58 — in scena declinazioni di drammaturgia Il testo aperto di Rafael Spregelburd I o sono un attore, il mio rapporto con La modestia il teatro passa per la di Rafael Spregelburd regia recitazione. Ma negli anni Manuela Cherubini della mia formazione non interpreti trovavo nessun testo adatSimona Senzacqua, to a me, perché la mia geHervé Guerrisi, Alessandro Quattro, nerazione aveva una relaGaia Saitta zione un po’ conflittuale 22 gennaio 2010 con il passato teatrale reTeatro Giovanni Poli cente del nostro paese. A Buenos Aires si è affermato un teatro di attori, che scrivevano ed eventualmente dirigevano pure le proprie opere, perché non trovavano neanche un regista che volesse allestire i loro testi. Molti altri artisti argentini attualmente si dividono nelle tre funzioni di interprete, autore e regista dei propri scritti. A differenza di tanti paesi europei, dove chi intende avere a che fare con l’arte scenica sceglie un suo particolare segmento e vi si specializza, per noi il teatro è una cosa sola, ed è piuttosto strano separarlo in percorsi specifici. Buenos Aires possiede quattrocento teatri, magari anche da quaranta, cinquanta spettatori l’uno, e questo non avviene in nessuna altra città del mondo che io conosca. Più in generale, credo che il teatro abbia perso molte delle sue caratteristiche peculiari, legate alla sua essenza di arte dal vivo, caratteristiche che magari non possedeva nemmeno in altre epoche, nelle quali però non doveva competere con il cinema o con la peggior televisione. Di conseguenza l’attore, che per me è il vero motore della teatralità, il più delle volte è più interprete che artista. Diviene cioè l’interprete dell’idea di qualcun altro. La mia drammaturgia, come quella di altri autori argentini, è incompleta, aperta. Dato che creiamo testi che noi stessi poi mettiamo in scena, non abbiamo la necessità di chiu- T In alto a destra: Rafael Spregelburd e Manuela Cherubini alla Fondazione di Venezia. Al centro: La modestia di Rafael Spregelburd, regia di Manuela Cherubini. In questa pagina Simona Senzacqua e Hervé Guerrisi, a fianco Alessandro Quattro e Gaia Saitta (foto di Umberto Passacantilli). Declinazioni di drammaturgia ra il 22 gennaio e il 5 febbraio si è svolto il ciclo «Declinazioni di Drammaturgia», dedicato alla scrittura teatrale e inserito all’interno delle «Esperienze» di Giovani a Teatro. L’iniziativa, promossa e organizzata dalla FonDECLINAZIONI dazione di Venezia insieme ad Euterpe Venezia, e curata da Cristina Palumbo e dal sottoscritto, si pone in stretta relazione con il laboratorio «Parole in forma scenica», di cui è stata importante momento preliminare. Gli artisti invitati hanno raccontato la loro idea di drammaturgia e spiegato come creano e utilizzano il testo in rapporto all’esperienza scenica. Protagonisti di questi incontri pubblici, guidati da illustri PERCORSO TEATRALE TRA AUTORI E OPERE di VENEZIA TEATRO UNIVERSITARIO G. POLI RAFAEL SPREGELBURD 22 gennaio ore 18 Rafael Spregelburd Manuela Cherubini ore 21 La modestia (Psicopompo Teatro) FANNY & ALEXANDER 1 febbraio ore 18 Fanny & Alexander Rodolfo Sacchettini ore 21 e 22,30 Emerald City BABILONIA TEATRI 2 febbraio ore 18 Babilonia Teatri Renato Palazzi ore 21 Made in Italy JUAN MAYORGA 3 febbraio ore 18 Juan Mayorga Franco Quadri Manuela Cherubini Davide Carnevali ore 21 La paz perpetua (Psicopompo Teatro) ARMANDO PUNZO 4 febbraio ore 16 Armando Punzo 5 febbraio ore 21 Materiali da Pinocchio (Compagnia della Fortezza) rappresentanti del mondo della critica – tra cui Franco Quadri e Renato Palazzi – sono stati nell’ordine l’argentino Rafael Spregelburd, Chiara Lagani del gruppo ravennate Fanny & Alexander, i veronesi Babilonia Teatri, lo spagnolo Juan Mayorga e Armando Punzo, regista e anima della Compagnia della Fortezza di Volterra. In queste pagine pubblichiamo i passaggi più rilevanti dei loro interventi, uniti a una serie di recensioni sugli spettacoli che li hanno seguiti, in un tandem tra riflessione preliminare e fruizione spettacolare che, nonostante la scarsa attenzione della stampa locale, ha visto sempre gremito il Teatro Universitario «Giovanni Poli». (l.m.) ◼ Drammaturgia 22 gennaio / 5 febbraio 2010 INFORMAZIONI TEL. 041.2201251 WWW.ESPERIENZE-GIOVANIATEATRO.IT Alice nel paese delle meraviglie – saggio sulla fine di una civiltà, foto di Stefano Vaja « in scena / declinazioni di drammaturgia derli nei loro contenuti e significati. Nel momento in cui scrivo non decido neppure il numero esatto degli attori, né la ripartizione dei ruoli. Normalmente questo è un passaggio successivo. Non ho un sistema unico per scrivere. Da quando ho capito che questa sarebbe stata davvero la mia professione, volontariamente cerco di lavorare in modi tra loro opposti. A volte compongo in solitudine, a tavolino, e immagino i personaggi in maniera “classica”. Altre volte mi nascono soltanto idee e ipotesi con le quali lavoro con gli attori, prendendo nota di ciò che dicono, e a partire da questi materiali scrivo un testo per rielaborarlo poi con loro. Di solito non ho in mente un argomento preciso: i temi certo compaiono, ma preferibilmente parto da immagini o da zone del pensiero molto più ambigue. Per fare un esempio, con l’Eptalogia di Hieronymus Bosch prendendo spunto dal quadro del maestro olandese avevo intenzione di costruire non un’opera sul Medievo ma sulla crisi del senso in una determinata epoca. Questi testi, che parlano dei sette peccati capitali, si riferiscono alla crisi della modernità, cioè a quella che oggi definiamo postmodernità, e che probabilmente tra duecento anni chiameranno in un altro modo (non esiste il post barocco...). Sono partito dall’idea che tutti abbiamo perduto il vocabolario della modernità. L’Eptalogia è simile a un frattale, che è composto di dettagli infiniti: lo spettatore ha la sensazione che ciascuno degli episodi abbia un significato, ma non possedendo il dizionario per decrittarlo si trova di fronte a un’esperienza di percezione che produce solo una sorta di allucinazione.» ◼ Rafael Spregelburd, 22 gennaio 2010 Il paradosso necessario In scena «La modestia» di Rafael Spregelburd Q uella dell’argentino di Carmelo Alberti R afael Spregelburd è una drammaturgia di rara efficacia, fatta di dimostrazioni in azione che fanno sorgere interrogativi, dubbi, smarrimenti; è un artista completo, che racchiude in sé le anime dello scrittore, del regista, dell’interprete e dell’adattatore. Anche per questo i suoi lavori sfuggono dalle consuete classificazioni, perché in molti casi si presentano come partiture mobili, o strutture instabili che, di fatto, rispecchiano l’incessante sovrapporsi delle tante realtà del mondo. Così, se si analizza la sua Eptalogia di Hieronymus Bosch, un ciclo di testi teatrali che ruotano attorno ai sette peccati capitali a partire dalle suggestioni prodotte dalla tavola dipinta da Bosch, è facile comprendere come Spregelbund tenda ad accreditare una particolare visione dell’eticità, trasponendola nella quotidianità; il prospetto simbolico immaginato dal pittore fiammingo diviene, in tal modo, una rete metaforica che manipola i linguaggi e i comportamenti del «nostro contemporaneo». Un’occasione per esaminare la dinamica creativa del giovane scrittore è stata offerta dalla messinscena del terzo capitolo dell’Eptalogia, intitolato La modestia, rappresentato in anteprima presso il Teatro Universitario di Santa Marta nella traduzione e con la regia di Manuela Cherubini, la musica di Graziano Lella e Fabrizio Spera, prodotto da PsicopompoTeatro, Rialto Santambrogio; l’hanno recitato con impegno e con un buon risultato Hervé Guerrisi, Alessandro Quattro, Gaia Saitta e Simona Senzacqua. Lo spazio scenico si presenta allo sguardo dello spettatore come un non-luogo familiare, nel quale sono affastellati oggetti d’uso quotidiano, mobili consunti, arnesi e arredi desueti; anche gli interpreti vestono in modo ordinario, addirittura dimesso. L’atmosfera che si respira è stranita, per effetto dello sguardo attonito stampato sul volto dei protagonisti e per il susseguirsi di passaggi dialogici talmente semplici da apparire privi di senso. Una sorta di temporaneo disagio si trasferisce dal palcoscenico alla platea quando, all’inizio, appare una donna che punta minacciosamente una pistola contro uno sconosciuto all’interno di quella stanza pinteriana, mentre continua a gracchiare un citofono che strozza le voci esterne, tanto convulse quanto incomprensibili. I primi a parere smarriti sono San Javier e Maria Fernanda, così si chiamano i due personaggi che abitano il primo segmento di un sistema circolare, privo di centro, un insieme di piccole situazioni che si snoda senza solu- zione di continuità da un posto (Buenos Aires, forse) ad un altro (un paesaggio dei Balcani). Si produce allora un flusso di piani spazio-temporali che s’impone – via via – come un paradosso necessario, che mette il sistema rappresentativo continuamente di fronte a un bivio narrativo. I protagonisti sembrano guidati da un individualismo inconsapevole, parlano senza ascoltare, oppure equivocano il senso delle parole, o inseguono le immagini della vita che hanno in mente. Basta che la donna esca un attimo di scena perché al suo rientro siano mutati la storia, i protagonisti e l’ambiente. Dal dialogo emerge un inconsueto spaccato del disagio esistenziale, quello di Terzov e di Anja. La trama che le frasi non dette intessono riguarda la crisi di uno scrittore inaridito e moribondo, mentre la moglie genera in sé il proposito di vivificare – sia pure post-mortem – la creatività sopita, attraverso i frammenti manoscritti del padre militare, balzati fuori da un cassetto. Il collante è costituito dal sogno di Smederovo, un medico/veterinario, non solo senza titoli, ma privo anche d’inclinazione, il quale è convinto di potersi arricchire con il libro abbozzato in quelle carte ingiallite. La successiva «metamorfosi» prova a disegnare la mappa di un dedalo di case, appartamenti, scale, pianerottoli e porte del tutto uguali tra di loro. Nell’appartamento-copia dei precedenti San Javier fatica a schivare il malizioso interrogatorio di Angeles, in attesa che salga su il suo amico Arturo. Nella scena quarta ri- torna Terzov, assediato da Leandra, complice del marito Smederovo nella convinzione che l’opera dell’autore in agonia li riempirà di soldi. La sfida infinita tra avidità e apatia lascia il posto al torbido quartetto composto dall’avvocato Arturo, dalla vicina Maria Fernanda con cui tresca alla grande mentre progettano traffici loschi, dalla vacua moglie Angeles, patita per i coreani, e dalla cavia San Javier. E così via. Ogni quadro, che deriva dal precedente e si apre al successivo, intreccia la vicenda di un interno argentino, popolato da stolti e idealisti, con la storia balcanica di una moglie indomabile che, non si sa a beneficio di chi, produce i frammenti di un romanzo impossibile. Sono tanti microcosmi che assorbono per via immaginativa esistenze che stanno altrove e che il telefono e i resoconti dei protagonisti lasciano intuire. Affiorano ritratti inquietanti e situazioni assurde che declinano possibili variazioni della virtù della modestia in una direzione prevalentemente immorale. L’autore guarda all’umiltà come ad uno stato degenerativo delle interrelazioni sociali, al punto da disattivarla persino nella forma della propria pièce, scegliendo di abbandonare gli interpreti e gli spettatori tra le spire di un labirinto senza uscita. È un lavoro singolare, soprattutto se lo si pone a confronto con la ripetizione di un repertorio teatrale pubblico sempre più ristretto, e comunque rivolto sempre all’indietro. ◼ in scena / declinazioni di drammaturgia in scena — 59 declinazioni di drammaturgia 60 — in scena «Drammaturgia come tessitura» convocando lo spettatore Chiara Lagani racconta Fanny & Alexander « in scena / declinazioni di drammaturgia N elle creazioni collettive di Fanny & Alexander io mi sono sin dall’inizio occupata della drammaturgia, mentre Luigi (De Angelis, ndr.) ha gestito il lavoro di regia. Credo che per esprimere al meglio ciò di cui mi occupo il termine più efficace sia quello di tessitura. Una volta qualcuno mi ha detto che sembravo un ragno, e questa similitudine mi è sembrata azzeccata. Lo stesso concetto di drammaturgia (come del resto anche l’etimo della parola testo) richiama direttamente quello di tessitura. Mi viene subito in mente una figura delle Mille e una notte che in questo senso considero emblematica: Sherazade, la fanciulla che con il suo racconto posticipa la sua morte e quella di tutte le altre ragazze della città. La sua tessitura infinita di narrazioni, che danno luogo ad altre narrazioni, rimanda indefinitamente la morte. Quest’idea di infinitezza, di illimitatezza è per me un’immagine formidabile del lavoro dell’artista e in declinazioni di drammaturgia proprio la questione dello sguardo dello spettatore – e ancor di più della responsabilità del suo sguardo – è il nucleo principale attorno a cui ruota tutto. Van è assente dalla scena. È il regista che si pone a proscenio e di spalle rispetto al pubblico guarda l’opera, divenendo come uno specchio attraverso cui lo spettatore può riflettersi. Van è lo spettatore, e l’opera si rivolge continuamente a lui in maniera allocutoria, invitandolo a entrare. Come dire che tutta l’azione poetica svolta dall’attore non è nulla se al di là non si crea questo ponte di attività e responsabilità condivisa: ogni cosa che decido di guardare è una cosa di cui sono coautore perché con il mio sguardo attivo e vigile aiuto l’artista a disegnarla. Pur nella diversità del contesto, un approccio analogo si può rintracciare anche nell’altro grande progetto in cui siamo immersi da anni, quello sul Mago di Oz, la cui trama è a tutti nota grazie al film di Victor Fleming. Rispetto all’indagine dedicata a Nabokov, che finisce per essere una saga a episodi, quest’ultimo ciclo ha un andamento sinfonico. Lo strano viaggio di Dorothy è come se reiniziasse sempre dal principio. Ogni volta che si assiste a una delle possibili partenze cambia l’attrice – Dorothy è sempre una donna nuova – e questa si reca a sud, a nord o a ovest. L’atto fondativo di questo viaggio è una richiesta al Mago, che nel romanzo è un essere metamorfico, che ognuno può incontrare soltanto da solo, vedendolo come i suoi occhi sono capaci di vederlo. Di sicuro questo personaggio ha a che fare con il potere, o meglio con il rapporto fra immaginazione e potere. Basti pensaparticolare del drammaturgo. Per riprenre che ha inventato degli occhialini magici dere il paragone, direi che la drammaturgia con cui si potesse vedere il mondo solo verè qualcosa che rende numerosi e tendenzialde, perché il verde è un bel colore e rende felici le mente infiniti i fili di quella grande ragnatela che persone. E poi ha inchiodato questi occhialini al cerè l’opera, e che invece la regia sia lo sguardo che ha la vello della gente. È un’immagine molto violenta e attuaresponsabilità di tenere insieme questa complicazione e lissima. Ebbene all’inizio di tutto ogni volta c’è questa riquesto intreccio, e di imprimergli una direzione. È un lachiesta che Dorothy fa al Mago. Si parte sempre da lì, da voro non tanto sulla quantità ma proprio sulla complicaun monologo che abbiamo definito confessione, perché zione in senso etimologico. E qui si entra all’interno di presuppone una domanda intima, legata a uno dei tre orun discorso che mi interessa moltissimo, perché questo gani – cuore, cervello e coraggio – che nella favola riassulavoro di complicazione riguarda in primo luogo le relaziomono le virtù dell'essere umano. Le tre diverse Dorothy ni culturali che si intrattengono con altre persone, con i compiono lo stesso, identico viaggio, che arriva forse alcollaboratori e soprattutto con il pubblico. Io considero i lo stesso, identico luogo. Ed è lo spettatore che è in viagnostri spettacoli come la punta di un iceberg che è costigio, Dorothy è un testimone. In South questo è embletuito da un’ampia serie di collaborazioni con altri artisti, matico, perché si tratta di uno spettacolo completamendi laboratori, di momenti di incontro. Il nostro gruppo te buio, tranne che per i primi quindici minuti, in cui apha instaurato una pratica laboratoriale in cui indaghiamo punto avviene la confessione/richiesta iniziale. Dopodicontinuamente le due figure dell’artista-attore e del testiché si sprofonda in un’oscurità cieca dove solamente camone attivo, che è proprio lo spettatore. Sono laboratoratteristiche sonore e olfattive conducono lo spettatore. ri sullo sguardo condotti a squadre, cui si iscrivono perÈ lui stesso che viaggia. La responsasone in qualità di testimoni e altre in bilità di abbandonarsi a questo flusso qualità di attori. Per spiegarmi prenEmerald City di Fanny & Alexander è solo sua.» do a esempio il «Progetto Ada», che Chiara Lagani e Luigi De Angelis Chiara Lagani, 1 febbraio 2010 ci ha tenuti impegnati per lungo tem- ideazionedrammaturgia Chiara Lagani po. Se penso a tutta l’elaborazione inregia, scene, luci Luigi De Angelis Al centro: Chiara Lagani in North di Fanny torno al romanzo di Nabokov, che è musiche Mirto Baliani & Alexander (foto di Enrico Fedrigoli). A la storia complicatissima di un amore interprete Marco Cavalcoli destra: Chiara Lagani e Rodolfo Sacchettini incestuoso tra due fratelli, Ada e Van, 1 febbraio 2010 – Teatro Giovanni Poli alla Fondazione di Venezia. «Emerald City» di Fanny & Alexander La Babele nel cervello del Mago N di Rodolfo Sacchettini el progetto sul Meraviglioso mago di Oz Fanny & Alexander procede come davanti a una mappa geografica su cui di volta in volta infilzare una nuova bandierina – un nuovo spettacolo – per segnare un punto fermo o indicare un altrove da raggiungere. Il viaggio è iniziato da Kansas, la casa di Dorothy e, via Emerald City, la città utopica costruita dal mago di Oz, si concluderà ai quattro punti cardinali (East, South, North, che hanno già debuttato, e West, in programma a giugno al festival delle Colline Torinesi). Il viaggio è complesso e articolato; ogni spettacolo è un sentiero tortuoso, dai tanti bivi e possibilità. Ma anche le stratificazioni presenti in una singola scena sono talmente tante che perfino i luoghi comuni sembrano ribaltarsi, e ci sono anche delle immagini che contemplano simultaneamente sensi opposti, come accade in Emerald City. Lo spettatore è invitato, verso la fine dello spettacolo, a indossare occhialini 3D per scoprire rappresentata sul volto dell’attore-ologramma (Marco Cavalcoli) l’inquietante maschera di una felicità-tristezza: chiudendo un occhio è consolato, chiudendo l’altro si dispera. La visione è violentemente scissa in due parti, come tutto il lavoro, e la città color smeraldo, la città dell’utopia, si rivela come mistificazione assoluta, opera del mago di Oz, che in scena ha le vesti inquietanti di Adolf Hitler. Ma la terribile icona è più che altro una sorta di feticcio che richiama, nell’epoca della riproducibilità tecnica, l’irriverente Him di Maurizio Cattelan, dove il dittatore è in formato leggermente ridotto e in ginocchio, quasi fosse stato messo in punizione dietro la lavagna della Storia. Così anche tutto Emerald City è costruito in una piccola aula di scuola o forse in una cappella al cui centro è Him, completamente immobile, se non fosse per il volto che pare attraversare tutte le espressioni possibili della mimica facciale. Tragico oggetto di culto, Him è in grado di ipnotizzare il pubblico ed è travolto da una babele di voci misteriose che confessano intime vicende come di fronte a un prete, e chiedono un cuore, del coraggio o un cervello a quel loro Dio. Sono tante confessioni che si susseguono accavallandosi l’un l’altra e si ascoltano indossando le cuffie, come se entrassimo nelle orecchie o nel cervello di Oz. Ogni confessione è costruita secondo un procedimento preciso che contempla tre piani differenti, non per mescolarli, ma per sovrapporli alla ricerca di alcune folgoranti «coincidenze». Da una parte c’è la biografia personale di chi sta parlando, sia esso attore o persona comune. Poi si avverte la presenza di un fatto di cronaca, scelto all’interno di una rosa preparata dalla compagnia, e infine c’è la «fabula», vale a dire la storia di Dorothy e del mago di Oz. Questi tre livelli continuamente intrecciati vanno a creare continue coincidenze che provocano, nello spettatore, attimi di sorpresa e rivelazione. Ad esempio la richiesta di una voce di non sentire più il cuore, ribaltando il desiderio dell’uomo di latta, può illuminare la storia di una madre ricoverata in cardiologia, perché sfibrata da un battito irregolare che «sente» troppo e di un barbone «di gran cuore» che ha compiuto un atto di eroismo ed è stato, nelle retoriche del pa- triottismo e dei benpensanti, impalmato dalle onorificenze. Biografia, storia e cronaca sono dunque piani che scorrono e la sintesi è abolita, anche perché le voci sono tante e seguono un unico flusso vocale. In altre parole la drammaturgia dello spettacolo fuoriesce come unica vera tessitura dove i differenti fili, pur seguendo ognuno il proprio percorso, continuamente s’intrecciano tra loro generando nodi complessi. Ogni dettaglio (il testo, la scena, l’attore…) è come osservato da uno sguardo strabico e lo stesso Him è figura ambigua: da un lato condannato a una sorta di «contrappasso», costretto ad ascoltare tutti i lamenti dell’umanità, dall’altro una sorta di incarnazione del principio del male, come se uno sguardo buttato sull’aldilà avesse rivelato l’imbroglio dell’esistenza. Alle infinite preghiere degli uomini risponderebbero così la smorfia e il ghigno di un «eterno padrone», ma allo stesso tempo la dolcezza di una promessa, la seduzione di quell’invito («benvenuti ad Emerald City») che includendoci ci dà misura della nostra responsabilità. ◼ Marco Cavalcoli in Emerald City di Fanny & Alexander (foto di Enrico Fedrigoli). in scena / declinazioni di drammaturgia in scena — 61 declinazioni di drammaturgia 62 — in scena La realtà centrifugata di Babilonia Teatri U na delle caratteristiche più evidenti e diffuse dei gruppi delle ultimissime generazioni è la scelta comune di chiudere completamente con l’idea di rappresentare un testo scritto da un autore preesistente ed esterno e di interpretare dei personaggi codificati e definiti in quanto tali. Quello che prevale in quasi tutte queste esperienze è un’idea di creazione scenica diretta più o meno collettiva, dove anche la figura del regista, oltre a quella dell’autore, tende un po’ a confondersi e a essere superata. Si tratta di poetiche che tendono a portare in scena gesti, parole, immagini, esperienze della realtà senza rielaborarle drammaturgicamente. Questo potrebbe far pensare a un azzeramento della scrittura. In realtà secondo me è esattamente il contrario, perché quanto più si spoglia il teatro dei suoi artifici, quanto più si rinuncia alla struttura rappresentativa e a tutto ciò che è scenografia, ambientazione, orpello spettacolare, tanto più invece l’aspetto della costruzione del testo, della partitura drammaturgica deve diventare rigoroso, ferreo e inflessibile. Tra tutti i gruppi attivi negli ultimi anni, Babilonia Teatri mi sembra quello in cui la scrittura è più centrale. Nei loro spettacoli in realtà il testo, la rinuncia al- in scena / declinazioni di drammaturgia « le scene, i muri nudi, gli attori spesso nudi a loro volta (e comunque nudi nel senso di una rinuncia totale al costume, nel loro apparire con gli abiti di tutti i giorni), tutto questo è un tutt’uno, ed è molto difficile staccare un elemento dall’altro. Tuttavia a ben vedere il testo in questi spettacoli ha invece un’importanza fondamentale. Basta leggere le prime righe di made in italy per scoprire che tutto il lavoro dei Babilonia è già lì dentro. Loro scompongono e ricompongono liberamente un linguaggio prefabbricato che è costruito accostando luoghi comuni, frasi fatte, formule legali e burocratiche, invettive da bar contro gli stranieri, gli immigrati e così via, dimostrando tra l’altro che niente come queste invettive può tracciare un ritratto fedele non solo del Nordest più ruspante ma di tutta l’Italia di oggi. In questo linguaggio converge ogni sorta di frammento e di riflesso della quotidianità, richiami gergali, slogan promozionali, pubblicità e poi ovviamente il motivetto trash e la canzoncina televisiva. Ognuno di questi segmenti di realtà diventa uno spaccato fedele della nostra società e offre uno sguardo apparentemente impassibile ma in realtà fortissimo e doloroso sulla nostra volgarità.» Renato Palazzi, 2 febbraio 2010 «I nostri testi nascono sempre pensando al modo in cui verranno detti, sono sempre brevi, molto semplici a livello di struttura verbale, proprio perché devono essere ap- declinazioni di drammaturgia punto detti (e non recitati) con un ritmo preciso e in coro. E a dirli non è un personaggio ma un megafono, che amplifica la voce, che è la nostra, ma in fondo è la voce di tutti. Spesso ci hanno obiettato che aggrediamo lo spettatore. Questo non è certamente il nostro obiettivo, ma di sicuro allo spettatore pensiamo moltissimo, perché fa a tutti gli effetti parte dello spettacolo, perché lo mettiamo sempre al centro delle nostre creazioni. Forse, a differenza di altri gruppi della nostra generazione, noi siamo anche eccessivamente chiari, il pubblico capisce anche troppo bene quello che vogliamo dire, e alle volte si arrabbia, perché si sente chiamato in causa in prima persona. Quello che ci interessa è la realtà, ma, nell’affrontarla in scena, tra made in italy a Pornobboy c’è stato uno scarto, un aumento molto marcato del nostro pessimismo. Con Pornobboy non ce la sentivamo più di metterci a ballare e muoverci freneticamente: la nostra fissità era l’unica possibilità che ci restava. E la schiuma che alla fine ci sommerge ha lo stesso colore cupo del nostro stato d’animo. Ora stiamo cercando nuove forme di catturarla, questa realtà.» Valeria Raimondi, 2 febbraio 2010 «Di solito cerchiamo di non lanciare alcun messaggio ma di fare una fotografia del mondo e poi lasciare allo spettatore la scelta di decidere da che parte stare. La non recitazione che noi pratichiamo fa parte di questo disegno complessivo. Nel momento in cui io mi metto in bocca delle parole ma non le interpreto, non do nemmeno un significato uni- voco a quelle parole. Semplicemente made in italy le riporto. A volte di Valeria Raimondi sono le mie, a volte ed Enrico Castellani sono quelle di qualinterpreti cun altro. Altre ancora vieValeria Raimondi ed Enrico Castellani ne insinuato un dubbio, nel 2 febbraio 2010 senso che poi è chi ascolta Teatro Giovanni Poli che ha il compito di scegliere come posizionarsi rispetto al mondo che fotografiamo. Non indichiamo mai soluzioni alle questioni proposte in scena, ma il fatto che vi sia un pensiero e un modo di guardare alla realtà è evidente. Nella frontalità che scegliamo di avere sul palcoscenico è implicita la volontà di vomitare e di riversare addosso al pubblico il mondo in cui viviamo tutti i giorni, una volta centrifugato. Ma è importante che quest’aggressione, se vogliamo chiamarla così, si riversi anche nei confronti di noi stessi. La lingua che usiamo (che più che dialetto è lo slang che utilizziamo tutti i giorni) oltre a creare dei testi che hanno un suono e una musicalità di un certo tipo – ci permette anche di rendere palese che quello di cui stiamo parlando riguarda noi per primi, riguarda le persone che ci stanno attorno.» Enrico Castellani, 2 febbraio 2010 Sopra: Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Renato Palazzi alla Fondazione di Venezia. Al centro: Pornobboy. Il lato kitsch del made in italy C di Silvia Gatto* antenne in grado di captare, registrare e selezionare la miriade di messaggi che ogni giorno bombardano il nostro sistema sensoriale, Babilonia Teatri raccoglie frasi, accenni, dichiarazioni dai bar della periferia veronese alle dirette televisive per riversarle contro il pubbl ico. Enrico ome se possedesse sensibilissime Castellani e Valeria Raimondi, m oderni Ada- mo ed Eva in fuga dal Paradiso (forse quello quotidianamente dipinto dalla televisione), ripropongono il mondo terreno in cui si sono ritrovati a vivere, svelandone con irruente ironia l’ipocrisia, la volgarità, il razzismo e l’idiozia dilaganti. Il testo – una vera e propria scarica di mitragliatrice che non lascia scampo al pubblico – procede per libere associazioni, cadenze, collegamenti astrusi e fortemente comici: una sorta di zapping apparentemente casuale che accumula le manifestazioni verbali più quotidiane senza alcun giudizio di sorta, per riassemblarle in un groviglio di espressioni che tessono un panorama italico imbarazzante. Lontanissimo dall’essere simbolo di impeccabile eleganza o di certificata qualità territorialmente rivendicata, il made in italy si svela in tutti i suoi aspetti più kitsch. Dagli intercalari blasfemi e xenofobi del natio Nordest alle manifestazioni patriottiche dell’ennesima diretta funeraria, passando per canzonette ed esplosioni di tifo calcistico al limite del parossismo, si giunge, nel finale, all’icona per eccellenza del kitsch: i nani da giardino. Un coretto al quale gli stessi attori offrono la loro voce registrata, per assistere, insieme agli spettatori, con affranta impassibilità, all’estrema rappresentazione di quello che un tempo – ormai lontano, quasi biblico – era il Belpaese. Entrato in tutte le case degli italiani, il tubo catodico – oggi nella sua evoluzione in cristalli liquidi – ha plasmato il modo di parlare, di comunicare, di essere e di pensare, trasformando il giudizio critico in sterili ma accesissimi dibattiti, l’informazione in gossip, showman in politici (o politici in showman). Il risultato è un Paese che vive della sua stessa patinata manifestazione virtuale, che, se riproposta solo nelle sue espressioni verbali – annullando l’ipnotico flusso di immagini – si rivela in tutta la sua vacuità e stupidità. Babilonia Teatri frantuma lo schermo televisivo e, allo stesso tempo, anche molte convenzioni teatrali: annulla i personaggi per essere riproduttori di «sentito dire», permette ai tecnici – a vista sul palco – irruzioni nella scena per trasformarsi in improbabili angeli, denuda il proscenio per riempirlo di senso senza salire su nessun pulpito. Non è un caso, quindi, che lo spettacolo made in italy, dopo la meritata vittoria nel 2007 al Premio Scenario, da quattro anni circuiti lungo tutto lo stivale registrando ovunque successo, senza mai perdere l’attuali- tà e la forza del debutto. È un’operazione satirica spiazzante e intelligente, che sfrutta e, al contempo, svela quello di cui il pubblico quotidianamente si nutre. Un puzzle verbale e un groviglio di neon che creano uno spettacolo volutamente kitsch, perché vive e si fa portavoce della realtà registrata quotidianamente, senza intellettualistici distaccamenti. Per offrire agli spettatori un’istantanea sincera, grottesca e impietosa; come una fotografia nella quale «non siamo venuti bene» – non ci riconosciamo perché non appariamo come credevamo di essere – made in italy destabilizza, diverte e interroga la platea. Scrive Milan Kundera nell’Insostenibile leggerezza dell’essere: «Il vero antagonista del kitsch totalitario è l’uomo che pone delle domande. Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un’occhiata a ciò che si nasconde dietro». ◼ *www.iltamburodikattrin.com made in italy (foto di Laura Arlotti). in scena / declinazioni di drammaturgia in scena — 63 declinazioni di drammaturgia 64 — in scena La «zona grigia» di Juan Mayorga « I l teatro di Juan Mayorga è arrivato abbastanza di in scena colpo qui da noi, dove ciò che accadeva in Spagna tendeva in generale a non essere molto conosciuto. Ma grazie alle traduzioni di Manuela Cherubini e Davide Carnevali ora viviamo un’inondazione di suoi testi, il che è al tempo stesso un onore e una gioia. In primo luogo per i temi che vi si incontrano: per restare soltanto al volume già pubblicato dalla Ubulibri, nelle quattro pièce si parla di un’indagine su un campo di concentramento nazista, delle leggi contro gli immigrati, di un supposto caso di pedofilia, dell’educazione scolastica e dei rapporti tra generazioni. Ma il punto è che queste tematiche non sono trattate alla maniera del teatro che conosciamo, anzi si assiste a una riforma della scrittura teatrale che potrebbe far pensare a un nuovo Brecht. E comunque a una drammaturgia potente che si presenta in modo assolutamente innovativo al pubblico. Gli stessi personaggi, dal rappresentante della croce rossa nel lager al presunto pedofilo, sviluppano una forte duplicità, che sconcerta e impedisce il formarsi di un punto di vista univoco. È in- somma un mondo di colpevoli/innocenti, per dirla cinematograficamente. In più Mayorga è un autore che rifà continuamente se stesso. Ricordo un recente incontro in autunno, durante la presentazione di un suo testo, Se sapessi cantare mi salverei, in cui le due posizioni che si confrontano sono quella di un autore di teatro e quella di un critico. Durante la discussione pubblica che ha seguito la lettura della pièce in anteprima si è arrivati anche a ipotizzare delle possibilità di modifica di certi passaggi e di certi personaggi. Proposte cui Juan ha subito aderito.» Franco Quadri, 3 febbraio 2010 V orrei raccontare un aneddoto che forse può spiegare la mia concezione del teatro. Alcuni anni fa in una piccola sala della periferia di Parigi venne messo in scena Hamelin – il testo che in Italia fu poi allestito magnificamente da Manuela Cherubini – e io fui invitato al debutto. La notte era terribilmente fredda e il teatro brutto e inospitale. La compagnia era totalmente sconosciuta, e c’erano meno di cinquanta spettatori. Potevo guardarli negli occhi e farmi un’idea di ciascuno di loro. E mi chiedevo: perché queste persone sono qui? Perché sono usciti di casa con questo freddo, invece di stare davanti alla televisione? Questa gente non è qui per me, non mi conosce, non sa niente di me, e nem- meno sembrano essere parenti degli attori. Queste persone sono qui per il teatro, perché un giorno qualunque della loro vita il teatro le ha colpite. Per questo credo che drammaturghi, attori e registi debbano avere un’umiltà profonda. Perché devono fare in modo che il loro spettacolo ingeneri la voglia di tornare. In questo senso fare teatro è straordinariamente importante e chi lo fa ha un’enorme responsabilità. Non importa se gli spettatori sono dieci o mille: l’importante è che per quei dieci si costruisca un’esperienza poetica e rilevante per le loro vite. Quando scrivo una parola, quando costruisco un personaggio, cerco di ricordarmi sempre che il mio obiettivo è fare qualcosa che abbia un valore per la gente. Penso che il punto di partenza di Bertolt Brecht fosse quello di rendere ogni spettatore un critico. Ma mi pare che lo stesso Brecht non di rado abbia tradito questo obiettivo. Molte volte nei suoi testi troviamo un predicatore che ci fa il sermone. Ad esempio nella Vita di Galileo, che pure è costellata di moment i straord inari, il punto di vista dell’autore attraversa tutta l’opera. E questo sta in contraddizione con i fondamenti del teatro brechtiano. Quando si dice che il teatro è l’arte del conflitto, bisogna ricordarsi che lo scontro principale avviene tra la platea e il palcoscenico, per cui una rappresentazione che non crei alcun tipo di controversia tra queste due parti è irrilevante. Ultimamente ho riscritto una versione del mito di Fedra, e, come sempre mi capita con i miei testi, nutro molti dubbi su questo lavoro. Ma quello che mi ha reso più soddisfatto è il fatto che gli spettatori hanno giudicato in modo molto diverso la Fedra che abbiamo messo in scena. Ci sono stati quelli che hanno condannato Fedra come manipolatrice dell’innocente Ippolito, e altri che l’hanno vista come un’eroina del sentimento, che permette a Ippolito di scoprire qualcosa di sé che non aveva mai saputo. Questo è un esempio del dialogo che mi piacerebbe creare sempre. Credo altresì che quando cerchiamo di ottenere questo tipo di dibattito, dobbiamo evitare la strategia più semplice, cioè quella di costruire finali ambigui. Al contrario bisogna cercare di arrivare al cuore di ogni personagSopra: La paz perpetua di Juan Mayorga diretta da José Luis Gómez al Teatro María Guerrero di Madrid. Sotto: Franco Quadri, Juan Mayorga, Manuela Cherubini e Davide Carnevali al Teatro Giovanni Poli. gio, per quanto lontani possano essere da noi. Ho provato a scrivere dal punto di vista di un comandante di campo di concentramento nazista, o dal punto di vista di un pedofilo. È ovvio che è stato un lavoro duro, ma penso che non ci sia niente di più inutile che mettere un mostro in scena, di fronte al quale lo spettatore si senta innocente. Mi sembra più utile che quest'ultimo riconosca la mostruosità che ha dentro di sé. Se scopre che possiede qualcosa del gerarca nazista o del ricattatore di immigrati probabilmente quell’inquietudine e quella destabilizzazione sarà produttiva. Ognuno di noi vuole sentirsi innocente, ed è sgradevole scoprire di non esserlo poi tanto. Primo Levi in I sommersi e i salvati introduce un concetto per me importantissimo, quello di “zona grigia”. È quello spazio che separa e unisce i carnefici e le vittime. Per noi è di gran conforto credere che questi due mondi siano rigidamente divisi. Invece sono proprio i personaggi della zona grigia quelli moralmente (e teatralmente) più interessanti. Ed è una zona in cui ciascuno di noi rischia di entrare, durante la sua vita. In teoria so che non devo denunciare un uomo onesto: però se la mia vita fosse in pericolo? Se lo fosse quella dei miei figli? Cito un fatto reale avvenuto nella metropolitana di Barcellona. In un treno poco frequentato, che andava verso una delle ultime stazioni, è successa la seguente cosa: uno spagnolo imbecille e violento vede una ragazza immigrata e comincia a insultarla, mentre, senza che lui lo sappia, una videocamera di sicurezza lo riprende. A un certo punto questo tizio tira fuori il telefonino e chiama un amico per descrivergli tutta la violenza che vuole usare a questa ragazza. E senza smettere di parlare al cellulare comincia a colpirla, fino a quando il vagone non arriva alla stazione successiva e lui scende tranquillo e orgoglioso. Ma c’è anche un terzo personaggio, un testimone che si nota benissimo nelle immagini registrate: se ne sta lì senza fare assolutamente niente. Questo è un personaggio moralmente interessante. C’è una vittima che ha avuto la sfortuna di incontrare un imbecille, ma c’è anche una terza persona che avrebbe potuto fare qualcosa. Quando questa viene rintracciata e interrogata, si scopre che è anche lui un immigrato e che non conosce la vittima. Perché non è intervenuto? Ci possono essere mille motivi, e alcuni li potremmo immaginare facilmente anche noi. Questo è il tipo di persone che di notte entrando in un treno della metropolitana senza saperlo stanno entrando anche nella zona grigia. Quest’uomo appartiene al mondo delle vittime o a quello dei carnefici? Molti dei miei personaggi si trovano in questa zona grigia.» Juan Mayorga, 3 febbraio 2010 Sopra: Juan Mayorga; a destra una scena di Hamelin nella versione di Manuela Cherubini. in scena — 65 La «Pace perpetua» secondo Manuela Cherubini I di Andrea Nanni l fine giustifica i mezzi? La guerra giusta esiste o è La pace perpetua di Juan Mayorga regia Manuela Cherubini solo la versione postEssere umano Manuela Cherubini moderna del vecchio Emmanuel Alessandro Mor «occhio per occhio, Casius Fabrizio Parenti dente per dente»? E John John Marco Quaglia soprattutto: la logica Odin Alessandro Quattro può aiutarci a risol3 febbraio 2010 vere simili questioni Teatro Giovanni Poli morali? Per indagare questi temi nella Pace perpetua (titolo rubato a Kant) Juan Mayorga affida le sue parole al miglior amico dell’uomo: il cane. Un Rottweiler, un Labrador, un bastardo e un Pastore tedesco – che guarda caso si chiama Immanuel e finirà sbranato dai suoi compagni – sono infatti i protagonisti dell’amaro apologo presentato in forma di lettura scenica con la regia di Manuela Cherubini, anche interprete nell’unico ruolo affidato dal quarantenne drammaturgo spagnolo a un essere umano. Con la sua compa- gnia, Psicopompo Teatro, la giovane regista romana ha contributo alla scoperta italiana di Mayorga allestendone Hamelin nella passata stagione (spettacolo che le è valdo il Premio Ubu 2008 per la miglior novità straniera). Alle prese con La pace perpetua, la Cherubini punta tutto sulla forza della parola, serrando i ritmi della competizione tra i cani per aggiudicarsi il posto di antiterrorista d’élite, «una professione con un gran futuro». Un tavolo da consiglio d’amministrazione e qualche sedia è tutto quel che le serve per restituire questa crudele riflessione su come combattere il male, sostenuta da un affiatato quartetto di attori in cui spicca il cinico Casius di Fabrizio Parenti. Con mano ferma e allo stesso tempo leggera la mise en espace di Psicopompo Teatro evita le secche del didascalismo facendo emergere un bestiario del tempo presente in cui ognuno è il peggior nemico di se stesso: neanche l’egoismo, che secondo Kant avrebbe spinto gli uomini a cercare la pace per non divorarsi tra loro, sembra poterci aiutare. Chissà che effetto farebbe questa Pace perpetua recitata davanti a una platea di israeliani e palestinesi? ◼ in scena / declinazioni di drammaturgia declinazioni di drammaturgia 66 — in scena Armando Punzo e la sottrazione del testo in scena / declinazioni di drammaturgia « D a quando ventidue anni fa ho cominciato a fare teatro all’interno del carcere di Volterra, ho sempre cercato di lavorare sulle immagini precostituite che si annidano nella mente dello spettatore. Non ho mai voluto “mettere in scena” i detenuti, in modo tale che la gente potesse avvicinarsi a questa diversità per capirla e comprenderla. All’inizio tutti si aspettavano una sorta di operazione un po’ buonista, un incontro che stimolasse la comprensione e la comunicazione. Ciò che ho provato a fare io è stato invece contraddire quest’abbraccio con la vita. Mi sono reso conto in maniera intuitiva che dovevo sottrarre i miei attori da quella che definisco la “scena del sociale”, la quale prevede dei ruoli, è una storia già scritta di cui si sa il finale: chi è detenuto rimane detenuto, appiccicato al ruolo che la società gli dà. Ma questo non offre alcuna speranza, non ci permette di andare oltre noi stessi. È una sorta di testo già scritto dove le parti sono ormai assegnate: la nostra operazione ci ha fatto credere che invece ci fosse la possibilità di mutare qualcosa. Mi rende felice immaginare che si possano cambiare i nostri destini, e credo che il teatro ci abbia quantomeno declinazioni di drammaturgia Con Genet l’approccio è cambiato. In quel caso abbiamo perseguito un’operazione di tradimento: I negri sono un libro faticoso, di difficile comprensione, soprattutto se affrontato con i detenuti. E ho compreso che per restituire la forza di quel testo dovevo tradire la forma che mi veniva consegnata, cioè quello che Genet aveva scritto, perché proprio tradendo quell’opera era invece possibile riportare in vita la potenza del suo creatore. Quindi, dopo aver analizzato I negri a fondo, siamo andati per sottrazione, cancellando le parti che ci sembravano letterarie e ridondanti. Abbiamo asciugato tutto mantenendo solo ciò che ci pareva importante e abbiamo inserito un altro testo, gli studi sulla fisiognomica di Lombroso, corredati di immagini. Ne è scaturita una sorta di rito ferocemente autoironico esercitato dagli attori su se stessi per ritornare a parlare di diversità, ridare vigore a quanto secondo me viveva Genet quando ha iniziato a scrivere, e quindi in ultima analisi rispettare le motivazioni intime della sua scrittura. Ci sono registi assolutamente rigorosi nei confronti delle drammaturgie che affrontano, ma questo grande rigore secondo me nasconde invece l’incapacità di leggere e guardare tra le pieghe della necessità che ha spinto l’autore. Non si può rimanere inchiodati alla forma, che è solo una delle tante possibili: ogni autore non è altro che un trascrittore della realtà, il testo è un momento di passaggio che si fissa sulla carta: non ci si può fermare lì.» Armando Punzo, 4 febbraio 2010 Un Teatro Stabile nel carcere di Volterra permesso di interrogarci su questo. In un contesto del genere entra in gioco il nostra esperienza rischia di morire ogni « agiorno, e questo da un verso è un bemio rapporto con la drammaturgia, contemne, dall’altro ci espone a mille difficoltà e probleporanea e classica. I testi teatrali sono stati lo mi. Per ovviare a questi ultimi abbiamo ipotizzastrumento per avere qualcosa in mano, per to l’idea – provocatoria ma concreta, tanto che abnon ridurci a parlare delle nostre tristezze, delMateriali da Pinocchio biamo già in mano un progetto architettonico – drammaturgia e regia le tragedie del luogo, per non entrare insomma di un Teatro Stabile dentro il carcere. Siamo partiArmando Punzo nel terreno del compiacimento e dell’autobioti da una domanda molto semplice: perché un atinterpreti grafia. Ho capito subito che c’era bisogno di altore della Compagnia, uscito di prigione, dovrebArmando Punzo be andare a fare il cameriere, o l’operaio, quando tre parole che creassero una lontananza tra me e i detenuti-attori della Compagnia sa già fare – e molto bene – un altro mestiere? Con e le persone che trovavo lì e mi impedissero di della Fortezza la fondazione di una struttura stabile (e con tutto provare una sorta di facile identificazione con 4 febbraio 2010 ciò che questo comporta), potremmo organizzare loro. Per fare due esempi prendo il Marat-Sade Teatro Giovanni Poli finalmente in modo organico, con le giuste risordi Peter Weiss e I negri di Genet, allestiti tra il se e non con lo spirito pionieristico che ci ha sem1993 e il 1996. Il primo è forse il testo che ho meno mapre contraddistinto, tutte le attività di formazione, dalla recinipolato: dopo cinque anni in cui avevamo utilizzato la tazione alla scenografia all’illuminotecnica e così via. Tutte colingua napoletana, è stata la prima esperienza in italiano. se che già facciamo, ma che assumerebbero un’altra dimensione e permetterebbero alla Compagnia di proseguire negli anLa pièce era perfetta, evocava parole forti come libertà e ni nonostante le persone cambino e si avvicendino. In questo rivoluzione. A me interessava non la rivoluzione politimodo si potrebbe trasformare la Fortezza in un carcere destica quanto quella individuale. Ci siamo resi conto che era nato al teatro. Probabilmente non ce lo permetteranno mai, una bomba, un oggetto straordinario in quel contesto. E ma questa è una vera idiozia. Dopo più di vent’anni di attiviho capito che era possibile far rivivere quell’opera, che altà, la struttura penitenziaria, che era una delle peggiori d’Italora era semidimenticata. Anche questa è stata una scomlia, ora è tra le migliori per “le attività trattamentali”, come si messa: mettere in scena temi e testi che in quel momendice in gergo tecnico. E credo che il teatro abbia qualche meto storico erano completamente caduti nell’oblio e – legrito in tutto questo...» Armando Punzo gendo quelle parole in quelle stanze, mettendole a contatto con quei particolari vissuti – scoprire che non eraSopra: Santolo Matrone e Armando Punzo al Teatro Giovanni Poli. no affatto superati. Al centro: una scena del Marat-Sade. L in scena — 67 C di Fernando Marchiori ome a ripercorrere i confini di una vicenda per- sonale che più di vent’anni fa lo ha portato nel carcere di Volterra per una delle più intense esperienze teatrali del nostro Paese – e da quei confini guardare il dentro della reclusione senza cadere nel fuori delle anime belle e delle dame di carità – Armando Punzo ha voluto ancora una volta con Pinocchio tradire le aspettative, smontare una forma, rivoltarla. Ha rifiutato di «mettere in scena» l’alterità detenuta imprigionandola nello schema prevedibile dell’enfant terrible candidato alla redenzione e l’ha sottratta all’abbraccio buonista e soffocante di una facile indentificazione da parte del pubblico. Ha rifiutato un ruolo, quello di demiurgo delle altrui avventure burattinesce dietro le sbarre, per incarnare egli stesso la stupefazione di un bambino che torna alla propria natura selvatica e capricciosa, invertendo la tragica progressione verso l’umano del personaggio di Collodi in una regressione all’originario pezzo di legno, e di lì all’arboreo, al radicale, al rizomatico sentimento del vivere. La sua andatura disarticolata e senza fili attraversa la storia di Pinocchio da una prospettiva libertaria che ricava una terra promessa, un orizzonte di serena disperazione dall’arte e dalle parole dei libri, dalla concretezza poetica di un mondo fantastico creato dentro il mondo «reale» per contraddirne l’ipocrisia, per custodirne la potenziale bellezza sempre tradita. Punzo non fa dell’autobiografia, ma la sua storia di uomo di teatro che dalle esperienze grotowskiane approda al carcere come a un’isola di autenticità possibile, di interrogazione radicale, si legge in filigrana. «Armando è più detenuto di noi», dice nel corso del partecipato incontro con il pubblico Santino Matrone, ventidue anni di carcere, uno degli interpreti dello spettacolo andato in scena al Giovanni Poli di Venezia. Una versione ridotta, dodici attori e un impianto scenico costretto nelle misure del piccolo palcoscenico di Santa Marta. Ma intatta la forza d’urto contro le immagini precostituite degli spettatori – e degli stessi attori-detenuti –, intatta la dimensione visionaria di un «(glorioso) fallimento», come ha scritto il regista, la giostra grottesca delle citazioni stravolte eppure immediatamente riconoscibili, la gioiosa via crucis fallimentare per «riconquistarsi la strada del (felice) non-essere». Se nel lontano Marat-Sade, lo spettacolo che nel 1993 vinse il Premio Ubu, l’alternativa tra rivoluzione individuale e rivoluzione politica restava irrisolta, o meglio elusa, qui non solo la scelta è ormai maturata in favore della prima ipotesi, ma essa si rivela come un’esplicita rinuncia non solo al piano sociale ma alla stessa affermazione individuale. Sulla scia di una riflessione che attraversa la contemporaneità da Rimbaud («io è un altro») a Pessoa, da Artaud allo stesso Grotowski, Punzo ci ricorda che la vera rivoluzione interiore consiste nell’uscita da quella gabbia che il nostro stesso «io» è per noi. Il funerale di Punzo-Pinocchio, portato sulle spalle da sei figuri in abito nero con una calza calata sul viso, sancisce la fuoriuscita del/dal soggetto, mentre il manichino con le sembianze dell’attore adagiato sul proscenio ne ribadisce per tutta la durata dello spettacolo la sostanziale assenza. Il doppio in scena ricorda agli stessi spettatori la divaricazione, la distanza che l’attore assume e chiede di mantenere anche a chi sta in platea: «Solo, io (lui) guardo a me che non è me». Come nei precedenti spettacoli, la Compagnia della Fortezza cerca dunque di mostrare la falsità di ogni tentativo di avvicinamento alla diversità altrui, destinata a rimanere tale se non cominciamo a chiederci che cosa c’è di diverso in noi stessi. Lo spazio di Pinocchio è uno spazio della sottrazione, una strategia della diserzione dall’umaniin scena Il Pinocchio al contrario di Punzo tà e dai suoi luoghi comuni. Perciò la fatina, cioè il principio di «realtà», lo spirito concreto che richiama ai doveri e alle convenzioni sociali, non è una presenza amica. I veri amici – «Amico, amico mio! », ripete la voce stridula di un Pinocchio esagitato e ribaldo che sembra divertirsi perfino a fare il verso a Carmelo Bene – sono il Gatto e la Volpe, Lucignolo e i ciuchi, i complici di una fuga dalla costrizione insopportabile (nella vita come in scena) alla parte, alla biografia, al luogo deputato. Non a caso il cuore della mascherata, con gli attori fissati in movenze da animali meccanici, è il paese dei balocchi, cui corrisponde un teatrino interiore di autori e personaggi della letteratura, scelti e incastonati con effetti contrastivi spesso sorprendenti: Kafka, Pasolini, Rabelais, Artaud, Cervantes. Sono loro i veri amici, dirà Punzo rispondendo a una domanda del pubblico, perché «portano fuori», fanno sentire che c’è una possibilità di cambiare i nostri destini e che il nostro singolo ridiventare tronco e albero può trovare attorno a sé una foresta. Scottato dalle esperienze, i piedini bruciati dalla vita, Pinocchio non è più solo. La sua rabbia non alimenta più il fuoco di paglia della ribellione, ma la lenta combustione interiore necessaria ad ogni «uscita dal mondo». ◼ Le prove di Materiali da Pinocchio al Teatro Giovanni Poli. 68 — in scena Stefano Pagin rilegge Leopardi «I dialoghi di Federico Ruysch» aprono la nuova edizione di «Paesaggio con uomini» in scena R itorna «Paesaggio con uomini », la rassegna di Echidna Cultura che tra febbraio e maggio riunisce in dieci comuni della provincia veneziana – Campagna Lupia, Camponogara, Dolo, Fiesso d’Artico, Mirano, Noale, Pianiga, Salzano, Stra, Vigonovo – alcune tra le proposte più interessanti della scena italiana contemporanea, tra cui si segnalano almeno il magnifico È bello vivere liberi! di Marta Cuscunà (20 marzo al Cineteatro Italia di Dolo, cfr. VMeD n. 30, p. 75 e pp. 78-79) e il Magnificat di Alda Merini di Anagoor (21 marzo, Campagnia Lupia, Chiesa Santa Maria di Lugo). Ad aprire la manifestazione il 25 febbraio, al Teatro Comunale di Camponogara, è stata una creazione di Stefano Pagin, realizzata con un gruppo di nuovissima fondazione, la Compagnia Casello 11 Teatro. I dialoghi di Federico Ruysch e delle sue mummie, presentato in forma di studio all’intensa Maratona di Asolo «D’Amore Vero nel vero» (cfr. VMeD n. 30, pp. 78-79), vede in scena cinque attori: Michela Martini, Stefania Felicioli, Galliano Mariani, Silvia Piovan e Alessio Bobbo. Al registaideatore chiediamo di raccontarci il punto di partenza della sua messinscena. L’operazione prevede di utilizzare come contenitore drammaturgico il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie innestando al suo interno altre quattro operette morali: Dialogo di Malambruno e Farfarello, Dialogo d’Ercole e di Atlante, Dialogo di un Folletto e uno Gnomo, Dialogo di un venditore d’ almanacchi e un passeggere. Il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie risale all’agosto 1824: Ruysch (1638-1731), medico e anatomista olandese realmente esistito, scoprì un metodo per preservare dalla putrefazione i cadaveri. Allo scoccare della mezzanotte di un «anno grande e matematico» il protagonista sente le proprie mummie cantare nello studio anatomico della sua casa. Il loro canto afferma la certezza della naturalità della morte e la totale mancanza di rimpianto per la vita passata. Per il tempo di un’ora alle mummie sarà permesso di esprimersi in modo ironico e scherzoso su temi cruciali come l’impossibi- lità del raggiungimento della felicità durante la vita terrena e sul ridicolo punto di vista antropocentrico che caratterizza l’essere umano. Stordito dall’eccezionalità della notte grande e matematica lo scienziato comincia a interrogare le mummie. Scoprirà così che la vita per i morti è come la morte per vivi: il pieno al posto del vuoto; che non può esserci alcun dolore o angoscia nel momento del trapasso poiché il dolore e l’angoscia appartengono a uno stato di vita e sono inconciliabili con lo stato di morte che è appunto la negazione della vita. Cosa puoi dirci della tua interpretazione del testo leopardiano? Il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie tratta della morte, e, tentando di comunicare all’attrice che interpreta Ruysch il pensiero che volevo per recitare la battuta «Ma che cos’è la morte se non è dolore?», non riuscivo a spiegarmi con lei poiché volevo che la dicesse con un’esigenza umana (quasi paura) lontana dalla retorica dello scienziato, che è la prima lettura con cui si potrebbe dire quella battuta. In questa mia considerazio- ne partivo da alcuni interrogativi: se a noi poveri occidentali togliessero anche l’idea di un trapasso doloroso, un po’ come una nascita alla rovescia, e questo trapasso invece venisse riempito di vuoto, che cosa ci resterebbe? Di che cosa dovremmo avere paura allora? La paura ci è necessaria. Il vuoto ci è intollerabile. (l.m.) ◼ Nella foto: Michela Martini, Stefania Felicioli, Silvia Piovan, Galliano Mariani e Alessio Bobbo in I dialoghi di Federico Ruysch e delle sue mummie. Il «Trattato dei manichini» di Teatropersona A Schio lo spettacolo di Alessandro Serra dal romanzo di Schulz D a l l’ o m o n i m o capolavoro di Bruno Schulz, di Fernando Marchiori lo scrittore ebreo polacco ammazzato nel 1942 nel ghetto di Varsavia, il Trattato dei manichini di Teatropersona – assolutamente da non perdere nella sua prima regionale all’Astra di Schio (26 marzo, ore 21.00) – ha ricavato l’atmosfera onirica di cui è pervasa ogni scena. Ma la radice prima di questo pezzo straordinario di scrittura scenica sprofonda nell’infanzia del regista Alessandro Serra: l’orfanotrofio, la solitudine, il gioco introspettivo. Che Serra riesca a mantenersi paradossalmente «estraneo nell’autobiografia» e a far vibrare in sequenze di impeccabile rigore formale l’esperienza universale dell’infanzia perduta dipende in primo luogo da un suo eccesso di autoconsapevolezza. E poi da un’incrollabile fede nel teatro quale atto fondativo di un mondo che è nel tempo ma non appartiene a questo tempo. Un atto di autonomia creativa, una cosmogonia interiore che si spalanca a una visitazione condivisa. Serra spiega come «il ritorno atemporale all’infanzia è un sogno che non si può raccontare, un nulla a cui nessuno crederà, ma un nulla visibile, confezionato con le immagini della realtà». La scena viene dunque svuotata di ogni elemento descrittivo, di ogni intenzione narrativa, in perfetta coerenza con le posizioni estetiche del protagonista schulziano quando esclama: «Se, abbandonando ogni rispetto per il Creatore, volessi divertirmi a criticare la creazione, griderei: “Meno contenuto, più forma! Ah, quale sollievo sarebbe per il mondo questa diminuzione di contenuto! Un po’ più di modestia nelle intenzioni, un po’ più di sobrietà nelle pretese, signori demiurghi, e il mondo sarebbe più perfetto!». Il criterio compositivo è dunque di natura musicale, mentre il palco, come voleva Appia, diventa spazio ritmico, puro supporto per il movimento dell’attore. Le tre performer – Valentina Salerno, Alessandra Cristiani e Chiara Casciani – non pronunciano parola, ma ogni loro movimento, ogni gesto risponde a una precisa partitura fisica ricavata dallo studio della conturbante opera grafica di Schulz e dalla sensualità della pittura di Schiele. Tracciano i caratteri di un linguaggio inedito dalla grafia danzante. A sfogliare questo libro segreto dell’infanzia scritto in caratteri performativi e con la punteggiatura dello stop motion è una quarta attrice, la sorprendente Silvia Malandra di anni nove, che a tratti sembra creare dalla sua fantasia le tre figure scure, altre volte ne è dominata. Proviene da una lontana traccia cinematografica, con la sua valigetta di cartone e le trecce bionde sotto il cappellino. È lei che fa girare le tre performer su se stesse come dei manichini, ma sono loro che la trasformano in ballerina; lei le trattiene al di qua del formalismo, loro le insegnano ad attraversare le ombre. Ma non c’è una storia da seguire, se non nella fuga di impressioni suscitate in noi spettatori da queste immagini che sembrano calchi musicali di impulsi mnestici. Dentro un denso montaggio di materiali sonori, le tre performer finiscono per danzare, in una sorta di Butoh per manichini, le tracce di vite strappate ai loro corpi. Sono effigi di donna che si disarticolano, modelli femminili smembrati. Evidente in questo teatro la centralità dell’attore, della sua presenza riverberante. Serra lavora con «un attore-talismano che non rappresenta nulla, semplicemente è ciò che esprime» e si muove all’interno di opere costruite come organismi coerenti e autosufficienti. Non hanno significati da trasmettere, ma forze da mettere in campo, azioni calibrate che funzionano da chiavi di accesso ad un mondo recondito, da innesco per una implosione d’immagini sconosciute e profondamente nostre, una concentrazione di materia ed energia che ritorna al cuore della nostra vita interiore. E lo rianima. Nello spettacolo, che ha vinto il Premio Lia Lapini 2008 per la scrittura di scena, oltre al Premio Eti Nuove creatività, il linguaggio verbale è quasi assente: la conta di Silvia all’inizio, per entrare nella dimensione onirica dell’infanzia, e quella finale per chiudere il cerchio drammaturgico. L’essenzialità delle scene, la gestualità miniaturizzata, la precisione millimetrica dei movimenti corrispondono alla «sottrazione di umanità» teorizzata e praticata dal personaggio del libro, che nella sua dottrina eretica progetta di «creare una seconda volta l’uomo a immagine e somiglianza di un manichino». Così il collegio di Serra diventa il sanatorio raccontato da Schulz, dove ai morti è concessa una seconda realtà, parallela, rarefatta, ma anche l’istituto Benjamenta di Walser, dove si impara a diventare uno zero, un niente. Se riuscissimo a «diminuirci», a «maturare verso l’infanzia», sembra ricordarci il Trattato, potremmo raggiungere il «primo linguaggio», cioè appunto il mito fondativo, l’origine, il nostro inizio. In questo senso mito e infanzia coincidono. Non a caso all’opera di Schulz si ispira anche un caposaldo della cultura teatrale contemporanea come La classe morta di Kantor. ◼ Il trattato dei manichini (foto di Daniela Neri). in scena in scena — 69 70 — in scena Il teatro in «Movimenti» del Fondamenta Nuove I e propria «avventura» alla scoperta di uno dei gruppi veneti più interessanti dell’ultima generazione, la seconda parte della rassegna «Movimenti – Gesti di teatro necessario» del Teatro Fondamenta Nuove, realizzata con la collaborazione di Carlo Mangolini del Bassano OperaEstate Festival. Dopo il grande successo di pubblico ottenuto nella prima parte di stagione, che ha visto protagonisti Santasangre, Pathosformel e Anagoor, giovedì 4 marzo alle 21 il teatro veneziano apre le proprie porte a una serata-evento dal titolo DESERT/DESSERT - una serata lounge per scoprire il lavoro di Fagarazzi & Zuffellato: un viaggio nomadico fra i lavori video dei due coreografi e artisti visivi, in una dimensione lounge con musica e aperitivo, durante la quale lo spettatore potrà partecipare alla discussione/ scoperta delle linee poetiche del duo. Il programma continua poi il 10 marzo alle 18.30 e alle 21, sempre con Fagarazzi & Zuffellato che presenteranno – dopo una settimana di residenza al teatro, oramai apprezzata prassi della rassegna «Movimenti» – lo studio dello splendido enimirc, vero e proprio «evento» che mette in discussione il rapporto e i ruoli di performer e spettatore, declinando un’azione mimetica che agisce proprio su quel confine che tradizionalmente separa l’osservato dall’osservatore. Gli altri appuntamenti della stagione spostano invece la visione sulla nuova drammaturgia e sulle capacità attoriali più «classiche». Giovedì 8 aprile alle 21 i Menoventi, giovane gruppo emiliano-romagnolo capitanato da Consuelo Battiston, Alessandro Miele e Gianni Farina, presenteranno invisibilmente, una personalissima rilettura del giudizio universale, elegantemente – e ironicamente – rappresentata in un contemporaneo studio televisivo. La settimana successiva, mercoledì 14 aprile sempre alle 21 il gruppo presenterà l’esito della residenza al teatro e incontrerà il pubblico per soddisfare domande e curiosità sul lavoro della compagnia. Chiude gli appuntamenti primaverili del Fondamenta Nuove il gruppo barese Fibre Parallele, creato nel 2005 da Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, con il dissacrante Mangiami l’anima e poi sputala (giovedì 22 aprile ore 21). Una grottesca storia d’amore e purificazione fra una pia donna barese e un Gesù Cristo miracolosamente sceso dalla croce. Il Teatro Fondamenta Nuove e la rassegna «Movimenti» sono diventate in breve tempo uno dei punti di riferimento per le nuove generazioni del teatro di ricerca italiano e per il pubblico del teatro contemporaneo: ma cosa intendiamo quando usiamo il termine contemporaneo? Se guardiamo il dizionario, contemporaneo significa che avviene nel nostro stesso tempo, noi tutti siamo contemnizia con una vera in scena di Jacopo Lanteri poranei perché viviamo in questo tempo che ci è comune e ci accomuna. Tuttavia se oggi qualcuno dipinge alla maniera degli impressionisti, nessuno dirà che quel quadro, seppur prodotto nel nostro tempo, sia contemporaneo. Ma allora cosa definisce questo termine nel campo dell’arte? Senza ridurlo a mera qualità estetica (per giunta di difficile definizione) e aiutati dalle parole di Jean Luc Nancy, potremmo rispondere che l’arte contemporanea può essere definita come manifestazione di una forma, che sarebbe innanzitutto la forma di un problema: il problema del confronto con il mondo in cui viviamo. Un mondo di difficile definizione, fragile, ricco di contraddizioni e alle volte inquietante. L’artista di oggi, che si trova a «rappresentare» il mondo, non può non fa- re i conti con questa problematicità, riportando sulla scena una visione che non rassicura lo spettatore, ma che, al contrario, gli pone delle questioni insolute, lo invita a riflettere sulla sua condizione, non lo fa – in altre parole – rimanere tranquillamente accomodato in poltrona, ma lo trasforma in uno spettatore in «movimento». ◼ In alto: Golden Beach di Andrea Fagarazzi e I-Chen Zuffellato. Sopra: Mangiami l’anima e poi sputala di Fibre Parallele. in scena — 71 Shakespeare in scena con le coreografie di Michela Lucenti V alter M alosti, Premio Ubu 2009 per la miglior Mestre regia con Quattro atti proTeatro Toniolo fani di Antonio Tarantino, por15, 16 aprile ta sulle scene del Toniolo il suo ore 21.00 Venere e Adone (produzione Teatro di Dioniso e Teatro Stabile di Torino), rilettura torbida e sensuale del poemetto erotico-pastorale di William Shakespeare, i cui protagonisti sono una dea pazza di desiderio e un giovane bellissimo che le sfugge, finendo ucciso tra le zanne di un cinghiale. Shakespeare lo scrisse nel 1593 su commissione del suo giovanissimo patrono, l’efebico Henry Wriothesley conte di Southampton, di cui è stato ritrovato, un paio di anni fa, un ritratto in abiti femminili. «Il gioco delle identità entra così in un labirinto di specchi», spiega Malosti, «e si scivola in una progressiva promiscuità delle individualità. Forse suggestionato anche da ciò che si narra riguardo al rapporto non puramente letterario che Wriothesley aveva con Shakespeare, una notte sognai l’immagine curiosa di un travestito che coccolava questo Adone morente. Per questo Adone in scena è truccato da donna. Successivamente è scattata un’altra molla molto importante, che mi ha spinto a recuperare la lingua usata da Shakespeare nel suo poemetto, che ho così ritradotto, lavorando molto anche sulla musica. In maniera particolare avevo in mente la musica di John Blow, che fu maestro di Henry Purcell. Ne è scaturita una sorta di operina musicale in cui i tre personaggi del testo hanno ognuno un proprio percorso sonoro molto preciso: il narratore, partendo dal barocco di Blow, arriva fino ai neo-barocchi inglesi; Venere è una sorta di macchina dell’amore immaginata parlante in sintonia con la musica di Maderna e Berio, di cui ho usato soprattutto l’opera Visage; Adone infine è caratterizzato dal clavicembalo. La partitura fisica dello spettacolo prende spunto da un improbabile pas de deux tra Venere e Adone: tutto è giocato su una minuscola e rischiosa pedana di ottanta centimetri quadri, base del carrello-macchina da cui si può precipitare facilmente, metafora di una più abissale e misteriosa caduta. Si tratta di una sorta di carrello cinematografico, che viene avanti e indietro, portando in primo piano i personaggi, per poi allontanarli, presentandoli in movimento. E quando Adone se ne va, Venere rimane da sola su questo carro a piangere la sorte del suo amore». (i.p.) ◼ Valter Malosti in Venere e Adone (foto di Tommaso Le Pera). Ritorna il teatro del sacro A Crucifixus il Cristo de los Gascones di Segovia P untuale come ogni anno torna Crucifixus-Festival di Primavera, la rassegna dedicata al sacro inventata e diretta da Carla Bino e Claudio Bernardi. Nato nel 1998 come percorso legato all’arte della Via del Romanino e sviluppatosi poi a partire dal 2002 sotto forma di festival, Crucifixus si svolge ogni anno tra il lago d’Iseo e la Val Camonica, durante le tre settimane che precedono la Pasqua. Coinvolge oltre venti comuni delle province di Bergamo e Brescia che ospitano in contemporanea spettacoli di teatro e musica. Quest’anno poi, per volontà del Comune e della Diocesi di Brescia, la manifestazione ha ideato un progetto speciale per la città, che interesserà diversi luoghi «periferici» e non teatrali del centro storico come il Castello e il Carcere di Verziano. Più in generale il festival, che si svolgerà dal 15 marzo al 20 aprile, vede il riproporsi di appuntamenti già rodati, come Il lenzuolo. La passione secondo Marco di Claudio Bernardi, portato in scena da Diego Parassole, e la potente Rock Passion Live ideata da Carla Bino e Davide Caparini. Tra i nuovi ospiti si segnalano almeno Sandro Lombardi, alle prese con Erodiàs di Giovanni Testori, e Alessandro Berti, già leader del gruppo L’Impasto, che ricava il suo Abbandono alla Divina Provvidenza dall’omonima raccolta di scritti del gesuita Jean Pierre De Caussade. Ma l’evento più rappresentativo di questa edizione è probabilmente El Misterio del Cristo de Los Gascones della compagnia di Segovia Nao d’amores, un’immersione nell’appassionante mondo del teatro primitivo attraverso una visione assolutamente contemporanea. Si tratta della ricreazione della cerimonia liturgica che veniva rappresentata nella chiesa di San Giusto a Segovia, per la quale si costruì il Cristo de los Gascones, una delle opere più significative del patrimonio artistico segoviano. Attraverso una drammaturgia realizzata a partire da documenti storici di diversa provenienza, e mediante la ricerca e l’interpretazione di brani musicali che originariamente accompagnavano questa cerimonia, la compagnia sviluppa una messinscena che combina il lavoro d’attore con il teatro di marionetta. Un viaggio magico attraverso un microcosmo costruito su simboli, figure allegoriche e metafore. Per informazioni: www.crucifixus.com. (l.m.) ◼ El Misterio del Cristo de Los Gascones di Nao d’amores. in scena «Venere e Adone» di Valter Malosti