criterio basato sul profitto diventa sfuggente. Solo attraverso una complessa valutazione del mercato e della concorrenza potrei cercare di stimare quale sia la scelta più conveniente ad assicurare il profitto, ma questa "complessa valutazione del mercato e della concorrenza" altro non è che il lavoro istruttorio per la messa a fuoco di una strategia. Ciò significa che l'esercizio di una scelta, che non sia perfettamente e immediatamente (rispetto al momento della scelta) riconducibile ad una situazione di riduzione dei costi o aumento dei ricavi, attraverso condizioni di ceteris paribus, richiede la determinazione di obiettivi concreti basati su una gamma di attributi empiricamente definibili e misurabili. La strategia è quindi un sistema di obiettivi specifici capace di orientare le decisioni 9 . La strategia particolare scelta dal top management di un'impresa potrà essere più o meno valida alla prova dei fatti, ma senza una strategia la struttura decisionale dell'impresa, a vari livelli gerarchici, non sarebbe in grado di assumere delle scelte se non applicando arbitrari parametri di scelta, in quanto non coordinati. Vista questa impostazione, è chiaro che sarebbe possibile operare senza una strategia (definita ex ante) solo se nell'impresa esistesse un unico soggetto decisionale a cui spetta anche la più minuta delle decisioni e che dispone di tutte le informazioni necessarie a stabilire una coerenza fra ciò che si vuole ottenere (fine) e le alternative di comportamento (scelta). 9 Faccipieri [1984] sottolinea che “L'agire strategico presuppone il progetto di un soggetto (il management) di impegnare le risorse disponibili in determinate direzioni dettate dalla propria struttura di obiettivi”. Analogamente Ricciardi (1984) dopo aver analizzato le diverse accezioni in cui si manifesta l'approccio strategico, nota che “La scelta e la formulazione esplicita di una strategia dell'impresa da parte dei responsabili offre vantaggi sostanziali in quanto rappresenta un "linea guida" per tutte le decisioni e - se è accompagnata da una coerente organizzazione per tutti i comportamenti all'interno”. 4 Giusta questa impostazione, se ne deduce che gli attributi essenziali della strategia sono dati dal fatto di avere un orientamento prospettico e una caratterizzazione empirica specifica. Senza queste due caratteristiche la definizione di una strategia non è in grado di assolvere alla funzione che le è propria. E nel contempo ciò spiega perché nello schema teorico neoclassico non vi sia posto per la strategia. Abbiamo un unico soggetto decisore operante in una situazione di determinatezza che consente di rapportare ogni scelta, dalla più complessa alla più minuta, ad una variazione positiva o negativa del profitto. Molti dei fraintendimenti che sussistono in merito al significato e alla validità del concetto di strategia, derivano dal fatto che è frequente trovare studiosi che definiscono gli orientamenti strategici in termini così vaghi e generici da rendere tali obiettivi altrettanto inadatti, dal punto di vista operativo, del meccanico riferimento al profitto. 12.2. Tutte le imprese hanno una strategia Il tentativo di sgombrare il campo dalle tante incomprensioni che agitano il dibattito in tema di strategie può utilmente iniziare dalla constatazione che tutte le imprese hanno una strategia, nel senso che la strategia di un'impresa è data dall' insieme delle scelte fondamentali, e dai comportamenti che ne derivano, concernenti gli aspetti della sua struttura e del suo modo di interagire con l'ambiente. Ciò che un'impresa fa in tema di scelta della propria organizzazione, della propria tecnologia, dei propri prodotti, del proprio grado di diversificazione e di integrazione, ecc., è la strategia d'impresa. Quindi la strategia di un'impresa è la risultante del complesso delle scelte di un'impresa. Per il solo fatto che un'impresa esiste e quindi sceglie, essa ha anche una strategia 10 , e quindi la storia di un'impresa non è altro che la dialettica fra il proprio comportamento: le scelte, e la risposta che ne deriva dall'ambiente rappresentato innanzitutto dai concorrenti, dai clienti, dai finanziatori, dai fornitori, dallo Stato. Un'impresa ha delle leve di manovra, ovvero delle discrezionalità e la sua strategia è l'insieme delle sue manifestazioni discrezionali 11 . Se si concorda con questo modo introduttivo di definire la strategia ne deriva che le imprese hanno fatto delle strategie da sempre, anzi, una condizione perché esista un'impresa è che ci sia una strategia indipendentemente dal fatto che sia buona o cattiva, coerente o incoerente, semplice o complessa, ecc.). Si potrebbe usare il termine percorso strategico 12 . Qualcuno potrebbe chiamarla strategia di fatto, oppure strategia ex post, oppure strategia realizzata 13 . Se si accetta questa impostazione il problema in tema di «strategia di fatto» è quello di descriverla e interpretarla per coglierne utili ammaestramenti. E' un problema molto 10 Si veda Di Bernardo e Rullani (1985). 11 Per una più ampia esposizione della dialettica fra la soggettività manageriale e l’oggettività dell’ambiente esterno si rimanda a Faccipieri (1984). 12 “Per percorso strategico intendiamo il cammino evolutivo che un'impresa ha percorso nel tempo quale sintesi dinamica di un processo dialettico che si svolge storicamente fra piano strategico dell'impresa, da un lato, e modificazioni delle condizioni dell'ambiente, dall'altro. Mentre le scelte di fondo relative alla individuazione degli elementi di una strategia di base avvengono, con l'impiego di procedure formali o informali, ex ante rispetto alla sua implementazione, il percorso strategico si individua e si definisce ex post mediante l'analisi delle condizioni che storicamente hanno determinato un certo tipo di evoluzione delle strutture interne dell'impresa e della struttura esterna, cioè dell'ambiente in cui essa opera”. Rispoli (1984). 13 È lo stesso Mintzberg a parlare di strategia realizzata in un saggio del 1988. 5 complesso, ma in questa sede limitiamoci a sapere che esiste senza la pretesa di affrontarlo. Per intanto, però, possiamo dire che secondo questa impostazione non ha molto senso domandarci quando i soggetti che operano nelle imprese hanno iniziato a fare delle strategie (e gli studiosi hanno iniziato a studiare le strategie) dal momento che l'esistenza stessa dell’impresa (sia in senso storico che concettuale) è il frutto di una strategia. L'impresa ha una strategia per il solo fatto di esistere. Una questione immediatamente connessa alla precedente riguarda il quesito se abbia senso parlare di buona o cattiva strategia. A me pare che, siccome il concetto di strategia è usato come sinonimo di “scelta”, se assumiamo che i soggetti “scelgono”, in quanto esiste un ventaglio di comportamenti tra i quali scegliere e tali soggetti non sono meccanici esecutori di una qualche legge biologica che li assimila a degli strumenti, allora assumiamo anche che esista una molteplicità di possibili strategie e quindi esiste il problema di definire un fine rispetto al quale giudicare la validità delle possibili strategie. Mi pare che il riconoscimento della possibilità di una scelta sia la condizione necessaria, non solo perché abbia senso esprimere un giudizio valutativo sulle strategie, ma addirittura perché abbia senso pensare a una scienza applicata a dei soggetti. Se assumiamo che il soggetto non è libero di scegliere: anche se crede di scegliere, in realtà è “agito” da una matrice biologica che lo governa, come si sostiene in una forma radicale di behaviorismo, allora non c'è spazio per chiedersi se una certa strategia è più o meno valida, in quanto non potrebbe esistere una strategia diversa, né un fine del soggetto in quanto tale, ma solo un fine della matrice biologica. Personalmente ritengo che il soggetto possa scegliere, sia pure in un ambiente che lo vincola parzialmente, ma anche la posizione contraria è assolutamente legittima, in quanto non esiste nessuna prova definitiva a favore dell'una tesi o dell'altra, e probabilmente non esisterà mai. Quello che conta è che se ci sentiamo a favore della possibilità di scelta, allora esiste la possibilità di fare una scienza dei soggetti 14 , come è ad esempio l'economia. Al contrario un behaviorista radicale dovrebbe sostenere, coerentemente con l'assunto di partenza, che è privo di senso cercare di fare una scienza dei soggetti, al massimo c'è spazio per una scienza della natura 15 , e che quindi non ha senso il quesito attorno a strategie buone o cattive. Questo genere di argomentazioni potrà sembrare eccessivamente astratto e lontano dai problemi pratici della strategia, a me pare invece che siano argomentazioni estremamente concrete. Facciamo un esempio: se qualcuno pensa che le doti di un imprenditore siano di tipo istintuale (e basta sfogliare i giornali per rendersi conto di quanto sia diffusa questa idea), allora ciò che si sostiene, detto con altre parole, è che i soggetti imprenditoriali si comportano in modo rigidamente behavioristico. Non c'è scelta ma solo istinto, e l'imprenditore di successo non ha altro merito che quello di essere nato con una matrice biologica che lo “agisce” in modo conveniente, rispetto alla situazione in cui si trova ad operare. Non vi sarebbe quindi una razionalità (limitata, ma migliore di quella dei concorrenti) da parte di soggetto imprenditore rispetto ad un altro soggetto imprenditore, cioè corrispondenza e adeguatezza fra il fine da raggiungere, i mezzi di cui egli dispone e i vincoli che caratterizzano il suo campo d'azione, ma solo una risposta biologicamente determinata ad un certo stimolo. Ammesso e non concesso che l'università o le business school siano un luogo dove si 14 In proposito si veda il saggio di D.F. Romano (1976) di introduzione al volume di Hilgard e Bower, Le teorie dell’apprendimento. 15 Personalmente ritengo che se ci trovassimo in questa situazione, non solo non si potrebbe fare una scienza del sociale, ma nemmeno uno studio meramente storico dei percorsi strategici delle imprese in quanto anche la loro comprensione non sarebbe che un riflesso del nostro condizionamento mentale. 6 cerca di fare della scienza, ne deriva che per un behaviorista radicale la formazione scolastica è del tutto inutile per un imprenditore, per il semplice motivo che la scienza dei soggetti non potrebbe esistere. Quindi perché si possa parlare di un pensiero scientifico in tema di strategie (e quindi di scelta da parte di soggetti) occorre che esista una pluralità di scelte alternative. Il compito del pensiero scientifico applicato alla problematica strategica sta proprio nell'individuare l'alternativa migliore (o se volete la meno imperfetta) rispetto alle finalità prefissate dal soggetto. A questo punto abbiamo tolto un primo strato all'aggrovigliato nucleo della problematica strategica, e la parte che segue riguarderà il concetto di strategia in quanto fenomeno intenzionale, collocato prima del comportamento, ciò che Moore chiama: il pensiero che precede l'azione 16 . Ed è proprio sulla strategia in quanto «scelta,. o «progetto intenzionale,. che la confusione delle posizioni è più diffusa. Mi pare quindi opportuno cercare innanzitutto di fornire la mia opinione sul perché si è formata questa confusione. Ritengo che la causa prevalente sia rappresentata dal fatto che la maggior parte degli studi in oggetto trascurano di tenere ben distinti i diversi momenti in cui si articola la tematica strategica. La definizione/realizzazione di una strategia avviene infatti attraverso più fasi, concatenate ma distinte; ed inoltre una volta elaborata una strategia essa può essere utilizzata per una pluralità di scopi. 12.3. Fasi e scopi della strategia Senza pretendere di essere esaustivo mi pare si possano individuare almeno quattro fasi o problematiche connesse con la questione strategica, che ordiniamo in senso logico 17 : 1. Quale procedura o organizzazione utilizzare per l'assunzione di decisioni strategiche (chi decide, come e perché), nel linguaggio anglosassone questa fase è definibile come lo strategy formation process; 2. Quale contenuto concreto e specifico dare alla strategia (ovvero scegliere se diversificare o meno, se differenziare o meno, se integrarsi o meno, e secondo quali particolari modalità, ecc.), questa fase compare prevalentemente come problem solving, o tout court come strategy; 3. Come tradurre la scelta relativa al punto precedente in una sequenza prestabilita di azioni aventi la necessaria coerenza operativa e temporale, e siamo quindi di fronte alla fase di planning; 4. Come verificare nel tempo se quanto deciso si è basato su un sistema di ipotesi previsionali corrette, che stanno trovando conforto nella realtà, se quanto già realizzato sta avvenendo secondo il programmato, o se invece si deve riformulare il problema ripercorrendo le prime tre fasi: strategic control. Storicamènte, senza per questo volere creare questioni di primogenitura, ma solo per presentare meglio la materia, la fase ad essere affrontata per prima è stata la seconda, quella del problem solving o della strategy. Essa affronta il problema del “che fare”. Si dà per scontato 16 Moore (1959). 17 Sulla ripartizione della problematica strategica in momenti concettualmente diversi si vedano: Podestà (1970), Rugiadini (1978), Canziani (1984), Rispoli (2002). 7 che un'impresa disponga di un certo ammontare di risorse (finanziarie, tecnologiche, organizzative, ecc.) e che l'impresa debba confrontarsi con un sistema di concorrenti per guadagnarsi una fetta del mercato. I primi studi sulla strategia si chiedevano: cosa deve fare questa impresa (date le sue caratteristiche e quelle dell'ambiente, rappresentato dalla concorrenza e dal mercato) per accrescere le proprie risorse, vincere sulla concorrenza, in una parola: prosperare? Si tratta quindi di un problema sostanziale ed empirico nel senso che si deve arrivare alla individuazione di uno specifico obiettivo di comportamento, definito rispetto all'ambiente e al momento storico considerato 18 . Di sfuggita notiamo che ponendo questo problema siamo anche passati da una strategia di fatto, o ex post, a una strategia di tipo prospettico: cosa fare da adesso in poi in un certo orizzonte temporale. Ma in molti casi si parla di strategia anche quando si assume di aver già scelto il che fare, e si voglia realizzare un modello logico-formale attraverso cui comporre in sistema i tempi, le modalità, e le procedure con cui si realizza il “che fare”. Questa attività, corrispondente al punto 3), mi pare più correttamente definita con il termine “pianificazione” (planning), essa va quindi distinta dal problema della scelta sul “che fare”, ma purtroppo non è infrequente che alcuni autori tendano a mischiare questi due piani. Possiamo infine aggiungere la fase 1 e 2 nelle quali ci si interroga rispettivamente sulle forme organizzative e sulle dinamiche psicosociologiche attraverso cui si perviene alla definizione della struttura decisionale incaricata di definire il che fare (strategy formation process) e alla definizione delle procedure con le quali si verifica sistematicamente in itinere che tanto la validità delle scelte fatte (strategy), quanto l’attuazione delle stesse si mostrano corrette ed adeguate nel tempo (strategic control). Se nel dibattito concettuale non si ha cura di distinguere a quale fase ci si riferisce è inevitabile che ne nascano inutili confusioni. E' fin troppo evidente che nella concreta operatività aziendale le fasi della problematica strategica non si svolgono in modo separato. In pratica si è sempre costretti a mischiare: il momento della scelta (seconda fase), con quello della mediazione fra impostazioni organizzative diverse (prima fase), con quello della realizzazione (terza fase), spesso proprio perché la verifica ex post (quarta fase) rende evidente che si sono commessi alcuni errori nelle fasi precedenti. Tuttavia questa commistione di fasi è una dura necessità, connessa proprio al fatto che le quattro fasi non vengono svolte in modo ottimale. Non essendo sicuro sul “che fare", assumo un obiettivo piuttosto generico e cerco, strada facendo, di verificare se mi muovo nella giusta direzione, modificando eventualmente l'obiettivo via via che si chiariscono le prospettive e lo scenario ambientale si precisa meglio. Tanto è vero che se ipotizzassimo una impresa onnisciente e onnipotente, essa non avrebbe alcun bisogno di rettificare i propri comportamenti, essi sarebbero perfetti, e verrebbe meno l'interazione tra le prime tre fasi, mentre la quarta scomparirebbe in quanto inutile. Se quindi è inevitabile che nella pratica ci sia una continua interazione fra fasi, ciò non toglie che ogni singola fase ponga problemi metodologicamente diversi. Questa distinzione ha però il suo valore anche sul piano operativo. Solo se cerco di tenerle distinte posso poi chiedermi se l'eventuale fallimento di una strategia vada imputato ad una fase o all'altra. Il “che fare” era corretto, ma la sua scelta, bloccata da lotte intestine fra le funzioni aziendali, è maturata troppo in ritardo, ovvero era il suo contenuto specifico carente, o non siamo stati in grado di realizzarlo. Senza questa capacità di distinzione logica diventa praticamente impossibile apprendere dai propri errori e porvi rimedio, né è possibile interpretare correttamente le specificità dei percorsi strategici realizzati dalle varie imprese. 18 Vi sono alcuni autori che distinguono diversi livelli della problematica strategica, ma senza farne derivare delle implicazioni di ordine metodologico. Si veda ad esempio Bower e Doz (1979). 8 Ricorrendo a unaa metafora, possiamo dire che il buon funzionamento di una autovettura (strategia) dipende da un equilibrato funzionamento di tutti i subsistemi (motore, sospensioni, sterzo, freni, ecc.), che sono fra loro strettamente interconnessi, ma ciò non toglie che è perfettamente accettabile mantenere la distinzione dei subsistemi proprio per capire come si può migliorare il funzionamento della vettura. Se il sistema frenante è surdimensionato, ciò significa che posso cercare di incrementare la potenza del motore senza avere un livello inadeguato della capacità frenante. La differenza, fra un automobilista che non capisce nulla di automobili e un provetto autoriparatore, sta nel fatto che il primo dice: questa automobile non funziona, mentre il secondo può dire questa automobile non funziona perché i cilindri del monoblocco si sono ovalizzati e il motore ha perso di compressione. Un' altra parte della confusione concettuale deriva dal fatto che, oltre alla diversità delle fasi, esistono una molteplicità di usi della strategia. Oltre a quello primario, intrinsecamente connesso alla definizione del “che fare” se ne possono individuare molteplici. Per brevità ne citerò solo alcuni. 1. Uno scopo secondario, ma non trascurabile della definizione scritta e formale di una strategia, consiste nel fatto che, anche a prescindere dalla qualità intrinseca della strategia, il tentativo di formalizzare in qualche modo gli obiettivi da raggiungere consente una forma di utile simulazione sulla coerenza intrinseca degli obiettivi, essa risulta assai utile per saggiare la qualità del comportamento manageriale e consente di retroagire in qualche modo con il “che fare” stesso, e quindi migliorane la qualità. Inoltre la formalizzazione è utile anche per la fase dello strategy formation process. Senza un tentativo di formalizzare chiaramente gli obiettivi, e le alternative percorribili per raggiungerli, diventa difficile avere un produttivo confronto di idee mirante alla eventuale composizione di opinioni diverse presenti tra i diversi soggetti dell’organo decisionale. 2. Inoltre, una volta che il top management ha definito il “che fare”, i suoi contenuti possono giocare un ruolo di natura comunicativa. Definendo una «strategia» gli organi decisionali comunicano tanto alla struttura interna dell' impresa, che all'ambiente, una serie di indicazioni che ha molteplici usi: 2.1. coordinare a livello globale l'orientamento dei singoli centri di esecuzione della strategia, diffondendo il significato e la direzione del cambiamento verso cui si vuole proiettare l'impresa; 2.2. acquisire il necessario grado di consenso in forza della razionalità e coerenza emanate dalla strategia comunicata; 2.3. lanciare segnali ai partner dell'impresa (stakeholders) in merito alle mosse che ci si appresta a realizzare, con lo scopo di influenzare in senso favorevole al proprio disegno il comportamento dei partner stessi. Spesso gli studiosi, oltre ad affrontare fasi diverse della problematica strategica (senza esplicitarlo), finiscono anche per privilegiare usi diversi della strategia. È chiaro che, a seconda dell'uso che si intende perseguire, varia l'impostazione concettuale dei vari autori e l'enfasi che essi assegnano alle varie questioni. Appare quindi necessario che una qualunque argomentazione sui temi della strategia debba iniziare dalla esplicitazione della fase del problema strategico che si intende affrontare e dell'uso che si vuole privilegiare. Eppure sono ben pochi i contributi in cui questa elementare regola metodologica viene osservata. Quello che vorremmo fare con questa introduzione è cercare di fornire una griglia di lettura che supplisca 9 alle carenze di esplicitazione. Questa confusione di fasi e di piani di utilizzo porta inevitabilmente a un contrasto di tesi, che finisce per avvitarsi su sé stesso, perché la disomogeneità di problematica porta inevitabilmente a un recepimento distorto dei concetti e del linguaggio e quindi al rifiuto dei diversi sistemi di verifica fattuale. Si badi che non è mia intenzione sostenere che le diverse impostazioni sviluppate dagli autori sulle problematiche della strategia intesa in senso lato non siano fra loro in contrasto, ma piuttosto che molti dei contrasti apparenti non hanno alcuna base oggettiva, in altre parole sono contrasti fasulli che però fanno perdere di vista i contrasti autentici e qualche volta radicali, che pure esistono, e che sono i veri temi sui quale vale la pena di confrontarsi ed eventualmente dividersi aderendo ad opzioni metodologiche differenti. È quindi il momento di fornire degli esempi concreti delle forme sterili del contrasto tra studiosi. 12.4. Razionalità e razionalismo Una delle questioni sulle quali divampa la polemica riguarda il grado di razionalità con il quale è possibile definire una strategia d’impresa. Apparentemente abbiamo un indirizzo di derivazione management science che concepisce il manager come un soggetto perfettamente razionale, una sorta di homo economicus guidato esclusivamente dal calcolo razionale e in grado di ottimizzare i propri comportamenti. Dall’altro abbiamo invece un approccio derivato da una teoria behavioristica dell’impresa e dei soggetti in essa operanti che sottolinea l’impossibilità di una comportamento ottimizzante e privilegia l’analisi del conflitto di interessi tra gli attori dell’organizzazione aziendale e delle forme di negoziazione tra di essi. Personalmente ritengo che si deve stare molto attenti a contrapporre in modo diretto questi due approcci in quanto si riferiscono a problemi di natura diversa che vanno esplicitati prima di passare a un confronto delle posizioni. Tra l'altro negli studi di strategia le varie posizioni non sono riconducibili esclusivamente a questi due approcci, per la presenza di varie sfumature. Lo stesso approccio cosiddetto management science andrebbe suddiviso in almeno due filoni: quello del business and industriaI economics, che si concentra essenzialmente sulla seconda fase fra quelle prima menzionate, corrispondente alla strategy, e quello della operations research che si concentra prevalentemente sulla terza fase, che abbiamo indicato con la dizione planning proprio perché esso si estrinseca in un sistema di riferimento concettuale più strutturato 19 . Tuttavia mi pare ragionevolmente accettabile considerare questi due approcci come i due poli estremi di un continuum differenziato di posizioni, che tuttavia non devono essere direttamente contrapposte per il semplice motivo che assumono due obiettivi conoscitivi diversi, uno di contenuto tipicamente normativo l’altro di contenuto tipicamente positivo. L’impostazione management science, perlomeno nelle elaborazioni degli autori più accreditati, è una manifestazione di ricerca normativa che non sostiene affatto che i soggetti siano effettivamente razionali, ma si interroga su quali strumenti possono essere elaborati per cercare di individuare la soluzione più razionale a un problema dato. Non a caso in questo tipo di ricerche si effettuano semplificazioni accentuate sulla realtà analizzata, proprio per semplificarla al punto da rendere utilizzabili degli algoritmi ottimizzanti che diversamente non potrebbero essere applicati. 19 Naturalmente, all'interno di ciascuna fase si possono individuare numerose sotto-problematiche aventi caratterizzazioni distinte. Per una rassegna e una trattazione delle principali sotto-problematiche della seconda e terza fase si veda Eminente (1981). 10 Ad esempio in un'ottica marcatamente operations research il problema strategico può essere reso (nella sua più semplice accezione) in questi termini: supponiamo che vi sia una sola volontà all' interno dell' impresa (quella dell' imprenditore) circa le scelte gestionali da effettuare, e che il fine di questa volontà sia il raggiungimento della massimizzazione del risultato economico, e supponiamo altresì che l'imprenditore disponga di tutte le informazioni (espresse in termini quantitativi) che sarebbero necessarie ad una scelta ottimale, come dovrebbe essere organizzato il calcolo per individuare il comportamento massimizzante dell' impresa? Si badi che il fatto che questo approccio si basi su pesantissime semplificazioni, che sappiamo benissimo essere irrealistiche, non significa affatto togliere ogni significato alla questione. Sulla terra la situazione di vuoto assoluto non è certamente la normalità, e tuttavia la legge di caduta di un grave viene definita ipotizzando una tale situazione. Dentro un contenitore in cui si sia fatto il vuoto una piuma e un pezzo di ferro cadono con la stessa accelerazione, e quindi percorrono spazi uguali in tempi uguali, e nessuno nega l'utilità di questa legge. Ovviamente l'applicabilità di questa legge è tanto maggiore quanto più siamo prossimi alle situazioni previste dalle ipotesi semplificatrici di partenza. A ben vedere in questi schemi si fanno semplificazioni analoghe a quelle continuamente applicate in macroeconomia o nella teoria dei giochi. Nel contempo se l’obiettivo conoscitivo è cercare di interpretare il reale comportamento dei soggetti quale esso effettivamente si manifesta (analisi positiva), non c’è dubbio che sia l’approccio behaviorista che quello cognitivo possono dare una prospettiva utile alla interpretazione delle modalità comportali degli attori aziendali. Di conseguenza chiunque intenda affrontare la problematica strategica avrebbe il dovere, ma anche la convenienza se non vuole essere frainteso, di esplicitare volta a volta in quale prospettiva si colloca. Infatti anche nell’approccio behavioral science si può assumere una prospettiva meramente descrittiva-positiva, ovvero si può assumere anche un obiettivo normativo. Se, come nella maggioranza dei casa è quest’ultima la prospettiva adottata risulta che anche in quest’approccio verrà comunque adottata una regola di razionalità. Infatti assumiamo che in un'impresa vi siano una pluralità di volontà e quindi di interessi, e ipotizziamo di metterci nella prospettiva di una di queste volontà (in genere si tratta della prospettiva del massimo responsabile aziendale, vale a dire l'imprenditore o l'equivalente manageriale rappresentato dal Chief Executive Officer, CEO), e assumiamo altresì che questo responsabile voglia guidare l'impresa verso un certo indirizzo strategico, il problema da risolvere è: come deve organizzare, delegare, stimolare, sanzionare, retribuire, gratificare, formare, ecc., i propri collaboratori affinché il complesso dell'organismo aziendale risponda nel modo desiderato? Così posto l' approccio tende a coincidere con la prima fase quella della strategy formation process. Anche in questo approccio è inevitabile che gli studiosi ricerchino una regola di razionalità. Non sarà probabilmente la razionalità dell’homo economicus, sarà una regola di razionalità comportamentale, ma comunque non potrà non essere adottata una prospettiva di coerenza e quindi di razionalità tra i fini del soggetto considerato e le azioni da attuare. Ad esempio se la psicologia ci fa ritenere che sia più facile stimolare il consenso o la partecipazione di uno specifico collaboratore (data la sua età, le sue esigenze di autorealizzazione nel lavoro, le sue esperienze professionali, ecc.) attraverso una promozione gerarchica piuttosto che con un premio in danaro, sarà proprio questa la regola suggerita dall'approccio behavioral science. La differenza rispetto all'approccio management science deriva dal fatto che le teorie utilizzate si riferiscono ad ambiti scientifici diversi: essenzialmente l'economia (o la matematica-statistica nel caso operations research), da un lato, essenzialmente la psicologia, la sociologia e la scienza politica, dall'altro. Ma entrambi gli approcci si propongono 11 l'individuazione di una regola di razionalità. La differenza sta nel fatto che, in economia, si assume l'esistenza di una sola razionalità (eventualmente condizionata da una serie di vincoli), mentre il contributo delle discipline psicologiche, sociologiche e politiche sta proprio nell' analizzare i modi di integrazione degli interessi e quindi del consenso e della partecipazione di soggetti diversi. Ancora una volta, se si assume che i soggetti possano scegliere il loro comportamento, ha anche senso interrogarsi su come i rispettivi interessi possano integrarsi o confliggere, e quando sia conveniente una cosa o l'altra per i vari soggetti. È quindi una ricerca sulla razionalità come quella management science. In questo senso, non sembri paradossale, l'accusa di razionalismo può essere rivolta solamente contro un approccio behavioral science in quanto in questo approccio è insito il fatto che esista una pluralità di razionalità, e quindi una indebita semplificazione delle razionalità in gioco che porti a considerare come legittimamente tutelabile una sola delle razionalità presenti configurerebbe una sorta di «razionalismo». Il filone delle Human Relations di Elton Mayo potrebbe essere accusato di «razionalismo» nel senso che in quella prospettiva si finiva per assumere come razionale il punto di vista della gerarchia dell'organizzazione, declassando come arazionali (se non irrazionali) i bisogni dei sottoposti, da soddisfare attraverso una specie di distribuzione di simpatia umana. Quindi nell'approccio behavioral science una spiegazione autenticamente scientifica delle dinamiche interpersonali che si svolgono in un gruppo di lavoro è la condizione necessaria per poter organizzare e guidare l'attività del gruppo. Anzi la valenza normativa può essere la riprova che una certa teoria positiva è corretta. Solo se i soggetti non avessero scelta di comportamento avremmo una analisi positiva (ciò che è) senza potenzialità normativa in quanto non potrebbe essere nulla di diverso da ciò che è. 12.5. La determinazione della strategia Affrontiamo ora il problema della definizione di una valida strategia per una impresa. Assumiamo quindi il problema della fase 2, ovvero la definizione della strategy, in un’ottica prettamente normativa, ed esplicitiamo le condizioni che devono essere soddisfatte affinché un operatore possa ragionevolmente affermare di aver costruito una strategia per l’impresa considerata. Questi requisiti sono: 1. una previsione sul probabile andamento futuro dell’ambiente competitivo nel quale l’impresa esplicherà la propria strategia articolata almeno sinteticamente su piani diversi riferiti al sistema economico complessivo, alla domanda rilevante per il settore e all’offerta della quale l’impresa da un lato fa parte, ma che nel contempo deve fronteggiare; 2. la determinazione degli obiettivi che, data la probabile evoluzione dell’ambiente competitivo il management dell’impresa pensa sia conveniente assumere; 3. una determinazione delle iniziative che l’impresa ritiene congruo sviluppare in funzione delle caratterizzazioni presenti nei due punti precedenti e tenuto conto delle risorse: economiche, umane, organizzative, tecnologiche e finanziarie, mobilitabili dall’impresa stessa. 4. sottolineiamo che per poter sostenere di aver definito normativamente una strategia occorre che questa venga esplicitata con un ragionevole dettaglio, idoneo ad 12 eliminare le maggiori ambiguità sulla via da percorrere per l’implementazione della strategia indicata. Affermazioni come quelle presenti in letteratura che si limitino ad individuare genericamente l’esigenza di “una crescita della quota di mercato attraverso il lancio di nuovi prodotti”, ovvero quella di “una espansione della gamma di prodotti attuali” risultano delle mere dichiarazioni di intento che potrebbero trovare realizzazione secondo svariate molteplicità operative di significato, di ampiezza e verosimilmente di risultato estremamente diversificati. Senza una determinazione sufficientemente analitica dei requisiti indicati avremmo una determinazione della strategy gravemente carente, priva in sostanza degli elementi necessari per dare contenuti concreti e non ambigui alle iniziative da adottare. Di conseguenza la elaborazione di una concreta impostazione strategica, corredata dalla sua valenza normativa, esclude la possibilità di una estensione delle sue prescrizioni ad altre realtà, dal momento che perde significato il contenuto del punto 1. sopra riportato. In questo senso l’idea che si possano elaborare strategie valide per una pluralità di imprese è/o a una pluralità di settori destituita di ogni fondamento e i contributi che aspirano a questo risultato sono contemporaneamente generici e velleitari, perché la parte previsionale non esiste o al massimo è appena abbozzata. Di fronte alla natura empirica e specifica dell’impostazione strategica, riferita cioè ad una particolare impresa, operante in un particolare settore, in un particolare momento, gli studi di strategia rappresentano la situazione più evidente della sterilità di una impostazione pseudogeneralizzante ottenuta come l’intersezione degli elementi comuni ad ogni strategia. Questa ricerca è destinata a produrre solo regole generiche non autenticamente generalizzanti, quanto occorrerebbe semmai una regola parametrica. Infatti se l’attuazione di questa fase consiste nella estrinsecazione della struttura delle azioni su cui si ritiene opportuno puntare, una volta effettuata una previsione dell'andamento futuro delle variabili non condizionabili da parte dell'impresa (ambiente economico, domanda e concorrenza), e analizzata la potenzialità delle risorse effettivamente mobilitabili, diviene chiaro che, anche assumendo una totale perfezione nella definizione della strategia per l'impresa, non è possibile dedurne in modo automatico alcuna estensione generalizzante per altre imprese operanti nello stesso settore o anche per la stessa impresa colta in un momento diverso. Quindi una teoria strategicamente valida per una impresa non può essere meccanicamente applicata ad un’altra impresa, sia che essa appartenga ad un altro settore o allo stesso settore. In quest’ultimo caso questa impossibilità è assolutamente evidente. Dal momento che le due teorie sono nello stesso settore e quindi in reciproca competizione, ciò che risulta competitivamente efficace per l’una si traduce in un effetto negativo per l’altra e viceversa. Quindi la stessa strategia non può essere ragionevolmente applicata. Se lo fosse nuocerebbe ad una delle due e quella che ne ricevesse uno svantaggio non potrebbe considerarla una strategia corretta. Con riferimento a imprese appartenenti a diversi settori o alla stessa impresa, ma in momenti diversi una strategia valida può essere utilizzata come costruzione analogica utile da considerare, ma va giustificata con un nuovo esame ad hoc, se non altro per il cambiamento che si è prodotto nell’ambiente di riferimento. Di fronte a questo problema gli studi a carattere strategico si sono incanalati lungo due impostazioni diverse. Una prima consiste nella elaborazione di una casistica di possibili alternative strategiche. Si tratta di individuare un ampio ventaglio di comportamenti ritenuti corretti in presenza di particolari determinazioni del rapporto impresa-concorrenza-mercato. Gli esempi piú conosciuti di questo approccio sono relativi alla definizione di: - strategie di crescita, 13 - strategie di differenziazione, - strategie di diversificazione, - strategie di integrazione verticale, ecc. Eventualmente questo genere di impostazione può essere ulteriormente arricchito attraverso un incrocio con modalità orizzontali del possibile comportamento d'impresa: - strategie offensive, - strategie difensive - strategie collusive, ecc. Nella sostanza si tratta di individuare una molteplicità di scenari possibili per il settore o i settori in cui opera l'impresa, scenari che definiscono il complesso delle variabili non controllabili da una singola impresa, e di dedurne una serie di obiettivi rapportabili alle possibili posizioni che un'impresa può assumere nella gerarchia concorrenziale, che rappresenta il modo per avvicinarsi alla caratterizzazione interna dell'impresa (in realtà assai più complessa). Si tratta di un modo di procedere indubbiamente utile. I limiti di questa impostazione sono presenti più sul piano operativo che su quello logico e derivano dal fatto che in questo modo si evita di esplicitare la teoria che sta alla base della definizione dello scenario e degli specifici comportamenti. L'aspetto descrittivo del rapporto tra impresa e ambiente tende sistematicamente a sfumare il vero problema strategico che consiste nell’interpretare, potremmo dire nel decifrare, in modo prospettico il rapporto fra impresa e ambiente. In altre parole questo approccio tende a elaborare una impostazione basata su una proposizione di questo genere: se il settore e l'impresa stanno così e così, allora si faccia così e così, ma lascia in misura completa al responsabile d'impresa la responsabilità di giudicare se la fattispecie concreta con cui egli si deve misurare abbia o meno i caratteri evidenziati da una delle situazioni ipotizzate. In sostanza siamo di fronte ad un approccio che evita di misurarsi proprio con la parte più qualificante e difficile della articolazione di una strategia che consiste proprio nella determinazione prospettica (previsione) dell’evoluzione dell’ambiente e delle determinanti del settore: domanda e offerta. Poiché l'analisi strategica che è possibile sviluppare in un saggio è comunque limitata per ragioni di spazio, la definizione degli scenari realizzabili è sempre necessariamente incompleta rispetto all'enorme complessità e interdipendenza del reale. Di qui il rischio che in questa impostazione si finisca per assumere un atteggiamento più o meno consciamente tautologico, derivante dal fatto che la strategia suggerita non diventa altro che una serie di sollecitazioni dirette ad “eliminare i punti di debolezza”, a “consolidare i punti di forza”, ad “essere innovativi”, a “servire più adeguatamente la domanda”, ecc. Mentre tutto il problema sta nella definizione di una teoria cha sappia esplicitare nel caso concreto quali siano o possano diventare i veri punti di forza e di debolezza di un'impresa. Infatti se assumiamo nel quadro descrittivo di partenza che un'impresa, ad esempio, è tecnologicamente “troppo debole” per resistere sul mercato, è evidente che se ne deve dedurre (tautologicamente) che ad essa restano due sole alternative: rimediare a questa carenza o abbandonare il settore al più presto possibile per ridurre i danni. Mentre ciò che servirebbe è una teoria della evoluzione tecnologica del settore che dica se, e a quali condizioni, l'impresa può o meno competere tecnologicamente sul mercato. Riassumendo, l'approccio per esemplificazione delle strategie esercita certamente una funzione euristica e didattica utile, ma talvolta può risultare anche fuorviante perché tende ad 14 offuscare il vero problema strategico (lettura prospettica della complessità) a favore della sottolineatura della coerenza fra obiettivo strategico e comportamento dell'impresa, finendo quindi per gravitare su questioni più di pianificazione che di problem solving strategico. Il secondo approccio, elaborato prevalentemente da società di consulenza, tende invece ad affrontare in modo più ambizioso il problema strategico, in quanto focalizza in misura molto piú accentuata l'aspetto interpretativo e decisionale. In questa sede è possibile indicare solo in forma molto sintetica l'impostazione in oggetto, focalizzando l'attenzione sulle parti essenziali dell'approccio. Un esempio di questa metodologia è dato dalla estrema semplificazione di tutto il quadro competitivo del settore in due variabili rappresentative rispettivamente del: a. grado di attrattività di un certo mercato, b. posizionamento competitivo dell'impresa. L'incrocio di queste due variabili, suddivise in gradi di intensità diversa, costituisce una matrice di situazioni o scenari a ciascuno dei quali viene associato il comportamento ritenuto economicamente piú corretto 20 . Vediamo innanzitutto quali sono i pregi di una impostazione del genere. Innanzitutto essa sottolinea correttamente il fatto che la elaborazione di una strategia passa necessariamente attraverso una analisi e una previsione dell'ambiente economico in cui opera l'impresa, vale a dire della domanda e del settore (caratterizzazione della concorrenza), in quanto l'attrattività del settore è rappresentata dal tasso di espansione della domanda, e il posizionamento competitivo dell'impresa svolge invece il ruolo di variabile proxy della strutturazione concorrenziale. Il secondo aspetto positivo è dato dal fatto che la individuazione degli stadi prospettici di riferimento è effettuata in base a due teorie empiriche, per quanto assai semplificate, relative appunto a orientare il significato evolutivo associato alla domanda e all’offerta. La prima teoria empirica è rappresentata dal ciclo di vita del prodotto, la seconda dalla curva di apprendimento. Il pregio dell'impostazione non sta nella scelta di queste due particolari teorie, che sono invece da considerarsi inidonee alla funzione loro assegnata 21 , ma al fatto che si usino delle teorie empiriche, che, in quanto tali, possono essere vere o false in relazione ad una situazione concreta. Il punto debole di questa impostazione sta invece nel fatto che le teorie empiriche che si sono assunte vengono utilizzate in modo da fornire un risultato tautologico, già tutto compreso nelle ipotesi empiriche di partenza. In sostanza a noi pare che la sequela di critiche che sono state rivolte agli schemi del tipo qui indicato, anche se condivisibili 22 , non mettono in sufficiente risalto che la questione principale è rappresentata dalla tautologia delle soluzioni proposte, per cui le matrici di portafoglio, anche se potenzialmente assai utili, corrono il rischio di diventare fuorvianti. Sostenere che la matrice prodotto/mercato dà una rappresentazione semplificata della complessità delle situazioni in cui si trova ad operare l'impresa, è un'affermazione certamente vera, ma richiede di essere associata alla presentazione di uno strumento interpretativo piú potente, capace di controllare operativamente un quadro 20 Per una descrizione della struttura dei modelli basati sulla matrice di portafoglio ed elaborati da società di consulenza si vedano Henderson [1970], Wright [s.d.]; A.D. Little Inc. [1981]; Wind e Mahajan [1981]. 21 Per una valutazione del corretto significato del ciclo di vita del prodotto e per la critica verso un uso di questo concetto in chiave revisionale rimandiamo alle osservazioni già fatte nel capitolo dedicato all’analisi della domanda e al saggio Stecchetti e Volpato (2007). Invece sui limiti della curva di esperienza che privilegia la competitività sulla produzione ripetitiva anziché sulla produzione innovativa si veda Abernathy e Wayne [1974]. 22 Si vedano in proposito: Abell e Hammond [1979], Porter [1980], Faccipieri [1982], Zan [1985]. 15 concettuale piú articolato e complesso. Ogni teoria è una semplificazione della infinita complessità di una situazione concreta, ma una teoria può essere giudicata superiore ad un'altra solo se funziona, in generale, altrettanto bene della prima e meglio in almeno in un caso. La critica di tautologia vuole invece mettere in luce che la matrice di portafoglio, basata sull'uso del ciclo di vita del prodotto e sulla curva di esperienza, è inaccettabile non perché può sbagliare (come sarebbe per le critiche di incompletezza e di semplificazione), ma al contrario perché essa non può sbagliare mai. Date le ipotesi di partenza, la soluzione fornita dalla matrice è sempre vera; semmai ha sbagliato chi, utilizzando questo strumento, ha valutato il grado di attrattività del mercato o il comportamento competitivo dell'impresa in modo difforme da quanto effettivamente emerso. Ed è proprio l'impossibilità della sua falsificazione a far emergere il significato puramente formale e convenzionale delle impostazioni tradizionalmente usate nella matrice prodotto/mercato. Tuttavia l'utilità della matrice può essere recuperata a patto di riformulare le teorie empiriche da utilizzare, come si cercherà di mostrare successivamente. Il vizio di tautologia è particolarmente evidente non appena si consideri che la valutazione prospettica della domanda viene resa attraverso il concetto di attrattività del mercato. Ma l'attrattività del mercato per un'impresa si misura in termini di profittabilità potenziale. L'inserimento in un mercato (o la permanenza in esso) può essere giudicato conveniente se ne deriva una adeguata remunerazione dell'investimento. A questo punto la scelta strategica perde ogni referente empirico e diventa una regoletta puramente formale. È evidente che se un mercato è altamente attrattivo l'impresa non potrà che concentrarvi i suoi sforzi di investimento. Che senso avrebbe preferivi un settore non attrattivo? In buona sostanza, alla domanda: quale strategia scegliere la matrice BCG risponde: quella più conveniente. Una indicazione sulla cui banalità non è certamente il caso di insistere. È evidente che se nelle stesse ipotesi di partenza si presuppone di sapere quali siano i prodotti di successo, tradizionalmente chiamati star, e quali quelli pericolosi (dog), tutta la complessità dell'analisi previsionale, della valutazione dei comportamenti della concorrenza, della rispondenza del mercato ecc. diventa una questione risolta, in quanto già inserita (surrettiziamente) nella definizione di prodotto star o di prodotto dog. Invece una strategia vincente è quella che, provenendo da una analisi dell'evoluzione della domanda, della struttura concorrenziale del settore e delle risorse interne specifiche dell'impresa considerata, è capace di cogliere e motivare dei segnali precoci (early signals) che indicano che un prodotto da tutti ritenuto dog ha la potenzialità di divenire una star grazie ad alcune mosse opportune, o che, viceversa, un prodotto che tutti giudicano star va abbandonato anticipatamente perché, ad esempio, attorno ad esso si svilupperà una fortissima concorrenza imitativa. 12.6. Il ciclo di trasformazione del settore All'interno degli studi di economia, e delle scienze sociali in genere, in cui l'oggetto di studio appare altamente differenziato su una molteplicità di situazioni empiriche, una teoria che volesse essere di applicabilità assolutamente universale avrebbe di fronte due alternative possibili. Una prima consiste nell'assiomatizzare l'universo che si intende analizzare. In termini semplificati ciò significa che, invece di verificare l'applicabilità di una certa teoria all'universo dei casi possibili, si inverte il procedimento, definendo l'universo in funzione della teoria che si ritiene di utilizzare. Teoria ed universo dei casi «possibili» (ma dovremmo dire «ammessi»), sono quindi in sintonia in quanto legati da relazioni puramente logiche. Questa procedura è 16 perfettamente accettabile per delle scienze formali, ma non per quelle empiriche, in cui l'universo dei casi pre-esiste in tutta la sua oggettività. La seconda possibilità di realizzare una teoria universale è data dalla formulazione di tipo "parametrico", in modo da stabilire una relazione con tutti i possibili stati assumibili dall'universo di relazioni indagate. Se, ad esempio, assumiamo una teoria del moto che non sia valida esclusivamente nel vuoto ma in ogni possibile situazione, dovremmo disporre di una legge che oltre a tener conto della forza applicata ad un oggetto e alla sua massa, assuma nella propria formulazione anche gli infiniti effetti potenzialmente influenzanti il moto stesso (densità del fluido in cui avviene il moto, interferenze prodotte dal vento, effetto della gravitazione universale, elettromagnetismo, ecc.). Ben si comprende come si tratti di un compito proibitivo anche per la sola selezione dei fenomeni capaci di influenzare il moto. Di fatto non esistono leggi empiriche universalmente valide 23 , che comunque sarebbero di enorme complessità. Quanto piú una legge è generale, cioè estendibile ad una pluralità di situazioni, e tanto piú essa è complessa per poter tener conto di queste nelle loro diverse determinazioni. In questo senso le cosiddette generalizzazioni che vengono fatte nelle scienze empiriche in realtà sono delle astrazioni perché semplificano il reale selezionando solo alcuni dei caratteri di una situazione. In questo modo si realizza un trade-off: si guadagna in una certa forma di generalità, ma tutta all'interno delle ipotesi semplificatrici di partenza. Ritornando al caso del moto, l'ipotesi dello spazio vuoto consente di generalizzare la relazione tra forza e massa, esprimibile con una funzione biunivoca, ma ne limita il campo di applicabilità. Anche negli studi di strategia la strada da battere, se si vuol puntare verso una teoria che tenti di fornire una interpretazione e una previsione, richiede una astrazione. La validità di una impostazione strategica è misurata dalla validità empirica delle teorie che vi stanno alla base, e che sono ragionevolmente accettabili solo in un ambito storicamente definito. Al mutare della situazione esaminata deve mutare anche il modello interpretativo utilizzato come criterio decisionale. L'approccio che si vuole proporre ai fini di mettere a punto una impostazione empiricamente coerente di definizione delle strategie d'impresa, è indicato come ciclo di trasformazione del settore. Esso si basa inevitabilmente su numerose semplificazioni, ma non fino al punto di trasformarsi in mera tautologia. Da un lato esso presenta un aspetto metodologico 24 che può essere esteso, con opportuni aggiustamenti, ad una pluralità di situazioni. Dall'altro, il ciclo di trasformazione del settore, per tradursi in un efficace strumento operativo, richiede una realizzazione su misura rispetto alla realtà indagata 25 . La metodologia proposta per la costruzione di un ciclo di trasformazione settoriale richiede che si individui una successione di stati con cui caratterizzare l'evolvere della domanda e dell'offerta nel tempo. Dal punto di vista formale si tratta di identificare una serie di situazioni della domanda e dell'offerta, denominati “stati” sufficientemente chiare dal punto di vista operazionale da utilizzare per scandire l’evolvere della situazione del settore nel tempo. Dal punto di vista empirico si tratta di elaborare una teoria che, basandosi sui meccanismi di 23 Come è noto le cosiddette leggi universali del positivismo ottocentesco si sono rivelate delle leggi particolari all'analisi scientifica successiva. Basti pensare alla legge di gravitazione universale di Newton, dimostratasi un caso particolare della teoria della relatività di Einstein, a sua volta caso particolare di teorie ancora piú potenti. 24 Inutile sottolineare che l’estendibilità riguarda solo il metodo e non i contenuti empirici della previsione e della strategia che restano inevitabilmente unici e determinati sulla base delle specificità della triade: domanda, offerta (e quindi anche concorrenza) e impresa considerata. 25 Per una piú ampia e motivata esposizione del concetto del ciclo di trasformazione del settore, con una applicazione all'industria dello scarpone da sci, si veda Volpato (1980 e 2008). 17 convenienza economica che influenzano il passaggio da uno stato all'altro, consentono di dar forma a una previsione sull’evoluzione del complesso settoriale. La composizione in forma di matrice 26 di queste due successioni di stati di domanda e offerta identifica un reticolo di posizioni su cui possono trovare collocazione le strategie delle imprese operanti nel settore. L'analisi abbinata delle variabili che guidano i passaggi di stato, per domanda e offerta, devono consentire una co-determinazione, sia pure approssimata, dei tempi nei quali i diversi cambiamenti di stato dovrebbero manifestarsi, tenendo conto delle situazioni economiche generali e delle strategie poste in atto dalle imprese fino a quel momento. Prima però di passare ad una esemplificazione dell'applicazione del ciclo di trasformazione del settore, è opportuno evitare alcuni possibili fraintendimenti. Innanzitutto va detto che l'area economica all'interno della quale si vuole pervenire ad una definizione dell'agire strategico conveniente per l’impresa considerata è costituita dal settore (o industria). Ciò significa che il settore non va accolto come una concezione statica, cristallizzata una volta per tutte. Invece la demarcazione dei confini del settore deriva dall'ampiezza dell'orizzonte temporale che l'ottica strategica suggerisce di assumere. Se prendessimo in considerazione un'ottica di brevissimo periodo, allora il settore potrebbe essere ragionevolmente assunto come un dato, in quanto esso è costituito dalla domanda che in quel momento si rivolge al prodotto considerato e dall'offerta che in quello stesso momento lo produce. Ma se dilatiamo l'orizzonte di definizione della strategia, i confini di settore divengono un elemento variabile del problema. Quanto piú è ampio il periodo considerato e tanto piú aumenta la possibilità di profonde modificazioni nei contorni della domanda e dell'offerta. In secondo luogo, il parlare di una strategia e di una trasformazione di tipo settoriale non implica trascurare la natura diversificata molte volte presente nell'impresa, né tantomeno negarla. Il ciclo di trasformazione del settore va composto tenendo conto di tutte le variabili strutturali del settore: concentrazione, differenziazione, diversificazione, ecc. Pertanto una impresa multi-prodotto dovrà definire, innanzitutto, una serie di strategie provvisorie. Una per ogni settore di intervento, provvedendo poi ad integrarle in un disegno unitario che ne assicuri la reciproca integrazione e compatibilità. La strategia finale complessiva non sarà mai la semplice sommatoria delle strategie provvisorie relative a ciascun singolo settore, sia per l'esistenza di sinergie fra i possibili interventi settoriali, sia per i vincoli finanziari agli investimenti. Pertanto lo schema del ciclo di trasformazione del settore riferito ad una impresa diversificata, va visto come un primo passo necessario ma non definitivo, nel senso che l'impostazione dovrà poi ulteriormente allargarsi ad una sintesi multisettoriale. In terzo luogo, la denominazione non deve far presupporre qualcosa di analogo a un ciclo di vita. Più che nascere e morire, un settore, e con esso le imprese che lo compongono, si trasforma: ampliando e riducendo i propri confini, modificando il grado di concentrazione, di differenziazione, di integrazione verticale, mutando tecnologia, variando la qualità e la quantità 26 Ovviamente è appena il caso di ricordare che la costruzione di una "matrice" non rappresenta un aspetto sostanziale del modello. Si tratta di una semplificazione dettata da ragioni di facilità esplicativa e di rappresentazione del metodo proposto nella forma di un diagramma cartesiano. Nella costruzione di una strategia reale nulla vieta, ed anzi sarebbe auspicabile di assumere una matrice costruita su tante dimensioni quanti sono i fenomeni considerati particolarmente rilevanti per la dinamica competitiva del settore. Ad esempio se nell’orizzonte economico considerato le scelte esercitate dalla Pubblica Amministrazione venissero ritenute cruciali nell’orientare il comportamento delle imprese e quindi nel decretare il successo di questa o di quella strategia si dovrebbe certamente passare ad uno schema tridimensionale nel quale, oltre ai due assi della domanda e dell’offerta, dovrebbe essere articolato anche i possibili comportamenti alternativi della Pubblica Amministrazione. 18 dei consumatori interessati. Lo sforzo a cui tende la realizzazione di un modello del ciclo di trasformazione del settore è l'identificazione della ratio che guida questa trasformazione all'interno di un dato orizzonte temporale, per effetto delle caratteristiche strutturali della concorrenza e per l'interagire dei soggetti operanti nel settore, ciascuno dei quali tende a perseguire un proprio disegno di convenienza economica. Infine va specificato che l'assunzione del settore come scenario dell'azione strategica dell'impresa non comporta la cancellazione dei fenomeni considerati esterni al settore quali le componenti politiche, sociali, sindacali, ecc. Le variabili generali dell'ambiente possono essere fatte giocare attraverso il loro effetto sulle variabili che definiscono il comportamento della domanda e dell'offerta, considerate in senso globale, e delle singole imprese. Non si vuol negare che questo modo di procedere non costituisca una semplificazione, ma solo ribadire che per tener conto in modo diretto, senza alcuna mediazione, del gioco complessivo delle componenti socio-istituzionali, bisognerebbe allargare enormemente l'area della co-determinazione simultanea della dinamica settoriale. Sarebbe molto facile dichiarare che l'analisi e la definizione del progetto strategico deve tener conto delle influenze di tutto lo scenario ambientale. Ma il fatto è che non sono disponibili né teorie interpretative adeguate, né informazioni sufficienti per affrontare in forma analitica un simile compito. La riduzione della problematica alla dimensione settoriale rappresenta una delle possibili modalità semplificatrici, vale a dire l’opzione che a nostro avviso meglio si giustifica, nonché il prezzo da pagare per poter procedere verso una strutturazione non generica della dinamica del rapporto impresa-ambiente. 12.7. Stati caratteristici della domanda L'analisi dell'evolvere della domanda di una serie di beni di consumo ha mostrato il succedersi sistematico di situazioni o stati abbastanza bene individuati. Il primo passo, quindi, va fatto nella direzione della scelta delle variabili con cui operazionalizzare tali stati e la loro trasformazione nel tempo. Va da sé che tale operazione deve essere fatta in modo specifico per ciascun settore. Per ragioni di semplicità esemplificativa, in questa sede appare opportuno assumere solo due variabili di significato piuttosto generale. Una prima variabile, che per comodità chiamiamo quantitativa, definisce il grado di diffusione del consumo del prodotto nei confronti della domanda complessiva potenziale. Questa variabile avrà un valore minimo qualora la domanda effettiva sia espressa da un consumo elitario, cioè relativo ad un numero assai ristretto di consumatori, per evolvere poi verso forme di consumo allargato come il consumo di massa, il consumo segmentato di massa ed eventuali altri stati successivi. La seconda variabile, orientata a tener conto di un aspetto più qualitativo del mercato, dà la misura del grado di segmentazione che caratterizza la domanda. Possiamo quindi individuare un consumo omogeneo quando la domanda non presenta eterogeneità nel comportamento d'acquisto da indurre un'offerta di prodotti differenziati per età, sesso, reddito, modelli culturali di riferimento, ecc. Al polo opposto di questa variabile troviamo un consumo segmentato, in cui esiste una forte caratterizzazione del prodotto in funzione dei desideri di ben individuate classi di consumatori. Si tratta di uno schema ovviamente molto semplificato in quanto pensato con riferimento ad un ampio ventaglio di beni. Il riferimento ad un prodotto specifico consentirebbe una caratterizzazione assai piú puntuale come saremo in grado di fare nel successivo esempio dedicato al settore automobilistico. 19 Se per semplicità assumiamo una dimensione dicotomica delle due variabili, la struttura della domanda può assumere nel tempo quattro stati differenti dati dall'incrocio delle due variabili evidenziate. 1. Consumo elitario omogeneo: il prodotto si rivolge ad una porzione assai ristretta della domanda potenziale complessiva, selezionata in funzione del reddito spendibile per quel particolare tipo di bene. 2. Consumo di massa omogeneo: il prodotto non presenta particolari caratterizzazioni ed è offerto ad un prezzo che, tenuto conto dell'utilità che i consumatori attribuiscono al bene (o servizio), assicura un consumo decisamente allargato, ma tale da non saturare completamente la domanda potenziale per il modesto conto in cui si tengono le differenti esigenze dei consumatori. 3. Consumo elitario segmentato: il prodotto si presenta caratterizzato in funzione di una pluralità di esigenze diverse, ma il rapporto prezzo/utilità è tale da consentire un consumo comunque limitato. 4. Consumo di massa segmentato: può essere assunto come uno stadio di maturità del consumo del particolare bene considerato, dal momento che l'offerta ha esperito le possibili forme di differenziazione del prodotto e le potenzialità della domanda appaiono (in assenza di ulteriori innovazioni) pressoché completamente saturate. L'aspetto caratteristico della teoria che si vuole proporre deriva dalla tesi che esistono forze, originate dal confronto concorrenziale, che spingono l'offerta ad occupare progressivamente le aree della domanda, iniziando da quelle piú promettenti sotto il profilo reddituale, per arrivare fino ad una situazione di consumo di massa segmentato, che rappresenta un temporaneo stadio di maturità del mercato. Va detto chiaramente, però, che il concreto succedersi degli stati assunti dalla domanda può essere correttamente ipotizzato solo tenendo conto del simultaneo strutturarsi dell'offerta. E ben vero che il consumo elitario omogeneo rappresenta solitamente lo stato iniziale di un settore, mentre il consumo di massa segmentato significa generalmente un assestamento della struttura della domanda. Tuttavia si deve tener conto di due aspetti. Da un lato anche la domanda di massa segmentata può essere ulteriormente articolata in stadi successivi, come vedremo nell’ipotesi della multimotorizzazione applicata al settore automobilistico. Dall’altro esistono modificazioni nella struttura dell'offerta che possono rimettere in moto un nuovo ciclo di trasformazione delle fasi della domanda o alterarne la successione più probabile. Ad esempio, qualora un'impresa operante in un settore al momento caratterizzato da una domanda segmentata di massa, metta a punto una nuova tecnologia produttiva particolarmente economica rispetto alle precedenti, può configurarsi la convenienza per l'impresa innovativa a premere con una penetrazione indifferenziata a basso costo del suo prodotto. Pertanto l’azione dell’impresa innovatrice può configurare un ritorno alla domanda massificata. Sarà poi il diffondersi della nuova tecnologia, e le contro-strategie delle imprese concorrenti, ad operare verso una situazione di assestamento attraverso una successiva segmentazione del mercato. Ovviamente si tratta di un assestamento che solo apparentemente riproduce la situazione antecedente, dal momento che il nuovo assetto, peraltro precario, si realizza sulla base di una nuova tecnologia e di una diversa posizione relativa delle imprese concorrenti (nuova configurazione delle variabili strutturali del settore). Il ciclo di trasformazione può essere rappresentato in senso figurato, come un succedersi di stati disposti a spirale, dal momento che abbiamo un recupero di situazioni precedenti, che vanno però a collocarsi in uno scenario ambientale e settoriale diverso. Si tratta 20 di un aspetto caratteristico e rilevante del modello del ciclo di trasformazione su cui avremo modo di ritornare anche a proposito dell'evoluzione degli stati dell'offerta. 12.8. Stati caratteristici dell'offerta Uno degli aspetti peculiari dell'approccio strategico che si vuole proporre sottolinea l'esigenza di una caratterizzazione degli stati della domanda e dell'offerta che sia in grado di evidenziare a fini analitico-previsivi, le specificità del settore; un corpo relativamente solido, che pur consentendo trasformazioni e perfino momenti di parziale discontinuità, conservi comunque uno spessore oggettivo che rende non ugualmente probabili le diverse trasformazioni astrattamente ipotizzabili, e pertanto la successione degli stati rappresenta un importante ed efficace supporto alla previsione. Nel precedente paragrafo la ripartizione della struttura del consumo in quattro stadi rappresenta un modello che, seppur generico, appare applicabile altrettanto bene in una pluralità di settori. Probabilmente nell'ambito dei beni di consumo l'elaborazione di un ciclo di stati caratteristici per ciascuna delle usuali categorie: convenience, shopping e specialty goods, potrebbe rappresentare un apprezzabile affinamento, ulteriormente specificabile con l'incrocio di questa classificazione con una ripartizione di tipo funzionale: beni alimentari, beni di abbigliamento, beni di arredamento, beni per il tempo libero, ecc. Invece per quanto attiene alla definizione degli stati caratteristici dell'offerta, il compito appare piú delicato e complesso. Non solo il numero di variabili di cui è necessario tener conto è piú numeroso: struttura concorrenziale, struttura tecnologica, struttura produttiva, struttura distributiva, ecc., ma all'interno di ciascun tipo di struttura può essere presente una varietà di fenomeni qualitativamente diversi. Questa asimmetria è facilmente comprensibile se si pensa che il grado di compattabilità in classi sostanzialmente omogenee dei consumatori è ben più ampia di quella dei produttori. Del resto in piú occasioni si è avuto modo di richiamare l'attenzione sulla strutturale multidimensionalità dell'offerta. Ciò significa che una rappresentazione più adeguata richiederebbe, anziché una matrice bidimensionale degli stati, uno spazio multidimensionale dato dalle molteplici combinazioni dei diversi elementi componenti un certo assetto dell'offerta. Ma in questa sede si tratterebbe di una complicazione che poco aggiungerebbe alla comprensione delle linee generali dell'impostazione proposta. Altrove si è cercato di dare una rappresentazione semplificata, ma ugualmente espressiva dell'offerta, attraverso la caratterizzazione del grado di sofisticazione tecnologica dell'offerta nel tempo 27 , in quanto essa sembrava la più pertinente ad esplicitare le particolari vicende che hanno caratterizzato il settore di studio rappresentato dall'industria degli scarponi da sci. 27 Cfr. Volpato [1980] 21 Figura 12.1 – Matrice Domanda/Offerta Stati della Domanda SDp S6 SDm S3 S7 S4 S2 S5 SDc SDb S1 SDa SOa SOb SOc SOn SOt Stati dell’Offerta La successione degli stati SDm SDn e SOm SOn indicano la trasformazione nella struttura Domanda/Offerta del settore che, si ritiene, debbano avvenire nell’orizzonte S7 indica il temporale considerato. Il percorso S1 percorso strategico di una o più imprese presenti nel settore In questa sede si utilizzeranno variabili diverse in quanto riferite ad un settore, l'industria automobilistica, colto in tre fasi storiche contigue del suo sviluppo: dall'inizio del secolo al 1940, dal 1950 al 1990 e dal 1990 al 2010. Nel primo periodo la determinazione strategica riguarda il mercato di un solo particolare paese: gli Stati Uniti d'America. Nel secondo, data l’evoluzione dell’ambiente economico, il mercato di riferimento è rappresentato dai paesi altamente industrializzati: Nordamerica, Europa Occidentale e Giappone, nel terzo data la natura globale del confronto competitivo il riferimento è a scala planetaria. La scelta del settore e dei periodi, oltre ad essere motivata dai particolari interessi di ricerca di chi scrive, appare anche giustificata dal fatto di poter fare riferimento ad una realtà storica generalmente abbastanza conosciuta nelle sue linee fondamentali, anche da i non addetti ai lavori, per il profondo impatto che i fatti in questione hanno avuto tanto sul sistema industriale internazionale che sulla cultura manageriale (fordismo). 22 Va naturalmente precisato che la combinazione delle variabili di caratterizzazione dell'offerta, basata sul grado di industrializzazione del processo produttivo, sul tipo di organizzazione distributiva e sul ritmo di innovazione dei prodotti, come precedentemente suggerito a proposito della costruzione degli stati della domanda, darebbe luogo a un numero ipotetico di stati molto numerosi. Qui si è preferito indicare solo gli stati piú importanti tralasciando sia quelli secondari sia quelli vuoti 28 . Inoltre il fatto che in questa esemplificazione si siano scelti periodi temporalmente assai lunghi, nel primo addirittura 40 anni non sta ad indicare che l’analisi strategica e la formulazione della strategia debba avvenire su un orizzonte di questo tipo. L’orizzonte deve essere definito sulla base della specificità del settore. In questo caso si è scelto un periodo assai lungo solo perché ciò consentiva di rendere evidenti i passaggi evolutivi del settore e consentiva una più agevole comprensione della metodologia proposta. 12.9. Una esemplificazione sull'industria automobilistica Sulla traccia di quanto proposto precedentemente, gli stati attraversati dalla domanda automobilistica americana nel periodo dal 1900 al 1940 appaiono come una combinazione delle due variabili: saturazione del mercato e segmentazione della domanda. Tuttavia si è preferito articolare ulteriormente lo stato del consumo di massa segmentato suddividendolo in due specificazioni distinte. Allo scopo di tener conto della natura di bene durevole dell'automobile, il consumo di massa segmentato si presenta in un primo momento con una domanda prevalente di acquisti di prima dotazione e in un secondo momento con una domanda prevalente di acquisti di sostituzione. Nel complesso gli stati individuati a scopo esemplificativo sono i seguenti 29 . Consumo elitario omogeneo (circa 1900): L'automobile è un prodotto molto costoso, relativamente al reddito medio pro-capite, e quindi solo un'élite può accedere a questo genere di consumo, mentre le vetture, pur se diverse l'una dall'altra, risultano assai poco differenziate sul piano tecnico. Non a caso le aziende costruttrici americane, soprattutto in quella fase, svolgono essenzialmente un lavoro di assemblaggio di parti acquistate all'esterno 30 . Consumo elitario segmentato (circa 1905): Pur mantenendosi la natura elitaria del consumo, si manifesta una notevole dilatazione della concorrenza non solo tra marche nazionali, ma anche per effetto delle case europee che alimentano un certo flusso di esportazioni negli Stati Uniti. Il consumo appare quindi differenziato, anche se ciò corrisponde piú ad una caratterizzazione tecnologica dei diversi progettisti (ognuno dei quali tenta personali soluzioni ai problemi meccanici) che a una strategia delle imprese in senso proprio. 28 Come si è già avuto modo di sottolineare, l'assetto di una industria può essere descritto da uno spazio n dimensionale, in cui ciascuno degli n assi è dato da una particolare graduazione delle caratteristiche strutturali del settore: concentrazione, differenziazione, integrazione verticale, ecc. Se ciascun asse viene suddiviso per motivi di semplicità in m segmenti, risultano individuati m per n spazi di intersezione, che possono essere considerati il totale degli stati attraverso cui l'offerta ha la possibilità ipotetica di passare. Uno stato vuoto corrisponde ad una particolare caratterizzazione settoriale che non si è verificata (se si assume una prospettiva storica) o che non si ritiene probabile si manifesti (in una prospettiva previsionale). 29 Per una ricostruzione dei principali aspetti evolutivi dell'industria automobilistica americana e internazionale si veda Volpato [1983a]. 30 Su questi aspetti si veda in particolare Volpato [1986a e 1986b]. 23 Consumo di massa omogeneo (circa 1912): Il passaggio al consumo di massa è reso possibile da una profonda riorganizzazione tecnico-produttiva operata soprattutto dalla Ford. La conseguente politica di prezzi molto contenuti avvierà un consumo enormemente diffuso e largamente concentrato sull'unico modello “T” fornito dalla Ford. Consumo di massa segmentato con prevalenza di acquisto di prima dotazione (circa 1920): Durante i “ruggenti” anni venti la dilatazione del reddito spendibile reintroduce una preferenza per l'acquisto di tipo differenziato. È la fase in cui la General Motors comincia a recuperare notevolmente sulla Ford in forza della disponibilità di una gamma di prodotti adatta a cogliere le esigenze di un pubblico dai gusti sempre più variegati. Consumo di massa segmentato con prevalenza di acquisto di sostituzione (circa 1935): Il superamento della grande depressione registrata alla fine degli anni venti completa la diffusione di massa dell'automobile e fa prevalere gli acquisti di rinnovo. Ormai negli Stati Uniti gli acquisti di prima dotazione derivano esclusivamente da un fatto demografico (nuove generazioni). Comunque anche i giovani hanno una esperienza automobilistica derivante dall'uso della vettura acquistata dai genitori. Per quanto riguarda l'offerta, gli stati derivano da un processo di trasformazione del settore che viene evidenziato sia sul piano tecnologico-produttivo, rappresentato dal passaggio da una produzione organizzata su base artigianale a una industriale. Ciò ha comportato un passaggio da processo intermittente a processo continuo e l’acquisizione di economie di scala sia in ambito manifatturiero che in quello commerciale. La discontinuità rappresentata dal passaggio ad un piano di manufacturing prettamente industriale ha trascinato a sua volte un ampio ventaglio di trasformazioni a valle a cominciare dallo sviluppo di una speciale rete distributiva (dealers) che retroagisce verso la casa costruttrice attraverso sviluppo di una gamma di modelli rivolta ad un mercato sempre piú segmentato e l'accelerazione del ritmo di rinnovo dei modelli anche in forme intermedie (pratica del model year, del restyling e del lifting) rispetto a quelle più impegnative di lancio di nuovi modelli sostanzialmente innovativi rispetti a quelli ai quali subentravano . In complesso emergono i seguenti cinque stati: Produzione con criteri artigianali (circa 1900): La produzione di autovetture riguarda prevalentemente le operazioni di montaggio, mentre la maggior parte di componenti, anche se diversi da impresa a impresa, vengono realizzati su commessa da aziende meccaniche esterne. Il prodotto, anche se intrinsecamente differenziato da casa a casa non solo per impostazione tecnica, ma anche per livello qualitativo, non presenta una immagine altrettanto articolata sul piano commerciale, in ragione del fatto che la clientela non è in grado di valutare adeguatamente (prima dell'acquisto) le caratteristiche del prodotto. Inoltre la carrozzeria, che da sempre rappresenta uno degli elementi di maggior distinzione delle autovetture, viene realizzata a parte da aziende specializzate sulla base delle esigenze dell'acquirente dell’acquirente finale. In proposito è assai diffusa la pratica di una vendita da parte della casa costruttrice di una vettura priva della carrozzeria (motore più telaio) che l’acquirente finale trasferire a un proprio carrozziere di fiducia per il completamento. Produzione di serie e sviluppo di una rete commerciale (circa 1910): L'espansione quantitativa del mercato e l'affinamento delle tecniche di produzione (normalizzazione dei materiali e dei componenti) spinge le imprese verso produzioni di serie, che però sono ancora organizzate per reparto. Si sviluppa inoltre la rete commerciale che tuttavia non è controllata dalle case costruttrici, ma prevalentemente da grossisti (distributors) non specializzati, già molto attivi nella commercializzazione di beni durevoli di consumo (biciclette, macchine da cucire, mobilio, ecc.) e di beni industriali (soprattutto macchinario per l'agricoltura). 24 Produzione di grande serie a modello unico standardizzato con rete di commercializzazione esclusiva (circa 1915): Questo stato viene raggiunto con notevole anticipo sulla concorrenza da una sola casa, la Ford. Il suo successo è così grande da elevare una solida barriera all'entrata che impedisce casi di imitazione molto stretti. L'elevatissimo volume di produzione concentrato su un solo modello (Ford T) consente costi di produzione così bassi e una produzione commerciale così ampia da bloccare le possibilità di imitazione. Parallelamente la Ford inizia un processo di verticalizzazione molto accentuata, l’organizzazione della vendita attraverso concessionari esclusivisti (dealers) e la progressiva eliminazione dei distributors. Le altre case costruttrici, specie le piú importanti (come la General Motors, la Maxwell, la Packard, la Studebaker), seguiranno l'esempio Ford, ma con notevole ritardo. Produzione di grande serie per modelli differenziati (circa 1920): Il tentativo di controbattere l'offensiva di Ford, si basata in modo esclusivo sul modello unico riproposto senza variazioni ma a prezzi decrescenti, spinge le altre imprese concorrenti e la General Motors soprattutto a differenziare la propria posizione con un'ampia gamma di prodotti, capaci di soddisfare le esigenze di una domanda in via di progressiva specializzazione: ormai l'uso dell'automobile in città presenta modalità di impiego profondamente diverse da quelle presenti in campagna, come ad esempio l’asfaltatura delle strade. In questo stadio risultano evidenti le differenze di strategia delle imprese piú importanti. Ad esempio la Chrysler (ex Maxwell) effettua il proprio rilancio attraverso un prodotto tecnologicamente sofisticato, che si rivolge ad una nicchia di mercato decisamente specializzata. In questa fase abbiamo anche un notevole sfoltimento fra le case costruttrici. Alcune, che in precedenza non avevano potuto accedere alla produzione di grande serie e alla rete commerciale esclusiva, tentano di rafforzarsi attraverso fusioni, altre usciranno definitivamente dal mercato al manifestarsi della grande depressione del 1929. Produzione di grande serie per modelli differenziati a ciclo di vita corto (circa 1935): L'allargamento della domanda di automobili fa emergere progressivamente le disomogeneità latenti in un mercato così ampio come quello americano. Basti pensare alle differenze di clima tra stati del nord e stati del sud e a quelle di assetto stradale tra gli stati dell’este e quelli dell’ovest. Ciò decreta il tramonto dell'impostazione fordista a favore di quella della General Motors. Ma il passaggio da una domanda basata prevalentemente su un acquisto di prima dotazione a una basata in prevalenza sulla sostituzione di vetture, richiede qualcosa di piú di un'ampia gamma di modelli. Occorre anche un rapido e continuo rinnovo delle vetture. Un rinnovo che anche in precedenza si era manifestato, ma essenzialmente focalizzato su la messa a punto di nuove soluzioni tecniche. In questa fase l'innovazione è invece guidata, anzi programmata, da esigenze di carattere commerciale e pertanto molto spesso si basa esclusivamente su aspetti di natura stilistica. 25 Figura 12.2 – Matrice Domanda/Offerta applicata all’industria automobilistica americana, 1900-1940 Consumo di massa segmentato Prevalente acquisto di sostituzione Ford G.M. Chrysler Consumo di massa segmentato, prevalente acqisto di 1° dotazione G.M. Consumo di massa omogeneo Le altre Consumo elitario segmentato Le altre Consumo elitario omogeneo Tutte le marche Produzione con sistemi artigianali Ford Ford e G.M. Produzione Industriale, Distributors, Dealers Chrysler Produzione Modello unico Standardizzato Produzione di grande serie, Modelli differenziati Produz. di g. serie, Mod. differenz. Ciclo di vita corto La composizione in matrice della sequenza di stati della domanda e dell'offerta consente una efficace descrizione delle trasformazioni subite dal complesso dell'industria e del mercato ed evidenzia differenze di impostazione strategica delle imprese. L'efficacia di una strategia rispetto ad un'altra è data dalla capacità di percepire anticipatamente, rispetto alla concorrenza, il nuovo stadio in via di formazione. La strategia vincente di Ford (si veda la Fig.2) consistente nel passaggio dalla situazione contraddistinta dalle seguenti caratterizzazioni: stato dell'offerta "produzione industriale e sviluppo di una rete commerciale" e stato della domanda "consumo elitario" alla situazione: stato dell'offerta "Produzione di grande serie a modello unico standardizzato con rete di commercializzazione esclusiva" e stato della domanda "Consumo di massa omogeneo" con largo anticipo sulla concorrenza. Henry Ford viene tradizionalmente ricordato come un grande innovatore nel campo della organizzazione del processo produttivo, ma alla base della sue strategia vincente vi è una geniale intuizione di marketing: il quel periodo negli Stati Uniti la domanda automobilistica esprime una fortissima elasticità d'acquisto rispetto al prezzo: anche riduzioni percentualmente modeste del prezzo di vendita delle autovetture avrebbero prodotto massicci incrementi percentuali delle quantità vendute. Ford é convinto che una produzione standardizzata avrebbe consentito forti economie di scala grazie anche alle migliorie che egli intendeva introdurre ai metodi di fabbricazione e montaggio. Da un lato il processo produttivo standardizzato gli avrebbe consentito di produrre grandi volumi a bassi costi, dall'altro l'offerta di una vettura a un prezzo molto competitivo avrebbe convogliato una quota rilevante della domanda sul suo prodotto. Quello che è importante sottolineare è che il 26 successo di Ford è legato al suo tempismo. Lanciare la produzione di massa standardizzata dieci anni prima sarebbe stata una strategia molto probabilmente destinata al fallimento. Nel contempo continuare questa strategia anche dopo il 1920 lo porterà quasi al fallimento. La General Motors, sotto la guida di Alfred P. Sloan è a sua volta la prima ad avvertire, all'inizio degli anni '20, che le caratteristiche della domanda stanno mutando. Proprio per effetto della trasformazione del sistema di vita indotto dalla motorizzazione di massa e a seguito della fase di sviluppo economico di quel periodo, la domanda automobilistica americana è passata da una forte elasticità rispetto al prezzo ad una forte elasticità rispetto ad un prodotto più specializzato. La Ford "T", automobile molto affidabile, ma decisamente "rustica", non è più alla moda per un pubblico cittadino che può contare su strade asfaltate e che vive un forte processo di identificazione con i divi di Hollywood. Da un lato occorre qualcosa di più sofisticato, dall'altro occorre realizzare una gamma di prodotti completa che segua il cliente nella sua progressione sociale ed economica. La General Motors è in grado di proporre questo ventaglio di alternative attingendo al complesso dei propri marchi: una Chevrolet come prima vettura per un giovane professionista di belle speranze, una Buick per sottolineare i suoi primi successi professionali, una Cadillac per sancire la sua definitiva affermazione professionale. Potendo spendere perché mai comprare una Ford "T" tre volte di seguito. E' dall'analisi incrociata della domanda e dell'offerta che Sloan coglie i segni del mutamento nel mercato 31 . Segni che gli suggeriscono di abbandonare il confronto diretto con Ford per inaugurare una strategia basato sull'esatto contrario di Ford: produrre tanti modelli diversi e rinnovarli continuamente. Quindici anni prima sarebbe stata una follia, ma ora è il pubblico a chiedere continue novità e l'evoluzione tecnologica costruita proprio sulle esperienze di Ford mostra che con opportuni accorgimenti si possono realizzare forti economie di scala anche producendo tanti modelli diversi, basta realizzare una politica di comunanza delle parti componenti. Lo studio della co-determinazione della domanda e dell'offerta, rappresentato dal ciclo di trasformazione del settore, costituisce la chiave interpretativa da cui elaborare le mosse e i tempi delle iniziative strategiche da calibrarsi sulle specificità della singola impresa anche per la Chrysler. Questa marca è la prima a sfruttare le possibilità di differenziazione presenti dentro un segmento. La General Motors, in quanto agglomerato di marche diverse 32 , non tenta di seguire la Ford sul terreno di quest'ultima, ma è pronta a sfruttare la situazione non appena si profila una evoluzione delle esigenze della clientela favorevole alla sua specifica caratterizzazione. Analogamente la Chrysler elabora un sentiero strategico ancora diverso direttamente funzionale alla sua minor dimensione: realizzare prodotti altamente differenziati per una più ristretta area di clienti appassionati della meccanica sofisticata. Certamente a posteriori l'individuazione delle modalità e dei tempi di trasformazione del ciclo settoriale appare abbastanza semplice. Ex ante le difficoltà previsionali rendono questo compito molto piú complesso ed incerto. Tuttavia quello che preme sottolineare riguarda la non eludibilità di questo problema. Senza una teoria della trasformazione settoriale, data dalla dialettica tra la domanda e l'offerta 33 , non è possibile elaborare una efficace strategia 31 La sua testimonianza nel libro My Years with General Motors del 1964 è illuminante a riguardo. 32 Su questo argomento e sulle problematiche organizzative che ne derivano si vedano in particolare Chandler [1962] e Sloan [1964]. 33 Ovviamente stimare le piú probabili co-determinazioni della domanda e dell'offerta significa anche cercare di tener conto delle piú generali trasformazioni dell'ambiente. Si veda in proposito l'interessante impostazione sviluppata in Di Bernardo e Rullani [1985]. 27 concorrenziale su cui ordinare il complesso reticolo di decisioni ai vari livelli della struttura aziendale. Per contro, l'elaborazione di una simile teoria esige un puntuale studio storico ed economico dell'evolvere passato delle caratteristiche settoriali nel suo susseguirsi di caratterizzazioni strutturali, di comportamenti e di risultati. Ford percepisce in anticipo le potenzialità espansive della domanda di massa, che però può manifestarsi solo quando egli sarà in grado di mettere in vendita una vettura a prezzi straordinariamente competitivi 34 . Nel contempo è proprio la diffusione di massa delle autovetture che produce delle modificazioni (ad esempio lo sviluppo di un vastissimo mercato dell'usato) che impongono nuovi assestamenti, in un gioco di asimmetrie che aprono e chiudono continuamente nuove opportunità competitive. La loro previsione non è semplice, ma il gioco concorrenziale è un fatto di confronto relativo. L'individuazione di una strategia vincente e l'acquisizione del profitto non dipendono da una esatta previsione del futuro evolvere del ciclo di trasformazione settoriale, ma, piú semplicemente, da una previsione migliore dei concorrenti e, naturalmente, dalla sua traduzione in efficaci iniziative strategiche. Naturalmente in questa sede, in cui interessa affrontare il quadro di riferimento generale in cui va collocato il processo di definizione delle strategie, il termine "strategia" è utilizzato al suo massimo livello di sintesi. Nel caso della definizione di una strategia per una specifica impresa e in uno specifico orizzonte temporale il concetto di strategia che emerge dalla elaborazione di un ciclo di trasformazione settoriale va articolato in successivi livelli di definizione strategica. Se per comodità di esemplificazione continuiamo a riferirci alla General Motors degli anni '20 e '30, da quello riferito al complesso dell'impresa (corporate strategy) e individuabile nella scelta di puntare su un'ampia gamma di modelli appartenenti a marche diverse, occorre passare ad un livello inferiore che per la General Motors potrebbe essere indicato come "strategia di marca" (indicata come brand strategy o anche business strategy) focalizzata su specifiche missioni assegnate alle diverse marche del gruppo (Saturn, Chevrolet, Pontiac, Buick, Oldsmobile, Cadillac). Infine all'interno di ogni divisione di marca dovrebbero essere esplicitate le diverse strategie (ma potremmo anche parlare di "politiche") di livello funzionale riferite a: R&S, Marketing, Produzione, Commercializzazione, ecc 35 . Con il passare del tempo si modifica il quadro competitivo e si pone per l’impresa l’esigenza di rivedere i contenuti sui quali essa ha costruito la strutturazione del ciclo di trasformazione del settore e le proprie strategie. Allo scopo di meglio esprimere questa continua esigenza di aggiornamento dell’analisi competitiva e delle scelte che l’impresa ha convenienza a derivarne consideriamo una situazione sempre riferita all’industria automobilistica, ma collocata in Europa occidentale in una fase successiva a quella già esaminata. La nuova collocazione temporale si riferisce agli anni ’50 nella fase della ripresa economica successiva alla seconda guerra mondiale, quando anche in Europa il processo di motorizzazione, già manifestatosi all’inizio del secolo assunse un andamento più rapido e generale. Come è evidenziato nella Tabella 12.1, nel 1950 il livello di autovetture circolanti 34 Come è noto il prezzo della Ford "T" passerà da 950 dollari (1909) a 295 dollari (1923). Correlativamentc le unità vendute da Henry Ford nel mercato americano cresceranno da 12.292 unità a 1.917.353 nei rispettivi anni. Nel biennio successivo al 1923 Ford attuerà qualche ulteriore ribasso, ma ormai il modificarsi delle preferenze dei consumatori aveva segnato l'inizio di una nuova fase del ciclo settoriale e nel giro di 4 anni la quota di mercato di Ford scenderà dal 55% (l921) al 15% (1926). Solo la presentazione del nuovo modello "A" consentirà un certo recupero di quota, ma la Ford dovrà comunque cedere il primato di prima azienda industriale americana e mondiale alla General Motors. Sugli errori strategici di Ford in questa fase si vedano Nevins e Hill [1956] e Volpato [1983a]. 35 Per questa ripartizione in successivi livelli si veda Grant [1991]. 28 negli Stati Uniti aveva nettamente superato il traguardo delle 200 autovetture mentre in Europa la Gran Bretagna, che registrava il più elevato tasso di motorizzazione nel vecchio continente, era ancora al di sotto delle 50 autovetture circolanti per 1.000 abitanti. Tabella 12.1 - Evoluzione del tasso di motorizzazione (vetture e veicoli circolanti ogni 1000 abitanti) 1950 1960 1970 1980 1990 (1) 2000 (1) 2006 (1) vetture vetture vetture vetture vetture veicoli vetture veicoli vetture veicoli 226 320 414 546 578 752 461 761 473 813 USA 73 216 417 479 512 532 577 548 597 Germania (2) 11 37 111 232 417 422 495 475 574 506 595 Francia 32 167 312 409 454 475 526 498 571 Regno Unito 43 6 98 210 330 499 507 563 629 588 673 Italia 0 3 68 203 299 456 414 573 433 593 Giappone (1) Dal 1990 è opportuno tener conto del complesso dei veicoli in quanto, similmente a quanto accade negli Stati Uniti e in Giappone, una parte crescente di veicoli classificati come commerciali sono utilizzati come autovetture. Negli Stati Uniti questo processo è così avanzato da far segnare un arretramento della densità di autovetture circolanti per effetto della immatricolazioni di pick-up e SUV che sono considerati light truck. (2) I dati a partire dal 1990 si riferiscono alla Germania unificata Fonte: Nostre elaborazioni da OCDE ed Anfia. Con la ripresa economica degli anni ’50 il processo di motorizzazione assume un ritmo di crescita particolarmente accelerato e cominciano ad emergere delle marcate differenziazioni negli orientamenti strategici di diversi marchi. Una differenziazione che risulta propiziata non solo dalle differenze che caratterizzano i consumatori dei diversi paesi, ma anche dalla presenza di forti barriere tariffarie che tendono ad isolare ciascun mercato e che orientano le case costruttrici soprattutto verso il mercato domestico. All’inizio del periodo considerato tutti i costruttori europei, ed anche le filiali dei marchi americani General Motors e Ford, operanti in Europa, realizzano il passaggio da produzioni di tipo artigianale a produzioni industriali e all’organizzazione di proprie reti esclusive di dealers. È proprio con la rilevante espansione delle immatricolazioni verificatasi negli anni ’50 che anche i produttori europei sono nelle condizioni di poter applicare in modo generalizzato le tecniche produttive già sperimentate da Ford in quanto la crescita della domanda rende vantaggiosi i rilevanti processi di investimenti in macchinari e attrezzature specializzate che una produzione fordista in senso proprio richiede 36 . Tuttavia le strade seguite sono piuttosto caratterizzate. Spicca innanzitutto la posizione della Volkswagen. Questa impresa era nata agli inizi degli anni ’40, sul progetto di una vettura progettata da Ferdinand Porsche, per attuare la politica di motorizzazione voluta da Hitler e il dittatore aveva optato per una produzione di massa a modello unico standardizzato. Vale a dire una strategia assolutamente ricalcata sull’esperienza fordista di inizio secolo, ma prima che potesse iniziare la produzione di autovetture il gigantesco stabilimento di Wolfsburg venne riconvertito a produzioni di carattere bellico. Dopo il conflitto venne deciso di confermare la produzione del “Maggiolino” in attuazione della politica del modello unico. Anche in Francia prevalse inizialmente questo genere di impostazione, sia per effetto di una stringente politica 36 Cfr. Volpato (1983). 29 industriale orientata dal governo, sia per ripartire le scarse materie prime disponibili. Venne quindi deciso che ciascuno dei tre principali marchi francesi (Citroën, Peugeot e Renault) si sarebbero specializzati su una singola vettura ma appartenente a tre segmenti diversi. La Citroën avrebbe puntato a un segmento medio alto, la Peugeot ad un segmento medio e la Renault ad un segmento medio basso. Diversa la scelti del due marchi tedeschi Mercedes e BMW. Il primo veniva da una tradizione di costruttore d’élite e decise di rimanere fedele a questa impostazione e va quindi considerato come un marchio che puntò ad una strategia da specialista. Anche BMW, che prima del conflitto era specializzata nella costruzione di motori aeronautici dovette convertirsi e dopo una iniziale fase di incertezza scelta la strada di Imitare la Mercedes.Tra i principali marchi restanti vi erano la Fiat, la General Motors, operante in Germania con il marchio Opel e in Gran Bretagna con il marchio Vauxall e la Ford. Tutte e tre ritennero più convenienti, tenuto conto della loro storia produttiva di puntare su una strategia da produttore generalista per un mercato basato su una ampia gamma di segmenti diiferenziati per prezzo e prestazioni. Figura 12.3 – Matrice Domanda/Offerta applicata all’industria automobilistica europea, 1950-1980 Consumo di massa segmentato Prevalente acquisto di sostituzione BMW Consumo di massa segmentato, prevalente acqisto di 1° dotazione VW Tutti i principali marchi BMW Mercedes Marchi giapponesi Produzione Modello unico Standardizzato Strategia da Generalista Modelli differenziati Strategia da Specialista Modelli differenziati Strategia da Generalista, Mod. differenz. Ciclo di vita corto VW Renault Peugeot Citroën Consumo di massa omogeneo Consumo elitario segmentato Tutti i principali marchi Tutti i principali marchi Altri principali marchi Produzione con sistemi artigianali Produzione Industriale, Distributors, Dealers Consumo elitario omogeneo C’è da dire che, mentre questa scelta appariva del tutto naturale per i marchi controllati da case automobilistiche americane, la scelta della Fiat non appariva inizialmente scontata, dal momento che si sarebbe potuto immaginare un orientamento di tipo francese. Di fatto però la Fiat operava sul mercato domestico in una posizione assai prossima a quella di un monopolista dal momento che dei marchi a orientamento specialista come Lancia e Alfa Romeo si 30 trovavano in grosse difficoltà. Inoltre neppure la Fiat immaginava che il mercato Italiano si sarebbe sviluppato a ritmi così elevati come poi avvenne e la produzione di modelli appartenenti ai segmenti di mercato più elevati erano soprattutto pensati per i mercati esteri. Di fatto le strategie più efficaci risultarono quelle della Volkswagen e della Fiat, oltre a quelle dei due marchi specialisti Mercedes e BMW. La Volkswagen, che puntava alla produzione di una vettura popolare, a basso costo, ma molto affidabile, conobbe un successo strepitoso e crebbe celermente non solo in Germania, ma anche attraverso le esportazioni, soprattutto nei paesi europei non dotati di una propria industria automobilistica come Olanda, Belgio, Danimarca e nel mercato americano dove esisteva una significativa fetta di automobilisti desiderosi di acquistare una vettura economica. Le case americane inizialmente ritennero di poter servire questa categoria di automobilisti con le loro vetture usate. Ma il calcolo si rivelò sbagliato in quanto i costi di manutenzione e gli alti consumi di queste vetture di grande cilindrata non potevano assolutamente competere coni piccolo, ma efficiente motore Volkswagen. Anche la Fiat beneficiò di un accelerato processo di motorizzazione sul mercato domestico e sfruttò questo vantaggio per cercare di inserirsi anche nei mercati esteri, soprattutto dopo il 1968, anno di costituzione del Mercato Unico Europeo dell’automobile che decretò l’abbattimento delle barriere tariffarie tra i paesi aderenti. In Francia il processo di motorizzazione mostrò ben presto che la scelta del monoprodotto del tipo di quella adottata dalla Volkswagen poteva essere vincente solo se realizzato su grandi volumi e a prezzi molto bassi, senza concorrenti diretti, dal momento che gli altri marchi tedeschi Mercedes e BMW si collocavano su fasce di mercato completamente diverse. Invece Citroën, Peugeot e Renault si trovavano in una posizione intermedia nella quale la divisione del mercato domestico fra i tre marchi offriva un bacino di mercato troppo esiguo per realizzare uno sviluppo come quello di Volkswagen. Ben presto anche questi marchi, dopo aver riscontrato la perdita di competitività sofferta nei confronti di Volkswagen e Fiat optarono per una strategia da marchi generalisti. Questa sintetica descrizione dell’evolvere dell’arena competitiva nel mercato automobilistico europeo si conclude con l’inserimento dei marchi giapponesi. Queste case costruttrici attuarono, subito dopo la seconda guerra mondiale, un drastico processo di riconversione tecnologica e produttiva e puntarono decisamente allo sviluppo delle esportazioni attraverso una gamma di prodotti abbastanza ampia, ma prevalentemente centrata su modelli di classe medio-piccola e media. I primi tentativi di inserirsi nei mercati esteri avvenne alla fine degli anni ’50 soprattutto verso gli Stati Uniti. Inizialmente però questa strategia non portò a risultati significativi sia per la modestia tecnologica dei prodotti offerti, sia perché le vetture offerte erano troppo lontane dalle esigenze dell’automobilista medio americano. Tuttavia le prima crisi petrolifera del 1973 e la seconda del 1979 generarono un brusca e consistente rialzo del prezzo dei carburanti e questa nuova situazione, accompagnata da un netto miglioramento delle caratteristiche tecniche e stilistiche delle vetture giapponesi, diedero luogo ad una progressiva crescita dell’export giapponese. Negli anni ’70 la strategia di espansione giapponese all’estero si rivolse anche all’Europa. La penetrazione in questo caso sembrava molto difficile perché i prodotto giapponese non sembrava godere di particolari vantaggi rispetto a quello europeo sul piano dei prezzi d’acquisto e dei consumi di carburante. Tuttavia le case europee non si avvidero che ormai negli anni ’80 i principali mercati europei, avendo raggiunto un livello di motorizzazione superiore alle 350 autovetture per mille abitanti avevano lasciato la fase del mercato di acquisto di prima dotazione ed erano entrati in quella del mercato a prevalente acquisto di sostituzione. In questo genere di mercato il rapido rinnovo dei modelli (ciclo di vita corto) diventa una leva 31 strategica di grande importanza. Le case giapponesi hanno saputo sfruttare molto bene questa emergente esigenza della clientela acquisendo notevoli risultati di mercato, inizialmente soprattutto in Gran Bretagna e Germania, poi anche in Francia e Italia. Verso la fine del periodo considerato i marchi specialisti Mercedes e BMW si trovarono di fronte alla scelta se mantenere la loro posizione oppure convergere verso il ruolo di produttore generalista. Questa problematica era sollevata alla continua crescita dei costi da sostenere per promuovere l’innovazione di prodotto per il tendenziale ridursi del ciclo di vita dei prodotti. I volumi propri di un produttore specialista apparivano sempre più esigui a sostenere la massa crescente di investimenti e costi fissi derivanti dall’intensificazione dei ritmi di innovazione. BMW ritenne di continuare nella posizione di produttore specialista, mentre Mercedes iniziò a partire dal 1982 la politica di ingresso in segmenti progressivamente meno esclusivi. Successivamente anche BMW sarà costretta ad imboccare la strategia dell’ampliamento della gamma. Infine passiamo a considerare una terza fase che si situa tra il 1990 e il 2010 considerando l’intera industria automobilistica internazionale, sia pure in modo marcatamente semplificato, ma con l’obiettivo tuttavia di rimarcare l’importanza del lavoro previsionale e la necessità di una distinzione tra le diverse strategie, che in questa sede risultano appena abbozzate per evidenti ragioni di spazio. Per quanto riguarda gli stati in ordinata segnaliamo il progressivo passaggio da una domanda già largamente segmentata, con prevalente acquisto di sostituzione, a stati in una la domanda si articola sempre di più per l’emergere del fenomeno della multimotorizzazione, rappresentato dalla presenza nello stesso nucleo familiare di più di una autovettura. Questo fatto è reso evidente dalla crescita del numero di autovetture circolanti per 1.000 abitanti. Quando il tasso di motorizzazione arriva 500 autovetture per 1.000 abitanti significa che se si assumono nuclei famigliari composti in media da 3 persone, ciascun nucleo risulta mediamente possessore di 1,5 vetture. È chiaro che in questa situazione la domanda di veicoli a funzione specializzata cresce enormemente. Se prima la scelta era solo tra berline piccolo o grandi ora la seconda e la terza vettura che molti nuclei famigliari si trovano a disporre si orientano da un lato, ad esempio, verso una citycar, dall’altro verso una vettura fuoristrada o una vettura crossover per il tempo libero. Nel contempo analizzando gli stati dell’offerta è abbastanza agevole l’individuazione di un sentiero di sviluppo che inizialmente si pone l’obiettivo di accelerare il processo di innovazione delle vetture rivolte in particolare nei mercati più sviluppati. A questo stadio matura anche la possibilità di servire i mercati in via di sviluppo che stanno seguendo un percorso di motorizzazione che almeno in parte richiama quello già verificatosi nei paesi più industrializzati 37 . Negli anni ’90 alcuni costruttori, soprattutto Ford e General Motors hanno cercato di progettare vetture che potessero essere commercializzate con soddisfacenti margini di utile in tutte i principali mercati, le cosiddette worldcar. Ma questa politica non ha avuto successo. Si è invece mostrata redditizia la strategia della Toyota che prima degli altri costruttori ha puntato su una gamma molto ampia nella quale i diversi mercati trovassero prodotti adatti alle esigenze di ciascun mercato (generalista per un doppio mrercato). Una strategia che naturalmente appare percorribile solo da case costruttrici in grado di realizzare gamme molto ampia con volumi piuttosto ridotti per singolo modello, ma a costi assai contenuti. L’impostazione della Toyota ha fatto scuola, e ad essa si sono ispirati anche gli altri costruttori in una corsa a inseguimento nella quale la Toyota ha mostrato di saper proporre un passo avanti ogni volta che i suoi concorrenti sembravano averla raggiunta 38 . In questo senso la 37 38 Cfr. Freyssenet et al. (2003a e 2003b), Volpato (2004). Si veda: Womack et al. (1990). 32 Toyota è stata la prima ad attuare in modo allargato anche la condivisione delle piattaforme di prodotto (in italiano “pianali” e in inglese “bodypan”) proprio con lo scopo di alimentare una ampia gamma giovandosi però di rilevanti economie di standardizzazione e di scopo. In questi ultimi anni la nuova sfida dal punto di vista produttivo è la capacità di produrre un elevato numero di modelli nella stessa linea di assemblaggio. In precedenza la ricerca della massima efficienza suggeriva di operare con stabilimenti specializzati su uno o pochi modelli. Ma questa politica è entrata in crisi con la forte mobilità della domanda che si sposta da modello a modello seguendo l’onda dell’innovazione a ciclo di vita breve. È evidente che diventa molto difficile assicurare un elevato ritorno sugli investimenti se una parte degli stabilimenti è impegnata in produzioni in calo con bassi tassi di saturazione degli impianti. Di qui la ricerca di soluzioni che consentano di produrre in molte aree diverse (globalizzazione), ma con prodotti aventi molte parti in comune in grado di essere assemblati sulle stesse linee di montaggio. Figura 12.4 – Matrice Domanda/Offerta applicata all’industria internazionale, 1990-2010 Ipersegmentazione e tecnologie ecologiche Toyota Multimotorizzazione e ipersegmentazione Toyota Multimotorizzazione a segmentazione allargata Toyota Consumo di massa segmentato In fase di multimotorizzazione Consumo di massa segmentato prevalente acquisto di sostituzione Toyota Tutti i principali marchi Strategia da Generalista Mod. differenz. Ciclo di vita corto Mercedes BMW Toyota Altri principali marchi Altri principali marchi Altri principali marchi Altri principali marchi Generalista Generalista con innovazione per doppio per mercato mercato maturo (maturo+sviluppo) Generalista Globale (piattaforme e Moduli) Generalista Globale Con flessibilità Generalista Globale con tecnologie ecologiche Concludiamo questa rapida rassegna del confronto competitivo nel settore automobilistico segnalando che in contemporanea a questa sfida giocata sul binomio della comunanza di pianali e di moduli (blocchi di componentistica comune) e della flessibilità delle line di assemblaggio si è anche aperta la sfida della progettazione di vetture in grado di tagliare drasticamente sia l’emissione di gas nocivi che quella di CO2. Questa nuova frontiera vede al momento due diverse strategie: da un lato al Toyota che ha deciso di puntare massicciamente 33 sulle motorizzazioni ibride (abbinamento di un motore convenzionale e di uno elettrico), dall’altro la BMW e la Mercedes che hanno puntato soprattutto su motorizzazioni non convenzionali basate sull’alimentazione ad idrogeno. Chiaramente la scelta della Toyota è meno arrischiata ed è già in fase avanzata di realizzazione industriale. Nel 2007 l’azienda giapponese ha totalizzato il primo milione di vetture ibride prodotte a partire dal 1997. La strada battuta da BMW e Mercedes è ancora lunga. Tra l’altro si tratta di due soluzioni abbastanza differenziate in quanto la casa di Monaco ha deciso di produrre vetture con motori convenzionali in grado di alimentarsi a idrogeno, mentre la casa di Stoccarda ha preferito puntare su vetture a celle di combustibile. Entrambe prevedono di poter commercializzare le rispettive vetture a idrogeno entro una decina d’anni. Gli interrogativi su chi abbia fatto la scelta strategicamente vincente sono al momento aperti. È proprio sulla natura incerte delle scelte imprenditoriali e sulla necessità di sviluppare teorie interpretative dell’evoluzione prospettiva del confronto strategico che emerge il significato della strategia e del corrispondente “ciclo di trasformazione del settore”. Letture consigliate ABELL D.F. (1980), Defining the Business: The Starting Point of Strategic Planning, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J. AMIGONI F. (1979), I sistemi di controllo direzionale, Milano, Giuffrè. AMIGONI F. (1982), “From Management Control to Strategic Control: the Control ol Dominance”, Economia aziendale, n. 3. ANDREWS I.R. (1980), The Concept of Corporate Strategy, Irwin, Homewood, Il. ANSOFF I.H. (1965), Corporate Strategies, McGraw-Hill New York, trad. it., Strategia aziendale, Etas Kompass, Milano, 1968. ANSOFF I.H. 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L’utilità di una analisi critica Il presente documento, rivolto all’analisi critica degli approcci sviluppati dalle diverse scuole manageriali nella configurazione di una strategia d’impresa, nasce dalla tesi che l’attuale dibattito su questa problematica sia piuttosto confuso per la sovrapposizione di aspetti che invece sarebbe opportuno tenere distinti. Ne deriva in molti casi una artificiosa contrapposizione o, quantomeno, una contrapposizione che non viene inquadrata nei termini corretti. Ad esempio vi sono scuole manageriali di indirizzo economico, organizzativo, sociologico che mirano ad una analisi strategica in senso positivo: descrizione e interpretazione delle modalità con le quali le imprese pervengono alla definizione di una strategia. Le scuole che aderiscono a questa finalità si pongono il quesito “Quali sono le modalità con le quali una certa impresa elabora (o al limite non elabora) la proprio strategia”. Altre scuole invece si propongo una individuazione della strategia in senso prescrittivo: come deve essere definita la strategia di una impresa, caratterizzata da una certa posizione competitiva, affinché la sua realizzazione consenta il raggiungimento degli obiettivi che il soggetto economico dell’impresa intende conseguire. Nel primo caso non si intende affatto selezionare uno o più criteri che possano condurre alla individuazione della “migliore” strategia esperibile dall’impresa in un certo peculiare momento storico, ma si vuole solamente descrivere e possibilmente interpretare il comportamento di fatto posto in essere da una impresa nella definizione della propria strategia. In questo caso il criterio che guida l’indagine scientifica, e che ne indica la validità, è un criterio di aderenza della interpretazione al comportamento posto in essere. Nel secondo caso si è invece interessati a elaborare dei criteri di selezione di una particolare strategia in quanto indicata come quella più idonea per il raggiungimento delle finalità assunte dall’impresa e il criterio di validità scientifica di questo approccio, indicato come “prescrittivi” o “normativo” è evidentemente un criterio di efficienza e di efficacia1. È chiaro che se non si fa in modo di distinguere opportunamente le problematiche da mettere a confronto non vi è possibilità di chiarire in misura adeguata e senza ambiguità eventuali pregi e difetti di ciascuna impostazione. Ovviamente in questa sede non si vuol dire che non via siano connessioni tra un approccio di analisi positiva e un approccio prescrittivo alla definizione di una strategia, ma solo che porre sullo stesso piano approcci positivi e normativi porta a confondere i reali termini metodologici che caratterizzano queste due ottiche. 1 L’efficacia viene tradizionalmente indicata come la capacità di raggiungere l’obiettivo che si è dato un soggetto, in questo caso una impresa. Se una impresa si desse l’obiettivo di progettare in un anno di tempo un prodotto aventi particolare caratteristiche, come ad esempio un telefono mobile che pesasse 20 grammi e avesse delle misure non superiori a quelle di una carta di credito, potremo dire che l’azienda è stata molto o poco efficace in funzione di quanto essa alla fine dell’anno si è avvicinata al risultato mirato. L’efficienza si definisce invece come il rapporto fra il risultato conseguito e le risorse economiche consumate per raggiungere l’obiettivo. A parità di obiettivo raggiunto è più efficiente l’impresa che ha conseguito il risultato con un minor dispendio di risorse. 1 2. Definizione di Strategia Il lavoro di chiarificazione che si intende effettuare richiede innanzitutto una definizione di cosa si intenda per strategia d’impresa. Questa definizione risulta conveniente effettuarla avendo a riferimento due ottiche distinte, ma complementari. Una prima ottica riguarda l’individuazione in senso positivo della forma che deve assumere una strategia d’impresa affinché si possa effettivamente considerarla tale, la seconda ottica riguarda invece la distinzione di altre attività manageriali che si accompagnano necessariamente alla formulazione di una strategia, ma che hanno contenuti diversi che non vanno mischiati a quelli propri della definizione di strategia. Secondo la prima ottica una strategia viene generalmente definita come un sistema di scelte (e di azioni conseguenti) che mira al conseguimento del profitto nel lungo periodo da parte dell’impresa. È quindi implicito in questa definizione che l’obiettivo, che potremmo dire “immanente” dell’impresa, è la realizzazione di un profitto, possibilmente il massimo profitto compatibilmente con le condizioni competitive e con l’andamento del sistema economico generale. Ciò che sostanzia una strategia è quindi un sistema di scelte: ad esempio la scelta se ampliare la gamma dei prodotti offerti o restringerla, se potenziare la penetrazione in un mercato già servito o cercare di inserirsi in un nuovo mercato, se investire prioritariamente in ricerca e sviluppo o convogliare maggior risorse in comunicazione verso i consumatori. Queste possibilità individuano coppie di alternative contrastanti. Ciascuna di esse può essere appunto una particolare strategia. In sostanza la strategia di un’impresa è, se considerata in senso positivo, ciò che l’impresa sta facendo e farà nel prossimo futuro, ovvero il suo comportamento per quanto riguarda il suo modo di rapportarsi al mercato e di contrastare la concorrenza. In questo senso tutte le imprese hanno una strategia, anche se non consapevole e non dichiarata, nel senso che un’impresa deve necessariamente esercitare delle scelte di condotta e il complesso delle scelte più rilevanti rappresenta appunto la sua strategia. In questo senso potremmo parlare di strategia “di fatto”. Invece se consideriamo la strategia in senso normativo essa è la risposta al quesito: “Cosa dovrebbe fare l’impresa per mantenere e possibilmente accrescere il suo vantaggio competitivo e quindi la possibilità di conseguire un profitto negli anni a venire?” Sempre allo scopo di dare una definizione contenutistica alla strategia aggiungiamo che, secondo lo scrivente, il sistema di scelte in oggetto assume la natura di strategia solo quando questo sistema si caratterizza per un sistema abbastanza articolato di scelte. Nella letteratura manageriale si sente spesso parlare di strategie alternative come, ad esempio, la scelta tra l’ampliamento della gamma di prodotto e la focalizzazione su un ristretto ventaglio di prodotti. Non c’è dubbio che queste due scelte contrapposte possono a ragione far parte di una strategia d’impresa, ma solo se le due alternative vengono adeguatamente articolate in modo da restringere in modo molto mercato il ventaglio dei possibili comportamenti ipotizzabili nel caso si ampli o si riduca la gamma dei prodotti. Da quanto sopra specificato emerge che la strategia ha il compito di individuare le azioni da effettuare per il mantenimento delle competitività dell’impresa. È quindi chiaro che la generica indicazione “diversificare” o “focalizzare” non integrano in senso proprio una strategia in quanto le modalità con le quali realizzare un processo di diversificazione o di focalizzazione sono numerose. Se la enunciazione delle strategia si limitasse a questo avremmo una strategia estremamente generica ed ambigua e chi fosse incaricato di attuare una parte di questa strategia sarebbe del tutto privo delle indicazioni necessarie a qualificare il contenuto del compito da svolgere. Indubbiamente se si pretendesse che la definizione della strategia fosse talmente analitica da eliminare ogni possibile ambiguità entreremmo in un processo di articolazione di contenuti potenzialmente infinita. Pertanto non 2 è possibile dare in questa sede una misura precisa di quanto debba essere analitico il sistema di direttive per giungere a configurare una strategia, ma resta inteso che comunque consideriamo una strategia un sistema di scelte (e di conseguenti azioni) piuttosto articolato, tale da individuare con ragionevole precisione i contenuti concreti che costituiscono gli obiettivi da realizzare. Senza dubbio nella letteratura dedicata alla problematica strategica si potrà parlare genericamente di strategie di diversificazione, di focalizzazione, di integrazione verticale, di sviluppo a macchia d’olio, ecc., ma in questo caso siamo di fronte a mere esemplificazioni, che fanno comprendere a grandi linee il tipo di orientamento strategico al quale ci si orienta, ma che non sostanziano in senso tecnico una strategia. Dobbiamo essere consapevoli che se una impresa intendesse mettere per iscritto il sistema di scelte strategiche che ritenesse di dover seguire negli anni successivi dovremmo trovarci di fronte a un documento corposo che fissa in modo abbastanza preciso le linee d’azione da realizzare. In conclusione la definizione di una strategy comporta un sistema di scelte articolato e coerente su una molteplicità di funzioni aziendali (presumibilmente in tutte le più importanti), dal momento che anche se una certa strategia può essere orientata prevalentemente a obiettivi di: innovazione di prodotto, o innovazione di processo, o espansione della penetrazione nei mercati esistenti, o inserimento in nuovi mercati, qualunque scelta fra quelle ipotizzate comporta inevitabilmente problemi di scelta e messa in coerenza della scelta principale con scelte inerenti alla ricerca, agli acquisti, alla produzione, alla commercializzazione, alla finanza, ecc. Di conseguenza la risposta “che fare?” che tradizionalmente rappresenta il quesito che si pone il soggetto sul quale ricade la massima responsabilità decisionale dell’impresa deve necessariamente assumere un contenuto ampio e articolato. Tra gli aspetti caratteristici di una strategia aggiungiamo infine un aspetto che in generale non viene mai considerato nella letteratura sulle problematiche strategiche, ma che invece riteniamo sia un elemento della massima importanza per qualificare in senso tecnico una strategy da una generica indicazione di orientamento come quelle che abbiamo indicato con l’etichetta della diversificazione, della differenziazione, dell’integrazione verticale, ecc. Questo aspetto è rappresentato dalla tesi che non siamo in presenza di una strategia se non con riferimento ad un settore specifico, ad una impresa specifica, ad un momento storico specifico. In altre parole una strategia per meritare questa denominazione non può che essere specifica rispetto al sistema della concorrenza, alle specifiche caratteristiche dell’impresa per la quale si cerca di definire una strategia vincente, ad un momento storico specifico. Poiché i settori o industrie hanno ciascuno un assetto specifico peculiare che si modifica nel tempo e altrettanto dicasi per due imprese diverse dello stesso settore se si propone una strategia non specifica per settore, impresa e tempo di riferimento ciò vuol dire che non stiamo elaborando una strategia in senso propria ma solamente una generica indicazione, povera di contenuti prescrittivi e densa di possibili ambiguità qualora la volessimo tradurre in un sistema di azioni da essa derivanti. Questo vincolo, che possiamo esprimere anche in questo modo: non esiste strategia in senso proprio se non riferita ad un quadro settore-impresa-momento peculiari, non ha solo una valenza definitoria iniziale, ex ante alla sua realizzazione, ma costituisce anche una condizione necessaria ex post, per poter pronunciare in un secondo momento un giudizio di validità circa la strategia prescrittiva proposta. Se la proposta non è analitica e determinata non è neppure possibile emettere un giudizio di validità circa la sua efficacia ed efficienza. Ciò vale sia dal punto di vista della metodologia utilizzata per elaborare la strategia. Infatti se qualcuno criticasse una metodologia generica di non aver funzionato chi la propone potrebbe sempre sostenere, con considerazioni ad hoc che: la realizzazione non è stata conforme a quello che l’autore della strategia intendeva fosse realizzato (ma che non aveva precisato prima). Altrettanto vale da un punto di vista operativo, se la strategia non è sufficientemente analitica ed univoca non sarà neppure possibile controllare se in corso di attuazione della strategia si 3 stanno raggiungendo gli obiettivi prefissati, non si potrebbe risalire ad eventuali responsabilità di eventuali deficienze né in fase di progettazione delle strategia, né in fase di realizzazione, né si potrebbero assegnare eventuali ricompense ad personam, in quanto l’unica cosa che si potrebbe dire è se la strategia nel suo complesso ha funzionato o no, ma senza poter attribuire giudizi differenziali di merito o demerito. Una strategia generica non può essere giudicata. Tra l’altro generiche definizioni di obiettivi strategici non consentono neppure la realizzazione di un aspetto estremamente importante, per una attività così complessa e critica ai fini della sopravvivenza dell’impresa, rappresentato dal processo di apprendimento. Una impresa che non realizza apprendimento è un impresa che non è in grado di migliorare il proprio modo di operare attraverso l’analisi dei propri errori. Analisi che si può fare solo se il compito strategico da svolgere è stato preventivamente definito e organizzato in modo analitico e specifico. Se è vero che si può controllare efficacemente solo ciò che si può misurare, appare legittimo dire che siamo in presenza di una strategia solo quando la sua articolazione fornisce anche tutta una serie di elementi di controllo da valutare durante il suo itinere. Si tratta della fase di strategy control process, su cui ritorneremo fra poco. Segnaliamo inoltre che nella letteratura strategica si è soliti distinguere la strategia a livello del singolo settore industriale (business strategy), dalla strategia riferita ad un complesso aziendale operante in una molteplicità di settori (corporate strategy). Per ragioni di semplicità in questo scritto si analizzeranno esclusivamente le problematiche del primo tipo. 3. Fasi e scopi del complesso di attività legate alla definizione di una Strategia Possiamo ora a distinguere la definizione di strategia (strategy) da altre attività, ad essa correlate, ma che ci pare assolutamente necessario tenere distinte se si vuole realizzare un proficuo confronto di idee sulla problematica in questione. In altre parole il termine strategia viene spesso utilizzato come una sineddoche, vale a dire come una parte che esprime un tutto più ampio, la sineddoche “strategia” è usata da numerosi autori come un termine che comprende non solo la definizione del “che fare” e quindi la strategy in senso stretto, ma anche la pianificazione conseguente alle scelte strategiche (il “come fare” o attività di planning) ed anche il processo decisionale e organizzativo che porta alla definizione del che fare, e che possiamo indicare come strategy formation process, e infine l’attività di controllo sistematico sui risultati derivanti dalla strategia intrapresa: strategy control process. In molti casi è indubbiamente comodo utilizzare la parte (strategy) per indicare il complesso delle quattro fasi qui indicate, ma quando si intende definire gli specifici contenuti della Strategy e mettere a confronto approcci diversi riferiti questa problematica, la distinzione della particolare fase a cui ci si riferisce diviene una necessità per la chiarezza dell’esposizione e per un esame della coerenza logica dei diversi approcci. In alcuni casi riferirsi genericamente alla strategia per compendiare anche le altre fasi è comodo e rapido, ma come cercheremo di dimostrare vi sono altri casi nei quali la mancata distinzione tra: a) Strategy formation process, b) Strategy, c) Planning, d) Strategy Control Process, porta a confusione e fraintendimenti. In altri casi la non distinzione fra le fasi può non porre alcun problema, ma in questa sede invece è necessario cercare di attingere al massimo della chiarezza. In questa sede adotteremo l’etichetta “problema strategico” quando intendiamo riferirci al complesso delle fasi mentre, se useremo il termine strategy, intendiamo riferirci alla 4 sola fase b). Per comodità del lettore riportiamo di seguito quanto è già stato esposto in un altro scritto2. Senza pretendere di essere esaustivo mi pare si possano individuare almeno quattro fasi derivanti dal problema strategico, che ordiniamo in senso logico3: 1. Quale procedura o organizzazione utilizzare per l'assunzione di decisioni strategiche (chi decide, come e perché), nel linguaggio anglosassone questa fase è definibile come lo strategy formation process4; 2. Quale contenuto concreto e specifico dare alla strategy (ovvero scegliere se diversificare o meno, se differenziare o meno, se integrarsi o meno, e secondo quali particolari modalità, ecc.), questa fase viene denominata propriamente strategy; 3. Come tradurre la scelta relativa al punto precedente in una sequenza prestabilita di azioni aventi la necessaria coerenza operativa e temporale, e siamo quindi di fronte alla fase di strategic planning o più semplicemente planning; 4. Come verificare nel tempo se quanto deciso si è basato su un sistema di ipotesi previsionali corrette, che stanno trovando conforto nella realtà, se quanto già realizzato sta avvenendo secondo il programmato, o se invece si deve riformulare il problema ripercorrendo le prime tre fasi: strategic control.5 Per quanto invece concerne gli scopi della strategy, sempre rifacendosi a Volpato (2008), ricordiamo che essi possono essere numerosi e svilupparsi nel tempo, allo scopo di rispondere a specifiche esigenze non avvertite in un precedente momento. Si consideri ad esempio la decisione di una impresa di farsi quotare in borsa, in quanto si desidera intraprendere una forte espansione delle attività, che può essere finanziata attraverso il ricorso al mercato dei capitali. Da un lato questa decisione è parte della strategy dell’impresa, ma se prima della quotazione l’esigenza di comunicare all’esterno i futuri orientamenti della società poteva essere considerata una esigenza non significativa, nella nuova situazione la comunicazione delle finee fondamentali della strategy diventa anche un modo con il quale l’impresa comunica con una pluralità di soggetti che sono rilevanti per mantenere una corretta quotazione azionaria: società di investimento, società di rating, piccoli azionisti che non hanno accesso diretto alle delibere aziendali, ecc. In proposito distinguiamo, anche qui senza pretendere di essere esaustivi, ma allo scopo di esemplificare alcune delle funzioni della strategy (oltre a quella primaria di chiarire al top management le future linee di condotta), gli utilizzi più comuni, utilizzi che naturalmente presuppongono forme di comunicazione parziale della strategy, allo scopo di mantenere una certa riservatezza sui suoi contenuti più sensibili dal punto di vista competitivo: 5. Uno scopo secondario, ma non trascurabile della definizione scritta e formale di una strategy, consiste nel fatto che, anche a prescindere dalla sua qualità intrinseca, il tentativo di formalizzare in qualche modo gli obiettivi da raggiungere consente una forma di utile simulazione sulla coerenza intrinseca degli obiettivi, essa risulta assai utile per saggiare la qualità del comportamento manageriale e consente di retroagire 2 Volpato (2008). 3 Sulla ripartizione della problematica strategica in momenti concettualmente distinti anche se interconnessi si vedano: Podestà (1971), Rugiadini (1978), Canziani (1984), Rispoli (2002). 4 In proposito va segnalato che la distinzione fra strategy formation process e strategy è utile anche perché aiuta a qualificare meglio a chi competa l’iniziativa per l’attuazione delle singole fasi. 5 Va da sé che le interrelazioni fra queste fasi sono molteplici, ma ciò non toglie che la distinzione proposta sia tanto utile quanto metodologicamente necessaria. Sulle relazioni fra fasi rimandiamo a Volpato (2008). 5 in qualche modo con il “che fare” stesso, e quindi migliorane la qualità. Inoltre la formalizzazione è utile anche per la fase dello strategy formation process. Senza un tentativo di formalizzare chiaramente gli obiettivi, e le alternative percorribili per raggiungerli, diventa difficile avere un produttivo confronto di idee mirante alla eventuale composizione di opinioni diverse presenti tra i diversi soggetti dell’organo decisionale. 6. Inoltre, una volta che il top management ha definito il “che fare”, i suoi contenuti possono giocare un ruolo di natura comunicativa. Definendo una strategy gli organi decisionali comunicano tanto alla struttura interna dell' impresa, che all'ambiente, una serie di indicazioni che ha molteplici usi: 6.1. coordinare a livello globale l'orientamento dei singoli centri di esecuzione della strategia, diffondendo il significato e la direzione del cambiamento verso cui si vuole proiettare l'impresa; 6.2. acquisire il necessario grado di consenso in forza della razionalità e coerenza emanate dalla strategia comunicata; 6.3. lanciare segnali ai partner dell'impresa (stakeholders) in merito alle mosse che ci si appresta a realizzare, con lo scopo di influenzare in senso favorevole al proprio disegno il comportamento dei partner stessi. Ci pare del tutto ovvio, ma comunque è bene sottolinearlo, che tutte queste fasi sono importanti e che il successo di una impresa dipende non solo dalla strategy, ma dalla corretta realizzazione delle altre e da una efficace ed efficiente interazione tra tutte queste fasi. Inoltre queste fasi hanno una sequenza logica, ma nella realtà non si deve pensare che la loro gestione concreta avvenga per compartimenti stagni e che, ad esempio, si proceda alla fase di planning solo quando si considera la fase di strategy conclusa e immodificabile. Se nella fase di planning ci si rendesse conto che gli obiettivi di strategy appaiono difficilmente raggiungibili nei modi e nei tempi desiderati è ovvio che si dovrebbe rivedere anche la fase di strategy. In altre parole il sistema delle fasi va visto come una sequenza ordinata logicamente, ma che deve dare luogo a un feedback continuo. In qualunque momento si manifesti nella sequenza delle fasi un avvenimento ritenuto significativo, ma divergente rispetto alle ipotesi competitive accolte nella problematica strategica, è assolutamente necessario operare un processo di revisione della precedente impostazione in tutte le fasi. Spesso gli studiosi, oltre che considerare fasi diverse della problematica strategica (senza esplicitarlo), finiscono anche per privilegiare usi diversi della strategia. È chiaro che, a seconda dell'uso che si intende perseguire, varia l'impostazione concettuale dei vari autori e l'enfasi che essi assegnano alle varie questioni. Appare quindi necessario che una qualunque argomentazione sui temi della strategia debba iniziare dalla esplicitazione della fase del problema strategico che si intende affrontare e dell'uso che si vuole privilegiare. Eppure sono ben pochi i contributi in cui questa elementare regola metodologica viene osservata. Quello che vorremmo fare con questo documento è cercare di fornire una griglia di lettura che supplisca alle carenze di esplicitazione. Questa confusione di fasi e di piani di utilizzo porta inevitabilmente a un contrasto di tesi, che finisce per avvitarsi su sé stesso, perché la disomogeneità di problematica porta inevitabilmente a un recepimento distorto dei concetti e del linguaggio e quindi al rifiuto dei diversi sistemi di verifica fattuale. Si badi che non è mia intenzione sostenere che le diverse impostazioni sviluppate dagli autori sulle problematiche della strategia intesa in senso lato non siano fra loro in contrasto, ma piuttosto che alcuni dei contrasti che appaiono nella letteratura dedicata alla problematica strategica non hanno alcuna base oggettiva, in altre parole sono contrasti fasulli, che però fanno perdere di vista i contrasti autentici e qualche volta radicali, che pure esistono, e che sono i veri temi sui quale vale la pena di confrontarsi ed eventualmente dividersi aderendo ad opzioni metodologiche differenti. È quindi il momento di fornire degli esempi concreti delle forme sterili del contrasto tra studiosi. 6 4. L’analisi “positiva” del problema strategico L’obiettivo prevalente di questo scritto è l’analisi critica dei diversi approcci normativi/prescrittivi utilizzati per la definizione di una strategy, tuttavia può essere opportuno soffermarsi, sia pure brevemente, sui contenuti dell’analisi “positiva” che, come abbiamo già ricordato, intende descrivere e possibilmente interpretare le modalità concrete con le quali una istituzione, nel nostro caso un’impresa, proceda relativamente alle tematiche del problema strategico. Fra le molteplici scuole di pensiero che si sono interessate a questa problematica esaminiamo ora le più rappresentative: La strategy come processo iterativo e incrementale. Alcuni studiosi che si sono dedicati all’esame delle modalità con le quali le imprese pervengono a determinare la propria strategy hanno sottolineato come essa sia il risultato di un processo iterativo ed incrementale e assai poco strutturato. Secondo le tesi manifestate in questo punto di vista le imprese non iniziano definendo una strategy, per poi passare al planning e quindi allo strategy control process. Esse intervengono invece in occasione di fatti di particolare rilievo, fatti che sono considerati delle importanti opportunità ovvero sono ritenuti potenzialmente minaccianti per la sopravvivenza dell’impresa: forti perdite di bilancio o di quote di mercato, inserimento nell’arena competitiva di concorrenti potenzialmente pericolosi, ecc. Inizia quindi una dinamica che procede essenzialmente per trial and error. Si inizia facendo una certa mossa e pragmaticamente si verifica se funzione e quindi si realizza un ulteriore passo e così via, arretrando se gli effetti generati dall’azione sono indesiderati, avanzando se ne derivano conseguenze positive con una logica di tipo incrementale6. In questa sede non interessa esprimere un giudizio di validità o meno circa questa lettura del fenomeno strategico. In fondo potremmo dire che se imprese non si preoccupano di organizzare adeguatamente le diverse fasi della problematica strategica peggio per loro che perdono una importante opportunità di acquisire maggior efficacia ed efficienza. È però chiaro che se si prendesse alla lettera questa impostazione, ancorché solo dal punto di vista dell’analisi positiva (le imprese non organizzano le fasi), da un punto di vista metodologico se ne dovrebbe dedurre, estremizzandone il significato, che si può benissimo fare a meno di un processo di tipo formalizzato e di conseguenza perderebbe anche di significato l’approccio normativo. Perché preoccuparsi di elaborare: strategy formation process, strategy, planning e strategy control process, se tanto si può realizzare tutto con un intervento ad hoc fatto all’ultimo momento? E quindi è necessario rispondere a questa potenziale obiezione dicendo che pare evidente che questo tipo di approccio alla definizione delle questioni connesse al problema strategico può anche risultare idonea per una impresa di piccole dimensioni, nel quale il gruppo di comando si identifica in un’unica persona, eventualmente coadiuvata da un ristretto numero di collaboratori, ma che si tratterebbe di un comportamento suicida per strutture almeno un poco complesse. Ma anche una piccolissima dimensione non basta a giustificare l’assenza di una procedura consapevole e organizzata alla problematica strategica, infatti occorrerebbe anche ipotizzare che la struttura dell’impresa è estremamente semplice e con una struttura dei costi in cui prevalgono nettamente i costi variabili. Infatti solo in questo tipo di impresa il comportamento può essere prettamente reattivo dal momento che solo con questa struttura di costo un eventuale disequilibrio economico può essere sanato con la necessaria elasticità che una logica iterativa e incrementale richiede. Anche una piccola impresa che dovesse effettuare degli investimenti di medio-lungo periodo, e quindi si trovasse gravata da un peso significativo di costi fissi nel suo conto economico, si troverebbe inevitabilmente a mal partito qualora dovrebbe fronteggiare situazioni impreviste. Quindi può certamente succedere 6 Fra gli autori che meglio rappresentano questo approccio segnaliamo Lindblom (1959 e 1968), 7 che questo tipo di comportamento si manifesti, ed anzi potrebbe essere anche molto diffuso, e ciò spiegherebbe l’alta mortalità delle piccole imprese, il cui numero resta rilevante grazie ad un continuo flusso di natalità che compensa la mortalità, ma sembra altrettanto evidente che laddove la possibilità di reazione dell’impresa non è estremamente flessibile è comunque opportuno via sia un lavoro di previsione dei futuri avvenimenti e di decisione circa i tempi e i contenuti delle mosse da attuare. In altri termini dal punto di vista di un approccio scientifico alla gestione aziendale non v’è dubbio che resta pienamente confermata l’utilità di riflettere ed organizzare la sequenza del processo decisionale dell’impresa. La strategy come risultato di una negoziazione. Un modo di interpretare il comportamento dei soggetti operanti in un’impresa è quello di ipotizzarli portatori di interessi personali prima che di interessi coincidenti con l’obiettivo di sviluppo e prosperità dell’impresa considerata nel suo complesso. Ne deriva che le scelte attuate sulla problematica strategica non sarebbero il frutto di una ricerca della soluzione più opportuna per il mantenimento e il rafforzamento della posizione competitiva dell’impresa, quanto piuttosto un confronto tra soggetti, tutti interessati ad adottare soluzioni idonee a rafforzare le rispettive posizioni personali all’interna della gerarchia aziendale, in vista della scalata ai vertici dell’impresa. Che tra i dirigenti delle imprese vi sia grande attenzione alla propria progressione nella scala gerarchica è assolutamente innegabile7 e che questo tipo di dialettica possa portare anche ad una situazione di difficoltà per l’impresa stessa è altrettanto evidente. In questa sede, in cui non ci interessa tanto analizzare e interpretare la consistenza metodologica di questo approccio, quanto piuttosto valutare se esso possa negare significato ad un approccio normativo alla definizione della strategy, si deve sottolineare l’opportunità che l’esistenza di una dinamica di negoziazione interna non si sviluppi oltre certi livelli, dal momento che metterebbe a rischio la possibilità di sopravvivenza dell’impresa stessa. L’esplorazione delle migliori opportunità per l’impresa e l’identificazione della strategy capace di coglierle diverrebbe superflua solo se l’impresa potesse esprimere un potere di mercato così forte da ottenere un profitto utile alla propria sopravvivenza qualunque sia la strategia di fatto emergente dalla dialettica della negoziazione8. In questo caso infatti tutta la gestione dell’impresa potrebbe essere frutto di un confronto di potere senza alcun riferimento alla efficacia ed efficienza della linea strategica che ne deriva. Inutile dire che una situazione di questo tipo appare assai improbabile. Neppure un monopolista assoluto è infatti in grado di fissare a piacimento le condizioni del proprio profitto. Egli può solo fissare o il prezzo di vendita della merce offerta, e sarà il complesso della domanda a determinare l’effettiva quantità scambiata o viceversa. Pertanto se da un lato pare assolutamente probabile che all’interno delle imprese esista un processo di negoziazione, dall’altro appare giustificato assumere che, anche nelle posizioni di grande potere contrattuale da parte dell’impresa, il riferimento a criteri di efficacia e di efficienza resti un vincolo consistente. Anzi è interesse proprio dei soggetti che si disputano il potere all’interno dell’impresa poter individuare una soluzione efficace ed efficiente della quale farsi portatori, in quanto essa assicura maggiori risorse all’impresa da utilizzare per “pagare” gli interlocutori disposti ad accettare la linea di chi attua questo disegno. In altre parole, se si escludono situazioni abnormi di pianificazione centralizzata, l’individuazione e l’applicazione di soluzioni strategiche efficaci ed efficienti è funzionale al rafforzamento del potere di chi si fa interprete di questo approccio perché l’acquisizione di un elevato livello di profitto allenta i vincoli della concorrenza e del mercato sull’impresa e offre “partite di scambio” nella negoziazione per la scalata alle posizioni di 7 Questo tipo di dinamica è analizzata ad esempio da Zald e Berger (1978); Bolman e Deal (1997); Cressey et al. ( 1985). 8 Per immaginare una situazione di questo genere dovremmo pensare a situazioni gestite integralmente attraverso forme di pianificazione statale che arrivi a fissare insindacabilmente non solo il prezzo della merce, ma anche la quantità che gli acquirenti debbono acquisire. 8 vertice dell’impresa. Un qualsiasi manager di alto livello ha la possibilità di rafforzare la propria posizione all’interno dell’impresa facendosi portatore di una strategia obiettivamente vincente, in grado di assicurare elevati profitti e nuove opportunità di espansione dell’impresa. La strategy come risultato di un processo cognitivo. Un recente filone di studi ha messo in luce come la strategia di fatto emergente nella dinamica d’impresa sia il frutto, fra le altre cose, della particolare cultura che l’impresa ha sviluppato nel tempo e del tipo di successi e insuccessi che ne hanno caratterizzato la storia (path dependency). In altre parole la complessità della lettura del confronto competitivo, specialmente in una fase di internazionalizzazione e di globalizzazione, non si configura come un dato oggettivo identico e interpretato in modo univoco da tutti gli osservatori del mercato. I soggetti e quindi anche i manager non hanno accesso diretto alla realtà oggettiva, che nella sua interezza è inconoscibile, come hanno mostrato in modo convincente gli studi di H.A. Simon9. Quindi la lettura della realtà fatta da ogni soggetto avviene attraverso la costruzione di un sistema di concetti, potremmo dire un “modello” inevitabilmente semplificato. Di conseguenza ogni manager analizza la realtà sulla base delle proprie esperienze e competenze cognitive e il “modello” della realtà che ne deriva può essere più o meno distorto rispetto alla realtà che esso vuole rappresentare10. Anche in questo caso il riconoscimento della complessità della realtà e il rifiuto di una lettura meramente positivistica del mondo appare effettivamente giustificata. Indubbiamente ogni singolo soggetto ed anche le istituzioni, come ad esempio un’impresa, elaborano una propria mappa cognitiva della realtà e questo vale naturalmente anche nel caso della elaborazione di una strategia di tipo normativo. Il problema in questo caso diventa quello di capire se la ricerca di una strategia considerata più efficace ed efficiente di un’altra abbia significato o meno. Se il quadro cognitivo dei soggetti non avesse rapporto alcuno con la realtà è evidente che un approccio di questo genere sarebbe privo di significato. Per ora ci limitiamo a sostenere la tesi che almeno ex post sia possibile indicare se una certa strategia è stata più o meno corretta. Se si vuole la tesi equivale a dire che la scienza economica è certamente imperfetta, ma conserva una certa utilità in quanto consente scelte e comportamenti almeno stocasticamente migliori di quelli che si avrebbero ad esempio con scelte casuali, oppure basandosi su indicazioni a-scientifiche come quelle tratte dall’astrologia. In sostanza il sistema capitalista, ancorché altamente imperfetto, mostra dei meccanismi selettivi in grado di premiare o di sanzionare linee di comportamento efficaci/inefficaci e efficienti/inefficienti rispetto al criterio del profitto. Tuttavia questo aspetto è di particolare rilievo e la questione verrà ripresa fra poco per chiarire un po’ meglio i termini della questione. 5. Serve una strategia efficace ed efficiente? La conclusione che traiamo da questo rapido esame dei più consolidati approcci all’analisi positiva del comportamento strategico delle imprese è che questi approcci presentano degli elementi indubbiamente interessanti e utili dal punto di vista scientifico dello studio dell’impresa, ma non vanno assolutizzati fino al punto di negare l’utilità della ricerca prescrittiva di quale comportamento può migliorare la posizione competitiva di un’impresa con riferimento al suo ambiente competitivo. Di conseguenza in questa sede non si sostiene affatto l’idea che i soggetti o le imprese sviluppino effettivamente un comportamento razionale, come deriverebbe da un approccio di tipo benthamiano all’economia (comportamento assolutamente utilitaristico) sommato all’ipotesi della possibilità di una scelta razionale, come è stato sostenuto anche in tempi relativamente recenti. I soggetti hanno il comportamento che hanno. Tut9 Simon (1947, 1997). 10 Huff (1990), Barr, Stimpert and Huff (1992), Bogner e Thomas (1993). 9 tavia se con questo comportamento essi infrangono i criteri di razionalità in misura superiore alla media dei loro concorrenti sono destinati ad uscire dal mercato11. Qui si vuole sostenere che è nell’interesse del soggetto economico dell’impresa adottare il meglio delle conoscenze manageriali per cercare di affrontare con efficacia ed efficienza il problema strategico, perché ne deriveranno risultati che saranno stocasticamente migliori di una condotta che non sfrutti quel tanto (o poco) di contenuto scientifico presente nelle discipline manageriali. Questo perché esiste una oggettiva esigenza di cercare di sbagliare meno dei concorrenti e la ricerca di questo risultato è appunto il compito dell’economia, che mira a rispondere al quesito “come devo comportarmi se desidero essere più competitivo degli altri e cercare quindi di assicurare la sopravvivenza della mia impresa?”. 6. Ma è possibile costruire una strategia efficace ed efficiente? Al punto precedente abbiamo sintetizzato la tesi che sarebbe utile per una impresa che operi all’interno di un sistema capitalista (un sistema che elimina dal mercato le imprese mediamente meno efficienti), individuare un comportamento efficace ed efficiente in quanto ciò rappresenta la condizione di sopravvivenza e prosperità dell’impresa stessa. Il passo successivo, molto più difficile, sulla strada della giustificazione di una strategia di tipo normativo, è quella di dimostrare che è effettivamente possibile dare indicazioni utili per costruire una strategia migliore dei concorrenti o comunque di una parte di essi. Affronteremo questo problema indicando e cercando di confutare alcune tesi, quelle che ci sembrano più rilevanti, che tendono a negare la possibilità di costruire una teoria del comportamento strategico e di conseguenza anche la possibilità di fornire indicazioni valide. Diciamo subito che non è possibile dare una dimostrazione certa e inconfutabile della nostra tesi sulla validità dell’approccio normativo. Quello che in realtà si cercherà di fare è di mostrare che l’approccio normativo presenta meno incongruenze e contraddizioni di quelli che ne negano l’utilità. Il mondo è imprevedibile quindi la definizione di una strategia efficace ed efficiente è un progetto fallito in partenza . Come è noto la scienza nasce nel XVI secolo sulla base di alcuni principi molto semplici e si compone di tre stadi principali: “Il primo consiste nell’osservare i fatti significativi; il secondo nel giungere ad una ipotesi che, se vera deve spiegare questi fatti, il terzo nel dedurre da questa ipotesi delle conseguenze che si possono sottoporre all’osservazione. Se le conseguenze sono verificate, l’ipotesi è provvisoriamente accettata”12. Questa impostazione ha avuto il grande pregio di rendere l’uomo in grado di giudicare senza dover dipendere da altra autorità se non quella della propria capacità di indagare il mondo13. Tuttavia questa impostazione, come era del resto inevitabile nella sua fase di prima costituzione, si basava su una semplificazione che presupponeva che il soggetto fosse perfettamente in grado di esprimere giudizi fondati sull’oggetto della sua analisi. Questa tesi, che oggi indichiamo come “empirista”, ha prodotto una immagine del mondo di tipo non solo semplificato, ma anche meccanicistico e deterministico. Il mondo era visto come una sorta di grande orologio. Scoperte le leggi di funzionamento della “macchina-mondo” si sarebbe potuto predire con certezza tutto il suo funzionamento e la sua evoluzione futura. Questa impostazione, che si era successivamente rafforzata nella fase dell’Illuminismo, anche se inizial11 Si noti che questa affermazione non implica necessariamente una valutazione positiva del capitalismo, o quantomeno del capitalismo nella sua forma attuale. Essa dice solamente che, se si vuole continuare ad operare all’interno di questo sistema si rende necessario selezionare comportamenti più efficaci ed efficienti secondo le regole del capitalismo stesso (acquisizione di un profitto). Il capitalismo è un sistema selettivo basato appunto su una razionalità capitalistica, anche se imperfetta. 12 Russel (1931). 13 Per una presentazione un po’ meno sintetica della questione si veda il 1° capitolo di Volpato (2006 e 2008). 10 mente riferita esclusivamente alle scienze naturali14, si è dimostrata eccessivamente sbilanciata di fronte alle insormontabili difficoltà di analisi e validazione delle teorie. Ma naturalmente un conto è negare la perfetta prevedibilità della mondo (sia fisico che storico), come si è concordi nel fare oggi, un altro arrivare a negare in assoluto la prevedibilità. Purtroppo in questi termini generali la dimostrazione che qualsiasi previsione è totalmente impossibile è destinata a restare un quesito metafisico indecidibile sia in un senso che in un altro. Qui possiamo solo portare due tipi di argomenti a favore di una parziale possibilità di prevedere. La prima notazione riguarda il fatto che negare in assoluto la prevedibilità comporta di fatto negare ogni validità alla scienza o perlomeno alle scienze sociali che molto più delle scienze naturali sono immerse in una realtà storica nella quale la previsione e l’applicabilità di una certa regola (anche se imperfetta) ha significato solo se essa opera nel tempo. Il secondo argomento è che una impresa riceve un beneficio dalla individuazione di una strategia non solo nel caso che la strategia si dimostri assolutamente perfetta e azzeccata in ogni sua parte. A giustificare la validità (relativa) di una certa strategia è sufficiente che essa si mostri meno erronea di altre e in particolare meno erronea di una strategia non organizzata consciamente. Tra due imprese che supponiamo avere le stesse opportunità di affermazione nel mercato (situazione di ceteris paribus) è destinata a sopravvivere quella che usa una strategia meno erronea. In questo senso possiamo quindi legittimare l’utilità della ricerca della strategia più efficiente e efficace in senso relativo, senza dover presupporre una livello di perfetta ottimizzazione della strategia. L’ottimizzazione della strategia resta un obiettivo, ma si tratta di qualcosa che non si può raggiungere in assoluto, perché l’ottimizzazione presuppone una perfetta calcolabilità di tutte le alternative di comportamento. Non solo, poiché una strategia ha necessariamente uno sviluppo temporale, non si tratterebbe solo di conoscere tutti comportamenti dei concorrenti in momento dato, ma anche quelli successivi ad una prima fase di espletamento della nostra strategia con le manovre di ritorsione competitiva che tali concorrenti potrebbero mettere in atto. Abbastanza di recente alcune posizioni teoriche hanno particolarmente sottolineato la complessità del mondo elaborando dei modelli sulla complessità basati su una “Teoria delle catastrofi”. Sulla base di queste teorizzazioni alcuni studiosi sono giunti a presupporre l’assoluta inconoscibilità del mondo e l’impossibilità-inutilità delle previsioni15. Se così fosse anche la costruzione di una strategia in senso normativo perderebbe significato. Ma ci pare che questa ipotesi, davvero estrema, debba essere rifiutata, se non altro per il fatto che, tanto sul piano della scienze naturali che su quello delle scienze sociali, i risultati conseguiti da un approccio scientifico, ancorché imperfetti, sono significativi. Senza contare che se ipotizzassimo l’inutilità della previsione ciò colpirebbe qualsiasi argomentazione di carattere scientifico e quindi anche la teoria delle catastrofi: “In un universo di ordine puro, non si darebbe innovazione, creazione, evoluzione. Non si darebbe esistenza vivente né umana. Allo stesso modo, nessuna esistenza sarebbe possibile nel puro disordine, poiché non ci sarebbe alcun elemento di stabilità sul quale fondare un’organizzazione”16. 7. Il sorgere di una teorizzazione prescrittiva nella definizione di una strategia Può sorprendere, ma l’indirizzo prescrittivo nella definizione di una strategia d’impresa prende forma prima degli studi di carattere positivo. Questo anomalo procedere è stato determinato dal fatto l’economia diventa una disciplina scientifica e si forma un corpo di 14 Le scienze sociali, a cominciare dall’economia iniziano a prendere corpo solo nel XVIII secolo. 15 Si veda ad esempio De Toni e Pomello (2007). 16 Morin (1990). 11 studiosi dell’economia incaricati di insegnare questa disciplina nelle università alla fine del XIX secolo, vale a dire in un momento nel quale la scienza di riferimento per qualsiasi altra branca di studio è rappresentato dalla fisica classica e dal suo orientamento di tipo nomotetico17. Pertanto gli economisti tendono, non senza difficoltà, ad accreditare lo statuto scientifico dell’economia trascurando gli aspetti sociali e sottolineando invece la ricerca di leggi generali applicabili in ogni circostanza e in ogni tipo di organizzazione sociale, ad imitazione delle prestigiose scienze naturali. Il filone prevalente degli studi economici, rappresentato dalla Scuola marginalista (detta anche neoclassica), che vede nella elaborazione di Leon Walras e di Vilfredo Pareto l’espressione più compiuta attraverso il modello di equilibrio economico generale, assume quindi un chiaro e inequivocabile indirizzo nomotetico e fa proprio il determinismo che ne deriva, che viene emblematizzato dalla ricerca delle condizioni di “equilibrio” delle posizioni economiche dei soggetti (produttori e consumatori) e dei mercati. Poiché il modello di equilibrio economico generale risulta determinato solo assumendo che in tutti i mercati operi una configurazione di concorrenza perfetta, ne deriva anche che è questo il modello di mercato tradizionalmente utilizzato per interpretare la realtà, dal momento che il modello che sta agli antipodi di quello di concorrenza perfetta (monopolio) è considerato particolare e non significativo. L’effetto derivato da questo approccio è che, teorizzando il funzionamento dei mercati in situazioni coincidenti (o quasi) con quello di concorrenza perfetta, non vi è spazio per lo studio di una strategia da parte dell’impresa, dal momento che il modello concorrenziale determina senza eccezioni il comportamento che una impresa deve assumere18. In altre parole la strategia è unica per tutte le imprese e discostarsene significherebbe, sotto il profilo concettuale, decretare la sparizione dell’impresa che fosse caratterizzata da un comportamento anomalo in quanto inefficiente. Solo nel 1933 vengono pubblicati degli studi che teorizzano delle situazioni di concorrenza imperfetta che creano, per così dire, lo spazio concettuale perché si assuma il problema della definizione della strategia da parte di un’impresa19. Tuttavia questa problematica sarà presa in seria considerazione solo dopo il secondo conflitto mondiale e soprattutto grazie ad una serie di pubblicazioni che descrivono in modo assai convincente la trasformazione del capitalismo americano verso il cosiddetto big business. Infatti è proprio negli Stati Uniti che abbiamo fenomeni così vistosi di gigantismo industriale che rendono a tutti evidente che i modelli dell’equilibrio neoclassico risultano assolutamente inadeguati a dar conto delle caratteristiche di funzionamento dell’assetto economico che ha iniziato a formarsi a metà del XIX secolo con il processo di crescita e di concentrazione delle ferrovie, al quale è seguito quello nell’industria della raffinazione del petrolio e della formazione del gigantesco trust della Standard Oil, a sua volta seguito da una crescita senza precedenti dell’industria automobilistica americana e della Ford in particolare. Prende così corpo una forte esigenza di revisione degli schemi concettuali dell’economia, che vengono rafforzati anche dalla grande crisi del 1929. Questa esigenza condurrà, da un lato, alla nascita della macroeconomia, attraverso l’elaborazione di John Maynard Keynes e, dall’altro, alla teorizzazione del sorgere di una classe sociale nuova: i manager, incaricati di gestire le grandi imprese attraverso delle competenze di natura scientifica come quelle rappresentate dal movimento dello Scientific 17 Si dice che una scienza ha un orientamento nomotetico quando mira a definire delle leggi esplicative della realtà indagata di tipo generale, valide perciò in ogni luogo e in ogni tempo. In passato si pensava che le scienze naturali e perfino le scienze sociali, e fra esse l’economia in primo luogo, dovessero essere costruite sulla base di leggi generali e invarianti. Cfr. Piaget (1970). 18 Sulle caratteristiche definitorie del modello e sull’equilibrio deterministico che ne deriva si veda Volpato (2008). 19 Chamberlin (1933) e Robinson (1933). 12 Management descritto e teorizzato da Frederic Winslow Taylor20. Con questa teorizzazione abbiamo quindi la nascita di una classe di tecnocrati e numerose università, fra le quali Harvard in primo piano, si pongono l’obiettivo di educare con una metodologia rigorosa questa élite tecnocratica21. Una metodologia che però non può essere ricalcata su quella un po’ esangue tipica dei modelli economici. Secondo questa ottica manageriale la vita dell’impresa non può essere sintetizzata in schemi rappresentati tipicamente da curve di domanda e di offerta, semplificate fino al punto di diventare delle curve continue e derivabili. La dinamica di una impresa, e tipicamente delle grande impresa americana, che attrae l’interesse degli studiosi di management è fatta di persone, di potere, di gerarchie, di opportunità, di mosse e contromosse competitive, come si apprende in un famoso libro di Alfred Chandler: Strategy and Structure del 1962 che in un certo senso decreta ufficialmente la nascita del concetto e del problema strategico. 8. Il grande rischio di una impostazione prescrittiva: le affermazioni tautologiche Prima di passare a presentare le diverse scuole di strategia appare opportuno segnalare il grande rischio che pende sopra una elaborazione di tesi di tipo prescrittivo. Esso consiste nella presentazione di affermazioni che discendono direttamente dal complesso di principi che definiscono gli obiettivi dell’impresa e le regole della razionalità. Si tratta di affermazioni tautologiche che pertanto risultano prive di significato empirico. Di conseguenza una affermazione tautologica non è mai falsa, ma altresì è vera per definizione. In quanto vera per definizione una tautologia risponde alla logica stessa con la quale si struttura la realtà da esaminare e di per sé non dice nulla che non sia già contenuto negli aspetti definitori della logica considerata, quindi nulla di empiricamente rilevante. Vediamo di fare qualche esempio. In un sistema sociale si assume che il ruolo di un esponente politico sia quello di servire l’interesse della collettività. Ne deriva che se si intervistasse un uomo politico chiedendogli quale sia il suo programma nel caso venga eletto ed egli rispondesse: “Il mio programma è servire al meglio la collettività” saremmo di fonte ad una affermazione tautologica. Lo capiamo dal fatto che nessun politico si sognerebbe di dire che egli non è guidato dall’interesse comune. Se invece il politico dicesse: “Farò costruire più ospedali e meno caserme” saremmo di fronte ad una affermazione di rilevanza empirica. Si può essere, o meno, d’accordo con questo programma, ma esso appare effettivamente discriminante tra due comportamenti diversi. Analogamente in campo economico noi abbiamo assunto che l’impresa persegua un obiettivo di profitto. Se quindi un imprenditore interpellasse un consulente, chiedendo come deve regolarsi per il bene della sua azienda, egli in concreto sta dicendo: cosa devo fare perché la mia impresa consegua un profitto. Se quindi il consulente rispondesse al quesito dicendo: “Quando prende una decisione si assicuri che essa produca un profitto per la sua impresa” saremmo anche in questo caso di fronte ad una risposta tautologica, vera per definizione, ma priva di un autentico significato empirico e prescrittivo. 20 Taylor (1911). 21 Secondo Torstein Veblen, un economista attento osservatore del sorgere di questa nuova classe di tecnocrati simboleggiati dal termine engineer, il tecnocrate non è guidato da una mera bramosia di guadagno, come il tipico businessman, ma si fa anche guidare da un tensione verso la scientificazione e la razionalizzazione del funzionamento dell’impresa, come appunto nel caso di Taylor. Su questo si veda Veblen (1904). Sul sorgere del ruolo di manager in Gran Bretagna fin dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo si veda Pollard (1965). 13 9. Da dove nasce il rischio di fare affermazioni tautologiche Se un uno studioso o un consulente adotta il punto di vista di una analisi positiva, e finché si riferisce ad un caso ragionevolmente identificato, egli non corre il rischio di fare affermazioni tautologiche in quanto le sue affermazioni sono del tipo: “In quella situazione ho riscontrato questo e quello”. Si tratta di affermazioni che possono essere giuste o sbagliate, vere o false, ma non si tratta di affermazioni vere per definizione sono affermazioni che hanno una discriminante empirica. Il rischio di fare affermazioni tautologiche, sia inconsapevolmente che consapevolmente, nasce dal fatto che la scienza economica continua ancora adesso a dare grande rilievo al grado di generalità di una affermazione. Poiché la maggior parte degli economisti concepisce l’economia come una scienza nomotetica, volta alla scoperta di leggi valide ovunque e comunque e fa una graduatoria di “valore” delle cosiddette “leggi” economiche, in funzione del loro grado di generalità, ne deriva che molto spesso gli economisti formulano le loro tesi non con riferimento a casi specifici ma cercando di far loro assumere l’immagine di legge generale. Il problema è però che, con questo atteggiamento, non riescono a trasformano delle tesi da specifiche (convalidate ed efficaci in una specifica realtà) in tesi non generali (convalidate ed efficaci in tutti i casi), cosa che è ormai riconosciuta come impossibile dagli studi di epistemologia della scienza, ma solamente in tesi generiche (spogliate dei loro riferimenti specifici proprio per cercare di farle passare come generali). In questo caso saremmo di fronte a una tautologia più o meno consapevole, creata per cercare di dare importanza scientifica ad una propria affermazione. Poiché è però difficile dare risposte prescrittive, su quale strategy realizzare, che funzionino in una molteplicità di situazioni, succede che alcuni finiscono per adottare affermazioni tautologiche. Infatti è praticamente impossibile in economia arrivare a “leggi nomotetiche” in quanto le molteplicità di situazioni diverse postulano comportamenti diversi proprio per adattarsi a specifiche realtà: ciò che potrebbe funzionare per una grande impresa ben difficilmente funzionerebbe per una piccola impresa, ciò che potrebbe funzionare in un settore 10 anni fa è molto improbabile che funzioni oggi, in una situazione che si è nettamente modificata, ciò che potrebbe funzionare per una imprese che produce calzature è molto improbabile che funzioni nel settore dell’acciaio e viceversa. Se si ha la pretesa di enunciare tesi di carattere generale, si finisce per fare affermazioni generiche, cioè indefinite, e che, proprio perché non sono correttamente definite si può cercare di contrabbandare come efficaci in una pluralità di situazioni. Nei casi in cui la tautologia è detta consapevolmente, esiste però anche una diversa ragione, che deriva dal fatto che invece di fare una affermazione prescrittiva generica dovrei sostituirla con “n” affermazioni relative a “n” situazioni specifiche diverse. Questa operazione è però molto dispendiosa in termini di tempo da dedicare alla ricerca, almeno per chi crede ancora nella esigenza di pervenire a regole “nomotetiche” di valenza universale. Inoltre sostituire una affermazione indicata come generale con “n” affermazioni singolari, è anche una ammissione di modesta caratura scientifica (in termini nomotetici) della propria tesi. La soluzione (fasulla) a questo problema viene allora cercata o nella genericità delle affermazioni o nella proposizione di affermazioni tautologiche. Inutile dire che se questo atteggiamento è consapevole, chi fa delle dichiarazioni tautologiche avrà in generale l’accortezza di camuffare la natura di queste affermazioni stesse dietro argomentazioni lunghe e complesse, ma che se vengono analizzate con attenzione mostrano la loro inconsistenza empirica. Nel caso della proposizione prescrittiva di una strategy l’escamotage di tipo generico consiste nel dare informazioni molto vaghe. Se, ad esempio, formulo una strategy affermando che è conveniente diversificare per imprese diverse che si trovano in una molteplicità di situazioni diverse (che rappresenta una affermazione facilmente criticabile), farò in modo di non specificare come è opportuno che avvenga la diversificazione. In questo modo tendo a limitare la possibilità di critica della tesi prescrittiva. Probabilmente diventa ora più chiaro perché nella 14 definizione data all’inizio di una strategy abbiamo sottolineato che essa può essere considerata tale solo se viene presentata in forma analitica e non equivoca, proprio per mettere in guardia il lettore dalla possibilità che si contrabbandi una affermazione largamente indefinita per una strategy in senso proprio. Invece l’escamotage di tipo tautologico si presenta sottoforma di una tesi prescrittiva che in forma più o meno camuffata sostiene che è opportuno fare ciò che risulta opportuno per l’impresa, il che ovviamente è vero per definizione, ma privo di contenuto empirico. Se ad esempio presentando una strategy sostengo che l’impresa deve fare in modo di acquisire e mantenere un vantaggio competitivo sto appunto facendo una affermazione tautologica dal momento che un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza mi consente l’acquisizione di un profitto (se un vantaggio competitivo non mi consente un profitto non è un vantaggio competitivo) e quindi non sto dicendo altro che ciò che è contenuto negli obiettivi dell’impresa. Per uscire dalla tautologia dovrei esplicitare senza ambiguità il comportamento empirico e specifico che consentirebbe in una certa situazione e per una certa impresa l’acquisizione di un vantaggio competitivo. L’uso di affermazioni tautologiche è estremamente diffuso e rappresenta probabilmente l’errore metodologico più diffuso delle tesi prescrittive, sia nella sua forma inconsapevole (chi la dice non si rende conto di dire una banalità priva di significato concreto), sia nella forma consapevole (chi la dice si rende conto che sta facendo una vuota affermazione, derivata dal fatto che non si è in grado di indicare affermazioni empiriche che abbiano carattere generale, ma comunque si conta sul fatto che chi ascolta non se ne renda conto). 10. La scuola Harvardiana della Business Policy e la metodologia dei casi La Harvard Business School (HBS) fondata nel 1908 è la prima università americana ha dedicare una notevole attenzione agli studi di Management. Tra l’altro essa attiva una cattedra di Business History, che per molti anni è stata ricoperta da Alfred Chandler, e attiva nel 1926 il Bulletin of the Business Historical Society che più tardi si ridenominerà Business History Review. Non stupisce quindi che l’impostazione data ai corsi di Strategy, che inizialmente hanno la denominazione di Business Policy, si sviluppi privilegiando lo studio di singoli casi aziendali di successo, che vengono assunti come paradigmi di riferimento nella definizione della strategy. L’impostazione che ne deriva dà importanza tanto all’analisi dell’ambiente competitivo che alle caratteristiche tipiche dell’impresa per la quale si intende definire la strategy. Tuttavia ci sembra di poter dire che il desiderio di realizzare corsi che non fossero astratti e professorali (e che quindi ricalcassero gli schemi astratti della microeconomia marginalista), ma che invece si rivolgessero innanzitutto a fornire elementi indicativi per giovani manager, fece prevalere un insegnamento nella quale la teorizzazione fosse ridotta al minimo, anche perché la HBS offriva un Master in Business Administration e si rivolgeva quindi a studenti già laureati (postgraduate) e a giovani manager che interrompevano temporaneamente il lavoro per acquisire una preparazione professionale più solida in un centro universitario di grande prestigio22. L’impostazione della scuola harvardiana, che matura dopo il secondo conflitto mondiale, si caratterizza per: a) una serie di regole, che potremmo definire di coerenza logica nella definizione della strategy, b) alcune prescrizioni operative e c) un quadro di indicazioni piuttosto destrutturato, nel quale si passano in rassegna una serie di aspetti ritenuti rilevanti per le scelte dei manager che hanno la responsabilità di condurre l’impresa. Aspetti che vengono definiti attraverso una checklist avente una funzione analoga a quella svolta dalla SWOT Analysis: (Strengths, Weaknesses, Opportunities, and Threats). 22 La Harward University è stato il primo ateneo fondato negli Stati Uniti nel 1636 come Harvard College dalla Massachussets Bay Colony grazie a un generoso lascito di John Harvard 15 Gli elementi della coerenza logica sono stati riassunti da R. Rumelt (1997) e sono : ! Consistency : principio di coerenza fra parti diverse della strategy23; ! Consonance : la strategy deve rappresentare una idonea risposta alle specificità dell’ambiente competitivo verso il quale l’impresa deve adattarsi; ! Advantage : la strategy deve essere diretta alla creazione di un vantaggio competitivo dell’impresa nei confronti delle imprese facenti parte dell’arena competitiva; ! Feasibility : la strategy deve poter essere realizzata senza assumere rischi eccessivi per l’impresa. Per quanto riguarda le prescrizioni operative segnaliamo quelle più importanti dal punto di vista metodologico riportate in Christensen (1987)24 che sono: ! La strategy deve essere un processo di scelta deliberata e consapevole; ! La strategy compete al Chief Executive Officer dell’impresa; ! La strategy deve essere esplicitata, affinché i collaboratori del CEO ne siano informati e possano adeguatamente assecondarne l’esecuzione. ! Il successo di una strategy dipende dalla sua coerenza con l’ambiente competitivo, ciò che conviene in una certa situazione può essere totalmente diverso da quanto appare conveniente in una situazione diversa. ! La strategy, una volta definita, dovrà essere puntualmente eseguita e, seguendo in questo quanto sostenuto nel libro di Chandler, la struttura organizzativa dell’impresa deve essere disegnata in funzione della particolare strategy che si intende realizzare. Infine la checklist delle problematiche da analizzare ai fini della formazione della strategy considera i seguenti temi riferiti all’ambiente esterno: Societal Changes, Governamental Changes, Economic Changes, Competitive Changes, Supplier Changes, Market Changes, mentre con riferimento all’ambiente interno all’impresa si devono prendere in considerazione tutte le principali funzioni manageriali: Marketing, Research and Development, Management Information System, Management Team, Operations, Finance, Human Resources. L’approccio Business Policy ha il pregio di richiedere che si pervenga alla definizione di una strategy attraverso un processo che fa riferimento tanto alla specificità del settore di appartenenza che alle peculiarità dell’impresa in questione. Tuttavia esso aveva un punto debole nella insufficiente teorizzazione degli aspetti da considerare per la formulazione della strategy in quanto il rimando alla checklist risultava inidoneo a fornire sufficienti elementi sulla metodologia da adottare, come vedremo a proposito della successiva scuola sorta ad Harvard con l’elaborazione di Michael E. Porter che si proporrà proprio di rimediare a questo aspetto attraverso l’innesto di una impostazione economica tratta dalla Industrial Organization. 23 Si noti che anche questi elementi di coerenza logica potrebbero essere criticati come esempio di tautologie. Basta chiedersi: vi è qualcuno che potrebbe sostenere che la strategy deve essere incoerente. Poiché la risposta non può che essere negativa abbiamo un segnale della banalità della tesi in sé. 24 Questa costituisce la 5° edizione dell’opera che esce a cura di Learned, Christensen, Andrews and Guth nel 1965. 16 11. La scuola del Long Range Planning L’interesse per gli studi sulle strategie d’impresa crebbe considerevolmente negli anni ’70 e diede luogo ad un filone di ricerca particolarmente centrato sulle attività di planning e mirante a indicare le modalità attraverso le quali occorreva coordinare l’attività di attuazione di una certa strategia d’impresa. Si trattava di tener conto che la dimensione delle imprese (ovviamente americane) tendeva continuamente a crescere e a svilupparsi in una ambito internazionale, toccando livelli di complessità precedentemente sconosciuti. Come abbiamo in precedenza sottolineato il planning, in senso proprio, va tenuto distinto dalla strategy, in quanto esso non cerca di individuare le linee d’azione con le quali creare un vantaggio competitivo (che fare? Tipico della strategy), quanto piuttosto le modalità con le quali si potevano/dovevano attuare gli obiettivi indicati dalla strategy in modo efficace ed efficiente. Nell’ambito del planning vennero elaborati schemi e procedure con le quali suddividere: a) obiettivi di lungo periodo in una sequenza temporale di obiettivi da conseguire a breve, a medio e a lungo periodo; b) obiettivi di carattere generale in sottosistemi di obiettivi più specifici, suddivisi ad esempio per aree di mercato e per funzioni aziendali (ricerca e sviluppo, acquisti, produzione, commercializzazione, ecc.). Il planning rappresenta indubbiamente un compito assai importante tra le fasi della problematica strategica in quanto non è difficile osservare come il successo dell’impresa spesso derivi da una applicazione deficitaria di soluzioni strategiche in sé corrette. Sul tema non ci sarebbe molto altro da dire in questa analisi critica degli approcci metodologici alla determinazione prescrittiva della strategy, dal momento che qui siamo in presenza di qualcosa di concettualmente diverso dalla strategy. Ne parliamo perché altri studiosi che hanno analizzato criticamente le scuole di strategy non hanno colto la necessaria distinzione tra: Strategy Formation Process, Strategy, Planning e Strategy Control Process, e finiscono per imputare al Planning difetti metodologici fuori luogo, dal momento che questa fase ha obiettivi conoscitivi diversi. Fra i più aspri critici di questa impostazione abbiamo Henry Mintzberg, che ha esposto le sue critiche in una molteplicità di saggi25. La nostra opinione è che Mintzberg, studioso e polemista indubbiamente brillante, manca spesso il bersaglio sia per carenze di distinzione metodologica, come nel caso citato di strategy e di planning, sia perché svolge in molti casi una critica strumentale costruita attraverso una deformazione ad arte dell’impostazione che vuole criticare. Ad esempio Mintzberg suggerisce l’idea che, secondo questa scuola, l’impresa che effettua il planning su un arco di tempo pluriennale non si preoccupa poi di verificare nel tempo se il piano si sta realizzando come programmato o se, essendosi verificati degli eventi non previsti nel quadro di riferimento dal quale si è definito la strategy non ne siano scaturite esigenze di aggiustamento. Anche assumendo che la scuola del Long Range Planning trascuri la fase del Strategy Control Process, ma questa affermazione non mi sembra giustificata, non vi è nulla nell’impostazione metodologica del Long Range Planning che impedisca di integrare la fase di Planning con quella di Strategy Control Process. In sostanza la scuola Long Range Planning intende sostenere che è importante non solo l’individuazione degli obiettivi da perseguire, ma anche la modalità organizzativa con la quale essa viene realizzata, sottolineando il fatto che in una struttura complessa come la grande impresa industriale, spesso diversificata nelle sue attività e internazionalizzata sul fronte dei mercati serviti, occorre realizzare un apparato complesso e attivato secondo un timing rigoroso se non si vuole correre il rischio di non raggiungere gli obiettivi ai quali si intende mirare, o di raggiungerli con gravi ritardi e con significativi aggravi di costo. 25 In questa sede segnaliamo Mintzberg (1978) e Mintzberg et al. (1998). In quest’ultima pubblicazione si riporta anche un’ampia bibliografia sugli studi di strategia. 17 Se si vuole fare una critica alla scuola Long Range Planning essa non deve essere diretta a carenze nell’impostazione della strategy, che non compete a questa fase, ma piuttosto al fatto che occorre impedire che la struttura organizzativa e le procedure di planning si trasformino da strumenti per la realizzazione della strategy in attività autoreferenziali rigide e incapaci di adattarsi alle esigenze di cambiamento della strategy stessa, vuoi per cambiamento del quadro di riferimento competitivo, vuoi per la verifica, ottenuta attraverso lo Strategic Control Process, che certe ipotesi di base alla strategy decisa precedentemente risultano imprecise in momento successivo: si è commesso un errore di previsione e occorre ritarare la strategy per adattarla meglio alle esigenze dell’ambiente competitivo. In sostanza il Planning è tipicamente un complesso di routine pensate per agevolare il passaggio di un’impresa da un certo posizionamento competitivo ad un altro. Se si accetta l’idea di Chandler che: prima si fissa la strategia e quindi si disegna la struttura organizzativa in grado di attuarla (e nella quale vi è evidentemente anche il planning), una struttura di planning rigida è una struttura incapace di evolvere rispetto ai mutamenti o anche solo alle correzioni di strategy. Di qui l’esigenza di enfatizzare maggiormente il puntuale compimento della fase di controllo dei risultati nel tempo, controllo che deve poter segnalare alla struttura dello Strategy Formation Process le anomalie riscontrate e quindi le linee di una possibile e necessaria ridefinizione della strategy. 12. La scuola del modello delle Cinque Forze L’approccio della scuola di Harvard, in quanto basato prevalentemente su una razionalizzazione di singole realtà estratte da casi aziendali, risultava abbastanza povero di indicazioni prescrittive. Lo studio dei casi aveva molti pregi dal punto di vista della formazione dei manager, in quanto forniva loro un complesso di elementi sui quali ragionare, applicando anche le loro esperienze già acquisite. Come abbiamo esposto in precedenza le indicazioni erano o di tipo logico (Consistency, Consonance, Advantage, Feasibility) o di tipo più indicativo che prescrittivo in senso proprio (considerare il sistema economico, la concorrenza, il mercato, ecc.). Se quindi questo approccio poteva risultare utile se rivolto a manager già operativi, mostrava evidenti debolezze nel momento in cui si fosse voluto realizzare dei corsi per studenti undergraduate come tutte le università americane (e non solo) desideravano attuare, una volta constata la rilevanza dell’argomento. Tra gli studiosi che avevano collaborato con il gruppo Business Policy di Harvard, guidato da Christensen vi era anche Michel E. Porter, un giovane e brillante economista di Harvard che non si era formato attraverso gli studi di Management, ma che invece nasceva professionalmente come uno studioso di Industrial Organization, ovvero di Economia industriale. Ad Harvard, parallelamente al filone di studi di Business, vi erano importanti studiosi economia che si erano specializzati nello studio dell’organizzazione dei settori produttivi come applicazione evolutiva delle problematiche sollevate dalla formazione di settori di tipo non concorrenziale, posti in luce dalla già citata analisi di Chamberlin del 1933. Fra le figure più eminenti di questo indirizzo di studi applicato all’Industrial Organization abbiamo Edward S. Mason26 che alla fine degli anni ’30 iniziò ad elaborare un modello interpretativo del funzionamento dei settori industriali che, ulteriormente sviluppato in particolare da un altro economista di Harvard: Joe S. Bain, prese il nome di modello “Structure, Conduct, Performance - SCP”. L'assunzione di base dello schema SCR è che esiste un legame di causa-effetto tra la struttura, rappresentata dalla particolare conformazione del settore: grado di concentrazione, di differenziazione, di diversificazione, ecc., e il comportamento, assunto dalle imprese nella loro ricerca del profitto (strategie) che a loro volta impattano sui risultati, che per certi autori si identificano esclusivamente nel profitto conseguito dal settore e dalle singole imprese, per altri in una serie di obiettivi intermedi, rappresentati ad esempio dal26 Mason (1939, 1957). 18 l'ammontare degli investimenti in pubblicità, in ricerca e sviluppo, in crescita delle quote di mercato27. Michel E. Porter proveniva da questa scuola e decise di impostare il problema prescrittivo della definizione della strategy a partire dall’impianto del modello SCP. Questa impostazione aveva il pregio di unire una impianto teorico di grande prestigio alle problematiche manageriali, attraverso uno schema semplice e chiaro di analisi delle forze che interagiscono in una industria e devono quindi essere prese in considerazione per la definizione della strategy28. Questa impostazione, che possiamo indicare come “modello delle cinque forze”, definisce le opportunità di profitto di una impresa in funzione della conformazione settoriale circa il potere di mercato e contrattuale esprimibile da: 1. 2. 3. 4. 5. I concorrenti effettivi dell’impresa considerata; Gli acquirenti del settore; I concorrenti potenziali in grado di inserirsi nel settore con prodotti analoghi; I concorrenti di prodotti sostituibili rispetto a quelli del settore; I fornitori. Questo modello, se da un lato fornisce una base concettuale molto più strutturata dell’analisi e della formulazione di una strategy rispetto alla precedente scuola harvardiana della Business Policy, ha il grave difetto di privilegiare in misura largamente maggioritaria le condizioni strutturali del settore. In altre parole il risultato conseguito dall’impresa in termini di profitto dipende in prima battuta dalla struttura del settore (settore prevalentemente monopolista = alti profitti; settore prevalentemente concorrenziale = bassi profitti) che è appunto il risultato dell’impostazione del modello SCP. È facile osservare come la frequente varianza dei risultati fra imprese appartenenti allo stesso settore metta in luce in modo evidente come il risultato di una impresa non possa essere determinato in modo pressoché esclusivo dalla struttura del settore. Considerando la parte positiva dello schema di Porter è da sottolineare l’importanza di uno studio attento delle condizioni competitive del settore in cui una impresa opera. Uno studio che, come vedremo, appare messo in second’ordine da approcci alternativi rispetto a quello di Porter. Il problema però è che la sola analisi della struttura dell’offerta non consente di esplorare le molteplicità di opzioni strategiche che comunque l’impresa può percorrere alla ricerca di propri vantaggi competitivi. Ad esempio Porter, valutando le possibilità di scelta di un’impresa sintetizza il tutto in solo due strategie: a) produrre prodotti sostanzialmente omogenei a quelli della concorrenza, ma a con costi inferiori; b) differenziare i propri prodotti rispetto a quelli concorrenti. Da un lato questa ottica è troppo restrittiva rispetto alle possibilità competitive dell’impresa, dall’altro anche la differenziazione può assumere una ventaglio amplissimo di connotazioni diverse. Senza un esame dettagliato di queste diverse opportunità e senza corrispondenti indicazioni operative la definizione della strategy appare decisamente incompleta. Dopo una prima fase di successo della sua impostazione non sono mancate critiche e tentativi di proporre impostazioni ritenute più idonee. Tuttavia Porter ha ribadito anche molto recentemente l’impianto della sua visione strategica29. 27 Sulla natura del paradigma SCP, con tendenza a giustificarne la valenza teorica e l'applicazione pratica, si veda in particolare Scherer (1980). 28 Porter (1980). 29 Porter (2008). 19 13. La scuola delle Opzioni Strategiche Un approccio ulteriore è rappresentato dalla scuola delle opzioni strategiche. Questa impostazione consiste nell’individuare un ampio ventaglio di comportamenti strategici alternativi come nel caso dell’elenco seguente: ! strategie di crescita, ! strategie di differenziazione, ! strategie di diversificazione, ! strategie di integrazione verticale, ecc. Eventualmente questo genere di impostazione può essere ulteriormente arricchito attraverso un incrocio con modalità orizzontali del possibile comportamento d'impresa: - strategie offensive, - strategie difensive - strategie collusive, ecc. Nella sostanza si tratta di individuare una molteplicità di scenari possibili per il settore o i settori in cui opera l'impresa, scenari che definiscono il complesso delle variabili che caratterizzano l’ambiente competitivo dal quale dedurne una serie di obiettivi rapportabili alle possibili posizioni che un'impresa può assumere nella gerarchia concorrenziale. Da questo confronto è possibile configurare delle strategy possibili da attuare30. In sostanza chi segue questa impostazione tende a dare una serie di indicazioni coerenti con il tipo di strategia che una impresa intende realizzrae (se vuoi diversificare fai questo e questo). I limiti di questa impostazione mi paiono di due tipi. Da un lato proprio perché non si ragiona con la realtà di uno specifico settore e di una specifica impresa per la quale si cerca di definire la strategy più opportuna, se non nell’ambito assai ristretto di un caso aziendale, che spesso non va oltre lo spazio di una pagina, il quadro di riferimento economico è inevitabilmente piuttosto sintetico. In altre parole non c’è un esame dettagliato della storia del singolo settore, né di quello dell’impresa con tutto il suo bagaglio di punti di forza e di debolezza, che vanno necessariamente considerati nella selezione degli obiettivi di posizionamento dell’impresa. Dall’altro il tipo di strategy che poi si analizza è in un certo senso già dato: ad esempio si tratta di applicare una strategia di differenziazione oppure di diversificazione, ecc. In questo modo il focus dei criteri prescrittivi con considera tanto quale strategy effettivamente scegliere e si sposta inevitabilmente sulla coerenza interna alla strategia prescelta. Se devo realizzare una strategy di differenziazione, allora dovrò agire in questo modo. Se invece devo realizzare una strategy di differenziazione dovrò agire in quest’altro modo. È possibile che sul piano didattico questo approccio risulti utile, in quanto si possono fornire degli schemi sinottici in basi ai quali segnalare le esigenze che devono essere rispettate nell’attuazione di una qualche strategia, che però risulta selezionata un po’ a priori. In sostanza siamo di fronte ad un approccio che evita di misurarsi proprio con la parte più qualificante e difficile della articolazione di una strategy che consi30 La letteratura strategica che si richiama a questa ottica è molto vasta e trasversale. Si veda ad esempio: Wissema et al. (1980), Sinatra (1989), Thompson (1990), Goold e Luchs (1993), Khanna e Palepu (1997), Rispoli (2002). 20 ste proprio nella determinazione prospettica (previsione) dell’evoluzione dell’ambiente e delle determinanti del settore: domanda e offerta. Poiché l'analisi strategica della documentazione che è possibile sviluppare in sede di attività didattica è comunque limitata per ragioni di spazio e di tempo esiste il rischio che in questa impostazione si finisca per assumere un atteggiamento più o meno consciamente tautologico, derivante dal fatto che la strategia suggerita non diventa altro che una serie di sollecitazioni dirette ad “eliminare i punti di debolezza”, a “consolidare i punti di forza”, ad “essere innovativi”, a “servire più adeguatamente la domanda”, ecc. Nel migliore dei casi si effettua una “analisi di coerenza di tipo logico tra quanto si vuole raggiungere e quanto occorre attivare. Ad esempio se voglio rafforzare l’immagine del mio prodotto devo prevedere un significativo flusso di spesa in strumenti di comunicazione, ecc. Mentre la parte più problematica e rilevante della definizione della strategy sta nella definizione di una teoria cha sappia esplicitare nel caso concreto (quel settore, quell’impresa, in quel momento) quali siano le minacce e le opportunità offerte dal settore e quali sono opossano diventare i veri punti di forza e di debolezza di un'impresa. Infatti se assumiamo nel quadro descrittivo di partenza che un'impresa, ad esempio, è tecnologicamente “troppo debole” per resistere sul mercato, è evidente che se ne deve dedurre (tautologicamente) che ad essa restano due sole alternative: rimediare a questa carenza o abbandonare il settore al più presto possibile per ridurre i danni. Mentre ciò che servirebbe è una teoria della evoluzione tecnologica del settore che dica se, e a quali condizioni, l'impresa può o meno competere tecnologicamente sul mercato. Riassumendo, l'approccio per esemplificazione delle strategie esercita certamente una funzione euristica e didattica utile, ma talvolta può risultare anche fuorviante, perché tende ad offuscare il vero problema strategico (lettura prospettica della complessità) a favore della sottolineatura della coerenza fra obiettivo strategico e comportamento dell'impresa, finendo quindi per gravitare su questioni più di coerenza logica interna alla attuazione di una strategy selezionata a priori e del planning conseguente piuttosto che di problem solving strategico. 14. La scuola Resource Based Completiamo il panorama degli approcci strategici di tipo prescrittivo sintetizzando l’impostazione della scuola Resource-Based View. Questa scuola si è imposta come l’approccio prevalente nel corso degli anni ’90. Ecco come questo approccio viene presentato da Robert M. Grant31, uno dei massimi esponenti di questa impostazione: “Nel corso degli anni ’90, le correnti di pensiero che consideravano le risorse e le competenze come la base fondamentale delle strategie aziendali e fonte primaria di redditività sono confluite in quella che è stata denominata <resource-based view of the firm>. Essa si fonda sulla nozione secondo cui l’impresa è essenzialmente un insieme di risorse e competenze e che tali risorse e competenze sono le determinanti principali della sua strategia e della sua performance”32. Come si coglie immediatamente, questa visione appare sostanzialmente differente da quella di Porter e da quelle che comunque si richiamano al modello SCP nel quale l’accento gravita soprattutto sulla conformazione dell’ambiente competitivo. Il possibile rischio di que31 Grant (2005). 32 Tra gli esponenti di questa scuola oltre a Grant segnaliamo: Barney (1991), Mahoney e Pandian (1992), Peterlaf (1993). 21 sta impostazione deriva da due possibili derive. Una prima deriva è quella di ipotizzare una impresa troppo poco condizionata dalla realtà competitiva33. Se l’accento è posto sulle proprie competenze non è improbabile che si sviluppi l’idea che l’impresa non debba continuamente fare i conti con la concorrenza e con le sfide dell’ambiente competitivo. Una seconda deriva può essere quella che numerosi autori di questa scuola sottolineano l’importanza delle “competenze distintive” dell’impresa intese anche come core competence, ovvero quel complesso di competenze che in passato hanno rappresentato il punto di forza dell’impresa34. Non c’è dubbio che le core competence giocano un ruolo rilevante, che vanno coltivate e potenziate e che rappresentano un importante capitale per l’impresa, ma non va neppure dimenticato che ciò che distingue una competenza particolarmente rilevante per il confronto competitivo da una competenza pur presente nell’impresa, ma considerata di minor impatto competitivo, dipendo proprio dal quadro competitivo. Le competenze non sono rilevanti per sé, lo sono in quanto generano opportunità, potenzialità, vantaggi oligopolistici, ecc. In altre parole la costituzione di determinate competenze può essere un processo lungo e costoso, ma il potenziale di valorizzazione economica delle competenze può dissolversi o quantomeno ridursi significativamente in tempi molto rapidi di fronte a dei cambiamenti del sistema economico generale o del singolo settore. Si consideri ad esempio il mercato dell’automobile e la normativa a favore di una riduzione delle emissioni di CO2. All’inizio del 2008 lo Stato Francese ha emesso una nuova normativa denominata bonus-malus secondo la quale l’acquisto di una vettura a bassa emissione di CO2 viene incentivata con un beneficio fiscale di alcune centinaia di €, mentre l’acquisto di una vettura di grossa cilindrata, e quindi ad alto tasso di emissione di CO2, viene penalizzata da una aggravio fiscale che può arrivare anche a 1.500 euro. Nei primi otto mesi del 2008 questa iniziativa normativa ha avuto l’effetto di far lievitare le vendite della fascia di vetture a minor emissione del 70%, a fronte di un aumento medio del mercato del 3,8%. Prima di queste misure le imprese automobilistiche avevano la tendenza a individuare un vantaggio competitivo nella capacità di offerta di vetture lussuose, dotate di potenti motori, che ora invece risultano gravemente penalizzate. Non è detto che questo trend di vendite debba considerarsi definitivo, potremmo assistere a nuovi cambiamenti delle domanda, specialmente se si avesse un arretramento del costo dei carburanti che nell’ultimo anno ha subito forti aumenti. Quello che interessa segnalare è che ciò che valorizza la prestazione competitiva di un’impresa è profondamente condizionato dalle preferenze del mercato e che queste possono mutare anche con ritmi molto più rapidi di quanto ci possa mettere un’impresa a guidare il proprio posizionamento competitivo. 15. Conclusioni La finalità di questo documento era passare in rassegna le scuole strategiche più rilevanti indicandone le caratteristiche salienti sia in senso positivo sia negativo allo scopo di motivare le ragioni in base alle quali si sostiene che la strategy debba essere definita attraverso un processo analogo a quello denominato “ciclo di trasformazione del settore” che abbiamo esposto nel cap. XII di Volpato (2008). I risultati di questa analisi convergono nel sottolineare alcune tesi che ci sembra di avere motivato. Esse sono: ! la necessità di distinguere le diverse fasi della problematica strategica; ! l’importanza di distinguere tra analisi di tipo positivo e analisi prescrittiva/normativa; ! la possibilità logica di esprimere una strategy in senso prescrittivo/normativo; 33 È quanto sembra emergere dall’ottica privilegiata da Prahalad e Hamel (1990). 34 Per una analisi dei rischi connessi nel privilegiare il valore strategico delle core competence si veda Collis e Montgomery (1995). 22 ! la conferma che l’utilità di una strategy non si misura in modo assoluto, ma relativo, in altre parole una strategy imperfetta rappresenta comunque un importante strumento gestionale qualora i concorrenti si dotino di soluzioni ancora più imperfette; ! la necessità che una strategy emerga in connessione ad una analisi positiva delle caratteristiche del settore di appartenenza dell’impresa e di quelle della stessa impresa, è da questo confronto che si potranno trarre le indicazioni necessarie alla definizione della strategy e quindi dei rischi competitivi che gravano sull’impresa e delle opportune che possono essere colte; ! la necessità che ogni strategy abbia alla propria base un esercizio previsionale di ampiezza almeno pari al periodo di riferimento della strategy; ! la necessità che la strategy venga definito in modo non generico, attraverso uno sviluppo una articolazione di dettaglio, tale da rappresentare un indirizzo d’azione non ambiguo per chi ne deve curare l’attuazione. 23 Bibliografia citata Barney J.B. 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