Giuseppe Volpato, Concorrenza, Impresa, Strategie, Il Mulino, 2008

Giuseppe Volpato, Concorrenza, Impresa, Strategie, Il Mulino, 2008
Capitolo dodicesimo
CONCORRENZA E STRATEGIE
12.1. Il concetto di strategia
Se guardiamo al complesso degli studi sulle strategie d'impresa il minimo che si può
dire è che si corre il rischio di diventare strabici. Se da un lato è innegabile il successo che
riscuote questo tipo di problematica, dall'altro mi sembra altrettanto evidente il ventaglio di
posizioni espresse sull’argomento risulta così ampio e indefinito, per cui i risultati proposti dai
vari studiosi mostrano una tendenza molto più netta verso un reciproco azzeramento, che verso
il sostegno e la complementarità. In altre parole i risultati delle ricerche, siano esse prevalentemente teoriche o applicative, manifestano uno spiccato orientamento a contraddirsi
reciprocamente. In generale il contrasto delle tesi non è affatto scandaloso 1 , anzi, credo che
tutti ritengano che è proprio da un confronto serrato e puntuale delle posizioni espresse dagli
studiosi in materia che si può sperare di far emergere l'impostazione o le impostazioni più
valide, generando quello che in senso lato si chiama il “progresso conoscitivo”. Tuttavia,
affinché la dialettica delle tesi e delle opinioni sia in grado di innescare un corretto processo di
“selezione” delle posizioni più valide, è necessario che siano presenti alcune condizioni di
ordine metodologico che assicurino che:
1. i partecipanti a questo ideale dibattito stiano discutendo della stessa cosa
(omogeneità di problematica);
2. vi sia un linguaggio sufficientemente omogeneo, affinché vi sia cor rispondenza fra
ciò che uno dice e ciò che viene recepito dagli altri (omogeneità di linguaggio);
3. vi sia chiarezza nel metodo con cui ciascuno cerca di convalidare le proprie tesi
(trasparenza nelle procedure di convalida).
La sensazione di strabismo a cui accennavo in partenza, e il disappunto che spesso si
prova nel leggere studi e ricerche sulle strategie d'impresa, derivano proprio dalla marcata
percezione che il gran parlare che si fa sul pensiero strategico avvenga in una condizione di assenza quasi totale delle condizioni di omogeneità di problematica, di linguaggio e di verifica. In
sostanza gli studi di strategia sembrano alimentare una specie di “guerra delle opinioni” in cui
il processo di selezione delle migliori risulta inceppato. Se non si vuole finire fatalmente in
1
I primi studi di natura pionieristica sulla problematica strategica risalgono sostanzialmente alla fase immediatamente successiva al secondo conflitto mondiale e vanno considerati un classico esempio di evoluzione teorica a
seguito di una profonda trasformazione economica. La trasformazione economica era rappresentata dall’emergere
della grande impresa americana che sviluppò a partire dalla seconda metà del 1800. Un primo effetto di questa
trasformazione si ebbe nel 1933 con le elaborazioni dei modelli di concorrenza imperfetta di Chamberlin e della
Robinson. Successivamente lo studio delle strategie delle grandi imprese si manifestò sia sul versante
dell’industrial organization che su quello del management. Sul primo versante si ebbero innanzitutto gli studi di
Mason (1939) e Bain (1948, 1956, 1959) che portarono all’elaborazione del modello “Struttura-ComportamentoRisultati”. Sul secondo versante sono da segnalare gli studi fioriti ad Harvard attraverso l’analisi di casi aziendali e
lo sviluppo di un approccio di long range planning con il quale inizialmente si indicavano gli studi di strategia. Si
vedano in proposito Ewing (1956), Payne (1957). Tuttavia le opere che hanno dato il maggior impulso alla
disciplina sono più tarde e fra queste segnaliamo: Chandler (1962), Ansoff (1965), Sloan (1964), Learned et al.
(1965), Porter (1980).
1
questa babele occorre fare uno sforzo di chiarificazione volto innanzitutto a chiarire il proprio
pensiero e quindi a relazionarlo a quello degli altri. Questa strada impervia, ma non rinviabile
inizia necessariamente con la definizione del concetto di strategia. Si tratta di un termine relativamente recente, nel campo degli studi manageriali 2 , ma entrato in gran voga sulla scia del
successo di alcune pubblicazioni che ne hanno mostrato tutta l’importanza nella interpretazione
del comportamento imprenditoriale e competitivo, ma sul cui significato e valore concettuale
continua una notevole disparità di vedute. Comunque, fra quanti riconoscono al concetto di
strategia un significativo valore euristico vi è una sostanziale convergenza nell'assegnare a
questo concetto il ruolo di scelta degli obiettivi di lungo periodo dell'impresa, e quindi delle
relazioni fra l'impresa stessa e l'ambiente in cui essa opera, e innanzi tutto il settore (o i settori)
di diretta attività. A questa impostazione si contrappongono tre generi di critica.
a. La prima sostiene che il termine strategia non sarebbe che una nuova etichetta per
delle problematiche vecchie. Da sempre l'impresa assume, se non altro nei fatti,
degli obiettivi inerenti sia alla propria strutturazione interna, sia ai rapporti con
l'ambiente in generale e alla concorrenza in particolare. L’osservazione è senz’altro
vera, ma pare eccessivo negare la validità di questa denominazione rispetto ad altre,
certamente anteriori come ad esempio la pianificazione (long range planning), che
tuttavia hanno contenuti che appare importante tenere distinti da quelli della
strategia 3 .
b. La seconda contesta invece la possibilità di definire delle strategie in senso
normative contraddistinte da contenuti di razionalità in quanto la strategia si
riferisce ad una realtà: l’impresa che, in quanto istituzione composta da una pluralità
di soggetti, non ha una propria strategia basata su canoni di razionalità (nemmeno in
via tentativa), essa si estrinseca soltanto attraverso un confronto di interessi fra le
parti. Non esiste quindi una strategia, per lo meno nel senso di progetto coerente
d'azione elaborato ex ante, ma al massimo un sentiero strategico desunto ex post
dalla sequenza di decisioni e di azioni effettivamente realizzatesi 4 .
2
Ovviamente il termine “strategia” ha una storia assai antica che risale alla cultura greca nella quale lo “stratega”
aveva il ruolo di comandante dell’esercito, designato per le sue particolari abilità di condottiero. Analogamente la
strategia stava ad indicare l’arte militare di vincere le guerre, mentre la “tattica” indicava l’arte militare di vincere
le battaglie.
3
Sui motivi culturali di questo atteggiamento avverso al termine strategia si veda: Canziani (1984).
4
La natura caotica, indefinita e indefinibile, del processo di decisione inerente alle questioni strategiche, è una
elaborazione che si è sviluppata a partire dalla posizione metodologica assunta da Lindblom [1959]. Fra gli autori
che si inseriscono in questo filone segnaliamo in particolare Quinn (1977). Le argomentazioni che Quinn porta per
negare ciò che egli considera un atteggiamento “astrattamente razionalistico” sono essenzialmente due:
1) il futuro è troppo complesso per essere previsto: È letteramente impossibile predire tutti gli eventi e le
forze di una certa importanza che potrebbero influenzare il futuro dell'impresa, per non parlare dell'effetto totale
della loro interazione;
2) di fatto le imprese non usano uno schema di riferimento di tipo strategico : “Quando grandi e
sofisticate organizzazioni realizzano significativi mutamenti di strategia, gli approcci da loro utilizzati hanno ben
poco a che vedere con i sistemi razionalistici così spesso proposti nella letteratura relativa alla pianificazione”.
Quinn [1984].
Francamente ci paiono motivazioni inconsistenti. Anche accettando il fatto che le grandi imprese
trascurino di elaborare un piano strategico ciò non ne dimostrerebbe affatto l'inutilità. Quanto poi alla pretesa
impossibilità di effettuare una previsione, evidentemente Quinn non ha capito che il profitto d'impresa non è legato
(a parità delle altre condizioni), alla effettuazione di una previsione esatta "di tutti gli eventi e le forze che
2
c. Infine la terza posizione svolge una critica simile alla precedente, ma spostando la
propria attenzione da un’ottica collettiva caratterizzata da un conflitto di interessi a
un’ottica individuale caratterizzata da una concezione strettamente behavioristica
dell'impresa che nega l'esistenza di un legame di razionalità fra obiettivi e mezzi a
livello individuale, e che basa il comportamento esclusivamente su routine
selezionate dal meccanismo competitivo del mercato 5 .
In questa sede non è possibile affrontare il ventaglio di problemi inerenti alla confutazione di queste posizioni 6 . Ci limitiamo solamente ad osservare che, al di là dell'effettivo grado
di razionalità mostrato dalle imprese e della validità concreta manifestata dagli studi di orientamento strategico, l'assunzione di un disegno strategico da parte del top management aziendale
appare come una opzione necessaria allo stesso sforzo di analisi del comportamento dell'impresa 7 .
Naturalmente qui non si vuole affatto negare che, nella definizione delle strategie, imprenditori e manager possano assumere atteggiamenti non solo caratterizzati da razionalità
limitata, vincolo al quale nessun soggetto reale può sottrarsi, ma perfino da totale irrazionalità
o da forme di spontaneismo più o meno marcato. Quello che si vuol sottolineare è che se si è
inclini a considerare queste forme di comportamento come le forme canoniche di
comportamento imprenditoriale, per cui l'elaborazione di una strategia assume più la natura di
libera manifestazione artistica 8 , come sembrano assumere taluni studiosi, piuttosto che analisi
economica possibilmente fredda e documentata, l'economia non dispone degli strumenti per
effettuare una analisi di questi comportamenti, che invece saranno oggetto di studio di altre
discipline come la psicologia e la sociologia. La manifestazione artistica appare infatti qualcosa
che sfugge sistematicamente non solo all'analisi e alla teorizzazione, ma anche e soprattutto alla
sua strutturazione in regole e quindi al suo apprendimento. In sostanza le posizioni sintetizzate
nei precedenti punti b. e c., se sviluppate coerentemente, portano alla negazione della
possibilità di costruire una scienza del comportamento tout court. Si tratta di una posizione
scientifica rispettabile, ma a mio avviso non convincente.
Iniziamo allora il tentativo di dare una caratterizzazione operativa al concetto di
strategia interrogandoci sull'utilità di questo concetto. Se la definizione della strategia si
concretizza nella individuazione degli obiettivi d'impresa non basta l'orientamento al profitto a
fungere da bussola alle scelte imprenditoriali? La precisazione del concetto di strategia, allo
scopo di collocarne la posizione all'interno della catena di fini-mezzi in cui si articola il
potrebbero influenzare il futuro dell'impresa". Basta invece una previsione meno imperfetta di quella fatta dai
concorrenti. Del resto se le previsioni fossero assolutamente inattendibili la gestione di un'azienda potrebbe essere
fatta sulla base di decisioni prese a caso e verrebbe quindi meno la possibilità di dare un senso al comportamento
dei soggetti. In ogni caso in uno scritto di poco successivo a quello menzionato Quinn da una immagine
completamente diversa della strategia “La strategia è il modello o lo schema che coordina gli obiettivi, le politiche
e le linee di condotta principali di un’organizzazione in una sintesi unitaria e coerente. Una strategia ben studiata
consente di ordinare e distribuire le risorse di un’organizzazione secondo una disposizione unica ed attuabile,
fondata sulle sue competenze e i suoi limiti interni, sulla capacità di prevedere le mutazioni dell’ambiente e le
relative mosse di avversari intelligenti. Quinn (1980).
5
Il testo di riferimento classico di questa impostazione è Cyert e March [1963].
6
In merito rimandiamo alle articolate argomentazioni svolte da Di Bernardo e Rullani [1985].
7
Un comportamento non teleologico, cioè privo di un progetto, non può essere interpretato, ma solo descritto. Cfr
Romano [1970].
8
Su questa posizione decisamente paradossale sembra porsi ad esempio Mintzberg [1989].
3
processo decisorio, può essere elaborata a partire dal fatto che l'acquisizione di un profitto nel
lungo periodo, considerato come l'obiettivo finale dell'impresa operante in una economia
capitalista, non presenta i requisiti necessari ad orientare concretamente il complesso delle
scelte che la struttura dell'impresa è chiamata continuamente ad assumere. In altre parole l'acquisizione del profitto appare come un metaobiettivo tanto generico quanto generale e
permanente dell'impresa. Esistono infatti molte vie, molti comportamenti, che possono consentire all'impresa l'acquisizione di un profitto. Esso non è quindi in grado di fornire
indicazioni operative sul che fare. Solo ex post è possibile (peraltro non senza dubbi e
difficoltà) esprimere una valutazione di efficacia delle scelte in merito alla loro capacità di
assicurare il profitto. Ex ante la guida dell’impresa sulla base del solo “orientamento al
profitto” potrebbe consentire l'applicazione di regole decisionali solo in ipotesi di particolare
semplicità.
Di fronte a due modalità differenti di compiere una certa operazione economica (per
esempio fabbricare un certo prodotto) la scelta della modalità meno costosa in termini di risorse
utilizzate appare come una regola efficace ed efficiente solo se le due alternative producessero
esattamente gli stessi effetti sotto ogni profilo, tranne che in quello del costo. Se potessi
ottenere lo stesso prodotto, in tutto e per tutto, con entrambe le alternative produttive sarebbe
evidente la convenienza a preferire quella meno dispendiosa, e sarebbe altrettanto ovvio che
l'obiettivo della massimizzazione del profitto consentirebbe di individuare la soluzione più
vantaggiosa. Ma se a fronte di una differenza di costo si producesse anche una qualche
variazione di altro genere, il cui significato economico pur se evidente non è immediatamente
monetizzabile (per esempio un maggior costo si associa ad una variazione positiva di qualità),
tale quindi da essere portato a bilanciamento del costo del maggior costo di produzione, il
criterio basato sul profitto diventa sfuggente. Solo attraverso una complessa valutazione del
mercato e della concorrenza potrei cercare di stimare quale sia la scelta più conveniente ad
assicurare il profitto, ma questa "complessa valutazione del mercato e della concorrenza" altro
non è che il lavoro istruttorio per la messa a fuoco di una strategia.
Ciò significa che l'esercizio di una scelta, che non sia perfettamente e immediatamente
(rispetto al momento della scelta) riconducibile ad una situazione di riduzione dei costi o aumento dei ricavi, attraverso condizioni di ceteris paribus, richiede la determinazione di
obiettivi concreti basati su una gamma di attributi empiricamente definibili e misurabili. La
strategia è quindi un sistema di obiettivi specifici capace di orientare le decisioni 9 . La strategia
particolare scelta dal top management di un'impresa potrà essere più o meno valida alla prova
dei fatti, ma senza una strategia la struttura decisionale dell'impresa, a vari livelli gerarchici,
non sarebbe in grado di assumere delle scelte se non applicando arbitrari parametri di scelta, in
quanto non coordinati. Vista questa impostazione, è chiaro che sarebbe possibile operare senza
una strategia (definita ex ante) solo se nell'impresa esistesse un unico soggetto decisionale a cui
spetta anche la più minuta delle decisioni e che dispone di tutte le informazioni necessarie a
stabilire una coerenza fra ciò che si vuole ottenere (fine) e le alternative di comportamento
(scelta).
9
Faccipieri [1984] sottolinea che “L'agire strategico presuppone il progetto di un soggetto (il management) di
impegnare le risorse disponibili in determinate direzioni dettate dalla propria struttura di obiettivi”. Analogamente
Ricciardi (1984) dopo aver analizzato le diverse accezioni in cui si manifesta l'approccio strategico, nota che “La
scelta e la formulazione esplicita di una strategia dell'impresa da parte dei responsabili offre vantaggi sostanziali in
quanto rappresenta un "linea guida" per tutte le decisioni e - se è accompagnata da una coerente organizzazione per tutti i comportamenti all'interno”.
4
Giusta questa impostazione, se ne deduce che gli attributi essenziali della strategia sono
dati dal fatto di avere un orientamento prospettico e una caratterizzazione empirica specifica.
Senza queste due caratteristiche la definizione di una strategia non è in grado di assolvere alla
funzione che le è propria. E nel contempo ciò spiega perché nello schema teorico neoclassico
non vi sia posto per la strategia. Abbiamo un unico soggetto decisore operante in una situazione
di determinatezza che consente di rapportare ogni scelta, dalla più complessa alla più minuta,
ad una variazione positiva o negativa del profitto.
Molti dei fraintendimenti che sussistono in merito al significato e alla validità del
concetto di strategia, derivano dal fatto che è frequente trovare studiosi che definiscono gli
orientamenti strategici in termini così vaghi e generici da rendere tali obiettivi altrettanto
inadatti, dal punto di vista operativo, del meccanico riferimento al profitto.
12.2. Tutte le imprese hanno una strategia
Il tentativo di sgombrare il campo dalle tante incomprensioni che agitano il dibattito in
tema di strategie può utilmente iniziare dalla constatazione che tutte le imprese hanno una
strategia, nel senso che la strategia di un'impresa è data dall' insieme delle scelte fondamentali,
e dai comportamenti che ne derivano, concernenti gli aspetti della sua struttura e del suo modo
di interagire con l'ambiente. Ciò che un'impresa fa in tema di scelta della propria organizzazione, della propria tecnologia, dei propri prodotti, del proprio grado di diversificazione e di
integrazione, ecc., è la strategia d'impresa. Quindi la strategia di un'impresa è la risultante del
complesso delle scelte di un'impresa. Per il solo fatto che un'impresa esiste e quindi sceglie,
essa ha anche una strategia 10 , e quindi la storia di un'impresa non è altro che la dialettica fra il
proprio comportamento: le scelte, e la risposta che ne deriva dall'ambiente rappresentato
innanzitutto dai concorrenti, dai clienti, dai finanziatori, dai fornitori, dallo Stato. Un'impresa
ha delle leve di manovra, ovvero delle discrezionalità e la sua strategia è l'insieme delle sue
manifestazioni discrezionali 11 .
Se si concorda con questo modo introduttivo di definire la strategia ne deriva che le
imprese hanno fatto delle strategie da sempre, anzi, una condizione perché esista un'impresa è
che ci sia una strategia indipendentemente dal fatto che sia buona o cattiva, coerente o incoerente, semplice o complessa, ecc.). Si potrebbe usare il termine percorso strategico 12 .
Qualcuno potrebbe chiamarla strategia di fatto, oppure strategia ex post, oppure strategia
realizzata 13 . Se si accetta questa impostazione il problema in tema di «strategia di fatto» è
quello di descriverla e interpretarla per coglierne utili ammaestramenti. E' un problema molto
10
Si veda Di Bernardo e Rullani (1985).
11
Per una più ampia esposizione della dialettica fra la soggettività manageriale e l’oggettività dell’ambiente
esterno si rimanda a Faccipieri (1984).
12
“Per percorso strategico intendiamo il cammino evolutivo che un'impresa ha percorso nel tempo quale sintesi
dinamica di un processo dialettico che si svolge storicamente fra piano strategico dell'impresa, da un lato, e
modificazioni delle condizioni dell'ambiente, dall'altro. Mentre le scelte di fondo relative alla individuazione degli
elementi di una strategia di base avvengono, con l'impiego di procedure formali o informali, ex ante rispetto alla
sua implementazione, il percorso strategico si individua e si definisce ex post mediante l'analisi delle condizioni
che storicamente hanno determinato un certo tipo di evoluzione delle strutture interne dell'impresa e della struttura
esterna, cioè dell'ambiente in cui essa opera”. Rispoli (1984).
13
È lo stesso Mintzberg a parlare di strategia realizzata in un saggio del 1988.
5
complesso, ma in questa sede limitiamoci a sapere che esiste senza la pretesa di affrontarlo. Per
intanto, però, possiamo dire che secondo questa impostazione non ha molto senso domandarci
quando i soggetti che operano nelle imprese hanno iniziato a fare delle strategie (e gli studiosi
hanno iniziato a studiare le strategie) dal momento che l'esistenza stessa dell’impresa (sia in
senso storico che concettuale) è il frutto di una strategia. L'impresa ha una strategia per il solo
fatto di esistere.
Una questione immediatamente connessa alla precedente riguarda il quesito se abbia
senso parlare di buona o cattiva strategia. A me pare che, siccome il concetto di strategia è
usato come sinonimo di “scelta”, se assumiamo che i soggetti “scelgono”, in quanto esiste un
ventaglio di comportamenti tra i quali scegliere e tali soggetti non sono meccanici esecutori di
una qualche legge biologica che li assimila a degli strumenti, allora assumiamo anche che
esista una molteplicità di possibili strategie e quindi esiste il problema di definire un fine rispetto al quale giudicare la validità delle possibili strategie.
Mi pare che il riconoscimento della possibilità di una scelta sia la condizione
necessaria, non solo perché abbia senso esprimere un giudizio valutativo sulle strategie, ma
addirittura perché abbia senso pensare a una scienza applicata a dei soggetti. Se assumiamo che
il soggetto non è libero di scegliere: anche se crede di scegliere, in realtà è “agito” da una
matrice biologica che lo governa, come si sostiene in una forma radicale di behaviorismo,
allora non c'è spazio per chiedersi se una certa strategia è più o meno valida, in quanto non
potrebbe esistere una strategia diversa, né un fine del soggetto in quanto tale, ma solo un fine
della matrice biologica. Personalmente ritengo che il soggetto possa scegliere, sia pure in un
ambiente che lo vincola parzialmente, ma anche la posizione contraria è assolutamente
legittima, in quanto non esiste nessuna prova definitiva a favore dell'una tesi o dell'altra, e
probabilmente non esisterà mai. Quello che conta è che se ci sentiamo a favore della possibilità
di scelta, allora esiste la possibilità di fare una scienza dei soggetti 14 , come è ad esempio
l'economia. Al contrario un behaviorista radicale dovrebbe sostenere, coerentemente con
l'assunto di partenza, che è privo di senso cercare di fare una scienza dei soggetti, al massimo
c'è spazio per una scienza della natura 15 , e che quindi non ha senso il quesito attorno a strategie
buone o cattive. Questo genere di argomentazioni potrà sembrare eccessivamente astratto e
lontano dai problemi pratici della strategia, a me pare invece che siano argomentazioni estremamente concrete. Facciamo un esempio: se qualcuno pensa che le doti di un imprenditore
siano di tipo istintuale (e basta sfogliare i giornali per rendersi conto di quanto sia diffusa questa idea), allora ciò che si sostiene, detto con altre parole, è che i soggetti imprenditoriali si
comportano in modo rigidamente behavioristico. Non c'è scelta ma solo istinto, e l'imprenditore
di successo non ha altro merito che quello di essere nato con una matrice biologica che lo “agisce” in modo conveniente, rispetto alla situazione in cui si trova ad operare. Non vi sarebbe
quindi una razionalità (limitata, ma migliore di quella dei concorrenti) da parte di soggetto
imprenditore rispetto ad un altro soggetto imprenditore, cioè corrispondenza e adeguatezza fra
il fine da raggiungere, i mezzi di cui egli dispone e i vincoli che caratterizzano il suo campo
d'azione, ma solo una risposta biologicamente determinata ad un certo stimolo.
Ammesso e non concesso che l'università o le business school siano un luogo dove si
14
In proposito si veda il saggio di D.F. Romano (1976) di introduzione al volume di Hilgard e Bower, Le teorie
dell’apprendimento.
15
Personalmente ritengo che se ci trovassimo in questa situazione, non solo non si potrebbe fare una scienza del
sociale, ma nemmeno uno studio meramente storico dei percorsi strategici delle imprese in quanto anche la loro
comprensione non sarebbe che un riflesso del nostro condizionamento mentale.
6
cerca di fare della scienza, ne deriva che per un behaviorista radicale la formazione scolastica è
del tutto inutile per un imprenditore, per il semplice motivo che la scienza dei soggetti non
potrebbe esistere. Quindi perché si possa parlare di un pensiero scientifico in tema di strategie
(e quindi di scelta da parte di soggetti) occorre che esista una pluralità di scelte alternative. Il
compito del pensiero scientifico applicato alla problematica strategica sta proprio
nell'individuare l'alternativa migliore (o se volete la meno imperfetta) rispetto alle finalità
prefissate dal soggetto.
A questo punto abbiamo tolto un primo strato all'aggrovigliato nucleo della
problematica strategica, e la parte che segue riguarderà il concetto di strategia in quanto
fenomeno intenzionale, collocato prima del comportamento, ciò che Moore chiama: il pensiero
che precede l'azione 16 . Ed è proprio sulla strategia in quanto «scelta,. o «progetto intenzionale,.
che la confusione delle posizioni è più diffusa. Mi pare quindi opportuno cercare innanzitutto
di fornire la mia opinione sul perché si è formata questa confusione.
Ritengo che la causa prevalente sia rappresentata dal fatto che la maggior parte degli
studi in oggetto trascurano di tenere ben distinti i diversi momenti in cui si articola la tematica
strategica. La definizione/realizzazione di una strategia avviene infatti attraverso più fasi, concatenate ma distinte; ed inoltre una volta elaborata una strategia essa può essere utilizzata per
una pluralità di scopi.
12.3. Fasi e scopi della strategia
Senza pretendere di essere esaustivo mi pare si possano individuare almeno quattro fasi
o problematiche connesse con la questione strategica, che ordiniamo in senso logico 17 :
1. Quale procedura o organizzazione utilizzare per l'assunzione di decisioni strategiche
(chi decide, come e perché), nel linguaggio anglosassone questa fase è definibile
come lo strategy formation process;
2. Quale contenuto concreto e specifico dare alla strategia (ovvero scegliere se
diversificare o meno, se differenziare o meno, se integrarsi o meno, e secondo quali
particolari modalità, ecc.), questa fase compare prevalentemente come problem
solving, o tout court come strategy;
3. Come tradurre la scelta relativa al punto precedente in una sequenza prestabilita di
azioni aventi la necessaria coerenza operativa e temporale, e siamo quindi di fronte
alla fase di planning;
4. Come verificare nel tempo se quanto deciso si è basato su un sistema di ipotesi
previsionali corrette, che stanno trovando conforto nella realtà, se quanto già
realizzato sta avvenendo secondo il programmato, o se invece si deve riformulare il
problema ripercorrendo le prime tre fasi: strategic control.
Storicamènte, senza per questo volere creare questioni di primogenitura, ma solo per
presentare meglio la materia, la fase ad essere affrontata per prima è stata la seconda, quella del
problem solving o della strategy. Essa affronta il problema del “che fare”. Si dà per scontato
16
Moore (1959).
17
Sulla ripartizione della problematica strategica in momenti concettualmente diversi si vedano: Podestà (1970),
Rugiadini (1978), Canziani (1984), Rispoli (2002).
7
che un'impresa disponga di un certo ammontare di risorse (finanziarie, tecnologiche,
organizzative, ecc.) e che l'impresa debba confrontarsi con un sistema di concorrenti per
guadagnarsi una fetta del mercato. I primi studi sulla strategia si chiedevano: cosa deve fare
questa impresa (date le sue caratteristiche e quelle dell'ambiente, rappresentato dalla
concorrenza e dal mercato) per accrescere le proprie risorse, vincere sulla concorrenza, in una
parola: prosperare? Si tratta quindi di un problema sostanziale ed empirico nel senso che si
deve arrivare alla individuazione di uno specifico obiettivo di comportamento, definito rispetto
all'ambiente e al momento storico considerato 18 .
Di sfuggita notiamo che ponendo questo problema siamo anche passati da una strategia
di fatto, o ex post, a una strategia di tipo prospettico: cosa fare da adesso in poi in un certo
orizzonte temporale. Ma in molti casi si parla di strategia anche quando si assume di aver già
scelto il che fare, e si voglia realizzare un modello logico-formale attraverso cui comporre in
sistema i tempi, le modalità, e le procedure con cui si realizza il “che fare”. Questa attività,
corrispondente al punto 3), mi pare più correttamente definita con il termine “pianificazione”
(planning), essa va quindi distinta dal problema della scelta sul “che fare”, ma purtroppo non è
infrequente che alcuni autori tendano a mischiare questi due piani.
Possiamo infine aggiungere la fase 1 e 2 nelle quali ci si interroga rispettivamente sulle
forme organizzative e sulle dinamiche psicosociologiche attraverso cui si perviene alla
definizione della struttura decisionale incaricata di definire il che fare (strategy formation
process) e alla definizione delle procedure con le quali si verifica sistematicamente in itinere
che tanto la validità delle scelte fatte (strategy), quanto l’attuazione delle stesse si mostrano
corrette ed adeguate nel tempo (strategic control). Se nel dibattito concettuale non si ha cura di
distinguere a quale fase ci si riferisce è inevitabile che ne nascano inutili confusioni.
E' fin troppo evidente che nella concreta operatività aziendale le fasi della problematica
strategica non si svolgono in modo separato. In pratica si è sempre costretti a mischiare: il
momento della scelta (seconda fase), con quello della mediazione fra impostazioni
organizzative diverse (prima fase), con quello della realizzazione (terza fase), spesso proprio
perché la verifica ex post (quarta fase) rende evidente che si sono commessi alcuni errori nelle
fasi precedenti. Tuttavia questa commistione di fasi è una dura necessità, connessa proprio al
fatto che le quattro fasi non vengono svolte in modo ottimale. Non essendo sicuro sul “che
fare", assumo un obiettivo piuttosto generico e cerco, strada facendo, di verificare se mi muovo
nella giusta direzione, modificando eventualmente l'obiettivo via via che si chiariscono le
prospettive e lo scenario ambientale si precisa meglio. Tanto è vero che se ipotizzassimo una
impresa onnisciente e onnipotente, essa non avrebbe alcun bisogno di rettificare i propri comportamenti, essi sarebbero perfetti, e verrebbe meno l'interazione tra le prime tre fasi, mentre la
quarta scomparirebbe in quanto inutile. Se quindi è inevitabile che nella pratica ci sia una
continua interazione fra fasi, ciò non toglie che ogni singola fase ponga problemi metodologicamente diversi. Questa distinzione ha però il suo valore anche sul piano operativo. Solo se
cerco di tenerle distinte posso poi chiedermi se l'eventuale fallimento di una strategia vada
imputato ad una fase o all'altra. Il “che fare” era corretto, ma la sua scelta, bloccata da lotte
intestine fra le funzioni aziendali, è maturata troppo in ritardo, ovvero era il suo contenuto
specifico carente, o non siamo stati in grado di realizzarlo. Senza questa capacità di distinzione
logica diventa praticamente impossibile apprendere dai propri errori e porvi rimedio, né è
possibile interpretare correttamente le specificità dei percorsi strategici realizzati dalle varie
imprese.
18
Vi sono alcuni autori che distinguono diversi livelli della problematica strategica, ma senza farne derivare delle
implicazioni di ordine metodologico. Si veda ad esempio Bower e Doz (1979).
8
Ricorrendo a unaa metafora, possiamo dire che il buon funzionamento di una
autovettura (strategia) dipende da un equilibrato funzionamento di tutti i subsistemi (motore,
sospensioni, sterzo, freni, ecc.), che sono fra loro strettamente interconnessi, ma ciò non toglie
che è perfettamente accettabile mantenere la distinzione dei subsistemi proprio per capire come
si può migliorare il funzionamento della vettura. Se il sistema frenante è surdimensionato, ciò
significa che posso cercare di incrementare la potenza del motore senza avere un livello
inadeguato della capacità frenante. La differenza, fra un automobilista che non capisce nulla di
automobili e un provetto autoriparatore, sta nel fatto che il primo dice: questa automobile non
funziona, mentre il secondo può dire questa automobile non funziona perché i cilindri del
monoblocco si sono ovalizzati e il motore ha perso di compressione.
Un' altra parte della confusione concettuale deriva dal fatto che, oltre alla diversità delle fasi,
esistono una molteplicità di usi della strategia. Oltre a quello primario, intrinsecamente
connesso alla definizione del “che fare” se ne possono individuare molteplici. Per brevità ne
citerò solo alcuni.
1. Uno scopo secondario, ma non trascurabile della definizione scritta e formale di una
strategia, consiste nel fatto che, anche a prescindere dalla qualità intrinseca della
strategia, il tentativo di formalizzare in qualche modo gli obiettivi da raggiungere
consente una forma di utile simulazione sulla coerenza intrinseca degli obiettivi,
essa risulta assai utile per saggiare la qualità del comportamento manageriale e
consente di retroagire in qualche modo con il “che fare” stesso, e quindi migliorane
la qualità. Inoltre la formalizzazione è utile anche per la fase dello strategy
formation process. Senza un tentativo di formalizzare chiaramente gli obiettivi, e le
alternative percorribili per raggiungerli, diventa difficile avere un produttivo
confronto di idee mirante alla eventuale composizione di opinioni diverse presenti
tra i diversi soggetti dell’organo decisionale.
2. Inoltre, una volta che il top management ha definito il “che fare”, i suoi contenuti
possono giocare un ruolo di natura comunicativa. Definendo una «strategia» gli
organi decisionali comunicano tanto alla struttura interna dell' impresa, che
all'ambiente, una serie di indicazioni che ha molteplici usi:
2.1. coordinare a livello globale l'orientamento dei singoli centri di esecuzione
della strategia, diffondendo il significato e la direzione del cambiamento
verso cui si vuole proiettare l'impresa;
2.2. acquisire il necessario grado di consenso in forza della razionalità e coerenza
emanate dalla strategia comunicata;
2.3. lanciare segnali ai partner dell'impresa (stakeholders) in merito alle mosse
che ci si appresta a realizzare, con lo scopo di influenzare in senso
favorevole al proprio disegno il comportamento dei partner stessi.
Spesso gli studiosi, oltre ad affrontare fasi diverse della problematica strategica (senza
esplicitarlo), finiscono anche per privilegiare usi diversi della strategia. È chiaro che, a seconda
dell'uso che si intende perseguire, varia l'impostazione concettuale dei vari autori e l'enfasi che
essi assegnano alle varie questioni. Appare quindi necessario che una qualunque
argomentazione sui temi della strategia debba iniziare dalla esplicitazione della fase del
problema strategico che si intende affrontare e dell'uso che si vuole privilegiare. Eppure sono
ben pochi i contributi in cui questa elementare regola metodologica viene osservata. Quello che
vorremmo fare con questa introduzione è cercare di fornire una griglia di lettura che supplisca
9
alle carenze di esplicitazione. Questa confusione di fasi e di piani di utilizzo porta
inevitabilmente a un contrasto di tesi, che finisce per avvitarsi su sé stesso, perché la
disomogeneità di problematica porta inevitabilmente a un recepimento distorto dei concetti e
del linguaggio e quindi al rifiuto dei diversi sistemi di verifica fattuale. Si badi che non è mia
intenzione sostenere che le diverse impostazioni sviluppate dagli autori sulle problematiche
della strategia intesa in senso lato non siano fra loro in contrasto, ma piuttosto che molti dei
contrasti apparenti non hanno alcuna base oggettiva, in altre parole sono contrasti fasulli che
però fanno perdere di vista i contrasti autentici e qualche volta radicali, che pure esistono, e che
sono i veri temi sui quale vale la pena di confrontarsi ed eventualmente dividersi aderendo ad
opzioni metodologiche differenti. È quindi il momento di fornire degli esempi concreti delle
forme sterili del contrasto tra studiosi.
12.4. Razionalità e razionalismo
Una delle questioni sulle quali divampa la polemica riguarda il grado di razionalità con
il quale è possibile definire una strategia d’impresa. Apparentemente abbiamo un indirizzo di
derivazione management science che concepisce il manager come un soggetto perfettamente
razionale, una sorta di homo economicus guidato esclusivamente dal calcolo razionale e in
grado di ottimizzare i propri comportamenti. Dall’altro abbiamo invece un approccio derivato
da una teoria behavioristica dell’impresa e dei soggetti in essa operanti che sottolinea
l’impossibilità di una comportamento ottimizzante e privilegia l’analisi del conflitto di interessi
tra gli attori dell’organizzazione aziendale e delle forme di negoziazione tra di essi.
Personalmente ritengo che si deve stare molto attenti a contrapporre in modo diretto
questi due approcci in quanto si riferiscono a problemi di natura diversa che vanno esplicitati
prima di passare a un confronto delle posizioni. Tra l'altro negli studi di strategia le varie
posizioni non sono riconducibili esclusivamente a questi due approcci, per la presenza di varie
sfumature. Lo stesso approccio cosiddetto management science andrebbe suddiviso in almeno
due filoni: quello del business and industriaI economics, che si concentra essenzialmente sulla
seconda fase fra quelle prima menzionate, corrispondente alla strategy, e quello della
operations research che si concentra prevalentemente sulla terza fase, che abbiamo indicato
con la dizione planning proprio perché esso si estrinseca in un sistema di riferimento
concettuale più strutturato 19 . Tuttavia mi pare ragionevolmente accettabile considerare questi
due approcci come i due poli estremi di un continuum differenziato di posizioni, che tuttavia
non devono essere direttamente contrapposte per il semplice motivo che assumono due
obiettivi conoscitivi diversi, uno di contenuto tipicamente normativo l’altro di contenuto
tipicamente positivo. L’impostazione management science, perlomeno nelle elaborazioni degli
autori più accreditati, è una manifestazione di ricerca normativa che non sostiene affatto che i
soggetti siano effettivamente razionali, ma si interroga su quali strumenti possono essere
elaborati per cercare di individuare la soluzione più razionale a un problema dato. Non a caso
in questo tipo di ricerche si effettuano semplificazioni accentuate sulla realtà analizzata,
proprio per semplificarla al punto da rendere utilizzabili degli algoritmi ottimizzanti che
diversamente non potrebbero essere applicati.
19
Naturalmente, all'interno di ciascuna fase si possono individuare numerose sotto-problematiche aventi
caratterizzazioni distinte. Per una rassegna e una trattazione delle principali sotto-problematiche della seconda e
terza fase si veda Eminente (1981).
10
Ad esempio in un'ottica marcatamente operations research il problema strategico può
essere reso (nella sua più semplice accezione) in questi termini: supponiamo che vi sia una sola
volontà all' interno dell' impresa (quella dell' imprenditore) circa le scelte gestionali da
effettuare, e che il fine di questa volontà sia il raggiungimento della massimizzazione del
risultato economico, e supponiamo altresì che l'imprenditore disponga di tutte le informazioni
(espresse in termini quantitativi) che sarebbero necessarie ad una scelta ottimale, come
dovrebbe essere organizzato il calcolo per individuare il comportamento massimizzante dell'
impresa? Si badi che il fatto che questo approccio si basi su pesantissime semplificazioni, che
sappiamo benissimo essere irrealistiche, non significa affatto togliere ogni significato alla
questione. Sulla terra la situazione di vuoto assoluto non è certamente la normalità, e tuttavia la
legge di caduta di un grave viene definita ipotizzando una tale situazione. Dentro un
contenitore in cui si sia fatto il vuoto una piuma e un pezzo di ferro cadono con la stessa
accelerazione, e quindi percorrono spazi uguali in tempi uguali, e nessuno nega l'utilità di
questa legge. Ovviamente l'applicabilità di questa legge è tanto maggiore quanto più siamo
prossimi alle situazioni previste dalle ipotesi semplificatrici di partenza.
A ben vedere in questi schemi si fanno semplificazioni analoghe a quelle continuamente
applicate in macroeconomia o nella teoria dei giochi. Nel contempo se l’obiettivo conoscitivo è
cercare di interpretare il reale comportamento dei soggetti quale esso effettivamente si
manifesta (analisi positiva), non c’è dubbio che sia l’approccio behaviorista che quello
cognitivo possono dare una prospettiva utile alla interpretazione delle modalità comportali
degli attori aziendali. Di conseguenza chiunque intenda affrontare la problematica strategica
avrebbe il dovere, ma anche la convenienza se non vuole essere frainteso, di esplicitare volta a
volta in quale prospettiva si colloca. Infatti anche nell’approccio behavioral science si può
assumere una prospettiva meramente descrittiva-positiva, ovvero si può assumere anche un
obiettivo normativo. Se, come nella maggioranza dei casa è quest’ultima la prospettiva adottata
risulta che anche in quest’approccio verrà comunque adottata una regola di razionalità. Infatti
assumiamo che in un'impresa vi siano una pluralità di volontà e quindi di interessi, e ipotizziamo di metterci nella prospettiva di una di queste volontà (in genere si tratta della prospettiva
del massimo responsabile aziendale, vale a dire l'imprenditore o l'equivalente manageriale
rappresentato dal Chief Executive Officer, CEO), e assumiamo altresì che questo responsabile
voglia guidare l'impresa verso un certo indirizzo strategico, il problema da risolvere è: come
deve organizzare, delegare, stimolare, sanzionare, retribuire, gratificare, formare, ecc., i propri
collaboratori affinché il complesso dell'organismo aziendale risponda nel modo desiderato?
Così posto l' approccio tende a coincidere con la prima fase quella della strategy formation
process.
Anche in questo approccio è inevitabile che gli studiosi ricerchino una regola di
razionalità. Non sarà probabilmente la razionalità dell’homo economicus, sarà una regola di
razionalità comportamentale, ma comunque non potrà non essere adottata una prospettiva di
coerenza e quindi di razionalità tra i fini del soggetto considerato e le azioni da attuare. Ad
esempio se la psicologia ci fa ritenere che sia più facile stimolare il consenso o la partecipazione di uno specifico collaboratore (data la sua età, le sue esigenze di autorealizzazione nel
lavoro, le sue esperienze professionali, ecc.) attraverso una promozione gerarchica piuttosto
che con un premio in danaro, sarà proprio questa la regola suggerita dall'approccio behavioral
science. La differenza rispetto all'approccio management science deriva dal fatto che le teorie
utilizzate si riferiscono ad ambiti scientifici diversi: essenzialmente l'economia (o la matematica-statistica nel caso operations research), da un lato, essenzialmente la psicologia, la
sociologia e la scienza politica, dall'altro. Ma entrambi gli approcci si propongono
11
l'individuazione di una regola di razionalità. La differenza sta nel fatto che, in economia, si
assume l'esistenza di una sola razionalità (eventualmente condizionata da una serie di vincoli),
mentre il contributo delle discipline psicologiche, sociologiche e politiche sta proprio nell'
analizzare i modi di integrazione degli interessi e quindi del consenso e della partecipazione di
soggetti diversi.
Ancora una volta, se si assume che i soggetti possano scegliere il loro comportamento,
ha anche senso interrogarsi su come i rispettivi interessi possano integrarsi o confliggere, e
quando sia conveniente una cosa o l'altra per i vari soggetti. È quindi una ricerca sulla razionalità come quella management science.
In questo senso, non sembri paradossale, l'accusa di razionalismo può essere rivolta
solamente contro un approccio behavioral science in quanto in questo approccio è insito il fatto
che esista una pluralità di razionalità, e quindi una indebita semplificazione delle razionalità in
gioco che porti a considerare come legittimamente tutelabile una sola delle razionalità presenti
configurerebbe una sorta di «razionalismo». Il filone delle Human Relations di Elton Mayo
potrebbe essere accusato di «razionalismo» nel senso che in quella prospettiva si finiva per
assumere come razionale il punto di vista della gerarchia dell'organizzazione, declassando
come arazionali (se non irrazionali) i bisogni dei sottoposti, da soddisfare attraverso una specie
di distribuzione di simpatia umana. Quindi nell'approccio behavioral science una spiegazione
autenticamente scientifica delle dinamiche interpersonali che si svolgono in un gruppo di
lavoro è la condizione necessaria per poter organizzare e guidare l'attività del gruppo. Anzi la
valenza normativa può essere la riprova che una certa teoria positiva è corretta. Solo se i
soggetti non avessero scelta di comportamento avremmo una analisi positiva (ciò che è) senza
potenzialità normativa in quanto non potrebbe essere nulla di diverso da ciò che è.
12.5. La determinazione della strategia
Affrontiamo ora il problema della definizione di una valida strategia per una impresa.
Assumiamo quindi il problema della fase 2, ovvero la definizione della strategy, in un’ottica
prettamente normativa, ed esplicitiamo le condizioni che devono essere soddisfatte affinché un
operatore possa ragionevolmente affermare di aver costruito una strategia per l’impresa
considerata. Questi requisiti sono:
1. una previsione sul probabile andamento futuro dell’ambiente competitivo nel quale
l’impresa esplicherà la propria strategia articolata almeno sinteticamente su piani
diversi riferiti al sistema economico complessivo, alla domanda rilevante per il
settore e all’offerta della quale l’impresa da un lato fa parte, ma che nel contempo
deve fronteggiare;
2. la determinazione degli obiettivi che, data la probabile evoluzione dell’ambiente
competitivo il management dell’impresa pensa sia conveniente assumere;
3. una determinazione delle iniziative che l’impresa ritiene congruo sviluppare in
funzione delle caratterizzazioni presenti nei due punti precedenti e tenuto conto
delle risorse: economiche, umane, organizzative, tecnologiche e finanziarie,
mobilitabili dall’impresa stessa.
4. sottolineiamo che per poter sostenere di aver definito normativamente una strategia
occorre che questa venga esplicitata con un ragionevole dettaglio, idoneo ad
12
eliminare le maggiori ambiguità sulla via da percorrere per l’implementazione della
strategia indicata. Affermazioni come quelle presenti in letteratura che si limitino ad
individuare genericamente l’esigenza di “una crescita della quota di mercato
attraverso il lancio di nuovi prodotti”, ovvero quella di “una espansione della
gamma di prodotti attuali” risultano delle mere dichiarazioni di intento che
potrebbero trovare realizzazione secondo svariate molteplicità operative di
significato, di ampiezza e verosimilmente di risultato estremamente diversificati.
Senza una determinazione sufficientemente analitica dei requisiti indicati avremmo una
determinazione della strategy gravemente carente, priva in sostanza degli elementi necessari
per dare contenuti concreti e non ambigui alle iniziative da adottare. Di conseguenza la
elaborazione di una concreta impostazione strategica, corredata dalla sua valenza normativa,
esclude la possibilità di una estensione delle sue prescrizioni ad altre realtà, dal momento che
perde significato il contenuto del punto 1. sopra riportato. In questo senso l’idea che si possano
elaborare strategie valide per una pluralità di imprese è/o a una pluralità di settori destituita di
ogni fondamento e i contributi che aspirano a questo risultato sono contemporaneamente
generici e velleitari, perché la parte previsionale non esiste o al massimo è appena abbozzata.
Di fronte alla natura empirica e specifica dell’impostazione strategica, riferita cioè ad
una particolare impresa, operante in un particolare settore, in un particolare momento, gli studi
di strategia rappresentano la situazione più evidente della sterilità di una impostazione pseudogeneralizzante ottenuta come l’intersezione degli elementi comuni ad ogni strategia. Questa
ricerca è destinata a produrre solo regole generiche non autenticamente generalizzanti, quanto
occorrerebbe semmai una regola parametrica. Infatti se l’attuazione di questa fase consiste
nella estrinsecazione della struttura delle azioni su cui si ritiene opportuno puntare, una volta
effettuata una previsione dell'andamento futuro delle variabili non condizionabili da parte dell'impresa (ambiente economico, domanda e concorrenza), e analizzata la potenzialità delle
risorse effettivamente mobilitabili, diviene chiaro che, anche assumendo una totale perfezione
nella definizione della strategia per l'impresa, non è possibile dedurne in modo automatico
alcuna estensione generalizzante per altre imprese operanti nello stesso settore o anche per la
stessa impresa colta in un momento diverso. Quindi una teoria strategicamente valida per una
impresa non può essere meccanicamente applicata ad un’altra impresa, sia che essa appartenga
ad un altro settore o allo stesso settore. In quest’ultimo caso questa impossibilità è assolutamente evidente. Dal momento che le due teorie sono nello stesso settore e quindi in
reciproca competizione, ciò che risulta competitivamente efficace per l’una si traduce in un
effetto negativo per l’altra e viceversa. Quindi la stessa strategia non può essere
ragionevolmente applicata. Se lo fosse nuocerebbe ad una delle due e quella che ne ricevesse
uno svantaggio non potrebbe considerarla una strategia corretta. Con riferimento a imprese
appartenenti a diversi settori o alla stessa impresa, ma in momenti diversi una strategia valida
può essere utilizzata come costruzione analogica utile da considerare, ma va giustificata con un
nuovo esame ad hoc, se non altro per il cambiamento che si è prodotto nell’ambiente di
riferimento.
Di fronte a questo problema gli studi a carattere strategico si sono incanalati lungo due
impostazioni diverse. Una prima consiste nella elaborazione di una casistica di possibili
alternative strategiche. Si tratta di individuare un ampio ventaglio di comportamenti ritenuti
corretti in presenza di particolari determinazioni del rapporto impresa-concorrenza-mercato.
Gli esempi piú conosciuti di questo approccio sono relativi alla definizione di:
- strategie di crescita,
13
- strategie di differenziazione,
- strategie di diversificazione,
- strategie di integrazione verticale, ecc.
Eventualmente questo genere di impostazione può essere ulteriormente arricchito attraverso un incrocio con modalità orizzontali del possibile comportamento d'impresa:
- strategie offensive,
- strategie difensive
- strategie collusive, ecc.
Nella sostanza si tratta di individuare una molteplicità di scenari possibili per il settore o
i settori in cui opera l'impresa, scenari che definiscono il complesso delle variabili non
controllabili da una singola impresa, e di dedurne una serie di obiettivi rapportabili alle
possibili posizioni che un'impresa può assumere nella gerarchia concorrenziale, che rappresenta
il modo per avvicinarsi alla caratterizzazione interna dell'impresa (in realtà assai più
complessa). Si tratta di un modo di procedere indubbiamente utile. I limiti di questa
impostazione sono presenti più sul piano operativo che su quello logico e derivano dal fatto che
in questo modo si evita di esplicitare la teoria che sta alla base della definizione dello scenario
e degli specifici comportamenti. L'aspetto descrittivo del rapporto tra impresa e ambiente tende
sistematicamente a sfumare il vero problema strategico che consiste nell’interpretare,
potremmo dire nel decifrare, in modo prospettico il rapporto fra impresa e ambiente. In altre
parole questo approccio tende a elaborare una impostazione basata su una proposizione di
questo genere: se il settore e l'impresa stanno così e così, allora si faccia così e così, ma lascia
in misura completa al responsabile d'impresa la responsabilità di giudicare se la fattispecie
concreta con cui egli si deve misurare abbia o meno i caratteri evidenziati da una delle
situazioni ipotizzate. In sostanza siamo di fronte ad un approccio che evita di misurarsi proprio
con la parte più qualificante e difficile della articolazione di una strategia che consiste proprio
nella determinazione prospettica (previsione) dell’evoluzione dell’ambiente e delle
determinanti del settore: domanda e offerta.
Poiché l'analisi strategica che è possibile sviluppare in un saggio è comunque limitata
per ragioni di spazio, la definizione degli scenari realizzabili è sempre necessariamente incompleta rispetto all'enorme complessità e interdipendenza del reale. Di qui il rischio che in
questa impostazione si finisca per assumere un atteggiamento più o meno consciamente
tautologico, derivante dal fatto che la strategia suggerita non diventa altro che una serie di
sollecitazioni dirette ad “eliminare i punti di debolezza”, a “consolidare i punti di forza”, ad
“essere innovativi”, a “servire più adeguatamente la domanda”, ecc. Mentre tutto il problema
sta nella definizione di una teoria cha sappia esplicitare nel caso concreto quali siano o possano
diventare i veri punti di forza e di debolezza di un'impresa. Infatti se assumiamo nel quadro
descrittivo di partenza che un'impresa, ad esempio, è tecnologicamente “troppo debole” per
resistere sul mercato, è evidente che se ne deve dedurre (tautologicamente) che ad essa restano
due sole alternative: rimediare a questa carenza o abbandonare il settore al più presto possibile
per ridurre i danni. Mentre ciò che servirebbe è una teoria della evoluzione tecnologica del
settore che dica se, e a quali condizioni, l'impresa può o meno competere tecnologicamente sul
mercato.
Riassumendo, l'approccio per esemplificazione delle strategie esercita certamente una
funzione euristica e didattica utile, ma talvolta può risultare anche fuorviante perché tende ad
14
offuscare il vero problema strategico (lettura prospettica della complessità) a favore della
sottolineatura della coerenza fra obiettivo strategico e comportamento dell'impresa, finendo
quindi per gravitare su questioni più di pianificazione che di problem solving strategico.
Il secondo approccio, elaborato prevalentemente da società di consulenza, tende invece
ad affrontare in modo più ambizioso il problema strategico, in quanto focalizza in misura molto
piú accentuata l'aspetto interpretativo e decisionale. In questa sede è possibile indicare solo in
forma molto sintetica l'impostazione in oggetto, focalizzando l'attenzione sulle parti essenziali
dell'approccio. Un esempio di questa metodologia è dato dalla estrema semplificazione di tutto
il quadro competitivo del settore in due variabili rappresentative rispettivamente del:
a. grado di attrattività di un certo mercato,
b. posizionamento competitivo dell'impresa.
L'incrocio di queste due variabili, suddivise in gradi di intensità diversa, costituisce una
matrice di situazioni o scenari a ciascuno dei quali viene associato il comportamento ritenuto
economicamente piú corretto 20 .
Vediamo innanzitutto quali sono i pregi di una impostazione del genere. Innanzitutto essa sottolinea correttamente il fatto che la elaborazione di una strategia passa necessariamente
attraverso una analisi e una previsione dell'ambiente economico in cui opera l'impresa, vale a
dire della domanda e del settore (caratterizzazione della concorrenza), in quanto l'attrattività del
settore è rappresentata dal tasso di espansione della domanda, e il posizionamento competitivo
dell'impresa svolge invece il ruolo di variabile proxy della strutturazione concorrenziale.
Il secondo aspetto positivo è dato dal fatto che la individuazione degli stadi prospettici
di riferimento è effettuata in base a due teorie empiriche, per quanto assai semplificate, relative
appunto a orientare il significato evolutivo associato alla domanda e all’offerta. La prima teoria
empirica è rappresentata dal ciclo di vita del prodotto, la seconda dalla curva di apprendimento. Il pregio dell'impostazione non sta nella scelta di queste due particolari teorie, che
sono invece da considerarsi inidonee alla funzione loro assegnata 21 , ma al fatto che si usino
delle teorie empiriche, che, in quanto tali, possono essere vere o false in relazione ad una
situazione concreta.
Il punto debole di questa impostazione sta invece nel fatto che le teorie empiriche che si
sono assunte vengono utilizzate in modo da fornire un risultato tautologico, già tutto compreso
nelle ipotesi empiriche di partenza. In sostanza a noi pare che la sequela di critiche che sono
state rivolte agli schemi del tipo qui indicato, anche se condivisibili 22 , non mettono in
sufficiente risalto che la questione principale è rappresentata dalla tautologia delle soluzioni
proposte, per cui le matrici di portafoglio, anche se potenzialmente assai utili, corrono il rischio
di diventare fuorvianti. Sostenere che la matrice prodotto/mercato dà una rappresentazione
semplificata della complessità delle situazioni in cui si trova ad operare l'impresa, è
un'affermazione certamente vera, ma richiede di essere associata alla presentazione di uno
strumento interpretativo piú potente, capace di controllare operativamente un quadro
20
Per una descrizione della struttura dei modelli basati sulla matrice di portafoglio ed elaborati da società di
consulenza si vedano Henderson [1970], Wright [s.d.]; A.D. Little Inc. [1981]; Wind e Mahajan [1981].
21
Per una valutazione del corretto significato del ciclo di vita del prodotto e per la critica verso un uso di questo
concetto in chiave revisionale rimandiamo alle osservazioni già fatte nel capitolo dedicato all’analisi della
domanda e al saggio Stecchetti e Volpato (2007). Invece sui limiti della curva di esperienza che privilegia la
competitività sulla produzione ripetitiva anziché sulla produzione innovativa si veda Abernathy e Wayne [1974].
22
Si vedano in proposito: Abell e Hammond [1979], Porter [1980], Faccipieri [1982], Zan [1985].
15
concettuale piú articolato e complesso. Ogni teoria è una semplificazione della infinita
complessità di una situazione concreta, ma una teoria può essere giudicata superiore ad un'altra
solo se funziona, in generale, altrettanto bene della prima e meglio in almeno in un caso.
La critica di tautologia vuole invece mettere in luce che la matrice di portafoglio, basata
sull'uso del ciclo di vita del prodotto e sulla curva di esperienza, è inaccettabile non perché può
sbagliare (come sarebbe per le critiche di incompletezza e di semplificazione), ma al contrario
perché essa non può sbagliare mai. Date le ipotesi di partenza, la soluzione fornita dalla
matrice è sempre vera; semmai ha sbagliato chi, utilizzando questo strumento, ha valutato il
grado di attrattività del mercato o il comportamento competitivo dell'impresa in modo difforme
da quanto effettivamente emerso.
Ed è proprio l'impossibilità della sua falsificazione a far emergere il significato
puramente formale e convenzionale delle impostazioni tradizionalmente usate nella matrice
prodotto/mercato. Tuttavia l'utilità della matrice può essere recuperata a patto di riformulare le
teorie empiriche da utilizzare, come si cercherà di mostrare successivamente. Il vizio di
tautologia è particolarmente evidente non appena si consideri che la valutazione prospettica
della domanda viene resa attraverso il concetto di attrattività del mercato. Ma l'attrattività del
mercato per un'impresa si misura in termini di profittabilità potenziale. L'inserimento in un
mercato (o la permanenza in esso) può essere giudicato conveniente se ne deriva una adeguata
remunerazione dell'investimento. A questo punto la scelta strategica perde ogni referente
empirico e diventa una regoletta puramente formale. È evidente che se un mercato è altamente
attrattivo l'impresa non potrà che concentrarvi i suoi sforzi di investimento. Che senso avrebbe
preferivi un settore non attrattivo?
In buona sostanza, alla domanda: quale strategia scegliere la matrice BCG risponde:
quella più conveniente. Una indicazione sulla cui banalità non è certamente il caso di insistere.
È evidente che se nelle stesse ipotesi di partenza si presuppone di sapere quali siano i prodotti
di successo, tradizionalmente chiamati star, e quali quelli pericolosi (dog), tutta la complessità
dell'analisi previsionale, della valutazione dei comportamenti della concorrenza, della rispondenza del mercato ecc. diventa una questione risolta, in quanto già inserita (surrettiziamente)
nella definizione di prodotto star o di prodotto dog. Invece una strategia vincente è quella che,
provenendo da una analisi dell'evoluzione della domanda, della struttura concorrenziale del settore e delle risorse interne specifiche dell'impresa considerata, è capace di cogliere e motivare
dei segnali precoci (early signals) che indicano che un prodotto da tutti ritenuto dog ha la
potenzialità di divenire una star grazie ad alcune mosse opportune, o che, viceversa, un prodotto che tutti giudicano star va abbandonato anticipatamente perché, ad esempio, attorno ad
esso si svilupperà una fortissima concorrenza imitativa.
12.6. Il ciclo di trasformazione del settore
All'interno degli studi di economia, e delle scienze sociali in genere, in cui l'oggetto di
studio appare altamente differenziato su una molteplicità di situazioni empiriche, una teoria che
volesse essere di applicabilità assolutamente universale avrebbe di fronte due alternative possibili. Una prima consiste nell'assiomatizzare l'universo che si intende analizzare. In termini semplificati ciò significa che, invece di verificare l'applicabilità di una certa teoria all'universo dei
casi possibili, si inverte il procedimento, definendo l'universo in funzione della teoria che si ritiene di utilizzare. Teoria ed universo dei casi «possibili» (ma dovremmo dire «ammessi»),
sono quindi in sintonia in quanto legati da relazioni puramente logiche. Questa procedura è
16
perfettamente accettabile per delle scienze formali, ma non per quelle empiriche, in cui
l'universo dei casi pre-esiste in tutta la sua oggettività.
La seconda possibilità di realizzare una teoria universale è data dalla formulazione di
tipo "parametrico", in modo da stabilire una relazione con tutti i possibili stati assumibili
dall'universo di relazioni indagate. Se, ad esempio, assumiamo una teoria del moto che non sia
valida esclusivamente nel vuoto ma in ogni possibile situazione, dovremmo disporre di una
legge che oltre a tener conto della forza applicata ad un oggetto e alla sua massa, assuma nella
propria formulazione anche gli infiniti effetti potenzialmente influenzanti il moto stesso
(densità del fluido in cui avviene il moto, interferenze prodotte dal vento, effetto della
gravitazione universale, elettromagnetismo, ecc.). Ben si comprende come si tratti di un
compito proibitivo anche per la sola selezione dei fenomeni capaci di influenzare il moto. Di
fatto non esistono leggi empiriche universalmente valide 23 , che comunque sarebbero di enorme
complessità. Quanto piú una legge è generale, cioè estendibile ad una pluralità di situazioni, e
tanto piú essa è complessa per poter tener conto di queste nelle loro diverse determinazioni. In
questo senso le cosiddette generalizzazioni che vengono fatte nelle scienze empiriche in realtà
sono delle astrazioni perché semplificano il reale selezionando solo alcuni dei caratteri di una
situazione. In questo modo si realizza un trade-off: si guadagna in una certa forma di
generalità, ma tutta all'interno delle ipotesi semplificatrici di partenza. Ritornando al caso del
moto, l'ipotesi dello spazio vuoto consente di generalizzare la relazione tra forza e massa,
esprimibile con una funzione biunivoca, ma ne limita il campo di applicabilità.
Anche negli studi di strategia la strada da battere, se si vuol puntare verso una teoria che
tenti di fornire una interpretazione e una previsione, richiede una astrazione. La validità di una
impostazione strategica è misurata dalla validità empirica delle teorie che vi stanno alla base, e
che sono ragionevolmente accettabili solo in un ambito storicamente definito. Al mutare della
situazione esaminata deve mutare anche il modello interpretativo utilizzato come criterio
decisionale. L'approccio che si vuole proporre ai fini di mettere a punto una impostazione
empiricamente coerente di definizione delle strategie d'impresa, è indicato come ciclo di
trasformazione del settore. Esso si basa inevitabilmente su numerose semplificazioni, ma non
fino al punto di trasformarsi in mera tautologia. Da un lato esso presenta un aspetto
metodologico 24 che può essere esteso, con opportuni aggiustamenti, ad una pluralità di situazioni. Dall'altro, il ciclo di trasformazione del settore, per tradursi in un efficace strumento
operativo, richiede una realizzazione su misura rispetto alla realtà indagata 25 .
La metodologia proposta per la costruzione di un ciclo di trasformazione settoriale richiede che si individui una successione di stati con cui caratterizzare l'evolvere della domanda
e dell'offerta nel tempo. Dal punto di vista formale si tratta di identificare una serie di situazioni
della domanda e dell'offerta, denominati “stati” sufficientemente chiare dal punto di vista
operazionale da utilizzare per scandire l’evolvere della situazione del settore nel tempo. Dal
punto di vista empirico si tratta di elaborare una teoria che, basandosi sui meccanismi di
23
Come è noto le cosiddette leggi universali del positivismo ottocentesco si sono rivelate delle leggi particolari
all'analisi scientifica successiva. Basti pensare alla legge di gravitazione universale di Newton, dimostratasi un
caso particolare della teoria della relatività di Einstein, a sua volta caso particolare di teorie ancora piú potenti.
24
Inutile sottolineare che l’estendibilità riguarda solo il metodo e non i contenuti empirici della previsione e della
strategia che restano inevitabilmente unici e determinati sulla base delle specificità della triade: domanda, offerta
(e quindi anche concorrenza) e impresa considerata.
25
Per una piú ampia e motivata esposizione del concetto del ciclo di trasformazione del settore, con una
applicazione all'industria dello scarpone da sci, si veda Volpato (1980 e 2008).
17
convenienza economica che influenzano il passaggio da uno stato all'altro, consentono di dar
forma a una previsione sull’evoluzione del complesso settoriale. La composizione in forma di
matrice 26 di queste due successioni di stati di domanda e offerta identifica un reticolo di
posizioni su cui possono trovare collocazione le strategie delle imprese operanti nel settore.
L'analisi abbinata delle variabili che guidano i passaggi di stato, per domanda e offerta, devono
consentire una co-determinazione, sia pure approssimata, dei tempi nei quali i diversi cambiamenti di stato dovrebbero manifestarsi, tenendo conto delle situazioni economiche generali e
delle strategie poste in atto dalle imprese fino a quel momento.
Prima però di passare ad una esemplificazione dell'applicazione del ciclo di
trasformazione del settore, è opportuno evitare alcuni possibili fraintendimenti. Innanzitutto va
detto che l'area economica all'interno della quale si vuole pervenire ad una definizione
dell'agire strategico conveniente per l’impresa considerata è costituita dal settore (o industria).
Ciò significa che il settore non va accolto come una concezione statica, cristallizzata una volta
per tutte. Invece la demarcazione dei confini del settore deriva dall'ampiezza dell'orizzonte
temporale che l'ottica strategica suggerisce di assumere. Se prendessimo in considerazione
un'ottica di brevissimo periodo, allora il settore potrebbe essere ragionevolmente assunto come
un dato, in quanto esso è costituito dalla domanda che in quel momento si rivolge al prodotto
considerato e dall'offerta che in quello stesso momento lo produce. Ma se dilatiamo l'orizzonte
di definizione della strategia, i confini di settore divengono un elemento variabile del problema.
Quanto piú è ampio il periodo considerato e tanto piú aumenta la possibilità di profonde modificazioni nei contorni della domanda e dell'offerta.
In secondo luogo, il parlare di una strategia e di una trasformazione di tipo settoriale
non implica trascurare la natura diversificata molte volte presente nell'impresa, né tantomeno
negarla. Il ciclo di trasformazione del settore va composto tenendo conto di tutte le variabili
strutturali del settore: concentrazione, differenziazione, diversificazione, ecc. Pertanto una
impresa multi-prodotto dovrà definire, innanzitutto, una serie di strategie provvisorie. Una per
ogni settore di intervento, provvedendo poi ad integrarle in un disegno unitario che ne assicuri
la reciproca integrazione e compatibilità. La strategia finale complessiva non sarà mai la
semplice sommatoria delle strategie provvisorie relative a ciascun singolo settore, sia per
l'esistenza di sinergie fra i possibili interventi settoriali, sia per i vincoli finanziari agli
investimenti. Pertanto lo schema del ciclo di trasformazione del settore riferito ad una impresa
diversificata, va visto come un primo passo necessario ma non definitivo, nel senso che
l'impostazione dovrà poi ulteriormente allargarsi ad una sintesi multisettoriale.
In terzo luogo, la denominazione non deve far presupporre qualcosa di analogo a un ciclo di vita. Più che nascere e morire, un settore, e con esso le imprese che lo compongono, si
trasforma: ampliando e riducendo i propri confini, modificando il grado di concentrazione, di
differenziazione, di integrazione verticale, mutando tecnologia, variando la qualità e la quantità
26
Ovviamente è appena il caso di ricordare che la costruzione di una "matrice" non rappresenta un aspetto
sostanziale del modello. Si tratta di una semplificazione dettata da ragioni di facilità esplicativa e di
rappresentazione del metodo proposto nella forma di un diagramma cartesiano. Nella costruzione di una strategia
reale nulla vieta, ed anzi sarebbe auspicabile di assumere una matrice costruita su tante dimensioni quanti sono i
fenomeni considerati particolarmente rilevanti per la dinamica competitiva del settore. Ad esempio se
nell’orizzonte economico considerato le scelte esercitate dalla Pubblica Amministrazione venissero ritenute
cruciali nell’orientare il comportamento delle imprese e quindi nel decretare il successo di questa o di quella
strategia si dovrebbe certamente passare ad uno schema tridimensionale nel quale, oltre ai due assi della domanda
e dell’offerta, dovrebbe essere articolato anche i possibili comportamenti alternativi della Pubblica
Amministrazione.
18
dei consumatori interessati. Lo sforzo a cui tende la realizzazione di un modello del ciclo di trasformazione del settore è l'identificazione della ratio che guida questa trasformazione
all'interno di un dato orizzonte temporale, per effetto delle caratteristiche strutturali della
concorrenza e per l'interagire dei soggetti operanti nel settore, ciascuno dei quali tende a
perseguire un proprio disegno di convenienza economica.
Infine va specificato che l'assunzione del settore come scenario dell'azione strategica
dell'impresa non comporta la cancellazione dei fenomeni considerati esterni al settore quali le
componenti politiche, sociali, sindacali, ecc. Le variabili generali dell'ambiente possono essere
fatte giocare attraverso il loro effetto sulle variabili che definiscono il comportamento della domanda e dell'offerta, considerate in senso globale, e delle singole imprese. Non si vuol negare
che questo modo di procedere non costituisca una semplificazione, ma solo ribadire che per
tener conto in modo diretto, senza alcuna mediazione, del gioco complessivo delle componenti
socio-istituzionali, bisognerebbe allargare enormemente l'area della co-determinazione simultanea della dinamica settoriale. Sarebbe molto facile dichiarare che l'analisi e la definizione
del progetto strategico deve tener conto delle influenze di tutto lo scenario ambientale. Ma il
fatto è che non sono disponibili né teorie interpretative adeguate, né informazioni sufficienti
per affrontare in forma analitica un simile compito. La riduzione della problematica alla dimensione settoriale rappresenta una delle possibili modalità semplificatrici, vale a dire
l’opzione che a nostro avviso meglio si giustifica, nonché il prezzo da pagare per poter
procedere verso una strutturazione non generica della dinamica del rapporto impresa-ambiente.
12.7. Stati caratteristici della domanda
L'analisi dell'evolvere della domanda di una serie di beni di consumo ha mostrato il succedersi sistematico di situazioni o stati abbastanza bene individuati. Il primo passo, quindi, va
fatto nella direzione della scelta delle variabili con cui operazionalizzare tali stati e la loro trasformazione nel tempo. Va da sé che tale operazione deve essere fatta in modo specifico per
ciascun settore. Per ragioni di semplicità esemplificativa, in questa sede appare opportuno
assumere solo due variabili di significato piuttosto generale. Una prima variabile, che per
comodità chiamiamo quantitativa, definisce il grado di diffusione del consumo del prodotto nei
confronti della domanda complessiva potenziale. Questa variabile avrà un valore minimo
qualora la domanda effettiva sia espressa da un consumo elitario, cioè relativo ad un numero
assai ristretto di consumatori, per evolvere poi verso forme di consumo allargato come il
consumo di massa, il consumo segmentato di massa ed eventuali altri stati successivi.
La seconda variabile, orientata a tener conto di un aspetto più qualitativo del mercato,
dà la misura del grado di segmentazione che caratterizza la domanda. Possiamo quindi individuare un consumo omogeneo quando la domanda non presenta eterogeneità nel comportamento
d'acquisto da indurre un'offerta di prodotti differenziati per età, sesso, reddito, modelli culturali
di riferimento, ecc. Al polo opposto di questa variabile troviamo un consumo segmentato, in
cui esiste una forte caratterizzazione del prodotto in funzione dei desideri di ben individuate
classi di consumatori. Si tratta di uno schema ovviamente molto semplificato in quanto pensato
con riferimento ad un ampio ventaglio di beni. Il riferimento ad un prodotto specifico
consentirebbe una caratterizzazione assai piú puntuale come saremo in grado di fare nel
successivo esempio dedicato al settore automobilistico.
19
Se per semplicità assumiamo una dimensione dicotomica delle due variabili, la struttura
della domanda può assumere nel tempo quattro stati differenti dati dall'incrocio delle due variabili evidenziate.
1. Consumo elitario omogeneo: il prodotto si rivolge ad una porzione assai ristretta
della domanda potenziale complessiva, selezionata in funzione del reddito
spendibile per quel particolare tipo di bene.
2. Consumo di massa omogeneo: il prodotto non presenta particolari caratterizzazioni
ed è offerto ad un prezzo che, tenuto conto dell'utilità che i consumatori
attribuiscono al bene (o servizio), assicura un consumo decisamente allargato, ma
tale da non saturare completamente la domanda potenziale per il modesto conto in
cui si tengono le differenti esigenze dei consumatori.
3. Consumo elitario segmentato: il prodotto si presenta caratterizzato in funzione di
una pluralità di esigenze diverse, ma il rapporto prezzo/utilità è tale da consentire un
consumo comunque limitato.
4. Consumo di massa segmentato: può essere assunto come uno stadio di maturità del
consumo del particolare bene considerato, dal momento che l'offerta ha esperito le
possibili forme di differenziazione del prodotto e le potenzialità della domanda appaiono (in assenza di ulteriori innovazioni) pressoché completamente saturate.
L'aspetto caratteristico della teoria che si vuole proporre deriva dalla tesi che esistono
forze, originate dal confronto concorrenziale, che spingono l'offerta ad occupare progressivamente le aree della domanda, iniziando da quelle piú promettenti sotto il profilo reddituale, per
arrivare fino ad una situazione di consumo di massa segmentato, che rappresenta un
temporaneo stadio di maturità del mercato. Va detto chiaramente, però, che il concreto
succedersi degli stati assunti dalla domanda può essere correttamente ipotizzato solo tenendo
conto del simultaneo strutturarsi dell'offerta. E ben vero che il consumo elitario omogeneo
rappresenta solitamente lo stato iniziale di un settore, mentre il consumo di massa segmentato
significa generalmente un assestamento della struttura della domanda. Tuttavia si deve tener
conto di due aspetti. Da un lato anche la domanda di massa segmentata può essere
ulteriormente articolata in stadi successivi, come vedremo nell’ipotesi della
multimotorizzazione applicata al settore automobilistico. Dall’altro esistono modificazioni
nella struttura dell'offerta che possono rimettere in moto un nuovo ciclo di trasformazione delle
fasi della domanda o alterarne la successione più probabile. Ad esempio, qualora un'impresa
operante in un settore al momento caratterizzato da una domanda segmentata di massa, metta a
punto una nuova tecnologia produttiva particolarmente economica rispetto alle precedenti, può
configurarsi la convenienza per l'impresa innovativa a premere con una penetrazione
indifferenziata a basso costo del suo prodotto. Pertanto l’azione dell’impresa innovatrice può
configurare un ritorno alla domanda massificata. Sarà poi il diffondersi della nuova tecnologia,
e le contro-strategie delle imprese concorrenti, ad operare verso una situazione di assestamento
attraverso una successiva segmentazione del mercato. Ovviamente si tratta di un assestamento
che solo apparentemente riproduce la situazione antecedente, dal momento che il nuovo
assetto, peraltro precario, si realizza sulla base di una nuova tecnologia e di una diversa
posizione relativa delle imprese concorrenti (nuova configurazione delle variabili strutturali del
settore). Il ciclo di trasformazione può essere rappresentato in senso figurato, come un
succedersi di stati disposti a spirale, dal momento che abbiamo un recupero di situazioni
precedenti, che vanno però a collocarsi in uno scenario ambientale e settoriale diverso. Si tratta
20
di un aspetto caratteristico e rilevante del modello del ciclo di trasformazione su cui avremo
modo di ritornare anche a proposito dell'evoluzione degli stati dell'offerta.
12.8. Stati caratteristici dell'offerta
Uno degli aspetti peculiari dell'approccio strategico che si vuole proporre sottolinea
l'esigenza di una caratterizzazione degli stati della domanda e dell'offerta che sia in grado di
evidenziare a fini analitico-previsivi, le specificità del settore; un corpo relativamente solido,
che pur consentendo trasformazioni e perfino momenti di parziale discontinuità, conservi
comunque uno spessore oggettivo che rende non ugualmente probabili le diverse trasformazioni astrattamente ipotizzabili, e pertanto la successione degli stati rappresenta un
importante ed efficace supporto alla previsione.
Nel precedente paragrafo la ripartizione della struttura del consumo in quattro stadi rappresenta un modello che, seppur generico, appare applicabile altrettanto bene in una pluralità di
settori. Probabilmente nell'ambito dei beni di consumo l'elaborazione di un ciclo di stati
caratteristici per ciascuna delle usuali categorie: convenience, shopping e specialty goods,
potrebbe rappresentare un apprezzabile affinamento, ulteriormente specificabile con l'incrocio
di questa classificazione con una ripartizione di tipo funzionale: beni alimentari, beni di abbigliamento, beni di arredamento, beni per il tempo libero, ecc.
Invece per quanto attiene alla definizione degli stati caratteristici dell'offerta, il compito
appare piú delicato e complesso. Non solo il numero di variabili di cui è necessario tener conto
è piú numeroso: struttura concorrenziale, struttura tecnologica, struttura produttiva, struttura distributiva, ecc., ma all'interno di ciascun tipo di struttura può essere presente una varietà di fenomeni qualitativamente diversi. Questa asimmetria è facilmente comprensibile se si pensa che
il grado di compattabilità in classi sostanzialmente omogenee dei consumatori è ben più ampia
di quella dei produttori. Del resto in piú occasioni si è avuto modo di richiamare l'attenzione
sulla strutturale multidimensionalità dell'offerta. Ciò significa che una rappresentazione più
adeguata richiederebbe, anziché una matrice bidimensionale degli stati, uno spazio
multidimensionale dato dalle molteplici combinazioni dei diversi elementi componenti un certo
assetto dell'offerta. Ma in questa sede si tratterebbe di una complicazione che poco aggiungerebbe alla comprensione delle linee generali dell'impostazione proposta. Altrove si è
cercato di dare una rappresentazione semplificata, ma ugualmente espressiva dell'offerta,
attraverso la caratterizzazione del grado di sofisticazione tecnologica dell'offerta nel tempo 27 ,
in quanto essa sembrava la più pertinente ad esplicitare le particolari vicende che hanno
caratterizzato il settore di studio rappresentato dall'industria degli scarponi da sci.
27
Cfr. Volpato [1980]
21
Figura 12.1 – Matrice Domanda/Offerta
Stati della Domanda
SDp
S6
SDm
S3
S7
S4
S2
S5
SDc
SDb
S1
SDa
SOa SOb SOc
SOn
SOt
Stati dell’Offerta
La successione degli stati SDm
SDn e SOm
SOn
indicano la trasformazione nella struttura Domanda/Offerta
del settore che, si ritiene, debbano avvenire nell’orizzonte
S7 indica il
temporale considerato. Il percorso S1
percorso strategico di una o più imprese presenti nel settore
In questa sede si utilizzeranno variabili diverse in quanto riferite ad un settore,
l'industria automobilistica, colto in tre fasi storiche contigue del suo sviluppo: dall'inizio del
secolo al 1940, dal 1950 al 1990 e dal 1990 al 2010. Nel primo periodo la determinazione
strategica riguarda il mercato di un solo particolare paese: gli Stati Uniti d'America. Nel
secondo, data l’evoluzione dell’ambiente economico, il mercato di riferimento è rappresentato
dai paesi altamente industrializzati: Nordamerica, Europa Occidentale e Giappone, nel terzo
data la natura globale del confronto competitivo il riferimento è a scala planetaria. La scelta del
settore e dei periodi, oltre ad essere motivata dai particolari interessi di ricerca di chi scrive,
appare anche giustificata dal fatto di poter fare riferimento ad una realtà storica generalmente
abbastanza conosciuta nelle sue linee fondamentali, anche da i non addetti ai lavori, per il
profondo impatto che i fatti in questione hanno avuto tanto sul sistema industriale internazionale che sulla cultura manageriale (fordismo).
22
Va naturalmente precisato che la combinazione delle variabili di caratterizzazione
dell'offerta, basata sul grado di industrializzazione del processo produttivo, sul tipo di organizzazione distributiva e sul ritmo di innovazione dei prodotti, come precedentemente suggerito a
proposito della costruzione degli stati della domanda, darebbe luogo a un numero ipotetico di
stati molto numerosi. Qui si è preferito indicare solo gli stati piú importanti tralasciando sia
quelli secondari sia quelli vuoti 28 . Inoltre il fatto che in questa esemplificazione si siano scelti
periodi temporalmente assai lunghi, nel primo addirittura 40 anni non sta ad indicare che
l’analisi strategica e la formulazione della strategia debba avvenire su un orizzonte di questo
tipo. L’orizzonte deve essere definito sulla base della specificità del settore. In questo caso si è
scelto un periodo assai lungo solo perché ciò consentiva di rendere evidenti i passaggi evolutivi
del settore e consentiva una più agevole comprensione della metodologia proposta.
12.9. Una esemplificazione sull'industria automobilistica
Sulla traccia di quanto proposto precedentemente, gli stati attraversati dalla domanda
automobilistica americana nel periodo dal 1900 al 1940 appaiono come una combinazione delle
due variabili: saturazione del mercato e segmentazione della domanda. Tuttavia si è preferito
articolare ulteriormente lo stato del consumo di massa segmentato suddividendolo in due specificazioni distinte. Allo scopo di tener conto della natura di bene durevole dell'automobile, il
consumo di massa segmentato si presenta in un primo momento con una domanda prevalente di
acquisti di prima dotazione e in un secondo momento con una domanda prevalente di acquisti
di sostituzione. Nel complesso gli stati individuati a scopo esemplificativo sono i seguenti 29 .
Consumo elitario omogeneo (circa 1900): L'automobile è un prodotto molto costoso,
relativamente al reddito medio pro-capite, e quindi solo un'élite può accedere a questo genere
di consumo, mentre le vetture, pur se diverse l'una dall'altra, risultano assai poco differenziate
sul piano tecnico. Non a caso le aziende costruttrici americane, soprattutto in quella fase,
svolgono essenzialmente un lavoro di assemblaggio di parti acquistate all'esterno 30 .
Consumo elitario segmentato (circa 1905): Pur mantenendosi la natura elitaria del consumo, si manifesta una notevole dilatazione della concorrenza non solo tra marche nazionali,
ma anche per effetto delle case europee che alimentano un certo flusso di esportazioni negli
Stati Uniti. Il consumo appare quindi differenziato, anche se ciò corrisponde piú ad una
caratterizzazione tecnologica dei diversi progettisti (ognuno dei quali tenta personali soluzioni
ai problemi meccanici) che a una strategia delle imprese in senso proprio.
28
Come si è già avuto modo di sottolineare, l'assetto di una industria può essere descritto da uno spazio n
dimensionale, in cui ciascuno degli n assi è dato da una particolare graduazione delle caratteristiche strutturali del
settore: concentrazione, differenziazione, integrazione verticale, ecc. Se ciascun asse viene suddiviso per motivi di
semplicità in m segmenti, risultano individuati m per n spazi di intersezione, che possono essere considerati il
totale degli stati attraverso cui l'offerta ha la possibilità ipotetica di passare. Uno stato vuoto corrisponde ad una
particolare caratterizzazione settoriale che non si è verificata (se si assume una prospettiva storica) o che non si
ritiene probabile si manifesti (in una prospettiva previsionale).
29
Per una ricostruzione dei principali aspetti evolutivi dell'industria automobilistica americana e internazionale si
veda Volpato [1983a].
30
Su questi aspetti si veda in particolare Volpato [1986a e 1986b].
23
Consumo di massa omogeneo (circa 1912): Il passaggio al consumo di massa è reso
possibile da una profonda riorganizzazione tecnico-produttiva operata soprattutto dalla Ford.
La conseguente politica di prezzi molto contenuti avvierà un consumo enormemente diffuso e
largamente concentrato sull'unico modello “T” fornito dalla Ford.
Consumo di massa segmentato con prevalenza di acquisto di prima dotazione (circa
1920): Durante i “ruggenti” anni venti la dilatazione del reddito spendibile reintroduce una preferenza per l'acquisto di tipo differenziato. È la fase in cui la General Motors comincia a
recuperare notevolmente sulla Ford in forza della disponibilità di una gamma di prodotti adatta
a cogliere le esigenze di un pubblico dai gusti sempre più variegati.
Consumo di massa segmentato con prevalenza di acquisto di sostituzione (circa
1935): Il superamento della grande depressione registrata alla fine degli anni venti completa la
diffusione di massa dell'automobile e fa prevalere gli acquisti di rinnovo. Ormai negli Stati
Uniti gli acquisti di prima dotazione derivano esclusivamente da un fatto demografico (nuove
generazioni). Comunque anche i giovani hanno una esperienza automobilistica derivante
dall'uso della vettura acquistata dai genitori.
Per quanto riguarda l'offerta, gli stati derivano da un processo di trasformazione del settore che viene evidenziato sia sul piano tecnologico-produttivo, rappresentato dal passaggio da
una produzione organizzata su base artigianale a una industriale. Ciò ha comportato un
passaggio da processo intermittente a processo continuo e l’acquisizione di economie di scala
sia in ambito manifatturiero che in quello commerciale. La discontinuità rappresentata dal
passaggio ad un piano di manufacturing prettamente industriale ha trascinato a sua volte un
ampio ventaglio di trasformazioni a valle a cominciare dallo sviluppo di una speciale rete
distributiva (dealers) che retroagisce verso la casa costruttrice attraverso sviluppo di una
gamma di modelli rivolta ad un mercato sempre piú segmentato e l'accelerazione del ritmo di
rinnovo dei modelli anche in forme intermedie (pratica del model year, del restyling e del
lifting) rispetto a quelle più impegnative di lancio di nuovi modelli sostanzialmente innovativi
rispetti a quelli ai quali subentravano .
In complesso emergono i seguenti cinque stati:
Produzione con criteri artigianali (circa 1900): La produzione di autovetture riguarda
prevalentemente le operazioni di montaggio, mentre la maggior parte di componenti, anche se
diversi da impresa a impresa, vengono realizzati su commessa da aziende meccaniche esterne.
Il prodotto, anche se intrinsecamente differenziato da casa a casa non solo per impostazione
tecnica, ma anche per livello qualitativo, non presenta una immagine altrettanto articolata sul
piano commerciale, in ragione del fatto che la clientela non è in grado di valutare adeguatamente (prima dell'acquisto) le caratteristiche del prodotto. Inoltre la carrozzeria, che da
sempre rappresenta uno degli elementi di maggior distinzione delle autovetture, viene
realizzata a parte da aziende specializzate sulla base delle esigenze dell'acquirente
dell’acquirente finale. In proposito è assai diffusa la pratica di una vendita da parte della casa
costruttrice di una vettura priva della carrozzeria (motore più telaio) che l’acquirente finale trasferire a un proprio carrozziere di fiducia per il completamento.
Produzione di serie e sviluppo di una rete commerciale (circa 1910): L'espansione
quantitativa del mercato e l'affinamento delle tecniche di produzione (normalizzazione dei
materiali e dei componenti) spinge le imprese verso produzioni di serie, che però sono ancora
organizzate per reparto. Si sviluppa inoltre la rete commerciale che tuttavia non è controllata
dalle case costruttrici, ma prevalentemente da grossisti (distributors) non specializzati, già
molto attivi nella commercializzazione di beni durevoli di consumo (biciclette, macchine da
cucire, mobilio, ecc.) e di beni industriali (soprattutto macchinario per l'agricoltura).
24
Produzione di grande serie a modello unico standardizzato con rete di commercializzazione esclusiva (circa 1915): Questo stato viene raggiunto con notevole anticipo sulla
concorrenza da una sola casa, la Ford. Il suo successo è così grande da elevare una solida
barriera all'entrata che impedisce casi di imitazione molto stretti. L'elevatissimo volume di
produzione concentrato su un solo modello (Ford T) consente costi di produzione così bassi e
una produzione commerciale così ampia da bloccare le possibilità di imitazione. Parallelamente
la Ford inizia un processo di verticalizzazione molto accentuata, l’organizzazione della vendita
attraverso concessionari esclusivisti (dealers) e la progressiva eliminazione dei distributors. Le
altre case costruttrici, specie le piú importanti (come la General Motors, la Maxwell, la
Packard, la Studebaker), seguiranno l'esempio Ford, ma con notevole ritardo.
Produzione di grande serie per modelli differenziati (circa 1920): Il tentativo di controbattere l'offensiva di Ford, si basata in modo esclusivo sul modello unico riproposto senza
variazioni ma a prezzi decrescenti, spinge le altre imprese concorrenti e la General Motors
soprattutto a differenziare la propria posizione con un'ampia gamma di prodotti, capaci di
soddisfare le esigenze di una domanda in via di progressiva specializzazione: ormai l'uso
dell'automobile in città presenta modalità di impiego profondamente diverse da quelle presenti
in campagna, come ad esempio l’asfaltatura delle strade. In questo stadio risultano evidenti le
differenze di strategia delle imprese piú importanti. Ad esempio la Chrysler (ex Maxwell)
effettua il proprio rilancio attraverso un prodotto tecnologicamente sofisticato, che si rivolge ad
una nicchia di mercato decisamente specializzata. In questa fase abbiamo anche un notevole
sfoltimento fra le case costruttrici. Alcune, che in precedenza non avevano potuto accedere alla
produzione di grande serie e alla rete commerciale esclusiva, tentano di rafforzarsi attraverso
fusioni, altre usciranno definitivamente dal mercato al manifestarsi della grande depressione
del 1929.
Produzione di grande serie per modelli differenziati a ciclo di vita corto (circa 1935):
L'allargamento della domanda di automobili fa emergere progressivamente le disomogeneità
latenti in un mercato così ampio come quello americano. Basti pensare alle differenze di clima
tra stati del nord e stati del sud e a quelle di assetto stradale tra gli stati dell’este e quelli
dell’ovest. Ciò decreta il tramonto dell'impostazione fordista a favore di quella della General
Motors. Ma il passaggio da una domanda basata prevalentemente su un acquisto di prima
dotazione a una basata in prevalenza sulla sostituzione di vetture, richiede qualcosa di piú di
un'ampia gamma di modelli. Occorre anche un rapido e continuo rinnovo delle vetture. Un
rinnovo che anche in precedenza si era manifestato, ma essenzialmente focalizzato su la messa
a punto di nuove soluzioni tecniche. In questa fase l'innovazione è invece guidata, anzi
programmata, da esigenze di carattere commerciale e pertanto molto spesso si basa esclusivamente su aspetti di natura stilistica.
25
Figura 12.2 – Matrice Domanda/Offerta applicata
all’industria automobilistica americana, 1900-1940
Consumo di massa
segmentato
Prevalente acquisto
di sostituzione
Ford
G.M.
Chrysler
Consumo di massa
segmentato, prevalente
acqisto di 1°
dotazione
G.M.
Consumo
di massa
omogeneo
Le altre
Consumo
elitario
segmentato
Le altre
Consumo
elitario
omogeneo
Tutte le
marche
Produzione
con sistemi
artigianali
Ford
Ford
e
G.M.
Produzione
Industriale,
Distributors,
Dealers
Chrysler
Produzione
Modello unico
Standardizzato
Produzione di
grande serie,
Modelli
differenziati
Produz. di g. serie,
Mod. differenz.
Ciclo di vita corto
La composizione in matrice della sequenza di stati della domanda e dell'offerta consente
una efficace descrizione delle trasformazioni subite dal complesso dell'industria e del mercato
ed evidenzia differenze di impostazione strategica delle imprese. L'efficacia di una strategia
rispetto ad un'altra è data dalla capacità di percepire anticipatamente, rispetto alla concorrenza,
il nuovo stadio in via di formazione.
La strategia vincente di Ford (si veda la Fig.2) consistente nel passaggio dalla
situazione contraddistinta dalle seguenti caratterizzazioni: stato dell'offerta "produzione
industriale e sviluppo di una rete commerciale" e stato della domanda "consumo elitario" alla
situazione: stato dell'offerta "Produzione di grande serie a modello unico standardizzato con
rete di commercializzazione esclusiva" e stato della domanda "Consumo di massa omogeneo"
con largo anticipo sulla concorrenza. Henry Ford viene tradizionalmente ricordato come un
grande innovatore nel campo della organizzazione del processo produttivo, ma alla base della
sue strategia vincente vi è una geniale intuizione di marketing: il quel periodo negli Stati Uniti
la domanda automobilistica esprime una fortissima elasticità d'acquisto rispetto al prezzo:
anche riduzioni percentualmente modeste del prezzo di vendita delle autovetture avrebbero
prodotto massicci incrementi percentuali delle quantità vendute. Ford é convinto che una
produzione standardizzata avrebbe consentito forti economie di scala grazie anche alle
migliorie che egli intendeva introdurre ai metodi di fabbricazione e montaggio. Da un lato il
processo produttivo standardizzato gli avrebbe consentito di produrre grandi volumi a bassi
costi, dall'altro l'offerta di una vettura a un prezzo molto competitivo avrebbe convogliato una
quota rilevante della domanda sul suo prodotto. Quello che è importante sottolineare è che il
26
successo di Ford è legato al suo tempismo. Lanciare la produzione di massa standardizzata
dieci anni prima sarebbe stata una strategia molto probabilmente destinata al fallimento. Nel
contempo continuare questa strategia anche dopo il 1920 lo porterà quasi al fallimento.
La General Motors, sotto la guida di Alfred P. Sloan è a sua volta la prima ad avvertire,
all'inizio degli anni '20, che le caratteristiche della domanda stanno mutando. Proprio per
effetto della trasformazione del sistema di vita indotto dalla motorizzazione di massa e a
seguito della fase di sviluppo economico di quel periodo, la domanda automobilistica
americana è passata da una forte elasticità rispetto al prezzo ad una forte elasticità rispetto ad
un prodotto più specializzato. La Ford "T", automobile molto affidabile, ma decisamente
"rustica", non è più alla moda per un pubblico cittadino che può contare su strade asfaltate e
che vive un forte processo di identificazione con i divi di Hollywood. Da un lato occorre
qualcosa di più sofisticato, dall'altro occorre realizzare una gamma di prodotti completa che
segua il cliente nella sua progressione sociale ed economica. La General Motors è in grado di
proporre questo ventaglio di alternative attingendo al complesso dei propri marchi: una
Chevrolet come prima vettura per un giovane professionista di belle speranze, una Buick per
sottolineare i suoi primi successi professionali, una Cadillac per sancire la sua definitiva
affermazione professionale. Potendo spendere perché mai comprare una Ford "T" tre volte di
seguito. E' dall'analisi incrociata della domanda e dell'offerta che Sloan coglie i segni del
mutamento nel mercato 31 . Segni che gli suggeriscono di abbandonare il confronto diretto con
Ford per inaugurare una strategia basato sull'esatto contrario di Ford: produrre tanti modelli
diversi e rinnovarli continuamente. Quindici anni prima sarebbe stata una follia, ma ora è il
pubblico a chiedere continue novità e l'evoluzione tecnologica costruita proprio sulle esperienze di Ford mostra che con opportuni accorgimenti si possono realizzare forti economie di
scala anche producendo tanti modelli diversi, basta realizzare una politica di comunanza delle
parti componenti.
Lo studio della co-determinazione della domanda e dell'offerta, rappresentato dal ciclo
di trasformazione del settore, costituisce la chiave interpretativa da cui elaborare le mosse e i
tempi delle iniziative strategiche da calibrarsi sulle specificità della singola impresa anche per
la Chrysler. Questa marca è la prima a sfruttare le possibilità di differenziazione presenti dentro un segmento. La General Motors, in quanto agglomerato di marche diverse 32 , non tenta di
seguire la Ford sul terreno di quest'ultima, ma è pronta a sfruttare la situazione non appena si
profila una evoluzione delle esigenze della clientela favorevole alla sua specifica
caratterizzazione. Analogamente la Chrysler elabora un sentiero strategico ancora diverso
direttamente funzionale alla sua minor dimensione: realizzare prodotti altamente differenziati
per una più ristretta area di clienti appassionati della meccanica sofisticata.
Certamente a posteriori l'individuazione delle modalità e dei tempi di trasformazione
del ciclo settoriale appare abbastanza semplice. Ex ante le difficoltà previsionali rendono
questo compito molto piú complesso ed incerto. Tuttavia quello che preme sottolineare
riguarda la non eludibilità di questo problema. Senza una teoria della trasformazione settoriale,
data dalla dialettica tra la domanda e l'offerta 33 , non è possibile elaborare una efficace strategia
31
La sua testimonianza nel libro My Years with General Motors del 1964 è illuminante a riguardo.
32
Su questo argomento e sulle problematiche organizzative che ne derivano si vedano in particolare Chandler
[1962] e Sloan [1964].
33
Ovviamente stimare le piú probabili co-determinazioni della domanda e dell'offerta significa anche cercare di
tener conto delle piú generali trasformazioni dell'ambiente. Si veda in proposito l'interessante impostazione
sviluppata in Di Bernardo e Rullani [1985].
27
concorrenziale su cui ordinare il complesso reticolo di decisioni ai vari livelli della struttura
aziendale. Per contro, l'elaborazione di una simile teoria esige un puntuale studio storico ed
economico dell'evolvere passato delle caratteristiche settoriali nel suo susseguirsi di
caratterizzazioni strutturali, di comportamenti e di risultati. Ford percepisce in anticipo le
potenzialità espansive della domanda di massa, che però può manifestarsi solo quando egli sarà
in grado di mettere in vendita una vettura a prezzi straordinariamente competitivi 34 . Nel contempo è proprio la diffusione di massa delle autovetture che produce delle modificazioni (ad
esempio lo sviluppo di un vastissimo mercato dell'usato) che impongono nuovi assestamenti, in
un gioco di asimmetrie che aprono e chiudono continuamente nuove opportunità competitive.
La loro previsione non è semplice, ma il gioco concorrenziale è un fatto di confronto relativo.
L'individuazione di una strategia vincente e l'acquisizione del profitto non dipendono da una
esatta previsione del futuro evolvere del ciclo di trasformazione settoriale, ma, piú
semplicemente, da una previsione migliore dei concorrenti e, naturalmente, dalla sua
traduzione in efficaci iniziative strategiche.
Naturalmente in questa sede, in cui interessa affrontare il quadro di riferimento generale
in cui va collocato il processo di definizione delle strategie, il termine "strategia" è utilizzato al
suo massimo livello di sintesi. Nel caso della definizione di una strategia per una specifica
impresa e in uno specifico orizzonte temporale il concetto di strategia che emerge dalla
elaborazione di un ciclo di trasformazione settoriale va articolato in successivi livelli di
definizione strategica. Se per comodità di esemplificazione continuiamo a riferirci alla General
Motors degli anni '20 e '30, da quello riferito al complesso dell'impresa (corporate strategy) e
individuabile nella scelta di puntare su un'ampia gamma di modelli appartenenti a marche
diverse, occorre passare ad un livello inferiore che per la General Motors potrebbe essere
indicato come "strategia di marca" (indicata come brand strategy o anche business strategy)
focalizzata su specifiche missioni assegnate alle diverse marche del gruppo (Saturn, Chevrolet,
Pontiac, Buick, Oldsmobile, Cadillac). Infine all'interno di ogni divisione di marca dovrebbero
essere esplicitate le diverse strategie (ma potremmo anche parlare di "politiche") di livello
funzionale riferite a: R&S, Marketing, Produzione, Commercializzazione, ecc 35 .
Con il passare del tempo si modifica il quadro competitivo e si pone per l’impresa
l’esigenza di rivedere i contenuti sui quali essa ha costruito la strutturazione del ciclo di
trasformazione del settore e le proprie strategie. Allo scopo di meglio esprimere questa
continua esigenza di aggiornamento dell’analisi competitiva e delle scelte che l’impresa ha
convenienza a derivarne consideriamo una situazione sempre riferita all’industria
automobilistica, ma collocata in Europa occidentale in una fase successiva a quella già
esaminata. La nuova collocazione temporale si riferisce agli anni ’50 nella fase della ripresa
economica successiva alla seconda guerra mondiale, quando anche in Europa il processo di
motorizzazione, già manifestatosi all’inizio del secolo assunse un andamento più rapido e
generale. Come è evidenziato nella Tabella 12.1, nel 1950 il livello di autovetture circolanti
34
Come è noto il prezzo della Ford "T" passerà da 950 dollari (1909) a 295 dollari (1923). Correlativamentc le
unità vendute da Henry Ford nel mercato americano cresceranno da 12.292 unità a 1.917.353 nei rispettivi anni.
Nel biennio successivo al 1923 Ford attuerà qualche ulteriore ribasso, ma ormai il modificarsi delle preferenze dei
consumatori aveva segnato l'inizio di una nuova fase del ciclo settoriale e nel giro di 4 anni la quota di mercato di
Ford scenderà dal 55% (l921) al 15% (1926). Solo la presentazione del nuovo modello "A" consentirà un certo
recupero di quota, ma la Ford dovrà comunque cedere il primato di prima azienda industriale americana e
mondiale alla General Motors. Sugli errori strategici di Ford in questa fase si vedano Nevins e Hill [1956] e
Volpato [1983a].
35
Per questa ripartizione in successivi livelli si veda Grant [1991].
28
negli Stati Uniti aveva nettamente superato il traguardo delle 200 autovetture mentre in Europa
la Gran Bretagna, che registrava il più elevato tasso di motorizzazione nel vecchio continente,
era ancora al di sotto delle 50 autovetture circolanti per 1.000 abitanti.
Tabella 12.1 - Evoluzione del tasso di motorizzazione (vetture e veicoli circolanti ogni 1000 abitanti)
1950
1960
1970
1980
1990 (1)
2000 (1)
2006 (1)
vetture vetture vetture vetture vetture veicoli vetture veicoli vetture veicoli
226
320
414
546
578
752
461
761
473
813
USA
73
216
417
479
512
532
577
548
597
Germania (2) 11
37
111
232
417
422
495
475
574
506
595
Francia
32
167
312
409
454
475
526
498
571
Regno Unito 43
6
98
210
330
499
507
563
629
588
673
Italia
0
3
68
203
299
456
414
573
433
593
Giappone
(1) Dal 1990 è opportuno tener conto del complesso dei veicoli in quanto, similmente a quanto accade negli
Stati Uniti e in Giappone, una parte crescente di veicoli classificati come commerciali sono utilizzati come
autovetture. Negli Stati Uniti questo processo è così avanzato da far segnare un arretramento della densità di
autovetture circolanti per effetto della immatricolazioni di pick-up e SUV che sono considerati light truck.
(2) I dati a partire dal 1990 si riferiscono alla Germania unificata
Fonte: Nostre elaborazioni da OCDE ed Anfia.
Con la ripresa economica degli anni ’50 il processo di motorizzazione assume un ritmo
di crescita particolarmente accelerato e cominciano ad emergere delle marcate differenziazioni
negli orientamenti strategici di diversi marchi. Una differenziazione che risulta propiziata non
solo dalle differenze che caratterizzano i consumatori dei diversi paesi, ma anche dalla
presenza di forti barriere tariffarie che tendono ad isolare ciascun mercato e che orientano le
case costruttrici soprattutto verso il mercato domestico. All’inizio del periodo considerato tutti i
costruttori europei, ed anche le filiali dei marchi americani General Motors e Ford, operanti in
Europa, realizzano il passaggio da produzioni di tipo artigianale a produzioni industriali e
all’organizzazione di proprie reti esclusive di dealers. È proprio con la rilevante espansione
delle immatricolazioni verificatasi negli anni ’50 che anche i produttori europei sono nelle
condizioni di poter applicare in modo generalizzato le tecniche produttive già sperimentate da
Ford in quanto la crescita della domanda rende vantaggiosi i rilevanti processi di investimenti
in macchinari e attrezzature specializzate che una produzione fordista in senso proprio
richiede 36 .
Tuttavia le strade seguite sono piuttosto caratterizzate. Spicca innanzitutto la posizione
della Volkswagen. Questa impresa era nata agli inizi degli anni ’40, sul progetto di una vettura
progettata da Ferdinand Porsche, per attuare la politica di motorizzazione voluta da Hitler e il
dittatore aveva optato per una produzione di massa a modello unico standardizzato. Vale a dire
una strategia assolutamente ricalcata sull’esperienza fordista di inizio secolo, ma prima che
potesse iniziare la produzione di autovetture il gigantesco stabilimento di Wolfsburg venne
riconvertito a produzioni di carattere bellico. Dopo il conflitto venne deciso di confermare la
produzione del “Maggiolino” in attuazione della politica del modello unico. Anche in Francia
prevalse inizialmente questo genere di impostazione, sia per effetto di una stringente politica
36
Cfr. Volpato (1983).
29
industriale orientata dal governo, sia per ripartire le scarse materie prime disponibili. Venne
quindi deciso che ciascuno dei tre principali marchi francesi (Citroën, Peugeot e Renault) si
sarebbero specializzati su una singola vettura ma appartenente a tre segmenti diversi. La
Citroën avrebbe puntato a un segmento medio alto, la Peugeot ad un segmento medio e la
Renault ad un segmento medio basso. Diversa la scelti del due marchi tedeschi Mercedes e
BMW. Il primo veniva da una tradizione di costruttore d’élite e decise di rimanere fedele a
questa impostazione e va quindi considerato come un marchio che puntò ad una strategia da
specialista. Anche BMW, che prima del conflitto era specializzata nella costruzione di motori
aeronautici dovette convertirsi e dopo una iniziale fase di incertezza scelta la strada di Imitare
la Mercedes.Tra i principali marchi restanti vi erano la Fiat, la General Motors, operante in
Germania con il marchio Opel e in Gran Bretagna con il marchio Vauxall e la Ford. Tutte e tre
ritennero più convenienti, tenuto conto della loro storia produttiva di puntare su una strategia
da produttore generalista per un mercato basato su una ampia gamma di segmenti diiferenziati
per prezzo e prestazioni.
Figura 12.3 – Matrice Domanda/Offerta applicata
all’industria automobilistica europea, 1950-1980
Consumo di massa
segmentato
Prevalente acquisto
di sostituzione
BMW
Consumo di massa
segmentato, prevalente
acqisto di 1°
dotazione
VW
Tutti i
principali
marchi
BMW
Mercedes
Marchi
giapponesi
Produzione
Modello unico
Standardizzato
Strategia da
Generalista
Modelli
differenziati
Strategia da
Specialista
Modelli
differenziati
Strategia da
Generalista,
Mod. differenz.
Ciclo di vita corto
VW
Renault
Peugeot
Citroën
Consumo
di massa
omogeneo
Consumo
elitario
segmentato
Tutti i
principali
marchi
Tutti i
principali
marchi
Altri
principali
marchi
Produzione
con sistemi
artigianali
Produzione
Industriale,
Distributors,
Dealers
Consumo
elitario
omogeneo
C’è da dire che, mentre questa scelta appariva del tutto naturale per i marchi controllati
da case automobilistiche americane, la scelta della Fiat non appariva inizialmente scontata, dal
momento che si sarebbe potuto immaginare un orientamento di tipo francese. Di fatto però la
Fiat operava sul mercato domestico in una posizione assai prossima a quella di un monopolista
dal momento che dei marchi a orientamento specialista come Lancia e Alfa Romeo si
30
trovavano in grosse difficoltà. Inoltre neppure la Fiat immaginava che il mercato Italiano si
sarebbe sviluppato a ritmi così elevati come poi avvenne e la produzione di modelli
appartenenti ai segmenti di mercato più elevati erano soprattutto pensati per i mercati esteri.
Di fatto le strategie più efficaci risultarono quelle della Volkswagen e della Fiat, oltre a
quelle dei due marchi specialisti Mercedes e BMW. La Volkswagen, che puntava alla
produzione di una vettura popolare, a basso costo, ma molto affidabile, conobbe un successo
strepitoso e crebbe celermente non solo in Germania, ma anche attraverso le esportazioni,
soprattutto nei paesi europei non dotati di una propria industria automobilistica come Olanda,
Belgio, Danimarca e nel mercato americano dove esisteva una significativa fetta di
automobilisti desiderosi di acquistare una vettura economica. Le case americane inizialmente
ritennero di poter servire questa categoria di automobilisti con le loro vetture usate. Ma il
calcolo si rivelò sbagliato in quanto i costi di manutenzione e gli alti consumi di queste vetture
di grande cilindrata non potevano assolutamente competere coni piccolo, ma efficiente motore
Volkswagen. Anche la Fiat beneficiò di un accelerato processo di motorizzazione sul mercato
domestico e sfruttò questo vantaggio per cercare di inserirsi anche nei mercati esteri,
soprattutto dopo il 1968, anno di costituzione del Mercato Unico Europeo dell’automobile che
decretò l’abbattimento delle barriere tariffarie tra i paesi aderenti.
In Francia il processo di motorizzazione mostrò ben presto che la scelta del
monoprodotto del tipo di quella adottata dalla Volkswagen poteva essere vincente solo se
realizzato su grandi volumi e a prezzi molto bassi, senza concorrenti diretti, dal momento che
gli altri marchi tedeschi Mercedes e BMW si collocavano su fasce di mercato completamente
diverse. Invece Citroën, Peugeot e Renault si trovavano in una posizione intermedia nella quale
la divisione del mercato domestico fra i tre marchi offriva un bacino di mercato troppo esiguo
per realizzare uno sviluppo come quello di Volkswagen. Ben presto anche questi marchi, dopo
aver riscontrato la perdita di competitività sofferta nei confronti di Volkswagen e Fiat optarono
per una strategia da marchi generalisti.
Questa sintetica descrizione dell’evolvere dell’arena competitiva nel mercato
automobilistico europeo si conclude con l’inserimento dei marchi giapponesi. Queste case
costruttrici attuarono, subito dopo la seconda guerra mondiale, un drastico processo di
riconversione tecnologica e produttiva e puntarono decisamente allo sviluppo delle
esportazioni attraverso una gamma di prodotti abbastanza ampia, ma prevalentemente centrata
su modelli di classe medio-piccola e media. I primi tentativi di inserirsi nei mercati esteri
avvenne alla fine degli anni ’50 soprattutto verso gli Stati Uniti. Inizialmente però questa
strategia non portò a risultati significativi sia per la modestia tecnologica dei prodotti offerti,
sia perché le vetture offerte erano troppo lontane dalle esigenze dell’automobilista medio
americano. Tuttavia le prima crisi petrolifera del 1973 e la seconda del 1979 generarono un
brusca e consistente rialzo del prezzo dei carburanti e questa nuova situazione, accompagnata
da un netto miglioramento delle caratteristiche tecniche e stilistiche delle vetture giapponesi,
diedero luogo ad una progressiva crescita dell’export giapponese.
Negli anni ’70 la strategia di espansione giapponese all’estero si rivolse anche
all’Europa. La penetrazione in questo caso sembrava molto difficile perché i prodotto
giapponese non sembrava godere di particolari vantaggi rispetto a quello europeo sul piano dei
prezzi d’acquisto e dei consumi di carburante. Tuttavia le case europee non si avvidero che
ormai negli anni ’80 i principali mercati europei, avendo raggiunto un livello di motorizzazione
superiore alle 350 autovetture per mille abitanti avevano lasciato la fase del mercato di acquisto
di prima dotazione ed erano entrati in quella del mercato a prevalente acquisto di sostituzione.
In questo genere di mercato il rapido rinnovo dei modelli (ciclo di vita corto) diventa una leva
31
strategica di grande importanza. Le case giapponesi hanno saputo sfruttare molto bene questa
emergente esigenza della clientela acquisendo notevoli risultati di mercato, inizialmente
soprattutto in Gran Bretagna e Germania, poi anche in Francia e Italia.
Verso la fine del periodo considerato i marchi specialisti Mercedes e BMW si trovarono
di fronte alla scelta se mantenere la loro posizione oppure convergere verso il ruolo di
produttore generalista. Questa problematica era sollevata alla continua crescita dei costi da
sostenere per promuovere l’innovazione di prodotto per il tendenziale ridursi del ciclo di vita
dei prodotti. I volumi propri di un produttore specialista apparivano sempre più esigui a
sostenere la massa crescente di investimenti e costi fissi derivanti dall’intensificazione dei ritmi
di innovazione. BMW ritenne di continuare nella posizione di produttore specialista, mentre
Mercedes iniziò a partire dal 1982 la politica di ingresso in segmenti progressivamente meno
esclusivi. Successivamente anche BMW sarà costretta ad imboccare la strategia
dell’ampliamento della gamma.
Infine passiamo a considerare una terza fase che si situa tra il 1990 e il 2010
considerando l’intera industria automobilistica internazionale, sia pure in modo marcatamente
semplificato, ma con l’obiettivo tuttavia di rimarcare l’importanza del lavoro previsionale e la
necessità di una distinzione tra le diverse strategie, che in questa sede risultano appena
abbozzate per evidenti ragioni di spazio. Per quanto riguarda gli stati in ordinata segnaliamo il
progressivo passaggio da una domanda già largamente segmentata, con prevalente acquisto di
sostituzione, a stati in una la domanda si articola sempre di più per l’emergere del fenomeno
della multimotorizzazione, rappresentato dalla presenza nello stesso nucleo familiare di più di
una autovettura. Questo fatto è reso evidente dalla crescita del numero di autovetture circolanti
per 1.000 abitanti. Quando il tasso di motorizzazione arriva 500 autovetture per 1.000 abitanti
significa che se si assumono nuclei famigliari composti in media da 3 persone, ciascun nucleo
risulta mediamente possessore di 1,5 vetture. È chiaro che in questa situazione la domanda di
veicoli a funzione specializzata cresce enormemente. Se prima la scelta era solo tra berline
piccolo o grandi ora la seconda e la terza vettura che molti nuclei famigliari si trovano a
disporre si orientano da un lato, ad esempio, verso una citycar, dall’altro verso una vettura
fuoristrada o una vettura crossover per il tempo libero.
Nel contempo analizzando gli stati dell’offerta è abbastanza agevole l’individuazione di
un sentiero di sviluppo che inizialmente si pone l’obiettivo di accelerare il processo di
innovazione delle vetture rivolte in particolare nei mercati più sviluppati. A questo stadio
matura anche la possibilità di servire i mercati in via di sviluppo che stanno seguendo un
percorso di motorizzazione che almeno in parte richiama quello già verificatosi nei paesi più
industrializzati 37 . Negli anni ’90 alcuni costruttori, soprattutto Ford e General Motors hanno
cercato di progettare vetture che potessero essere commercializzate con soddisfacenti margini
di utile in tutte i principali mercati, le cosiddette worldcar. Ma questa politica non ha avuto
successo. Si è invece mostrata redditizia la strategia della Toyota che prima degli altri
costruttori ha puntato su una gamma molto ampia nella quale i diversi mercati trovassero
prodotti adatti alle esigenze di ciascun mercato (generalista per un doppio mrercato). Una
strategia che naturalmente appare percorribile solo da case costruttrici in grado di realizzare
gamme molto ampia con volumi piuttosto ridotti per singolo modello, ma a costi assai
contenuti. L’impostazione della Toyota ha fatto scuola, e ad essa si sono ispirati anche gli altri
costruttori in una corsa a inseguimento nella quale la Toyota ha mostrato di saper proporre un
passo avanti ogni volta che i suoi concorrenti sembravano averla raggiunta 38 . In questo senso la
37
38
Cfr. Freyssenet et al. (2003a e 2003b), Volpato (2004).
Si veda: Womack et al. (1990).
32
Toyota è stata la prima ad attuare in modo allargato anche la condivisione delle piattaforme di
prodotto (in italiano “pianali” e in inglese “bodypan”) proprio con lo scopo di alimentare una
ampia gamma giovandosi però di rilevanti economie di standardizzazione e di scopo. In questi
ultimi anni la nuova sfida dal punto di vista produttivo è la capacità di produrre un elevato
numero di modelli nella stessa linea di assemblaggio. In precedenza la ricerca della massima
efficienza suggeriva di operare con stabilimenti specializzati su uno o pochi modelli. Ma questa
politica è entrata in crisi con la forte mobilità della domanda che si sposta da modello a
modello seguendo l’onda dell’innovazione a ciclo di vita breve. È evidente che diventa molto
difficile assicurare un elevato ritorno sugli investimenti se una parte degli stabilimenti è
impegnata in produzioni in calo con bassi tassi di saturazione degli impianti. Di qui la ricerca
di soluzioni che consentano di produrre in molte aree diverse (globalizzazione), ma con
prodotti aventi molte parti in comune in grado di essere assemblati sulle stesse linee di
montaggio.
Figura 12.4 – Matrice Domanda/Offerta applicata
all’industria internazionale, 1990-2010
Ipersegmentazione
e tecnologie
ecologiche
Toyota
Multimotorizzazione
e
ipersegmentazione
Toyota
Multimotorizzazione
a segmentazione
allargata
Toyota
Consumo di massa
segmentato
In fase
di multimotorizzazione
Consumo di massa
segmentato
prevalente acquisto
di sostituzione
Toyota
Tutti i
principali
marchi
Strategia da
Generalista
Mod. differenz.
Ciclo di vita corto
Mercedes
BMW
Toyota
Altri
principali
marchi
Altri
principali
marchi
Altri
principali
marchi
Altri
principali
marchi
Generalista
Generalista
con innovazione
per doppio
per
mercato
mercato maturo (maturo+sviluppo)
Generalista
Globale
(piattaforme e
Moduli)
Generalista
Globale
Con flessibilità
Generalista
Globale
con tecnologie
ecologiche
Concludiamo questa rapida rassegna del confronto competitivo nel settore
automobilistico segnalando che in contemporanea a questa sfida giocata sul binomio della
comunanza di pianali e di moduli (blocchi di componentistica comune) e della flessibilità delle
line di assemblaggio si è anche aperta la sfida della progettazione di vetture in grado di tagliare
drasticamente sia l’emissione di gas nocivi che quella di CO2. Questa nuova frontiera vede al
momento due diverse strategie: da un lato al Toyota che ha deciso di puntare massicciamente
33
sulle motorizzazioni ibride (abbinamento di un motore convenzionale e di uno elettrico),
dall’altro la BMW e la Mercedes che hanno puntato soprattutto su motorizzazioni non
convenzionali basate sull’alimentazione ad idrogeno. Chiaramente la scelta della Toyota è
meno arrischiata ed è già in fase avanzata di realizzazione industriale. Nel 2007 l’azienda
giapponese ha totalizzato il primo milione di vetture ibride prodotte a partire dal 1997. La
strada battuta da BMW e Mercedes è ancora lunga. Tra l’altro si tratta di due soluzioni
abbastanza differenziate in quanto la casa di Monaco ha deciso di produrre vetture con motori
convenzionali in grado di alimentarsi a idrogeno, mentre la casa di Stoccarda ha preferito
puntare su vetture a celle di combustibile. Entrambe prevedono di poter commercializzare le
rispettive vetture a idrogeno entro una decina d’anni. Gli interrogativi su chi abbia fatto la
scelta strategicamente vincente sono al momento aperti. È proprio sulla natura incerte delle
scelte imprenditoriali e sulla necessità di sviluppare teorie interpretative dell’evoluzione
prospettiva del confronto strategico che emerge il significato della strategia e del
corrispondente “ciclo di trasformazione del settore”.
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Giuseppe Volpato
Dispensa relativa al corso di Strategie d’impresa A – Anno Accademico 2008-2009
Analisi critica degli approcci normativi
alla definizione della strategia d’impresa
“La scienza è distinzione”
1. L’utilità di una analisi critica
Il presente documento, rivolto all’analisi critica degli approcci sviluppati dalle diverse
scuole manageriali nella configurazione di una strategia d’impresa, nasce dalla tesi che
l’attuale dibattito su questa problematica sia piuttosto confuso per la sovrapposizione di aspetti
che invece sarebbe opportuno tenere distinti. Ne deriva in molti casi una artificiosa contrapposizione o, quantomeno, una contrapposizione che non viene inquadrata nei termini corretti. Ad
esempio vi sono scuole manageriali di indirizzo economico, organizzativo, sociologico che
mirano ad una analisi strategica in senso positivo: descrizione e interpretazione delle modalità
con le quali le imprese pervengono alla definizione di una strategia. Le scuole che aderiscono
a questa finalità si pongono il quesito “Quali sono le modalità con le quali una certa impresa
elabora (o al limite non elabora) la proprio strategia”. Altre scuole invece si propongo una individuazione della strategia in senso prescrittivo: come deve essere definita la strategia di una
impresa, caratterizzata da una certa posizione competitiva, affinché la sua realizzazione consenta il raggiungimento degli obiettivi che il soggetto economico dell’impresa intende conseguire. Nel primo caso non si intende affatto selezionare uno o più criteri che possano condurre
alla individuazione della “migliore” strategia esperibile dall’impresa in un certo peculiare
momento storico, ma si vuole solamente descrivere e possibilmente interpretare il comportamento di fatto posto in essere da una impresa nella definizione della propria strategia. In questo caso il criterio che guida l’indagine scientifica, e che ne indica la validità, è un criterio di
aderenza della interpretazione al comportamento posto in essere.
Nel secondo caso si è invece interessati a elaborare dei criteri di selezione di una particolare strategia in quanto indicata come quella più idonea per il raggiungimento delle finalità
assunte dall’impresa e il criterio di validità scientifica di questo approccio, indicato come
“prescrittivi” o “normativo” è evidentemente un criterio di efficienza e di efficacia1. È chiaro
che se non si fa in modo di distinguere opportunamente le problematiche da mettere a confronto non vi è possibilità di chiarire in misura adeguata e senza ambiguità eventuali pregi e
difetti di ciascuna impostazione. Ovviamente in questa sede non si vuol dire che non via siano
connessioni tra un approccio di analisi positiva e un approccio prescrittivo alla definizione di
una strategia, ma solo che porre sullo stesso piano approcci positivi e normativi porta a confondere i reali termini metodologici che caratterizzano queste due ottiche.
1
L’efficacia viene tradizionalmente indicata come la capacità di raggiungere l’obiettivo che si è dato un soggetto,
in questo caso una impresa. Se una impresa si desse l’obiettivo di progettare in un anno di tempo un prodotto
aventi particolare caratteristiche, come ad esempio un telefono mobile che pesasse 20 grammi e avesse delle
misure non superiori a quelle di una carta di credito, potremo dire che l’azienda è stata molto o poco efficace in
funzione di quanto essa alla fine dell’anno si è avvicinata al risultato mirato. L’efficienza si definisce invece
come il rapporto fra il risultato conseguito e le risorse economiche consumate per raggiungere l’obiettivo. A
parità di obiettivo raggiunto è più efficiente l’impresa che ha conseguito il risultato con un minor dispendio di
risorse.
1
2. Definizione di Strategia
Il lavoro di chiarificazione che si intende effettuare richiede innanzitutto una definizione di cosa si intenda per strategia d’impresa. Questa definizione risulta conveniente effettuarla avendo a riferimento due ottiche distinte, ma complementari. Una prima ottica riguarda
l’individuazione in senso positivo della forma che deve assumere una strategia d’impresa affinché si possa effettivamente considerarla tale, la seconda ottica riguarda invece la distinzione di altre attività manageriali che si accompagnano necessariamente alla formulazione di
una strategia, ma che hanno contenuti diversi che non vanno mischiati a quelli propri della definizione di strategia.
Secondo la prima ottica una strategia viene generalmente definita come un sistema di
scelte (e di azioni conseguenti) che mira al conseguimento del profitto nel lungo periodo da
parte dell’impresa. È quindi implicito in questa definizione che l’obiettivo, che potremmo dire
“immanente” dell’impresa, è la realizzazione di un profitto, possibilmente il massimo profitto
compatibilmente con le condizioni competitive e con l’andamento del sistema economico generale. Ciò che sostanzia una strategia è quindi un sistema di scelte: ad esempio la scelta se
ampliare la gamma dei prodotti offerti o restringerla, se potenziare la penetrazione in un mercato già servito o cercare di inserirsi in un nuovo mercato, se investire prioritariamente in ricerca e sviluppo o convogliare maggior risorse in comunicazione verso i consumatori. Queste
possibilità individuano coppie di alternative contrastanti. Ciascuna di esse può essere appunto
una particolare strategia. In sostanza la strategia di un’impresa è, se considerata in senso positivo, ciò che l’impresa sta facendo e farà nel prossimo futuro, ovvero il suo comportamento
per quanto riguarda il suo modo di rapportarsi al mercato e di contrastare la concorrenza. In
questo senso tutte le imprese hanno una strategia, anche se non consapevole e non dichiarata,
nel senso che un’impresa deve necessariamente esercitare delle scelte di condotta e il complesso delle scelte più rilevanti rappresenta appunto la sua strategia. In questo senso potremmo
parlare di strategia “di fatto”.
Invece se consideriamo la strategia in senso normativo essa è la risposta al quesito:
“Cosa dovrebbe fare l’impresa per mantenere e possibilmente accrescere il suo vantaggio
competitivo e quindi la possibilità di conseguire un profitto negli anni a venire?”
Sempre allo scopo di dare una definizione contenutistica alla strategia aggiungiamo
che, secondo lo scrivente, il sistema di scelte in oggetto assume la natura di strategia solo
quando questo sistema si caratterizza per un sistema abbastanza articolato di scelte. Nella letteratura manageriale si sente spesso parlare di strategie alternative come, ad esempio, la scelta
tra l’ampliamento della gamma di prodotto e la focalizzazione su un ristretto ventaglio di prodotti. Non c’è dubbio che queste due scelte contrapposte possono a ragione far parte di una
strategia d’impresa, ma solo se le due alternative vengono adeguatamente articolate in modo
da restringere in modo molto mercato il ventaglio dei possibili comportamenti ipotizzabili nel
caso si ampli o si riduca la gamma dei prodotti. Da quanto sopra specificato emerge che la
strategia ha il compito di individuare le azioni da effettuare per il mantenimento delle competitività dell’impresa. È quindi chiaro che la generica indicazione “diversificare” o “focalizzare” non integrano in senso proprio una strategia in quanto le modalità con le quali realizzare
un processo di diversificazione o di focalizzazione sono numerose. Se la enunciazione delle
strategia si limitasse a questo avremmo una strategia estremamente generica ed ambigua e chi
fosse incaricato di attuare una parte di questa strategia sarebbe del tutto privo delle indicazioni
necessarie a qualificare il contenuto del compito da svolgere. Indubbiamente se si pretendesse
che la definizione della strategia fosse talmente analitica da eliminare ogni possibile ambiguità
entreremmo in un processo di articolazione di contenuti potenzialmente infinita. Pertanto non
2
è possibile dare in questa sede una misura precisa di quanto debba essere analitico il sistema di
direttive per giungere a configurare una strategia, ma resta inteso che comunque consideriamo
una strategia un sistema di scelte (e di conseguenti azioni) piuttosto articolato, tale da individuare con ragionevole precisione i contenuti concreti che costituiscono gli obiettivi da realizzare.
Senza dubbio nella letteratura dedicata alla problematica strategica si potrà parlare genericamente di strategie di diversificazione, di focalizzazione, di integrazione verticale, di
sviluppo a macchia d’olio, ecc., ma in questo caso siamo di fronte a mere esemplificazioni,
che fanno comprendere a grandi linee il tipo di orientamento strategico al quale ci si orienta,
ma che non sostanziano in senso tecnico una strategia. Dobbiamo essere consapevoli che se
una impresa intendesse mettere per iscritto il sistema di scelte strategiche che ritenesse di dover seguire negli anni successivi dovremmo trovarci di fronte a un documento corposo che
fissa in modo abbastanza preciso le linee d’azione da realizzare. In conclusione la definizione
di una strategy comporta un sistema di scelte articolato e coerente su una molteplicità di funzioni aziendali (presumibilmente in tutte le più importanti), dal momento che anche se una
certa strategia può essere orientata prevalentemente a obiettivi di: innovazione di prodotto, o
innovazione di processo, o espansione della penetrazione nei mercati esistenti, o inserimento
in nuovi mercati, qualunque scelta fra quelle ipotizzate comporta inevitabilmente problemi di
scelta e messa in coerenza della scelta principale con scelte inerenti alla ricerca, agli acquisti,
alla produzione, alla commercializzazione, alla finanza, ecc. Di conseguenza la risposta “che
fare?” che tradizionalmente rappresenta il quesito che si pone il soggetto sul quale ricade la
massima responsabilità decisionale dell’impresa deve necessariamente assumere un contenuto
ampio e articolato.
Tra gli aspetti caratteristici di una strategia aggiungiamo infine un aspetto che in generale non viene mai considerato nella letteratura sulle problematiche strategiche, ma che invece
riteniamo sia un elemento della massima importanza per qualificare in senso tecnico una strategy da una generica indicazione di orientamento come quelle che abbiamo indicato con
l’etichetta della diversificazione, della differenziazione, dell’integrazione verticale, ecc. Questo aspetto è rappresentato dalla tesi che non siamo in presenza di una strategia se non con riferimento ad un settore specifico, ad una impresa specifica, ad un momento storico specifico.
In altre parole una strategia per meritare questa denominazione non può che essere specifica
rispetto al sistema della concorrenza, alle specifiche caratteristiche dell’impresa per la quale si
cerca di definire una strategia vincente, ad un momento storico specifico. Poiché i settori o industrie hanno ciascuno un assetto specifico peculiare che si modifica nel tempo e altrettanto
dicasi per due imprese diverse dello stesso settore se si propone una strategia non specifica per
settore, impresa e tempo di riferimento ciò vuol dire che non stiamo elaborando una strategia
in senso propria ma solamente una generica indicazione, povera di contenuti prescrittivi e
densa di possibili ambiguità qualora la volessimo tradurre in un sistema di azioni da essa derivanti.
Questo vincolo, che possiamo esprimere anche in questo modo: non esiste strategia in
senso proprio se non riferita ad un quadro settore-impresa-momento peculiari, non ha solo una
valenza definitoria iniziale, ex ante alla sua realizzazione, ma costituisce anche una condizione
necessaria ex post, per poter pronunciare in un secondo momento un giudizio di validità circa
la strategia prescrittiva proposta. Se la proposta non è analitica e determinata non è neppure
possibile emettere un giudizio di validità circa la sua efficacia ed efficienza. Ciò vale sia dal
punto di vista della metodologia utilizzata per elaborare la strategia. Infatti se qualcuno criticasse una metodologia generica di non aver funzionato chi la propone potrebbe sempre sostenere, con considerazioni ad hoc che: la realizzazione non è stata conforme a quello che
l’autore della strategia intendeva fosse realizzato (ma che non aveva precisato prima). Altrettanto vale da un punto di vista operativo, se la strategia non è sufficientemente analitica ed
univoca non sarà neppure possibile controllare se in corso di attuazione della strategia si
3
stanno raggiungendo gli obiettivi prefissati, non si potrebbe risalire ad eventuali responsabilità
di eventuali deficienze né in fase di progettazione delle strategia, né in fase di realizzazione,
né si potrebbero assegnare eventuali ricompense ad personam, in quanto l’unica cosa che si
potrebbe dire è se la strategia nel suo complesso ha funzionato o no, ma senza poter attribuire
giudizi differenziali di merito o demerito. Una strategia generica non può essere giudicata. Tra
l’altro generiche definizioni di obiettivi strategici non consentono neppure la realizzazione di
un aspetto estremamente importante, per una attività così complessa e critica ai fini della sopravvivenza dell’impresa, rappresentato dal processo di apprendimento. Una impresa che non
realizza apprendimento è un impresa che non è in grado di migliorare il proprio modo di operare attraverso l’analisi dei propri errori. Analisi che si può fare solo se il compito strategico
da svolgere è stato preventivamente definito e organizzato in modo analitico e specifico. Se è
vero che si può controllare efficacemente solo ciò che si può misurare, appare legittimo dire
che siamo in presenza di una strategia solo quando la sua articolazione fornisce anche tutta
una serie di elementi di controllo da valutare durante il suo itinere. Si tratta della fase di strategy control process, su cui ritorneremo fra poco.
Segnaliamo inoltre che nella letteratura strategica si è soliti distinguere la strategia a livello del singolo settore industriale (business strategy), dalla strategia riferita ad un complesso
aziendale operante in una molteplicità di settori (corporate strategy). Per ragioni di semplicità
in questo scritto si analizzeranno esclusivamente le problematiche del primo tipo.
3. Fasi e scopi del complesso di attività legate alla definizione di una Strategia
Possiamo ora a distinguere la definizione di strategia (strategy) da altre attività, ad essa
correlate, ma che ci pare assolutamente necessario tenere distinte se si vuole realizzare un proficuo confronto di idee sulla problematica in questione. In altre parole il termine strategia
viene spesso utilizzato come una sineddoche, vale a dire come una parte che esprime un tutto
più ampio, la sineddoche “strategia” è usata da numerosi autori come un termine che comprende non solo la definizione del “che fare” e quindi la strategy in senso stretto, ma anche la
pianificazione conseguente alle scelte strategiche (il “come fare” o attività di planning) ed anche il processo decisionale e organizzativo che porta alla definizione del che fare, e che possiamo indicare come strategy formation process, e infine l’attività di controllo sistematico sui
risultati derivanti dalla strategia intrapresa: strategy control process. In molti casi è indubbiamente comodo utilizzare la parte (strategy) per indicare il complesso delle quattro fasi qui indicate, ma quando si intende definire gli specifici contenuti della Strategy e mettere a confronto approcci diversi riferiti questa problematica, la distinzione della particolare fase a cui ci
si riferisce diviene una necessità per la chiarezza dell’esposizione e per un esame della coerenza logica dei diversi approcci. In alcuni casi riferirsi genericamente alla strategia per compendiare anche le altre fasi è comodo e rapido, ma come cercheremo di dimostrare vi sono altri casi nei quali la mancata distinzione tra:
a) Strategy formation process,
b) Strategy,
c) Planning,
d) Strategy Control Process,
porta a confusione e fraintendimenti. In altri casi la non distinzione fra le fasi può non porre
alcun problema, ma in questa sede invece è necessario cercare di attingere al massimo della
chiarezza. In questa sede adotteremo l’etichetta “problema strategico” quando intendiamo riferirci al complesso delle fasi mentre, se useremo il termine strategy, intendiamo riferirci alla
4
sola fase b). Per comodità del lettore riportiamo di seguito quanto è già stato esposto in un altro scritto2.
Senza pretendere di essere esaustivo mi pare si possano individuare almeno
quattro fasi derivanti dal problema strategico, che ordiniamo in senso logico3:
1. Quale procedura o organizzazione utilizzare per l'assunzione di decisioni strategiche
(chi decide, come e perché), nel linguaggio anglosassone questa fase è definibile
come lo strategy formation process4;
2. Quale contenuto concreto e specifico dare alla strategy (ovvero scegliere se
diversificare o meno, se differenziare o meno, se integrarsi o meno, e secondo quali
particolari modalità, ecc.), questa fase viene denominata propriamente strategy;
3. Come tradurre la scelta relativa al punto precedente in una sequenza prestabilita di
azioni aventi la necessaria coerenza operativa e temporale, e siamo quindi di fronte
alla fase di strategic planning o più semplicemente planning;
4. Come verificare nel tempo se quanto deciso si è basato su un sistema di ipotesi
previsionali corrette, che stanno trovando conforto nella realtà, se quanto già realizzato sta avvenendo secondo il programmato, o se invece si deve riformulare il problema ripercorrendo le prime tre fasi: strategic control.5
Per quanto invece concerne gli scopi della strategy, sempre rifacendosi a Volpato
(2008), ricordiamo che essi possono essere numerosi e svilupparsi nel tempo, allo scopo di rispondere a specifiche esigenze non avvertite in un precedente momento. Si consideri ad esempio la decisione di una impresa di farsi quotare in borsa, in quanto si desidera intraprendere
una forte espansione delle attività, che può essere finanziata attraverso il ricorso al mercato dei
capitali. Da un lato questa decisione è parte della strategy dell’impresa, ma se prima della
quotazione l’esigenza di comunicare all’esterno i futuri orientamenti della società poteva essere considerata una esigenza non significativa, nella nuova situazione la comunicazione delle
finee fondamentali della strategy diventa anche un modo con il quale l’impresa comunica con
una pluralità di soggetti che sono rilevanti per mantenere una corretta quotazione azionaria:
società di investimento, società di rating, piccoli azionisti che non hanno accesso diretto alle
delibere aziendali, ecc. In proposito distinguiamo, anche qui senza pretendere di essere esaustivi, ma allo scopo di esemplificare alcune delle funzioni della strategy (oltre a quella primaria di chiarire al top management le future linee di condotta), gli utilizzi più comuni, utilizzi
che naturalmente presuppongono forme di comunicazione parziale della strategy, allo scopo di
mantenere una certa riservatezza sui suoi contenuti più sensibili dal punto di vista competitivo:
5. Uno scopo secondario, ma non trascurabile della definizione scritta e formale di una
strategy, consiste nel fatto che, anche a prescindere dalla sua qualità intrinseca, il
tentativo di formalizzare in qualche modo gli obiettivi da raggiungere consente una
forma di utile simulazione sulla coerenza intrinseca degli obiettivi, essa risulta assai
utile per saggiare la qualità del comportamento manageriale e consente di retroagire
2
Volpato (2008).
3
Sulla ripartizione della problematica strategica in momenti concettualmente distinti anche se interconnessi si
vedano: Podestà (1971), Rugiadini (1978), Canziani (1984), Rispoli (2002).
4
In proposito va segnalato che la distinzione fra strategy formation process e strategy è utile anche perché aiuta a
qualificare meglio a chi competa l’iniziativa per l’attuazione delle singole fasi.
5
Va da sé che le interrelazioni fra queste fasi sono molteplici, ma ciò non toglie che la distinzione proposta sia
tanto utile quanto metodologicamente necessaria. Sulle relazioni fra fasi rimandiamo a Volpato (2008).
5
in qualche modo con il “che fare” stesso, e quindi migliorane la qualità. Inoltre la
formalizzazione è utile anche per la fase dello strategy formation process. Senza un
tentativo di formalizzare chiaramente gli obiettivi, e le alternative percorribili per
raggiungerli, diventa difficile avere un produttivo confronto di idee mirante alla
eventuale composizione di opinioni diverse presenti tra i diversi soggetti
dell’organo decisionale.
6. Inoltre, una volta che il top management ha definito il “che fare”, i suoi contenuti
possono giocare un ruolo di natura comunicativa. Definendo una strategy gli organi
decisionali comunicano tanto alla struttura interna dell' impresa, che all'ambiente,
una serie di indicazioni che ha molteplici usi:
6.1. coordinare a livello globale l'orientamento dei singoli centri di esecuzione
della strategia, diffondendo il significato e la direzione del cambiamento
verso cui si vuole proiettare l'impresa;
6.2. acquisire il necessario grado di consenso in forza della razionalità e coerenza emanate dalla strategia comunicata;
6.3. lanciare segnali ai partner dell'impresa (stakeholders) in merito alle mosse
che ci si appresta a realizzare, con lo scopo di influenzare in senso favorevole al proprio disegno il comportamento dei partner stessi.
Ci pare del tutto ovvio, ma comunque è bene sottolinearlo, che tutte queste fasi sono
importanti e che il successo di una impresa dipende non solo dalla strategy, ma dalla corretta
realizzazione delle altre e da una efficace ed efficiente interazione tra tutte queste fasi. Inoltre
queste fasi hanno una sequenza logica, ma nella realtà non si deve pensare che la loro gestione
concreta avvenga per compartimenti stagni e che, ad esempio, si proceda alla fase di planning
solo quando si considera la fase di strategy conclusa e immodificabile. Se nella fase di
planning ci si rendesse conto che gli obiettivi di strategy appaiono difficilmente raggiungibili
nei modi e nei tempi desiderati è ovvio che si dovrebbe rivedere anche la fase di strategy. In
altre parole il sistema delle fasi va visto come una sequenza ordinata logicamente, ma che deve
dare luogo a un feedback continuo. In qualunque momento si manifesti nella sequenza delle
fasi un avvenimento ritenuto significativo, ma divergente rispetto alle ipotesi competitive accolte nella problematica strategica, è assolutamente necessario operare un processo di revisione
della precedente impostazione in tutte le fasi.
Spesso gli studiosi, oltre che considerare fasi diverse della problematica strategica
(senza esplicitarlo), finiscono anche per privilegiare usi diversi della strategia. È chiaro che, a
seconda dell'uso che si intende perseguire, varia l'impostazione concettuale dei vari autori e
l'enfasi che essi assegnano alle varie questioni. Appare quindi necessario che una qualunque
argomentazione sui temi della strategia debba iniziare dalla esplicitazione della fase del problema strategico che si intende affrontare e dell'uso che si vuole privilegiare. Eppure sono ben
pochi i contributi in cui questa elementare regola metodologica viene osservata. Quello che
vorremmo fare con questo documento è cercare di fornire una griglia di lettura che supplisca
alle carenze di esplicitazione. Questa confusione di fasi e di piani di utilizzo porta inevitabilmente a un contrasto di tesi, che finisce per avvitarsi su sé stesso, perché la disomogeneità di
problematica porta inevitabilmente a un recepimento distorto dei concetti e del linguaggio e
quindi al rifiuto dei diversi sistemi di verifica fattuale. Si badi che non è mia intenzione sostenere che le diverse impostazioni sviluppate dagli autori sulle problematiche della strategia intesa in senso lato non siano fra loro in contrasto, ma piuttosto che alcuni dei contrasti che appaiono nella letteratura dedicata alla problematica strategica non hanno alcuna base oggettiva,
in altre parole sono contrasti fasulli, che però fanno perdere di vista i contrasti autentici e qualche volta radicali, che pure esistono, e che sono i veri temi sui quale vale la pena di confrontarsi ed eventualmente dividersi aderendo ad opzioni metodologiche differenti. È quindi il
momento di fornire degli esempi concreti delle forme sterili del contrasto tra studiosi.
6
4. L’analisi “positiva” del problema strategico
L’obiettivo prevalente di questo scritto è l’analisi critica dei diversi approcci normativi/prescrittivi utilizzati per la definizione di una strategy, tuttavia può essere opportuno soffermarsi, sia pure brevemente, sui contenuti dell’analisi “positiva” che, come abbiamo già ricordato, intende descrivere e possibilmente interpretare le modalità concrete con le quali una
istituzione, nel nostro caso un’impresa, proceda relativamente alle tematiche del problema
strategico. Fra le molteplici scuole di pensiero che si sono interessate a questa problematica
esaminiamo ora le più rappresentative:
La strategy come processo iterativo e incrementale. Alcuni studiosi che si sono dedicati all’esame delle modalità con le quali le imprese pervengono a determinare la propria
strategy hanno sottolineato come essa sia il risultato di un processo iterativo ed incrementale e
assai poco strutturato. Secondo le tesi manifestate in questo punto di vista le imprese non iniziano definendo una strategy, per poi passare al planning e quindi allo strategy control process. Esse intervengono invece in occasione di fatti di particolare rilievo, fatti che sono considerati delle importanti opportunità ovvero sono ritenuti potenzialmente minaccianti per la sopravvivenza dell’impresa: forti perdite di bilancio o di quote di mercato, inserimento
nell’arena competitiva di concorrenti potenzialmente pericolosi, ecc. Inizia quindi una dinamica che procede essenzialmente per trial and error. Si inizia facendo una certa mossa e
pragmaticamente si verifica se funzione e quindi si realizza un ulteriore passo e così via, arretrando se gli effetti generati dall’azione sono indesiderati, avanzando se ne derivano conseguenze positive con una logica di tipo incrementale6.
In questa sede non interessa esprimere un giudizio di validità o meno circa questa lettura del fenomeno strategico. In fondo potremmo dire che se imprese non si preoccupano di
organizzare adeguatamente le diverse fasi della problematica strategica peggio per loro che
perdono una importante opportunità di acquisire maggior efficacia ed efficienza. È però chiaro
che se si prendesse alla lettera questa impostazione, ancorché solo dal punto di vista
dell’analisi positiva (le imprese non organizzano le fasi), da un punto di vista metodologico se
ne dovrebbe dedurre, estremizzandone il significato, che si può benissimo fare a meno di un
processo di tipo formalizzato e di conseguenza perderebbe anche di significato l’approccio
normativo. Perché preoccuparsi di elaborare: strategy formation process, strategy, planning e
strategy control process, se tanto si può realizzare tutto con un intervento ad hoc fatto
all’ultimo momento? E quindi è necessario rispondere a questa potenziale obiezione dicendo
che pare evidente che questo tipo di approccio alla definizione delle questioni connesse al
problema strategico può anche risultare idonea per una impresa di piccole dimensioni, nel
quale il gruppo di comando si identifica in un’unica persona, eventualmente coadiuvata da un
ristretto numero di collaboratori, ma che si tratterebbe di un comportamento suicida per strutture almeno un poco complesse. Ma anche una piccolissima dimensione non basta a giustificare l’assenza di una procedura consapevole e organizzata alla problematica strategica, infatti
occorrerebbe anche ipotizzare che la struttura dell’impresa è estremamente semplice e con una
struttura dei costi in cui prevalgono nettamente i costi variabili. Infatti solo in questo tipo di
impresa il comportamento può essere prettamente reattivo dal momento che solo con questa
struttura di costo un eventuale disequilibrio economico può essere sanato con la necessaria
elasticità che una logica iterativa e incrementale richiede. Anche una piccola impresa che dovesse effettuare degli investimenti di medio-lungo periodo, e quindi si trovasse gravata da un
peso significativo di costi fissi nel suo conto economico, si troverebbe inevitabilmente a mal
partito qualora dovrebbe fronteggiare situazioni impreviste. Quindi può certamente succedere
6
Fra gli autori che meglio rappresentano questo approccio segnaliamo Lindblom (1959 e 1968),
7
che questo tipo di comportamento si manifesti, ed anzi potrebbe essere anche molto diffuso, e
ciò spiegherebbe l’alta mortalità delle piccole imprese, il cui numero resta rilevante grazie ad
un continuo flusso di natalità che compensa la mortalità, ma sembra altrettanto evidente che
laddove la possibilità di reazione dell’impresa non è estremamente flessibile è comunque opportuno via sia un lavoro di previsione dei futuri avvenimenti e di decisione circa i tempi e i
contenuti delle mosse da attuare. In altri termini dal punto di vista di un approccio scientifico
alla gestione aziendale non v’è dubbio che resta pienamente confermata l’utilità di riflettere ed
organizzare la sequenza del processo decisionale dell’impresa.
La strategy come risultato di una negoziazione. Un modo di interpretare il comportamento dei soggetti operanti in un’impresa è quello di ipotizzarli portatori di interessi personali prima che di interessi coincidenti con l’obiettivo di sviluppo e prosperità dell’impresa
considerata nel suo complesso. Ne deriva che le scelte attuate sulla problematica strategica
non sarebbero il frutto di una ricerca della soluzione più opportuna per il mantenimento e il
rafforzamento della posizione competitiva dell’impresa, quanto piuttosto un confronto tra
soggetti, tutti interessati ad adottare soluzioni idonee a rafforzare le rispettive posizioni personali all’interna della gerarchia aziendale, in vista della scalata ai vertici dell’impresa. Che tra i
dirigenti delle imprese vi sia grande attenzione alla propria progressione nella scala gerarchica
è assolutamente innegabile7 e che questo tipo di dialettica possa portare anche ad una situazione di difficoltà per l’impresa stessa è altrettanto evidente.
In questa sede, in cui non ci interessa tanto analizzare e interpretare la consistenza
metodologica di questo approccio, quanto piuttosto valutare se esso possa negare significato
ad un approccio normativo alla definizione della strategy, si deve sottolineare l’opportunità
che l’esistenza di una dinamica di negoziazione interna non si sviluppi oltre certi livelli, dal
momento che metterebbe a rischio la possibilità di sopravvivenza dell’impresa stessa.
L’esplorazione delle migliori opportunità per l’impresa e l’identificazione della strategy capace di coglierle diverrebbe superflua solo se l’impresa potesse esprimere un potere di mercato così forte da ottenere un profitto utile alla propria sopravvivenza qualunque sia la strategia di fatto emergente dalla dialettica della negoziazione8. In questo caso infatti tutta la gestione dell’impresa potrebbe essere frutto di un confronto di potere senza alcun riferimento
alla efficacia ed efficienza della linea strategica che ne deriva. Inutile dire che una situazione
di questo tipo appare assai improbabile. Neppure un monopolista assoluto è infatti in grado di
fissare a piacimento le condizioni del proprio profitto. Egli può solo fissare o il prezzo di vendita della merce offerta, e sarà il complesso della domanda a determinare l’effettiva quantità
scambiata o viceversa. Pertanto se da un lato pare assolutamente probabile che all’interno
delle imprese esista un processo di negoziazione, dall’altro appare giustificato assumere che,
anche nelle posizioni di grande potere contrattuale da parte dell’impresa, il riferimento a criteri di efficacia e di efficienza resti un vincolo consistente. Anzi è interesse proprio dei soggetti che si disputano il potere all’interno dell’impresa poter individuare una soluzione efficace ed efficiente della quale farsi portatori, in quanto essa assicura maggiori risorse
all’impresa da utilizzare per “pagare” gli interlocutori disposti ad accettare la linea di chi attua
questo disegno. In altre parole, se si escludono situazioni abnormi di pianificazione centralizzata, l’individuazione e l’applicazione di soluzioni strategiche efficaci ed efficienti è funzionale al rafforzamento del potere di chi si fa interprete di questo approccio perché
l’acquisizione di un elevato livello di profitto allenta i vincoli della concorrenza e del mercato
sull’impresa e offre “partite di scambio” nella negoziazione per la scalata alle posizioni di
7
Questo tipo di dinamica è analizzata ad esempio da Zald e Berger (1978); Bolman e Deal (1997); Cressey et al.
( 1985).
8
Per immaginare una situazione di questo genere dovremmo pensare a situazioni gestite integralmente attraverso
forme di pianificazione statale che arrivi a fissare insindacabilmente non solo il prezzo della merce, ma anche la
quantità che gli acquirenti debbono acquisire.
8
vertice dell’impresa. Un qualsiasi manager di alto livello ha la possibilità di rafforzare la propria posizione all’interno dell’impresa facendosi portatore di una strategia obiettivamente vincente, in grado di assicurare elevati profitti e nuove opportunità di espansione dell’impresa.
La strategy come risultato di un processo cognitivo. Un recente filone di studi ha messo in luce come la strategia di fatto emergente nella dinamica d’impresa sia il frutto, fra le altre cose, della particolare cultura che l’impresa ha sviluppato nel tempo e del tipo di successi e
insuccessi che ne hanno caratterizzato la storia (path dependency). In altre parole la complessità della lettura del confronto competitivo, specialmente in una fase di internazionalizzazione
e di globalizzazione, non si configura come un dato oggettivo identico e interpretato in modo
univoco da tutti gli osservatori del mercato. I soggetti e quindi anche i manager non hanno accesso diretto alla realtà oggettiva, che nella sua interezza è inconoscibile, come hanno mostrato in modo convincente gli studi di H.A. Simon9. Quindi la lettura della realtà fatta da ogni
soggetto avviene attraverso la costruzione di un sistema di concetti, potremmo dire un “modello” inevitabilmente semplificato. Di conseguenza ogni manager analizza la realtà sulla base
delle proprie esperienze e competenze cognitive e il “modello” della realtà che ne deriva può
essere più o meno distorto rispetto alla realtà che esso vuole rappresentare10.
Anche in questo caso il riconoscimento della complessità della realtà e il rifiuto di una
lettura meramente positivistica del mondo appare effettivamente giustificata. Indubbiamente
ogni singolo soggetto ed anche le istituzioni, come ad esempio un’impresa, elaborano una
propria mappa cognitiva della realtà e questo vale naturalmente anche nel caso della elaborazione di una strategia di tipo normativo. Il problema in questo caso diventa quello di capire se
la ricerca di una strategia considerata più efficace ed efficiente di un’altra abbia significato o
meno. Se il quadro cognitivo dei soggetti non avesse rapporto alcuno con la realtà è evidente
che un approccio di questo genere sarebbe privo di significato. Per ora ci limitiamo a sostenere
la tesi che almeno ex post sia possibile indicare se una certa strategia è stata più o meno corretta. Se si vuole la tesi equivale a dire che la scienza economica è certamente imperfetta, ma
conserva una certa utilità in quanto consente scelte e comportamenti almeno stocasticamente
migliori di quelli che si avrebbero ad esempio con scelte casuali, oppure basandosi su indicazioni a-scientifiche come quelle tratte dall’astrologia. In sostanza il sistema capitalista, ancorché altamente imperfetto, mostra dei meccanismi selettivi in grado di premiare o di sanzionare
linee di comportamento efficaci/inefficaci e efficienti/inefficienti rispetto al criterio del profitto. Tuttavia questo aspetto è di particolare rilievo e la questione verrà ripresa fra poco per
chiarire un po’ meglio i termini della questione.
5. Serve una strategia efficace ed efficiente?
La conclusione che traiamo da questo rapido esame dei più consolidati approcci
all’analisi positiva del comportamento strategico delle imprese è che questi approcci presentano degli elementi indubbiamente interessanti e utili dal punto di vista scientifico dello studio
dell’impresa, ma non vanno assolutizzati fino al punto di negare l’utilità della ricerca prescrittiva di quale comportamento può migliorare la posizione competitiva di un’impresa con riferimento al suo ambiente competitivo. Di conseguenza in questa sede non si sostiene affatto
l’idea che i soggetti o le imprese sviluppino effettivamente un comportamento razionale, come
deriverebbe da un approccio di tipo benthamiano all’economia (comportamento assolutamente
utilitaristico) sommato all’ipotesi della possibilità di una scelta razionale, come è stato sostenuto anche in tempi relativamente recenti. I soggetti hanno il comportamento che hanno. Tut9
Simon (1947, 1997).
10
Huff (1990), Barr, Stimpert and Huff (1992), Bogner e Thomas (1993).
9
tavia se con questo comportamento essi infrangono i criteri di razionalità in misura superiore
alla media dei loro concorrenti sono destinati ad uscire dal mercato11.
Qui si vuole sostenere che è nell’interesse del soggetto economico dell’impresa adottare il meglio delle conoscenze manageriali per cercare di affrontare con efficacia ed efficienza il problema strategico, perché ne deriveranno risultati che saranno stocasticamente migliori di una condotta che non sfrutti quel tanto (o poco) di contenuto scientifico presente nelle
discipline manageriali. Questo perché esiste una oggettiva esigenza di cercare di sbagliare
meno dei concorrenti e la ricerca di questo risultato è appunto il compito dell’economia, che
mira a rispondere al quesito “come devo comportarmi se desidero essere più competitivo degli
altri e cercare quindi di assicurare la sopravvivenza della mia impresa?”.
6. Ma è possibile costruire una strategia efficace ed efficiente?
Al punto precedente abbiamo sintetizzato la tesi che sarebbe utile per una impresa che
operi all’interno di un sistema capitalista (un sistema che elimina dal mercato le imprese mediamente meno efficienti), individuare un comportamento efficace ed efficiente in quanto ciò
rappresenta la condizione di sopravvivenza e prosperità dell’impresa stessa. Il passo successivo, molto più difficile, sulla strada della giustificazione di una strategia di tipo normativo, è
quella di dimostrare che è effettivamente possibile dare indicazioni utili per costruire una
strategia migliore dei concorrenti o comunque di una parte di essi. Affronteremo questo problema indicando e cercando di confutare alcune tesi, quelle che ci sembrano più rilevanti, che
tendono a negare la possibilità di costruire una teoria del comportamento strategico e di conseguenza anche la possibilità di fornire indicazioni valide. Diciamo subito che non è possibile
dare una dimostrazione certa e inconfutabile della nostra tesi sulla validità dell’approccio
normativo. Quello che in realtà si cercherà di fare è di mostrare che l’approccio normativo
presenta meno incongruenze e contraddizioni di quelli che ne negano l’utilità.
Il mondo è imprevedibile quindi la definizione di una strategia efficace ed efficiente
è un progetto fallito in partenza . Come è noto la scienza nasce nel XVI secolo sulla base di
alcuni principi molto semplici e si compone di tre stadi principali: “Il primo consiste
nell’osservare i fatti significativi; il secondo nel giungere ad una ipotesi che, se vera deve
spiegare questi fatti, il terzo nel dedurre da questa ipotesi delle conseguenze che si possono
sottoporre all’osservazione. Se le conseguenze sono verificate, l’ipotesi è provvisoriamente
accettata”12. Questa impostazione ha avuto il grande pregio di rendere l’uomo in grado di
giudicare senza dover dipendere da altra autorità se non quella della propria capacità di indagare il mondo13. Tuttavia questa impostazione, come era del resto inevitabile nella sua fase di
prima costituzione, si basava su una semplificazione che presupponeva che il soggetto fosse
perfettamente in grado di esprimere giudizi fondati sull’oggetto della sua analisi. Questa tesi,
che oggi indichiamo come “empirista”, ha prodotto una immagine del mondo di tipo non solo
semplificato, ma anche meccanicistico e deterministico. Il mondo era visto come una sorta di
grande orologio. Scoperte le leggi di funzionamento della “macchina-mondo” si sarebbe potuto predire con certezza tutto il suo funzionamento e la sua evoluzione futura. Questa impostazione, che si era successivamente rafforzata nella fase dell’Illuminismo, anche se inizial11
Si noti che questa affermazione non implica necessariamente una valutazione positiva del capitalismo, o
quantomeno del capitalismo nella sua forma attuale. Essa dice solamente che, se si vuole continuare ad operare
all’interno di questo sistema si rende necessario selezionare comportamenti più efficaci ed efficienti secondo le
regole del capitalismo stesso (acquisizione di un profitto). Il capitalismo è un sistema selettivo basato appunto su
una razionalità capitalistica, anche se imperfetta.
12
Russel (1931).
13
Per una presentazione un po’ meno sintetica della questione si veda il 1° capitolo di Volpato (2006 e 2008).
10
mente riferita esclusivamente alle scienze naturali14, si è dimostrata eccessivamente sbilanciata di fronte alle insormontabili difficoltà di analisi e validazione delle teorie.
Ma naturalmente un conto è negare la perfetta prevedibilità della mondo (sia fisico che
storico), come si è concordi nel fare oggi, un altro arrivare a negare in assoluto la prevedibilità. Purtroppo in questi termini generali la dimostrazione che qualsiasi previsione è totalmente
impossibile è destinata a restare un quesito metafisico indecidibile sia in un senso che in un
altro. Qui possiamo solo portare due tipi di argomenti a favore di una parziale possibilità di
prevedere. La prima notazione riguarda il fatto che negare in assoluto la prevedibilità comporta di fatto negare ogni validità alla scienza o perlomeno alle scienze sociali che molto più
delle scienze naturali sono immerse in una realtà storica nella quale la previsione e
l’applicabilità di una certa regola (anche se imperfetta) ha significato solo se essa opera nel
tempo. Il secondo argomento è che una impresa riceve un beneficio dalla individuazione di
una strategia non solo nel caso che la strategia si dimostri assolutamente perfetta e azzeccata
in ogni sua parte. A giustificare la validità (relativa) di una certa strategia è sufficiente che
essa si mostri meno erronea di altre e in particolare meno erronea di una strategia non organizzata consciamente. Tra due imprese che supponiamo avere le stesse opportunità di affermazione nel mercato (situazione di ceteris paribus) è destinata a sopravvivere quella che usa una
strategia meno erronea. In questo senso possiamo quindi legittimare l’utilità della ricerca della
strategia più efficiente e efficace in senso relativo, senza dover presupporre una livello di perfetta ottimizzazione della strategia. L’ottimizzazione della strategia resta un obiettivo, ma si
tratta di qualcosa che non si può raggiungere in assoluto, perché l’ottimizzazione presuppone
una perfetta calcolabilità di tutte le alternative di comportamento. Non solo, poiché una strategia ha necessariamente uno sviluppo temporale, non si tratterebbe solo di conoscere tutti comportamenti dei concorrenti in momento dato, ma anche quelli successivi ad una prima fase di
espletamento della nostra strategia con le manovre di ritorsione competitiva che tali concorrenti potrebbero mettere in atto.
Abbastanza di recente alcune posizioni teoriche hanno particolarmente sottolineato la
complessità del mondo elaborando dei modelli sulla complessità basati su una “Teoria delle
catastrofi”. Sulla base di queste teorizzazioni alcuni studiosi sono giunti a presupporre
l’assoluta inconoscibilità del mondo e l’impossibilità-inutilità delle previsioni15. Se così fosse
anche la costruzione di una strategia in senso normativo perderebbe significato. Ma ci pare
che questa ipotesi, davvero estrema, debba essere rifiutata, se non altro per il fatto che, tanto
sul piano della scienze naturali che su quello delle scienze sociali, i risultati conseguiti da un
approccio scientifico, ancorché imperfetti, sono significativi. Senza contare che se ipotizzassimo l’inutilità della previsione ciò colpirebbe qualsiasi argomentazione di carattere scientifico e quindi anche la teoria delle catastrofi: “In un universo di ordine puro, non si darebbe innovazione, creazione, evoluzione. Non si darebbe esistenza vivente né umana. Allo stesso
modo, nessuna esistenza sarebbe possibile nel puro disordine, poiché non ci sarebbe alcun
elemento di stabilità sul quale fondare un’organizzazione”16.
7. Il sorgere di una teorizzazione prescrittiva nella definizione di una strategia
Può sorprendere, ma l’indirizzo prescrittivo nella definizione di una strategia
d’impresa prende forma prima degli studi di carattere positivo. Questo anomalo procedere è
stato determinato dal fatto l’economia diventa una disciplina scientifica e si forma un corpo di
14
Le scienze sociali, a cominciare dall’economia iniziano a prendere corpo solo nel XVIII secolo.
15
Si veda ad esempio De Toni e Pomello (2007).
16
Morin (1990).
11
studiosi dell’economia incaricati di insegnare questa disciplina nelle università alla fine del
XIX secolo, vale a dire in un momento nel quale la scienza di riferimento per qualsiasi altra
branca di studio è rappresentato dalla fisica classica e dal suo orientamento di tipo nomotetico17. Pertanto gli economisti tendono, non senza difficoltà, ad accreditare lo statuto scientifico dell’economia trascurando gli aspetti sociali e sottolineando invece la ricerca di leggi generali applicabili in ogni circostanza e in ogni tipo di organizzazione sociale, ad imitazione
delle prestigiose scienze naturali. Il filone prevalente degli studi economici, rappresentato
dalla Scuola marginalista (detta anche neoclassica), che vede nella elaborazione di Leon
Walras e di Vilfredo Pareto l’espressione più compiuta attraverso il modello di equilibrio economico generale, assume quindi un chiaro e inequivocabile indirizzo nomotetico e fa proprio
il determinismo che ne deriva, che viene emblematizzato dalla ricerca delle condizioni di
“equilibrio” delle posizioni economiche dei soggetti (produttori e consumatori) e dei mercati.
Poiché il modello di equilibrio economico generale risulta determinato solo assumendo che in
tutti i mercati operi una configurazione di concorrenza perfetta, ne deriva anche che è questo il
modello di mercato tradizionalmente utilizzato per interpretare la realtà, dal momento che il
modello che sta agli antipodi di quello di concorrenza perfetta (monopolio) è considerato particolare e non significativo.
L’effetto derivato da questo approccio è che, teorizzando il funzionamento dei mercati
in situazioni coincidenti (o quasi) con quello di concorrenza perfetta, non vi è spazio per lo
studio di una strategia da parte dell’impresa, dal momento che il modello concorrenziale determina senza eccezioni il comportamento che una impresa deve assumere18. In altre parole la
strategia è unica per tutte le imprese e discostarsene significherebbe, sotto il profilo concettuale, decretare la sparizione dell’impresa che fosse caratterizzata da un comportamento anomalo in quanto inefficiente.
Solo nel 1933 vengono pubblicati degli studi che teorizzano delle situazioni di concorrenza imperfetta che creano, per così dire, lo spazio concettuale perché si assuma il problema
della definizione della strategia da parte di un’impresa19. Tuttavia questa problematica sarà
presa in seria considerazione solo dopo il secondo conflitto mondiale e soprattutto grazie ad
una serie di pubblicazioni che descrivono in modo assai convincente la trasformazione del capitalismo americano verso il cosiddetto big business. Infatti è proprio negli Stati Uniti che abbiamo fenomeni così vistosi di gigantismo industriale che rendono a tutti evidente che i modelli dell’equilibrio neoclassico risultano assolutamente inadeguati a dar conto delle caratteristiche di funzionamento dell’assetto economico che ha iniziato a formarsi a metà del XIX secolo con il processo di crescita e di concentrazione delle ferrovie, al quale è seguito quello
nell’industria della raffinazione del petrolio e della formazione del gigantesco trust della Standard Oil, a sua volta seguito da una crescita senza precedenti dell’industria automobilistica
americana e della Ford in particolare. Prende così corpo una forte esigenza di revisione degli
schemi concettuali dell’economia, che vengono rafforzati anche dalla grande crisi del 1929.
Questa esigenza condurrà, da un lato, alla nascita della macroeconomia, attraverso
l’elaborazione di John Maynard Keynes e, dall’altro, alla teorizzazione del sorgere di una
classe sociale nuova: i manager, incaricati di gestire le grandi imprese attraverso delle competenze di natura scientifica come quelle rappresentate dal movimento dello Scientific
17
Si dice che una scienza ha un orientamento nomotetico quando mira a definire delle leggi esplicative della
realtà indagata di tipo generale, valide perciò in ogni luogo e in ogni tempo. In passato si pensava che le scienze
naturali e perfino le scienze sociali, e fra esse l’economia in primo luogo, dovessero essere costruite sulla base di
leggi generali e invarianti. Cfr. Piaget (1970).
18
Sulle caratteristiche definitorie del modello e sull’equilibrio deterministico che ne deriva si veda Volpato
(2008).
19
Chamberlin (1933) e Robinson (1933).
12
Management descritto e teorizzato da Frederic Winslow Taylor20. Con questa teorizzazione
abbiamo quindi la nascita di una classe di tecnocrati e numerose università, fra le quali
Harvard in primo piano, si pongono l’obiettivo di educare con una metodologia rigorosa questa élite tecnocratica21. Una metodologia che però non può essere ricalcata su quella un po’
esangue tipica dei modelli economici. Secondo questa ottica manageriale la vita dell’impresa
non può essere sintetizzata in schemi rappresentati tipicamente da curve di domanda e di offerta, semplificate fino al punto di diventare delle curve continue e derivabili. La dinamica di
una impresa, e tipicamente delle grande impresa americana, che attrae l’interesse degli studiosi di management è fatta di persone, di potere, di gerarchie, di opportunità, di mosse e contromosse competitive, come si apprende in un famoso libro di Alfred Chandler: Strategy and
Structure del 1962 che in un certo senso decreta ufficialmente la nascita del concetto e del
problema strategico.
8. Il grande rischio di una impostazione prescrittiva: le affermazioni tautologiche
Prima di passare a presentare le diverse scuole di strategia appare opportuno segnalare
il grande rischio che pende sopra una elaborazione di tesi di tipo prescrittivo. Esso consiste
nella presentazione di affermazioni che discendono direttamente dal complesso di principi che
definiscono gli obiettivi dell’impresa e le regole della razionalità. Si tratta di affermazioni
tautologiche che pertanto risultano prive di significato empirico. Di conseguenza una affermazione tautologica non è mai falsa, ma altresì è vera per definizione. In quanto vera per definizione una tautologia risponde alla logica stessa con la quale si struttura la realtà da esaminare
e di per sé non dice nulla che non sia già contenuto negli aspetti definitori della logica considerata, quindi nulla di empiricamente rilevante. Vediamo di fare qualche esempio. In un sistema sociale si assume che il ruolo di un esponente politico sia quello di servire l’interesse
della collettività. Ne deriva che se si intervistasse un uomo politico chiedendogli quale sia il
suo programma nel caso venga eletto ed egli rispondesse: “Il mio programma è servire al meglio la collettività” saremmo di fonte ad una affermazione tautologica. Lo capiamo dal fatto
che nessun politico si sognerebbe di dire che egli non è guidato dall’interesse comune. Se invece il politico dicesse: “Farò costruire più ospedali e meno caserme” saremmo di fronte ad
una affermazione di rilevanza empirica. Si può essere, o meno, d’accordo con questo programma, ma esso appare effettivamente discriminante tra due comportamenti diversi. Analogamente in campo economico noi abbiamo assunto che l’impresa persegua un obiettivo di profitto. Se quindi un imprenditore interpellasse un consulente, chiedendo come deve regolarsi
per il bene della sua azienda, egli in concreto sta dicendo: cosa devo fare perché la mia impresa consegua un profitto. Se quindi il consulente rispondesse al quesito dicendo: “Quando
prende una decisione si assicuri che essa produca un profitto per la sua impresa” saremmo anche in questo caso di fronte ad una risposta tautologica, vera per definizione, ma priva di un
autentico significato empirico e prescrittivo.
20
Taylor (1911).
21
Secondo Torstein Veblen, un economista attento osservatore del sorgere di questa nuova classe di tecnocrati
simboleggiati dal termine engineer, il tecnocrate non è guidato da una mera bramosia di guadagno, come il tipico
businessman, ma si fa anche guidare da un tensione verso la scientificazione e la razionalizzazione del funzionamento dell’impresa, come appunto nel caso di Taylor. Su questo si veda Veblen (1904). Sul sorgere del ruolo
di manager in Gran Bretagna fin dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo si veda Pollard (1965).
13
9. Da dove nasce il rischio di fare affermazioni tautologiche
Se un uno studioso o un consulente adotta il punto di vista di una analisi positiva, e
finché si riferisce ad un caso ragionevolmente identificato, egli non corre il rischio di fare affermazioni tautologiche in quanto le sue affermazioni sono del tipo: “In quella situazione ho
riscontrato questo e quello”. Si tratta di affermazioni che possono essere giuste o sbagliate,
vere o false, ma non si tratta di affermazioni vere per definizione sono affermazioni che hanno
una discriminante empirica. Il rischio di fare affermazioni tautologiche, sia inconsapevolmente
che consapevolmente, nasce dal fatto che la scienza economica continua ancora adesso a dare
grande rilievo al grado di generalità di una affermazione. Poiché la maggior parte degli economisti concepisce l’economia come una scienza nomotetica, volta alla scoperta di leggi valide ovunque e comunque e fa una graduatoria di “valore” delle cosiddette “leggi” economiche, in funzione del loro grado di generalità, ne deriva che molto spesso gli economisti formulano le loro tesi non con riferimento a casi specifici ma cercando di far loro assumere
l’immagine di legge generale. Il problema è però che, con questo atteggiamento, non riescono
a trasformano delle tesi da specifiche (convalidate ed efficaci in una specifica realtà) in tesi
non generali (convalidate ed efficaci in tutti i casi), cosa che è ormai riconosciuta come impossibile dagli studi di epistemologia della scienza, ma solamente in tesi generiche (spogliate
dei loro riferimenti specifici proprio per cercare di farle passare come generali). In questo caso
saremmo di fronte a una tautologia più o meno consapevole, creata per cercare di dare importanza scientifica ad una propria affermazione. Poiché è però difficile dare risposte prescrittive,
su quale strategy realizzare, che funzionino in una molteplicità di situazioni, succede che alcuni finiscono per adottare affermazioni tautologiche. Infatti è praticamente impossibile in
economia arrivare a “leggi nomotetiche” in quanto le molteplicità di situazioni diverse postulano comportamenti diversi proprio per adattarsi a specifiche realtà: ciò che potrebbe funzionare per una grande impresa ben difficilmente funzionerebbe per una piccola impresa, ciò che
potrebbe funzionare in un settore 10 anni fa è molto improbabile che funzioni oggi, in una situazione che si è nettamente modificata, ciò che potrebbe funzionare per una imprese che produce calzature è molto improbabile che funzioni nel settore dell’acciaio e viceversa. Se si ha la
pretesa di enunciare tesi di carattere generale, si finisce per fare affermazioni generiche, cioè
indefinite, e che, proprio perché non sono correttamente definite si può cercare di contrabbandare come efficaci in una pluralità di situazioni.
Nei casi in cui la tautologia è detta consapevolmente, esiste però anche una diversa ragione, che deriva dal fatto che invece di fare una affermazione prescrittiva generica dovrei sostituirla con “n” affermazioni relative a “n” situazioni specifiche diverse. Questa operazione è
però molto dispendiosa in termini di tempo da dedicare alla ricerca, almeno per chi crede ancora nella esigenza di pervenire a regole “nomotetiche” di valenza universale. Inoltre sostituire una affermazione indicata come generale con “n” affermazioni singolari, è anche una
ammissione di modesta caratura scientifica (in termini nomotetici) della propria tesi. La soluzione (fasulla) a questo problema viene allora cercata o nella genericità delle affermazioni o
nella proposizione di affermazioni tautologiche. Inutile dire che se questo atteggiamento è
consapevole, chi fa delle dichiarazioni tautologiche avrà in generale l’accortezza di camuffare
la natura di queste affermazioni stesse dietro argomentazioni lunghe e complesse, ma che se
vengono analizzate con attenzione mostrano la loro inconsistenza empirica.
Nel caso della proposizione prescrittiva di una strategy l’escamotage di tipo generico
consiste nel dare informazioni molto vaghe. Se, ad esempio, formulo una strategy affermando
che è conveniente diversificare per imprese diverse che si trovano in una molteplicità di situazioni diverse (che rappresenta una affermazione facilmente criticabile), farò in modo di non
specificare come è opportuno che avvenga la diversificazione. In questo modo tendo a limitare
la possibilità di critica della tesi prescrittiva. Probabilmente diventa ora più chiaro perché nella
14
definizione data all’inizio di una strategy abbiamo sottolineato che essa può essere considerata tale solo se viene presentata in forma analitica e non equivoca, proprio per mettere in
guardia il lettore dalla possibilità che si contrabbandi una affermazione largamente indefinita
per una strategy in senso proprio. Invece l’escamotage di tipo tautologico si presenta sottoforma di una tesi prescrittiva che in forma più o meno camuffata sostiene che è opportuno fare
ciò che risulta opportuno per l’impresa, il che ovviamente è vero per definizione, ma privo di
contenuto empirico. Se ad esempio presentando una strategy sostengo che l’impresa deve fare
in modo di acquisire e mantenere un vantaggio competitivo sto appunto facendo una affermazione tautologica dal momento che un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza mi consente l’acquisizione di un profitto (se un vantaggio competitivo non mi consente un profitto
non è un vantaggio competitivo) e quindi non sto dicendo altro che ciò che è contenuto negli
obiettivi dell’impresa. Per uscire dalla tautologia dovrei esplicitare senza ambiguità il comportamento empirico e specifico che consentirebbe in una certa situazione e per una certa impresa l’acquisizione di un vantaggio competitivo. L’uso di affermazioni tautologiche è estremamente diffuso e rappresenta probabilmente l’errore metodologico più diffuso delle tesi prescrittive, sia nella sua forma inconsapevole (chi la dice non si rende conto di dire una banalità
priva di significato concreto), sia nella forma consapevole (chi la dice si rende conto che sta
facendo una vuota affermazione, derivata dal fatto che non si è in grado di indicare affermazioni empiriche che abbiano carattere generale, ma comunque si conta sul fatto che chi ascolta
non se ne renda conto).
10. La scuola Harvardiana della Business Policy e la metodologia dei casi
La Harvard Business School (HBS) fondata nel 1908 è la prima università americana
ha dedicare una notevole attenzione agli studi di Management. Tra l’altro essa attiva una cattedra di Business History, che per molti anni è stata ricoperta da Alfred Chandler, e attiva nel
1926 il Bulletin of the Business Historical Society che più tardi si ridenominerà Business
History Review. Non stupisce quindi che l’impostazione data ai corsi di Strategy, che inizialmente hanno la denominazione di Business Policy, si sviluppi privilegiando lo studio di singoli casi aziendali di successo, che vengono assunti come paradigmi di riferimento nella definizione della strategy. L’impostazione che ne deriva dà importanza tanto all’analisi
dell’ambiente competitivo che alle caratteristiche tipiche dell’impresa per la quale si intende
definire la strategy. Tuttavia ci sembra di poter dire che il desiderio di realizzare corsi che non
fossero astratti e professorali (e che quindi ricalcassero gli schemi astratti della microeconomia marginalista), ma che invece si rivolgessero innanzitutto a fornire elementi indicativi per
giovani manager, fece prevalere un insegnamento nella quale la teorizzazione fosse ridotta al
minimo, anche perché la HBS offriva un Master in Business Administration e si rivolgeva
quindi a studenti già laureati (postgraduate) e a giovani manager che interrompevano temporaneamente il lavoro per acquisire una preparazione professionale più solida in un centro universitario di grande prestigio22.
L’impostazione della scuola harvardiana, che matura dopo il secondo conflitto mondiale, si caratterizza per: a) una serie di regole, che potremmo definire di coerenza logica nella
definizione della strategy, b) alcune prescrizioni operative e c) un quadro di indicazioni piuttosto destrutturato, nel quale si passano in rassegna una serie di aspetti ritenuti rilevanti per le
scelte dei manager che hanno la responsabilità di condurre l’impresa. Aspetti che vengono definiti attraverso una checklist avente una funzione analoga a quella svolta dalla SWOT Analysis: (Strengths, Weaknesses, Opportunities, and Threats).
22
La Harward University è stato il primo ateneo fondato negli Stati Uniti nel 1636 come Harvard College dalla
Massachussets Bay Colony grazie a un generoso lascito di John Harvard
15
Gli elementi della coerenza logica sono stati riassunti da R. Rumelt (1997) e sono :
! Consistency : principio di coerenza fra parti diverse della strategy23;
! Consonance : la strategy deve rappresentare una idonea risposta alle specificità
dell’ambiente competitivo verso il quale l’impresa deve adattarsi;
! Advantage : la strategy deve essere diretta alla creazione di un vantaggio
competitivo dell’impresa nei confronti delle imprese facenti parte dell’arena
competitiva;
! Feasibility : la strategy deve poter essere realizzata senza assumere rischi
eccessivi per l’impresa.
Per quanto riguarda le prescrizioni operative segnaliamo quelle più importanti dal
punto di vista metodologico riportate in Christensen (1987)24 che sono:
! La strategy deve essere un processo di scelta deliberata e consapevole;
! La strategy compete al Chief Executive Officer dell’impresa;
! La strategy deve essere esplicitata, affinché i collaboratori del CEO ne siano informati e possano adeguatamente assecondarne l’esecuzione.
! Il successo di una strategy dipende dalla sua coerenza con l’ambiente competitivo, ciò che conviene in una certa situazione può essere totalmente diverso da
quanto appare conveniente in una situazione diversa.
! La strategy, una volta definita, dovrà essere puntualmente eseguita e, seguendo
in questo quanto sostenuto nel libro di Chandler, la struttura organizzativa
dell’impresa deve essere disegnata in funzione della particolare strategy che si
intende realizzare.
Infine la checklist delle problematiche da analizzare ai fini della formazione della
strategy considera i seguenti temi riferiti all’ambiente esterno: Societal Changes, Governamental Changes, Economic Changes, Competitive Changes, Supplier Changes, Market Changes, mentre con riferimento all’ambiente interno all’impresa si devono prendere in considerazione tutte le principali funzioni manageriali: Marketing, Research and Development,
Management Information System, Management Team, Operations, Finance, Human Resources.
L’approccio Business Policy ha il pregio di richiedere che si pervenga alla definizione
di una strategy attraverso un processo che fa riferimento tanto alla specificità del settore di appartenenza che alle peculiarità dell’impresa in questione. Tuttavia esso aveva un punto debole
nella insufficiente teorizzazione degli aspetti da considerare per la formulazione della strategy
in quanto il rimando alla checklist risultava inidoneo a fornire sufficienti elementi sulla metodologia da adottare, come vedremo a proposito della successiva scuola sorta ad Harvard con
l’elaborazione di Michael E. Porter che si proporrà proprio di rimediare a questo aspetto attraverso l’innesto di una impostazione economica tratta dalla Industrial Organization.
23
Si noti che anche questi elementi di coerenza logica potrebbero essere criticati come esempio di tautologie.
Basta chiedersi: vi è qualcuno che potrebbe sostenere che la strategy deve essere incoerente. Poiché la risposta
non può che essere negativa abbiamo un segnale della banalità della tesi in sé.
24
Questa costituisce la 5° edizione dell’opera che esce a cura di Learned, Christensen, Andrews and Guth nel
1965.
16
11. La scuola del Long Range Planning
L’interesse per gli studi sulle strategie d’impresa crebbe considerevolmente negli anni
’70 e diede luogo ad un filone di ricerca particolarmente centrato sulle attività di planning e
mirante a indicare le modalità attraverso le quali occorreva coordinare l’attività di attuazione
di una certa strategia d’impresa. Si trattava di tener conto che la dimensione delle imprese
(ovviamente americane) tendeva continuamente a crescere e a svilupparsi in una ambito internazionale, toccando livelli di complessità precedentemente sconosciuti. Come abbiamo in precedenza sottolineato il planning, in senso proprio, va tenuto distinto dalla strategy, in quanto
esso non cerca di individuare le linee d’azione con le quali creare un vantaggio competitivo
(che fare? Tipico della strategy), quanto piuttosto le modalità con le quali si potevano/dovevano attuare gli obiettivi indicati dalla strategy in modo efficace ed efficiente.
Nell’ambito del planning vennero elaborati schemi e procedure con le quali suddividere: a)
obiettivi di lungo periodo in una sequenza temporale di obiettivi da conseguire a breve, a medio e a lungo periodo; b) obiettivi di carattere generale in sottosistemi di obiettivi più specifici,
suddivisi ad esempio per aree di mercato e per funzioni aziendali (ricerca e sviluppo, acquisti,
produzione, commercializzazione, ecc.). Il planning rappresenta indubbiamente un compito
assai importante tra le fasi della problematica strategica in quanto non è difficile osservare
come il successo dell’impresa spesso derivi da una applicazione deficitaria di soluzioni strategiche in sé corrette.
Sul tema non ci sarebbe molto altro da dire in questa analisi critica degli approcci metodologici alla determinazione prescrittiva della strategy, dal momento che qui siamo in presenza di qualcosa di concettualmente diverso dalla strategy. Ne parliamo perché altri studiosi
che hanno analizzato criticamente le scuole di strategy non hanno colto la necessaria distinzione tra: Strategy Formation Process, Strategy, Planning e Strategy Control Process, e finiscono per imputare al Planning difetti metodologici fuori luogo, dal momento che questa fase
ha obiettivi conoscitivi diversi. Fra i più aspri critici di questa impostazione abbiamo Henry
Mintzberg, che ha esposto le sue critiche in una molteplicità di saggi25. La nostra opinione è
che Mintzberg, studioso e polemista indubbiamente brillante, manca spesso il bersaglio sia per
carenze di distinzione metodologica, come nel caso citato di strategy e di planning, sia perché
svolge in molti casi una critica strumentale costruita attraverso una deformazione ad arte
dell’impostazione che vuole criticare. Ad esempio Mintzberg suggerisce l’idea che, secondo
questa scuola, l’impresa che effettua il planning su un arco di tempo pluriennale non si preoccupa poi di verificare nel tempo se il piano si sta realizzando come programmato o se, essendosi verificati degli eventi non previsti nel quadro di riferimento dal quale si è definito la
strategy non ne siano scaturite esigenze di aggiustamento. Anche assumendo che la scuola del
Long Range Planning trascuri la fase del Strategy Control Process, ma questa affermazione
non mi sembra giustificata, non vi è nulla nell’impostazione metodologica del Long Range
Planning che impedisca di integrare la fase di Planning con quella di Strategy Control Process.
In sostanza la scuola Long Range Planning intende sostenere che è importante non
solo l’individuazione degli obiettivi da perseguire, ma anche la modalità organizzativa con la
quale essa viene realizzata, sottolineando il fatto che in una struttura complessa come la
grande impresa industriale, spesso diversificata nelle sue attività e internazionalizzata sul
fronte dei mercati serviti, occorre realizzare un apparato complesso e attivato secondo un
timing rigoroso se non si vuole correre il rischio di non raggiungere gli obiettivi ai quali si intende mirare, o di raggiungerli con gravi ritardi e con significativi aggravi di costo.
25
In questa sede segnaliamo Mintzberg (1978) e Mintzberg et al. (1998). In quest’ultima pubblicazione si riporta
anche un’ampia bibliografia sugli studi di strategia.
17
Se si vuole fare una critica alla scuola Long Range Planning essa non deve essere diretta a carenze nell’impostazione della strategy, che non compete a questa fase, ma piuttosto al
fatto che occorre impedire che la struttura organizzativa e le procedure di planning si trasformino da strumenti per la realizzazione della strategy in attività autoreferenziali rigide e incapaci di adattarsi alle esigenze di cambiamento della strategy stessa, vuoi per cambiamento del
quadro di riferimento competitivo, vuoi per la verifica, ottenuta attraverso lo Strategic Control
Process, che certe ipotesi di base alla strategy decisa precedentemente risultano imprecise in
momento successivo: si è commesso un errore di previsione e occorre ritarare la strategy per
adattarla meglio alle esigenze dell’ambiente competitivo. In sostanza il Planning è tipicamente
un complesso di routine pensate per agevolare il passaggio di un’impresa da un certo posizionamento competitivo ad un altro. Se si accetta l’idea di Chandler che: prima si fissa la strategia e quindi si disegna la struttura organizzativa in grado di attuarla (e nella quale vi è evidentemente anche il planning), una struttura di planning rigida è una struttura incapace di
evolvere rispetto ai mutamenti o anche solo alle correzioni di strategy. Di qui l’esigenza di enfatizzare maggiormente il puntuale compimento della fase di controllo dei risultati nel tempo,
controllo che deve poter segnalare alla struttura dello Strategy Formation Process le anomalie
riscontrate e quindi le linee di una possibile e necessaria ridefinizione della strategy.
12. La scuola del modello delle Cinque Forze
L’approccio della scuola di Harvard, in quanto basato prevalentemente su una razionalizzazione di singole realtà estratte da casi aziendali, risultava abbastanza povero di indicazioni prescrittive. Lo studio dei casi aveva molti pregi dal punto di vista della formazione dei
manager, in quanto forniva loro un complesso di elementi sui quali ragionare, applicando anche le loro esperienze già acquisite. Come abbiamo esposto in precedenza le indicazioni erano
o di tipo logico (Consistency, Consonance, Advantage, Feasibility) o di tipo più indicativo che
prescrittivo in senso proprio (considerare il sistema economico, la concorrenza, il mercato,
ecc.). Se quindi questo approccio poteva risultare utile se rivolto a manager già operativi, mostrava evidenti debolezze nel momento in cui si fosse voluto realizzare dei corsi per studenti
undergraduate come tutte le università americane (e non solo) desideravano attuare, una volta
constata la rilevanza dell’argomento. Tra gli studiosi che avevano collaborato con il gruppo
Business Policy di Harvard, guidato da Christensen vi era anche Michel E. Porter, un giovane
e brillante economista di Harvard che non si era formato attraverso gli studi di Management,
ma che invece nasceva professionalmente come uno studioso di Industrial Organization, ovvero di Economia industriale. Ad Harvard, parallelamente al filone di studi di Business, vi
erano importanti studiosi economia che si erano specializzati nello studio dell’organizzazione
dei settori produttivi come applicazione evolutiva delle problematiche sollevate dalla formazione di settori di tipo non concorrenziale, posti in luce dalla già citata analisi di Chamberlin
del 1933. Fra le figure più eminenti di questo indirizzo di studi applicato all’Industrial Organization abbiamo Edward S. Mason26 che alla fine degli anni ’30 iniziò ad elaborare un modello
interpretativo del funzionamento dei settori industriali che, ulteriormente sviluppato in particolare da un altro economista di Harvard: Joe S. Bain, prese il nome di modello “Structure,
Conduct, Performance - SCP”.
L'assunzione di base dello schema SCR è che esiste un legame di causa-effetto tra
la struttura, rappresentata dalla particolare conformazione del settore: grado di concentrazione, di differenziazione, di diversificazione, ecc., e il comportamento, assunto dalle imprese nella loro ricerca del profitto (strategie) che a loro volta impattano sui risultati, che
per certi autori si identificano esclusivamente nel profitto conseguito dal settore e dalle
singole imprese, per altri in una serie di obiettivi intermedi, rappresentati ad esempio dal26
Mason (1939, 1957).
18
l'ammontare degli investimenti in pubblicità, in ricerca e sviluppo, in crescita delle quote
di mercato27.
Michel E. Porter proveniva da questa scuola e decise di impostare il problema prescrittivo della definizione della strategy a partire dall’impianto del modello SCP. Questa impostazione aveva il pregio di unire una impianto teorico di grande prestigio alle problematiche manageriali, attraverso uno schema semplice e chiaro di analisi delle forze che interagiscono in
una industria e devono quindi essere prese in considerazione per la definizione della strategy28.
Questa impostazione, che possiamo indicare come “modello delle cinque forze”, definisce le opportunità di profitto di una impresa in funzione della conformazione settoriale circa
il potere di mercato e contrattuale esprimibile da:
1.
2.
3.
4.
5.
I concorrenti effettivi dell’impresa considerata;
Gli acquirenti del settore;
I concorrenti potenziali in grado di inserirsi nel settore con prodotti analoghi;
I concorrenti di prodotti sostituibili rispetto a quelli del settore;
I fornitori.
Questo modello, se da un lato fornisce una base concettuale molto più strutturata
dell’analisi e della formulazione di una strategy rispetto alla precedente scuola harvardiana
della Business Policy, ha il grave difetto di privilegiare in misura largamente maggioritaria le
condizioni strutturali del settore. In altre parole il risultato conseguito dall’impresa in termini
di profitto dipende in prima battuta dalla struttura del settore (settore prevalentemente monopolista = alti profitti; settore prevalentemente concorrenziale = bassi profitti) che è appunto il
risultato dell’impostazione del modello SCP. È facile osservare come la frequente varianza dei
risultati fra imprese appartenenti allo stesso settore metta in luce in modo evidente come il risultato di una impresa non possa essere determinato in modo pressoché esclusivo dalla struttura del settore.
Considerando la parte positiva dello schema di Porter è da sottolineare l’importanza di
uno studio attento delle condizioni competitive del settore in cui una impresa opera. Uno studio che, come vedremo, appare messo in second’ordine da approcci alternativi rispetto a
quello di Porter. Il problema però è che la sola analisi della struttura dell’offerta non consente
di esplorare le molteplicità di opzioni strategiche che comunque l’impresa può percorrere alla
ricerca di propri vantaggi competitivi. Ad esempio Porter, valutando le possibilità di scelta di
un’impresa sintetizza il tutto in solo due strategie: a) produrre prodotti sostanzialmente omogenei a quelli della concorrenza, ma a con costi inferiori; b) differenziare i propri prodotti rispetto a quelli concorrenti. Da un lato questa ottica è troppo restrittiva rispetto alle possibilità
competitive dell’impresa, dall’altro anche la differenziazione può assumere una ventaglio amplissimo di connotazioni diverse. Senza un esame dettagliato di queste diverse opportunità e
senza corrispondenti indicazioni operative la definizione della strategy appare decisamente incompleta.
Dopo una prima fase di successo della sua impostazione non sono mancate critiche e
tentativi di proporre impostazioni ritenute più idonee. Tuttavia Porter ha ribadito anche molto
recentemente l’impianto della sua visione strategica29.
27
Sulla natura del paradigma SCP, con tendenza a giustificarne la valenza teorica e l'applicazione pratica, si
veda in particolare Scherer (1980).
28
Porter (1980).
29
Porter (2008).
19
13. La scuola delle Opzioni Strategiche
Un approccio ulteriore è rappresentato dalla scuola delle opzioni strategiche.
Questa impostazione consiste nell’individuare un ampio ventaglio di comportamenti strategici alternativi come nel caso dell’elenco seguente:
! strategie di crescita,
! strategie di differenziazione,
! strategie di diversificazione,
! strategie di integrazione verticale, ecc.
Eventualmente questo genere di impostazione può essere ulteriormente
arricchito attraverso un incrocio con modalità orizzontali del possibile comportamento d'impresa:
- strategie offensive,
- strategie difensive
- strategie collusive, ecc.
Nella sostanza si tratta di individuare una molteplicità di scenari possibili
per il settore o i settori in cui opera l'impresa, scenari che definiscono il complesso
delle variabili che caratterizzano l’ambiente competitivo dal quale dedurne una serie di obiettivi rapportabili alle possibili posizioni che un'impresa può assumere
nella gerarchia concorrenziale. Da questo confronto è possibile configurare delle
strategy possibili da attuare30. In sostanza chi segue questa impostazione tende a
dare una serie di indicazioni coerenti con il tipo di strategia che una impresa intende
realizzrae (se vuoi diversificare fai questo e questo).
I limiti di questa impostazione mi paiono di due tipi. Da un lato proprio perché non si ragiona con la realtà di uno specifico settore e di una specifica impresa
per la quale si cerca di definire la strategy più opportuna, se non nell’ambito assai
ristretto di un caso aziendale, che spesso non va oltre lo spazio di una pagina, il
quadro di riferimento economico è inevitabilmente piuttosto sintetico. In altre parole non c’è un esame dettagliato della storia del singolo settore, né di quello
dell’impresa con tutto il suo bagaglio di punti di forza e di debolezza, che vanno
necessariamente considerati nella selezione degli obiettivi di posizionamento
dell’impresa. Dall’altro il tipo di strategy che poi si analizza è in un certo senso già
dato: ad esempio si tratta di applicare una strategia di differenziazione oppure di diversificazione, ecc. In questo modo il focus dei criteri prescrittivi con considera
tanto quale strategy effettivamente scegliere e si sposta inevitabilmente sulla coerenza interna alla strategia prescelta. Se devo realizzare una strategy di differenziazione, allora dovrò agire in questo modo. Se invece devo realizzare una strategy di
differenziazione dovrò agire in quest’altro modo. È possibile che sul piano didattico
questo approccio risulti utile, in quanto si possono fornire degli schemi sinottici in
basi ai quali segnalare le esigenze che devono essere rispettate nell’attuazione di
una qualche strategia, che però risulta selezionata un po’ a priori.
In sostanza siamo di fronte ad un approccio che evita di misurarsi proprio
con la parte più qualificante e difficile della articolazione di una strategy che consi30
La letteratura strategica che si richiama a questa ottica è molto vasta e trasversale. Si veda ad esempio:
Wissema et al. (1980), Sinatra (1989), Thompson (1990), Goold e Luchs (1993), Khanna e Palepu (1997),
Rispoli (2002).
20
ste proprio nella determinazione prospettica (previsione) dell’evoluzione
dell’ambiente e delle determinanti del settore: domanda e offerta.
Poiché l'analisi strategica della documentazione che è possibile sviluppare in
sede di attività didattica è comunque limitata per ragioni di spazio e di tempo esiste
il rischio che in questa impostazione si finisca per assumere un atteggiamento più o
meno consciamente tautologico, derivante dal fatto che la strategia suggerita non
diventa altro che una serie di sollecitazioni dirette ad “eliminare i punti di debolezza”, a “consolidare i punti di forza”, ad “essere innovativi”, a “servire più adeguatamente la domanda”, ecc. Nel migliore dei casi si effettua una “analisi di coerenza di tipo logico tra quanto si vuole raggiungere e quanto occorre attivare. Ad
esempio se voglio rafforzare l’immagine del mio prodotto devo prevedere un significativo flusso di spesa in strumenti di comunicazione, ecc. Mentre la parte più problematica e rilevante della definizione della strategy sta nella definizione di una teoria cha sappia esplicitare nel caso concreto (quel settore, quell’impresa, in quel
momento) quali siano le minacce e le opportunità offerte dal settore e quali sono
opossano diventare i veri punti di forza e di debolezza di un'impresa. Infatti se assumiamo nel quadro descrittivo di partenza che un'impresa, ad esempio, è tecnologicamente “troppo debole” per resistere sul mercato, è evidente che se ne deve dedurre (tautologicamente) che ad essa restano due sole alternative: rimediare a questa
carenza o abbandonare il settore al più presto possibile per ridurre i danni. Mentre
ciò che servirebbe è una teoria della evoluzione tecnologica del settore che dica se,
e a quali condizioni, l'impresa può o meno competere tecnologicamente sul mercato.
Riassumendo, l'approccio per esemplificazione delle strategie esercita certamente una funzione euristica e didattica utile, ma talvolta può risultare anche fuorviante, perché tende ad offuscare il vero problema strategico (lettura prospettica
della complessità) a favore della sottolineatura della coerenza fra obiettivo strategico e comportamento dell'impresa, finendo quindi per gravitare su questioni più di
coerenza logica interna alla attuazione di una strategy selezionata a priori e del
planning conseguente piuttosto che di problem solving strategico.
14. La scuola Resource Based
Completiamo il panorama degli approcci strategici di tipo prescrittivo sintetizzando
l’impostazione della scuola Resource-Based View. Questa scuola si è imposta come
l’approccio prevalente nel corso degli anni ’90. Ecco come questo approccio viene presentato
da Robert M. Grant31, uno dei massimi esponenti di questa impostazione: “Nel corso degli
anni ’90, le correnti di pensiero che consideravano le risorse e le competenze come la base
fondamentale delle strategie aziendali e fonte primaria di redditività sono confluite in quella
che è stata denominata <resource-based view of the firm>. Essa si fonda sulla nozione secondo cui l’impresa è essenzialmente un insieme di risorse e competenze e che tali risorse e
competenze sono le determinanti principali della sua strategia e della sua performance”32.
Come si coglie immediatamente, questa visione appare sostanzialmente differente da
quella di Porter e da quelle che comunque si richiamano al modello SCP nel quale l’accento
gravita soprattutto sulla conformazione dell’ambiente competitivo. Il possibile rischio di que31
Grant (2005).
32
Tra gli esponenti di questa scuola oltre a Grant segnaliamo: Barney (1991), Mahoney e Pandian (1992),
Peterlaf (1993).
21
sta impostazione deriva da due possibili derive. Una prima deriva è quella di ipotizzare una
impresa troppo poco condizionata dalla realtà competitiva33. Se l’accento è posto sulle proprie
competenze non è improbabile che si sviluppi l’idea che l’impresa non debba continuamente
fare i conti con la concorrenza e con le sfide dell’ambiente competitivo. Una seconda deriva
può essere quella che numerosi autori di questa scuola sottolineano l’importanza delle “competenze distintive” dell’impresa intese anche come core competence, ovvero quel complesso
di competenze che in passato hanno rappresentato il punto di forza dell’impresa34.
Non c’è dubbio che le core competence giocano un ruolo rilevante, che vanno coltivate
e potenziate e che rappresentano un importante capitale per l’impresa, ma non va neppure dimenticato che ciò che distingue una competenza particolarmente rilevante per il confronto
competitivo da una competenza pur presente nell’impresa, ma considerata di minor impatto
competitivo, dipendo proprio dal quadro competitivo. Le competenze non sono rilevanti per
sé, lo sono in quanto generano opportunità, potenzialità, vantaggi oligopolistici, ecc. In altre
parole la costituzione di determinate competenze può essere un processo lungo e costoso, ma
il potenziale di valorizzazione economica delle competenze può dissolversi o quantomeno ridursi significativamente in tempi molto rapidi di fronte a dei cambiamenti del sistema economico generale o del singolo settore. Si consideri ad esempio il mercato dell’automobile e la
normativa a favore di una riduzione delle emissioni di CO2. All’inizio del 2008 lo Stato Francese ha emesso una nuova normativa denominata bonus-malus secondo la quale l’acquisto di
una vettura a bassa emissione di CO2 viene incentivata con un beneficio fiscale di alcune centinaia di €, mentre l’acquisto di una vettura di grossa cilindrata, e quindi ad alto tasso di emissione di CO2, viene penalizzata da una aggravio fiscale che può arrivare anche a 1.500 euro.
Nei primi otto mesi del 2008 questa iniziativa normativa ha avuto l’effetto di far lievitare le
vendite della fascia di vetture a minor emissione del 70%, a fronte di un aumento medio del
mercato del 3,8%. Prima di queste misure le imprese automobilistiche avevano la tendenza a
individuare un vantaggio competitivo nella capacità di offerta di vetture lussuose, dotate di
potenti motori, che ora invece risultano gravemente penalizzate. Non è detto che questo trend
di vendite debba considerarsi definitivo, potremmo assistere a nuovi cambiamenti delle domanda, specialmente se si avesse un arretramento del costo dei carburanti che nell’ultimo
anno ha subito forti aumenti. Quello che interessa segnalare è che ciò che valorizza la prestazione competitiva di un’impresa è profondamente condizionato dalle preferenze del mercato e
che queste possono mutare anche con ritmi molto più rapidi di quanto ci possa mettere
un’impresa a guidare il proprio posizionamento competitivo.
15. Conclusioni
La finalità di questo documento era passare in rassegna le scuole strategiche più rilevanti indicandone le caratteristiche salienti sia in senso positivo sia negativo allo scopo di motivare le ragioni in base alle quali si sostiene che la strategy debba essere definita attraverso un
processo analogo a quello denominato “ciclo di trasformazione del settore” che abbiamo esposto nel cap. XII di Volpato (2008). I risultati di questa analisi convergono nel sottolineare alcune tesi che ci sembra di avere motivato. Esse sono:
! la necessità di distinguere le diverse fasi della problematica strategica;
! l’importanza di distinguere tra analisi di tipo positivo e analisi prescrittiva/normativa;
! la possibilità logica di esprimere una strategy in senso prescrittivo/normativo;
33
È quanto sembra emergere dall’ottica privilegiata da Prahalad e Hamel (1990).
34
Per una analisi dei rischi connessi nel privilegiare il valore strategico delle core competence si veda Collis e
Montgomery (1995).
22
! la conferma che l’utilità di una strategy non si misura in modo assoluto, ma
relativo, in altre parole una strategy imperfetta rappresenta comunque un importante strumento gestionale qualora i concorrenti si dotino di soluzioni ancora
più imperfette;
! la necessità che una strategy emerga in connessione ad una analisi positiva
delle caratteristiche del settore di appartenenza dell’impresa e di quelle della
stessa impresa, è da questo confronto che si potranno trarre le indicazioni necessarie alla definizione della strategy e quindi dei rischi competitivi che gravano sull’impresa e delle opportune che possono essere colte;
! la necessità che ogni strategy abbia alla propria base un esercizio previsionale
di ampiezza almeno pari al periodo di riferimento della strategy;
! la necessità che la strategy venga definito in modo non generico, attraverso uno
sviluppo una articolazione di dettaglio, tale da rappresentare un indirizzo
d’azione non ambiguo per chi ne deve curare l’attuazione.
23
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