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di FILIPPO SCHININA
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INDICE
pagina 06 • Introduzione
pagina 08 • Cresci, Peter Pan!
pagina 13 • Le antenne ripetitrici
pagina 17 • Interattività e finta interattività
pagina 22 • Pimp my Life
pagina 27 • La pubblicità ti fa star bene
pagina 32 • I semafori televisivi
pagina 37 • Vita in Serie
pagina 42 • Tivi, mi vuoi bene o no?
Interviste:
pagina 46 • Daniela Brancati
pagina 54 • Luca Bagetto
pagina 57 • Biblio, Audio e Webgrafia
INDICE
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INTRODUZIONE
“TiVi B.?” è un contenitore, una scatola che guarda la scatola. Un posto dove si ritrovano le idee, i luoghi comuni, i timori
e i dubbi che molti nutrono su una delle nostre più care amiche, la televisione.
“Tivi B.?” parla in maniera semplice, per farsi capire da tutti, per invitare ad una riflessione: la televisione, che ironicamente
qui diventa la Tivi, ci vuole bene? Lavora per noi, o in realtà il suo lavoro siamo noi?
“TiVi B.?” ti da del tu, come fa un amico, un parente, o la televisione stessa. Fra le sue pagine ritrovi considerazioni già sentite,
o magari semplici sensazioni; di sicuro dei concetti nuovi, che ti possono aiutare a farti, o rifarti, un’ idea sulla scatola magica.
“TiVi B.?” si avvale dell’aiuto di due grandi menti italiane: Daniela Brancati, giornalista, scrittrice, creatrice di programmi televisivi,
sempre attenta ai rapporti fra televisione, pubblicità e società; e Luca Bagetto, filosofo e docente, che all’interno del programma
radiofonico Razione K, ha dispensato saggi consigli ed acute affermazioni sul mondo dei media e del consumo nel quale viviamo.
È anche grazie alle idee che hanno espresso rispondendo alle mie domande, che ho avuto modo di riflettere e commentare la programmazione televisiva oggi presente in italia, e osservare come essa influisce sui giovani, e al tempo stesso su tutte le generazioni.
Sì, perché tutti noi siamo coinvolti, quando si parla di Tivi.
La guardiamo ma non la osserviamo, ma stiamo certi che lei invece ci scruta a fondo.
“TiVi B.?” diventa, allora un invito. Ad osservare dietro lo schermo.
INTRODUZIONE
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CRESCI, PETER PAN!
“ A tavola non si invecchia mai! ”, ci insegnano i nonni. Questo antico detto è legato all’intrattenimento per
eccellenza, mangiare insieme, e vuole dire che quando ci si diverte, tutto il tempo trascorso è ben speso.
Ma vale lo stesso per il tempo che passiamo davanti la televisione?
Pensi mai al tempo che trascorri guardando lo schermo?
Anche se sembra passare in un lampo quando guardi il tuo telefilm preferito, i cartoni animati che ti fanno più ridere, o
il programma che ti tiene compagnia subito dopo, in realtà di tempo davanti la Tivi ne passiamo davvero tanto!
E anche se noi non ci facciamo caso, la Tivi sa perfettamente quanti anni abbiamo, quanto tempo passiamo ad ammirarla e forse, quanto ne passeremo nei prossimi anni, ciascuno di noi, comodamente sdraiati sul divano. Questo grazie
all’ AUDITEL, un sistema che permette a chi fa la televisione di controllare cosa preferisce guardare la gente. Ultimamente
molte associazioni che tutelano lo spettatore si sono lamentate ( anche Caparezza ne parla in una canzone, “the Auditels
Family”), perché l’ AUDITEL osserva un campione molto ridotto di famiglie, e spesso è stato utilizzato come sistema per
decidere se far andare o meno avanti un programma. Capita spesso infatti di sentire cose come “ abbiamo avuto uno share
del 50%! Evviva! ”. Ti basti pensare a Striscia la Notizia, che ogni giorno ringrazia il suo pubblico.
Ma molto spesso la maggioranza della gente non è attratta da programmi culturali perché sono impegnativi, mentre i programmini di intrattenimento sono più rilassanti. Proprio per questo motivo, ottimi programmi dai contenuti bellissimi sono
stati cancellati dalla programmazione Tivi - il Palinsesto - solo perché non venivano visti da tanta gente. Ma del resto poca
gente legge libri seri ed impegnati, eppure vengono pubblicati lo stesso, perché non dovrebbe essere così per i programmi
Tivi?
Ma la Tivi non si limita a sapere quanto tempo ti piace passare con lei, ma ha una pretesa in più: vuole dirti quanti anni
hai. O meglio, quale deve essere la tua età da consumatore, e l’età migliore per essere un consumatore è il giovane adulto
lavoratore.
Questo è dovuto dal fatto che la televisione vive grazie alla pubblicità. La incontriamo mille volte al giorno, e viene fatta
da chi crea i prodotti da vendere, e serve proprio a questo: vendere. E non, come possiamo pensare da piccoli, a farci
divertire durante le pause tra un programma e l’altro, o a permetterci di andare a prendere la merenda in cucina prima che
i cartoni animati ricomincino. Ed è tanta la pubblicità che fanno, specie nelle fasce orarie dedicate ai più piccoli. E sembra
molto strano, visto che non sono certo i più piccoli a fare le compere di casa.
Pensaci su, chi sono quelli che spendono meno? I bambini, perché non hanno tante esigenze e le cose gliele comprano mamma e papà. Quindi, per riuscire a fare spendere più soldi, anche ai più piccoli, la cosa migliore che la Tivi ha
pensato di fare è stato dirsi:- Beh, facciamoli crescere un pò più in fretta! Saranno presto ragazzi, e i ragazzi si sa,
hanno mille desideri!È questo il motivo per il quale si sente in giro sempre più spesso, e anche gli esperti lo sosten-
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gono, che i bimbi crescono più
velocemente, e assumono già da giovanissimi atteggiamenti da grandi. Ci basta
pensare a quanti trucchi comperano le ragazzine già molto piccole, oppure ai maschietti che già a otto anni
si fanno comperare dal papà la Gazzetta dello Sport. E magari i papà sono contenti, soddisfatti del loro figliolo così
interessato, che “già legge il giornale”. Però questi papà dovrebbero fare attenzione, e riflettere se questa è una cosa
bella o brutta. Loro, del resto, a otto anni leggevano la Gazzetta ogni giorno? Probabilmente no, e probabilmente non
lo facevano perché non avevano la necessità di andare a vedere i risultati del Fantacalcio, gioco attraverso il quale i
nostri maschietti fin da giovanissimi imparano a scommettere soldi e a contrattare per possedere i giocatori.
Impara l’arte e mettila da parte, in futuro ti servirà.
Questo esempio ci porta ad un altra faccia della medaglia molto interessante, ovvero come negli ultimi anni sempre più
bambini sono interessati e competenti riguardo i prodotti che prima erano dedicati solo agli adulti. Ti basti pensare al fatto
che i genitori, ad esempio prima di comperare un cellulare, chiedono ai figli un parere su qual è il modello migliore, perché
sono loro che, sommersi da pubblicità e offerte, confrontandosi con quelli degli amici, sanno tutte le caratteristiche degli
ultimi arrivi.
La recente campagna pubblicitaria estiva della Tim con Cristian De Sica che fa il vigile ne è la prova, con le sue gag un pò
passate di moda ma dove si vede sempre la figlioletta che “simpaticamente” gli dice:- Papà, ma non lo sai che...- parlando
di questa o dell’altra offerta.
E se questo è vero per il mercato della tecnologia, lo è forse di più per quanto riguarda la moda.
Se una volta le figlie adolescenti uscivano con le mamme a fare compere, oggi sempre più spesso possiamo osservare ragazze
che escono in gruppo per fare shopping, e si consigliano a vicenda su che cosa comperare. Nulla di male in questo, ma se una
madre ti dirà se quel vestito è più o meno di qualità e merita di essere comperato, la tua migliore amica ti potrà dire quanto sei
carina con quella o quell’altra gonna; e non per dico questo per cattiveria, ma perché a 8 o a 13 anni ( le età a cui si comincia a
fare compere da sole ormai sono queste ) non si ha il minimo interesse per gli aspetti pratici delle cose, è normale.
Ed è normale anche volere crescere in fretta quando siamo ragazzini, perché i grandi sembrano padroni di tutto, e liberi di
fare quello che vogliono; ma non è comperando più cose che saremo più grandi, ne tanto meno avremo più potere. Questo loro ( quelli che usano la pubblicità e la televisione per spingerci a comperare) lo sanno, ma preferiscono illuderci che
spendendo soldi saremo più indipendenti e maturi.
Per questo motivo quello che non dobbiamo permettere a nessuno è che ci portino via la gioia di essere bambini, e
purtroppo è quello che ci stanno facendo.
Essere bambini vuole dire stupore, novità, divertimento per le piccole cose. Attraverso la Tivi ci abituano a tutto, ci
fanno vedere tutto, e questo leva la voglia di scoprire, ricoprendoci di noia.
Anche perché quello a cui la Tivi sembra non pensare, è che per quanto i nostri piccoli possono assumere atteggiamenti da grandi, la loro mente sarà sempre quella di bambini.
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In merito a questo argomento,
ecco qual è il pensiero di Daniela Brancati emerso durante la nostra intervista: “...
si suggeriscono ai giovani dei modelli di gioventù che non corrispondono a quello che la gioventù è sempre
stata e sempre sarà. Non è che i giovani di oggi siano diversi da quelli della mia generazione o dagli altri giovani
di generazioni precedenti. Sono diversi nella parte apparente, nel vestirsi piuttosto che nel camminare o nel tipo di
musica che si ascolta, ma le esigenze di una giovane mente sono sempre le stesse esigenze, non vedo differenze di
sentimenti; le incertezze, la necessità di essere rassicurati, di trovare un equilibrio, sono caratteristiche comuni a tutte
le persone, in tutte le epoche. Ciò che può cambiare è il leggero spostamento in avanti perché la vita dura di più, quindi
anche l’età giovane dura di più, ma in realtà il giovane è insicuro ieri come è insicuro oggi.”
Le certezze fanno forti, i desideri no. E farvi desiderare le cose è una delle armi principali della pubblicità, ma imparate a
non cascarci, gli darete del filo da torcere.
Questo ci può portare, in un futuro molto più prossimo di quanto non si pensi, a dover avere a che fare con generazioni
sempre più depresse e annoiate, sature dal troppo che possiedono. Purtroppo è una cosa che stiamo già vivendo, e lo
testimoniano l’alto tasso di suicidi in paesi molto ricchi, come il Giappone o l’Olanda, ma senza dovere fare degli esempi tragici, lo testimonia il fatto che i ragazzi perdono il sano gusto del divertimento. Per parlare attraverso lo schermo, pensiamo
solamente alla famosa scena di Bart Simpson che non può andare a vedere il film di Grattachecca e Fichetto, e che speranzoso si affida alla sua fantasia per inventare una storia tutta per sè, ma la sua fantasia non gli risponde; oppure all’atipico
personaggio di “Charlie e la fabbrica di Cioccolato” recentissimo film di Tim Burton, in cui uno dei bambini protagonisti è un
appassionato di videogames, violento e arrabbiato, anche se conosce un sacco di cose.
Ma non si limitano a stimolare i desideri dei più piccoli, la cosa davvero impressionante è che al tempo stesso vogliono fare
ritornare piccoli i grandi!
Sì, perché se è vero che un bambino non può spendere tanti soldi, è vero anche che un adulto con dei desideri da bambino
e il portafogli pieno ne può spendere tantissimi.
È questo il motivo per il quale, da qualche anno, è scoppiato il boom dei “giochi giovani da grandi “. Play Station, X-Box,
PSP non sono più console dedicate solo ai giovanissimi, come le vecchie console di qualche anno fa, ma oramai vengono
vendute soprattutto agli adulti, tant’è che aumentano i videogiochi “ V.M. 18 ”.
Come abbiamo accennato, questo fa parte di un preciso piano commerciale: per sentirsi di nuovo giovani, gli adulti devono
vivere “da giovani”, quindi comperare tutto quello che è nuovo e che fa “tendenza”.
Aumentano così le persone adulte per strada con le cuffiette dell’iPod, magari persone che non avevano mai ascoltato
prima musica “da passeggio” ( sembra che solo dall’avvento dell’mp3 la gente abbia scoperto la musica portatile, ma
è da vent’anni che circolano walkman e compact disc portatili); e aumentano anche i papà che giocano ai campionati
mondiali di calcio alla console, e magari non sono mai andati al
campetto sotto casa a dare quattro calci ad un pallone. Sentirsi giovani e giocare
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è una cosa che DOBBIAMO fare
tutti, il più a lungo possibile, a qualsiasi età, ma per farlo non ci deve essere richiesto di spendere soldi, di comperare l’ultimo oggetto super pubblicizzato, perché la fanciullezza non ha
bisogno di nulla per divertirsi, e basta un filo d’erba per volare.
I venditori giocano sulla sensazione di “invecchiare” che moltissimi provano ( fortunatamente non tutti ) già con l’arrivo dei trent’anni, e come convincono i giovanissimi che per essere grandi bisogna avere tutto ciò che è alla moda,
allo stesso modo di recente hanno iniziato a far credere agli adulti che per tornare giovani, divertiti e divertenti basta
comperare quello che comperano i giovani.
Attraverso i mezzi di comunicazione invece, si dovrebbe diffondere un messaggio nettamente diverso: che tutte le età
sono belle, essere bambini è stupendo, essere ragazzi è la scoperta, essere adulti è la consapevolezza, ed essere anziani
è la saggezza.
Se la televisione non si accorge dei danni che può fare un messaggio del genere ( essere perennemente giovani adulti compratori ) andiamo incontro a rischi seri, e lo stiamo vedendo già oggi. I ragazzi man mano che diventano adulti non vogliono
assumersi responsabilità importanti, cercano di prolungare sempre di più il periodo dello studio per non dovere trovarsi di
fronte al lavoro, facendosi mantenere da mamma e papà che in molti casi sono compiacenti.
A questi fattori poi si aggiungono i problemi di cui abbiamo già parlato, le insicurezze che un stile di vita “a crescita accelerata”
provocano, dato che i giovani possono far finta di essere grandi nell’aspetto, ma attraversano sempre la crescita, che è un
periodo delicato; oppure le frustrazioni che questo provoca negli adulti, che non riescono a sentirsi al passo con le mode.
Infine, per vivere tranquilli e felici bisogna prima di tutto essere in pace con noi stessi, e non col nostro guardaroba o con gli
aggeggi tecnologici che abbiamo in casa.
Prendiamoci quindi degli spazi per noi, e magari chiediamo alla Tivi di fare altrettanto, lasciandoci vivere le nostre età!
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LE ANTENNE RIPETITRICI
Come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, e vedremo più nello specifico in questo, la televisione dipende in tutto e per tutto dai prodotti pubblicizzati, quindi dalle marche, ovvero i produttori che investono
i soldi negli spot.
Vi ricordate la pubblicità delle “Grandi marche” in onda qualche mese fa, in cui si vedeva tutta la vita di un ragazzo,
da bambino fino al matrimonio, e la voce fuori campo che diceva cose del tipo - Siamo stati con te nei momenti più
impegnativi, quando hai pianto e quando hai riso, nelle decisioni importanti...- Hey! mi state pedinando e me lo dite solo
adesso?!? È una minaccia?
Scherzi a parte, questo spot è stato fatto perché ultimamente le marche hanno perso un pò di mercato, la gente compera
meno cose griffate, e ne compera di più contraffatte. Noi ne parliamo comunque, perché è sempre un fenomeno diffusissimo, specie fra i giovani, ed è giusto capirne il motivo.
Riguardo il rapporto televisione-marche, è giusto aprire una piccola parentesi. All’inizio della televisione italiana, i canali RAI
erano totalmente pubblici ( lo sono tuttora ) e non veniva trasmessa pubblicità, perché la televisione si manteneva attraverso
il canone, che è una sorta di tassa tv.
Il Carosello, allora unico esempio di pubblicità televisiva, era più uno spettacolo di intrattenimento per bambini, che proponeva gag con gli attori più famosi, canzoni e cartoni animati, e il prodotto era sempre mostrato alla fine, un pò con vergogna,
come se fosse una colpa intrattenere la gente in cambio della loro attenzione per la pubblicità.
L’uso davvero massiccio della pubblicità per il sostentamento della Tivi è arrivato con i canali privati, che non potendo contare sul canone vivevano solo grazie agli spot.
Di lì a poco la storia la conosciamo tutti, anche sui canali statali RAI è arrivata la pubblicità a tutte le ore ( cosa che non va giù a
tanta gente che paga il canone ) e ci siamo abituati ai “consigli per gli acquisti” che interrompono i programmi e i film. Ed è stato
proprio con la diffusione capillare della pubblicità che nelle famiglie sono entrati prepotenti dei nuovi componenti: le marche.
Fanno compagnia alle casalinghe e ai ragazzi davanti ai cartoni del pomeriggio, le ritroviamo a cena tutti riuniti davanti lo
schermo e ci augurano la buonanotte all’ultimo stacco pubblicitario prima di spegnere la Tivi e andare a dormire, sicure
che non le dimenticheremo, perché le abbiamo viste dieci volte ogni giorno.
È questo il motivo per il quale, una volta fuori casa, comperiamo le cose che abbiamo visto pubblicizzate in Tivi, e ci
fidiamo solo di loro. Del resto, come non fidarsi di un familiare?
Ma le marche non si limitano a questo, e da un pò di tempo hanno deciso di farci avere una parte nella grande giostra
pubblicitaria: l’antenna ripetitrice.
Facciamo qualche esempio. Nella mia classe alle elementari, c’erano trenta bambini. Venticinque avevano uno zainetto Invicta. C’era qualche bambino, caso raro, che ne aveva uno di una marca non conosciuta ( non dico “non
di marca” perché qualsiasi prodotto ne ha una). I bambini si sa, spesso sono crudeli, e spes-
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so capitava che il bimbo senza
griffe venisse preso in giro perché non era uguale agli altri. Qualche tempo dopo
anche lui aveva lo zaino Invicta. In questo caso le antenne ripetitrici eravamo noi bambini, che senza capire,
per puro spirito di unità -e un pò di cattiveria- ci facevamo grossi del fatto che avessimo tutti lo zainetto di marca.
Questo i produttori lo sanno bene, e non perdono occasione di sfruttare questa tecnica un pò subdola. Lo zainetto non
aveva nulla in più degli altri, era solo quello che avevano tutti, e questo decretava il suo successo. In questo caso si dice
che quell’oggetto è uno “status symbol”; ovvero rappresenta un modo di essere, nel caso dell’esempio, essere tutti uguali.
A proposito di “tutti uguali”, riflettiamo su un fenomeno del tutto nuovo. Se prima la pubblicità diffondeva un messaggio
di unità attraverso il prodotto ( compralo e sarai uguale agli altri ), oggi comunica il contrario: è per questo motivo che
sempre più spesso la Tivi usa frasi come “sei il migliore”, “l’unico sei tu”, “solo per te”, e questo ci fa sentire importanti.
Ma se riflettiamo solo un istante, la Tivi comunica a milioni di persone la stessa cosa nello stesso istante, ma noi non ci
pensiamo, perché ci troviamo da soli davanti allo schermo, e ci sembra che sia un complimento dedicato solo a noi. “Sei
tu l’unico a meritare quello che ti sto vendendo”. Ma in realtà siamo milioni. Mi prendi in giro allora? a quanto pare...
È finito il tempo del prodotto comperato per necessità, perché è effettivamente utile; oggi l’unica vera utilità della marca è metterci
in mostra.
Pensiamo al prodotto status symbol per eccellenza dell’ultimo anno: l’iPod. Ne abbiamo già parlato nel precedente capitolo,
“Cresci, Peter Pan”, di come oggi tanta gente che prima non ascoltava musica in giro per la strada oggi lo ha solo per potere
indossare quelle deliziose cuffiette bianche, e potere scambiare uno sguardo compiaciuto con il vicino in metropolitana;
oppure avere sempre un valido argomento di discussione: - Da quanti giga è?-, - Che modello è?-, - a colori?!?-. Poi però
dentro ha solo l’ultima canzone di Nino d’Angelo.
E in questo la marca vince, perché la gente diffonde il suo marchio, senza che lei debba spendere un centesimo, anzi è
la gente che paga per indossare il marchio. E a pensarci bene, l’azienda paga per potere mandare gli spot in onda o sui
giornali, per appiccicare i cartelloni pubblicitari per strada o per fare apparire il vip in Tivi con gli auricolari alle orecchie. Noi
invece paghiamo. La cosa non vi secca un pò?
Soprattutto, la Tivi sa che i giovani diventano volentieri “antenne ripetitrici”. Pensiamo agli stickers.
Nelle grosse città artisti e giovani writers, provenienti dall’ambiente hip hop, hanno tappezzatto di adesivi i muri e i semafori, raffiguranti i loro marchi, o dei disegni. I pubblicitari, sempre attenti alle nuove espressioni dei giovani, hanno subito
risucchiato questo stile, e in breve tempo hanno iniziato a vedersi, sui muri, assieme a stickers genuini, quelli di Nike,
Adidas e altre marche. La cosa triste è che ad appiccicarli non erano degli impiegati giustamente pagati, ma dei ragazzini, che in cambio ottenevano vestiti griffati, ovvero altra pubblicità.
Nei gruppi di giovani poi, c’è un altro fenomeno, che chi vende i prodotti è abituato a definire “opinion leader”. L’opinion leader è il capogruppo, quello che ha lo stile più fico, che tutti seguono e vogliono imitare. Molto spesso
la pubblicità mira a queste persone, perché poi saranno loro a diffondere il mes-
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saggio fra i loro simili. La vostra
“fichitudine” è il loro guadagno. Un altro uso che fanno dei giovani è poi quello di
diffondere il messaggio della publicità agli adulti. Se la mamma ha lavato tutto il giorno e si è persa lo spot, ci
penserà il figlioletto quando sono insieme a fare la spesa a dirle quale prosciutto è il più buono, o quale merendina
è la migliore per la sua crescita, parola della televisione.
Infatti se una volta era la donna di casa il bersaglio ( il famoso “target”) delle pubblicità, oggi che di casalinghe ce ne
sempre meno e siamo comunque tutti straimpegnati, sono i più piccini ad essere i più bersagliati del reame, e di conseguenza, le più alte e potenti antenne ripetitrici, che colpiscono famiglia e amichetti.
Ragioniamo quindi sul nostro rapporto con le marche. È giusto e normale che ci siano dei prodotti di buona qualità, o
delle marche in grado di proporci cose nuove e all’avanguardia, oggetti che migliorano il nostro stile di vita. Quello che
non va e che noi non dobbiamo appoggiare è il prodotto-status symbol, l’oggetto che non migliora nulla, che ci fa solo
sentire meglio con noi stessi e con gli altri perché la Tivi e la pubblicità ci hanno detto che staremo davvero meglio possedendolo.
C’è però un dato nuovo: questo mercato, basato sul possesso a tutti i costi, potrebbe in futuro avere molta meno presa sulla gente.
Prima parlavamo della televisione che si manteneva attraverso il canone, e ora con la pubblicità. Si può tornare indietro, attraverso
le pay-Tivi che tutti conosciamo. I canali satellitari a pagamento non hanno pubblicità, e stanno prendendo sempre più piede.
Questo fenomeno, misto ai canali su internet, dove selezioniamo solo quello che vogliamo, per esempio su youtube.com o
su googlevideo; oppure a nuovi fenomeni come il podcast, che permette di ascoltare solo quello che vogliamo della radio,
potrebbe dare del filo da torcere alle marche, che fanno della loro presenza obbligatoria, senza possibilità di scelta, un punto
chiave del loro mercato.
Ma si sa, le armi del marketing sono infinite, e un modo per venderci le loro cose lo trovano sempre. L’America del resto,
dove la pay-Tivi è molto più diffusa, è la patria di moltissime marche e culla del mercato.
Sta quindi a noi decidere se vogliamo essere delle antenne ripetitrici o meno. Consumare con intelligenza vuole dire anche
questo, non solo sapere cosa comperare e sapere rinunciare al superfluo, ma anche renderci conto quando ci stanno usando per portare in giro il loro marchio, indossandolo o consumandolo al bar, portando a spasso la bottiglia, convincendo il
nostro vicino che il nostro tagliaerba è più bello del suo.
E ricordiamoci che l’unica marca alla quale dobbiamo tenere, siamo noi.
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INTERATTIVITA e FINTA INTERATTIVITA
Come tutte le mamma, anche la mamma Tivi invecchia. La mia è stata l’ultima generazione ad avere come
unico compagno tecnologico dei pomeriggi senza compiti ( il teleschermo ), e neanche per troppo tempo. Le console si sono diffuse con estrema rapidità, e i PC con internet cominciavano timidamente a spuntare nelle case di tutte
le famiglie italiane, mentre prima erano soprattutto uno strumento da lavoro e per appassionati.
Oggi i piccoli hanno la possibilità di intrattenersi con videogiochi su console o sul computer, internet a banda larga in
ogni casa, lettori DVD/MPEG/DVIX/AVI/VHS/XVID collegati alla televisione o da passeggio, senza parlare dei cellulari
che oramai sembrano essere necessari a partire dagli otto anni, e comprendono tutta una serie di accessori fino a pochi
anni fa impensabili, fotocamera, lettore mp3, wap, navigatore satellitare. Oramai l’unica cosa che gli manca è la possibilità
di farci anche il caffè.
E in questo scenario multitecnologico, la Tivi che fa? Cerca di adattarsi, per come può, con risultati non del tutto apprezzabili.
Dicevamo prima che la televisione invecchia, vediamo perché: se pensiamo all’azione che fa, la Tivi riproduce le immagini
e i contenuti di un canale, noi col telecomando cambiamo di canale in canale, ma la nostra scelta rimane sempre limitata a
ciò che ci viene messo a disposizione.
Prendiamo invece un nuovo strumento, l’esempio per eccellenza: internet.
Su internet partiamo dalla nostra homepage, controlliamo la nostra posta e scriviamo a chi vogliamo, ci intratteniamo navigando nei siti preferiti, guardiamo solo quello che ci interessa, scartando tutto il resto, selezioniamo fra migliaia di voci su
Google quello che vogliamo sapere, chattiamo con gli amici su MSN, oppure ne troviamo di nuovi, e se non c’è quello che
vogliamo, possiamo crearlo, costruendo un sito tutto nostro.
Un fenomeno molto importante, del quale abbiamo già trattato velocemente nel capitolo precedente ( Le antenne ripetitrici ),
è la nascita di un nuovo modo di comunicare: il Podcast.
C’è chi si interroga, come l’Istituto Barlumen ( www.barlumen.com ) se il podcast può.
Ma può cosa? iniziamo a vedere di cosa si tratta, dato che moltissimi ancora non lo conoscono. Ideato dalla Apple per il
suo oramai stracitato iPod, il Podcast è un contenuto audio o video, ad esempio un programma, registrato e scaricabile
gratuitamente, per poterlo mettere sul nostro lettore mp3 e portarlo dove ci va. Come accennavamo prima riguardo internet in genere, questo strumento ci da la grande possibilità di avere una cosa che prima non ci era concessa: scegliere.
Oramai in podcast c’è tutto: le più grandi radio registrano i loro programmi e ce li mettono a disposizione, la gente ne
crea di nuovi e li regala al mondo. Non sottovalutiamo il fatto che all’interno non c’è pubblicità, e non siamo costretti ad
ascoltare la fine del programma che c’è prima del nostro preferito.
Questo nuovo modo di fare informazione ha il potere di accrescere il sapere di tutti, senza bisogno di pagare, con
l’attenzione, i contenuti, come facciamo con la televisione.
Sì, perché in cambio dei nostri programmi televisivi preferiti, senza accorgercene noi paghiamo
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un prezzo molto alto alla Tivi:
facciamo spazio nel nostro cervello a cose che non ci interessano, pubblicità e
annunci che noi non chiediamo, ma che ascoltiamo lo stesso. C’è che dice - Ma io non bado alla pubblicità.
Su di me non ha nessuna influenza-. Purtroppo questo non è vero.
Anche quando siamo distratti, o stiamo addirittura dormendo, le informazioni entrano lo stesso nel nostro cervello, e
si depositano senza che ce ne accorgiamo in angoli remoti, per saltare fuori quando meno ce l’aspettiamo. Volendo
fare un esempio esagerato, Haldus Huxley, in un suo libro di fantascienza molto famoso ( Il mondo nuovo ), racconta
che i bambini non imparano attraverso la scuola, ma attraverso l’ipnopedìa: delle voci registrate raccontano loro le cose
durante il sonno, e loro imparano senza accorgersene. Nel libro però, c’è un governo iper autoritario, che rende le persone tutte uguali attraverso questi sistemi, perché senza volerlo apprendono ogni concetto profondamente, come fossero
degli ordini.
Fortunatamente non siamo a questi livelli, ma la maniera in cui agisce la pubblicità per certi versi è molto simile, ci manda dei messaggini quasi impercettibili, e magari quando siamo davanti al prodotto al supermercato ci vengono in mente
le atmosfere, oppure lo slogan della pubblicità che noi non ricordavamo di ricordare, ed è una spinta in più a comperare.
Tornando a parlare di televisione, vediamo come cerca di non mollare la presa, e salta fuori come un funghetto nelle nostre
tasche, mascherata da telefonino.
Ecco la trovata migliore che ha avuto per ricordare a tutti noi che c’è. Pensiamo alla recentissima pubblicità di Tre, dove
Amedola fa sentire a tutta la spiaggia che lui non rinuncia alla televisione in spiaggia, e la porta sempre con se nello schermo
del telefonino!
La cosa sembra abbatanza assurda, dopo un anno di scuola o di lavoro, abbiamo davvero bisogno di guardare lo schermo
in vacanza, al posto di perdere il nostro sguardo fra i monti o sull’orizzonte del mare? Quando siamo in giro è bello e utile
guardaci intorno, perderci nei nostri schermini è come costruirsi una piccola gabbia. E lo dice uno che da ragazzino passava
tutti i viaggi in macchina con i genitori con il naso infilato nel game boy. La Tivi invecchia, ma come una anziana signora
cerca di mantenersi giovane, e crea mille giochini e trucchetti per apparire tale. Vediamoli insieme.
Primo trucco fra tutti, i servizi SMS. Le loro pubblicità ci sono sempre in mezzo ai programmi per ragazzi, oppure nelle
lente mattinate di Italia Uno, fra un telefilm degli anni ‘70 e una televendita di pentole. Questi servizi vendono suonerie per
cellulare, test dell’amore e oroscopi, il tutto al solo prezzo di un sms. Peccato che dopo ne arrivano altri, perché il servizio
è ad abbonamento ( viene scritto in basso piccolissimo su una riga che sfreccia fuori dallo schermo ) ma in pratica non
te lo dicono. E anche se per la legge è tutto a posto, penso che chi crea questi servizi dovrebbe farsi comunque un
esame di coscienza. I ragazzi spesso non badano agli avvisi, specie quando sono abbagliati da promesse eccezionali
( ad esempio 3 fantastiche suonerie in omaggio ). Poi però ne pagano le spese, perché il loro credito del cellulare si
assottiglia a loro insaputa. Proprio in questi giorni dei genitori hanno scoperto che i figli avevano dei grossi debiti
telefonici, dovuti agli abbonamenti per i servizi SMS.
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La falsa interattività con la Tivi
continua, con i concorsi promossi da Mtv. Sappiamo tutti come funzionano: “ Rispondi alla domanda sul sito e vinci un viaggio per te e la tua amica negli Studios!!!”. La domanda è: il sole è
giallo o blu? - e già qui le cose cominciano a puzzare...
Io enfatizzo, con un esempio irreale, ma la tecnica è proprio questa. Una volta andati sul sito rispondiamo alla semplicissima domanda e ci viene chiesta la mail, così potranno dirci se abbiamo vinto! E tutti fiduciosi mettiamo i nostri dati,
magari il nome e l’età, e non immaginiamo neanche di avere partecipato ad una enorme raccolta dati a nostra insaputa. Sì,
fanno questi quiz solo per ottenere delle informazioni da noi. Dato che oramai ci sono tante leggi che tutelano il consumatore e la sua privacy, il modo migliore è quello di fargli inserire spontaneamente i dati, con la promessa miraggio del viaggio.
Poi i nostri dati - quanti anni abbiamo, se siamo maschi o femmine, da dove scriviamo - verranno utilizzati per pubblicità,
magari via mail, oppure per sondaggi e statistiche, per sapere se saremo interessati al loro prossimo prodotto.
Continua l’illusione nei reality show, questo genere televisivo tanto discusso. Attraverso il nostro “voto” decidiamo chi prosegue e chi
perde, quali sono le sorti dei nostri giocatori di Campioni, o chi passerà la settimana nella capanna deserta dell’Isola dei famosi.
Anche qui la libera scelta è solo un miraggio, noi veniamo messi di fronte il tizio A o il tizio B, costretti ad abituarci alle loro
facce e a “scegliere” se fargli fare una cosa o l’altra ( ma le opzioni le decide la Tivi, non noi ). I reality si sono diffusi tantissimo negli ultimi anni, tanto che molto spesso nelle serata davanti la televisione incontriamo solo programmi di quel tipo.
Sono un modello di televisione che gioca sulle emozioni, per persone che nella vita non ne hanno abbastanza. Se la tua
giornata è piatta, vai a vedere cosa succede nella casa e avrai qualcosa a cui pensare, di cui parlare con le amiche.
Per definire bene la “vendita delle emozioni” che viene fatta nei reality, mi affido ad un aneddoto raccontato da Daniele Luttazzi,
durante una conferenza tenuta all’Università di Firenze che è ascoltabile in podcast sul suo sito ( www.danieleluttazzi.it ).
Lui racconta agli studenti che una volta stava guardando un programma condotto a Alda Deusanio, in cui ogni giorno c’era
un “dramma familiare” da risolvere in studio: in quella puntata c’era un ragazza che aveva sedotto un prete.
Luttazzi aveva però riconosciuto la ragazza, che era in realtà una attrice che tempo pima aveva lavorato in un suo programma.
Ad una persona che guardava il programma assieme a lui, aveva chiesto come facesse a guardare quella roba, dato che era
finto. Lei gli rispondeva che lo guardava perché le dava emozioni.
Allora lui le ha risposto che non le dava emozioni, ma surrogati di emozioni, finte. La vera emozione l’avrebbe avuta se
fosse scesa in strada e avesse sedotto un prete.
“Meno si è chiamati a essere protagonisti della propria libertà, più si è resi protagonisti di una vita di cartapesta, interamente funzionale agli interessi del mercato.”, questo è ciò che sostiene Luca Bagetto, parlando dei reality
durante la nostra intervista. Quindi attenti con i reality! Vivete la vita, non fatevela raccontare dallo schermo! Torniamo
alla pubblicità, e vediamo come lo stesso sistema della finta scelta viene oramai usato anche qui. È il caso odierno
di Acquarius, la nuova bevanda della CocaCola, una sorta di acqua profumata con vitamine. Per lanciare questo
prodotto, hanno trovato un espediente mai usato in pubblicità: Vota lo spot che
INTERATTIVITA e FINTA INTERATTIVITA
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andrà in onda! Ed hanno tappezzato le città con manifesti e messaggi televisivi che ti dicono di andare sul sito ( vedi
il caso di Mtv di cui parlavamo prima ) e votare lo spot che preferisci. Peccato che puoi scegliere fra A e B!
Capiamo quindi benissimo che è una scelta fasulla, perché siamo in un vincolo molto stretto.
Per portare un esempio di libera scelta, parliamo invece di Firefox, il browser internet gratuito che molti usano al posto di Internet Explorer o Safari. Essendo totalmente libero, hanno pensato che la cosa migliore da fare fosse far creare
direttamente alla gente gli spot! Poi hanno creato un sito che li raccoglie tutti, e la gente ha votato quelli che preferisce,
fra le decine create dalle altre persone. Una bella differenza rispetto Acquarius, no?
Questo ci fa riflettere su quanto la libertà di scelta sia importante, e che non dobbiamo farci abbagliare da chi ci promette
di essere noi i padroni, di avere in mano il potere schiacciando i tasti del telefonino o del telecomando. In televisione non
c’è spazio per la libertà.
Alcuni dicono che se non ti piace un programma, puoi sempre cambiare canale, ma questo non ci rende liberi, ci permette
solo di passare da una scatola ad un altra.
La vera libertà, è uscire dalla scatola.
INTERATTIVITA e FINTA INTERATTIVITA
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PIMP MY LIFE
In Italia Mtv si è diffusa a livello nazionale abbastanza di recente, da qualche anno. Prima la cultura giovanile, il mondo
delle tendenze, si divideva fra la moda, le riviste e quello che i vari canali televisivi proponevano al giovane pubblico.
I gruppi di ragazzi si sono sempre distinti fra di loro, ognuno con i suoi vestiti, ognuno con la sua parlata e i luoghi
di ritrovo, e ognuno con la sua musica. Oggi sembra invece che tutti i “generi giovanili” vengano guidati dalla grande
mamma Mtv, che impone gli stili e i gruppi attraverso i suoi programmi e le sue charts.
Dobbiamo ammettere che Mtv è da anni innovatrice in molti campi, ha sempre proposto novità in fatto di serie Tivi, cartoni animati, stile e contenuti dei suoi programmi. Insomma, un ragazzo non può trovare di meglio in televisione, niente
di più vicino ai suoi gusti. Il limite molto sottile che però si sta superando è che se è vero che una volta Mtv si affiancava
ai gusti dei ragazzi, adesso li fa.
Diamo un’occhiata alla programmazione di ogni giorno di Mtv: charts di video musicali, che racchiudono tutto il pop più
commerciale che ci sia, perché le case discografiche pagano e vogliono che i loro video vengano sparati mille volte al
giorno. Quindi non c’è più spazio per i video particolari, le novità underground che eppure una volta c’erano; tutto è stato
dirottato sui canali satellitari ( Mtv Hit e Brand New ).
In mezzo alle charts naviga qualche programmino contenitore, come TRL, che oramai è diventato assoluta tendenza: in ogni città
in cui si sposta, mandrie di ragazzi impazziti si affollano per vedere il cantante pop di turno che fa pubblicità al suo ultimo disco,
tutti con la speranza nel cuore di riuscire a salire sul palco accanto ai Vjs per salutare gli amici, o la mamma e il papà.
E nelle piazze spuntano striscioni, gruppi di ragazzine in lacrime e in attesa da ore, come ad un mega concerto. Ma il concerto non c’è, al massimo si canticchia il singolo.
Il vero cuore della programmazione è però nel pomeriggio, quando da dopo pranzo ci sorbiamo programmi come “Dismissed”, “Room Raiders”, “Date my mom”, “Pimp my wheels” e “MADE”.
Proprio quest’ultimo rappresenta la Mtv-philosophy: in ogni puntata un ragazzo o ragazza si mette nelle mani di Mtv, per
diventare una star, o un cantante, o un grande atleta.
Di solito scelgono sempre ragazzi non bellissimi, non particolarmente dotati, perché quello che ci vogliono trasmettere è
che tutti noi possiamo essere al loro posto, belli o brutti. E tutti dobbiamo desiderare di essere plasmati dalla nostra cara
televisione.
La realtà è, però, che non tutti siamo tagliati per stare su un palco, ed è normale che sia così, è giusto che sia così,
pensate cosa succederebbe in un paese dove tutti fanno gli attori o i cantanti. Si, ci sarebbe sempre da divertirsi, ma
chi fa’ girare tutto il resto delle cose?
Purtroppo l’essere famosi è un’idea che sta nascendo in tantissimi ragazzi. E non solo grazie ad Mtv. Pensiamo ai
programmi a molti cari, come “Amici” di Maria de Filippi. Viviamo le angosce e i successi di questi ragazzi che vogliono diventare ballerini a tutti i costi, e desideriamo anche noi di diventare come loro.
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Questo programma c’è già da
qualche anno: dove sono tutti i ragazzi che hanno partecipato? Su uno che resiste, gli altri scompaiono di nuovo, vengono dimenticati, dopo un anno di apparizioni, successi guidati, poster
su Cioè da appendere nelle camerette.
Ogni domenica possiamo vedere quelli che non ce l’hanno fatta, tutti insieme a Buona Domenica, perché dopo che
la Tivi ha investito su di loro, deve farceli vedere un pò in giro.
Pensate che hanno creato dei musical apposta, gli stessi padroni della televisione, per continuare a farli lavorare. Ma
allora a chi giova questo? Al mercato e al commercio, di sicuro: alimentare i sogni dei ragazzi ha fatto aprire tantissimi
negozi di danza, ad esempio, che una volta erano pochi, solo per gli sportivi appassionati. Oggi tutti i ragazzi vogliono la
maglietta o il pantalone DANZA, come i loro beniamini della Tivi.
Intanto aumentano quelli che provano ad entrare in scuole di danza, di teatro, quelli che vogliono fare gli artisti, quelli che
vogliono diventare divi. Ma in realtà non c’è bisogno di tutto questo intrattenimento, quindi possiamo immaginare che i
disoccupati aumentino. Ricordate qualcuno di quei film americani, in cui c’è la ragazza che dopo anni di danza e canto
decide di andare a conquistare Holliwood, e dopo anni di fallimenti finisce a fare la cameriera in un bar? Ecco, il rischio che
corriamo è proprio questo, possiamo solo sperare ci siano abbastanza bar e ristoranti.
Queste considerazioni possono sembrare dure a molti, ma vengono dal timore, dalla paura che la cultura che ci insegna la
Tivi possa farci vivere peggio, e non meglio come dice di fare, sospesi in un sogno di successo che non si può realizzare
per la maggior parte di noi.
Negli altri programmi di Mtv troviamo messaggi molto simili a quelli che abbiamo già visto. In “Pimp my Wheels”, ad esempio, i ragazzi affidano la loro moto o la loro macchina agli “esperti di Mtv”, che rendono i loro mezzi super equipaggiati, fino
all’eccesso (a cosa serve montare un mini frigo bar su un motorino?!?).
La cosa davvero strana è che da quando un programma così si è diffuso, ha preso piede fra i giovani anche la mania del
“Tuning”, ovvero pompare i propri mezzi per renderli più appariscenti. Ci sarà forse un legame fra le due cose?
Naturalmente dobbiamo spendere due parole anche per “Dismissed”, “Room Raiders” e “Date my mom”. Questi programmi sono responsabili di un cambiamento radicale nel modo di corteggiarsi fra i ragazzi.
Quando ero ragazzino io, in Tivi faceva furore “Colpo di Fulmine”, in cui Michelle Hunziker e Walter Nudo giravano per la città facendo incontrare ragazzi sconosciuti, fino al momento in cui, dopo mezz’oretta in un locale circondati dalle telecamere, i ragazzi
dovevano dire se era scoppiato il “Colpo di fulmine”. E noi ragazzini giocavamo così, e ci conoscevamo in questa maniera.
Adesso possiamo supporre che sia lo stesso. Quindi, se in “Dismissed” il gioco sta nel conoscere due partner nell’arco della giornata, per poi decidere quali dei due diventerà la propria fiamma, potrebbe sembrarci normale poter fare
altrettanto con due ragazze conosciute nella stessa sera, o può sembrarci normale doverci contendere un ragazzo
con la nostra amica cercando di essere più sexy di lei.
Ma quando si corteggia qualcuno, le cose non funzionano mai così, si sa.
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Proprio per questo motivo,
Daniela Brancati ha detto che: “...nessuno andrebbe mai a compiere atti sessuali
davanti ad un bambino, a meno che non sia un depravato; ma proprio un bambino assiste ad atti sessuali
in televisione molte molte volte al giorno. Il bambino capisce che dopo tot minuti dall’essersi conosciuti in un bar
è normale che due persone vadano a letto insieme. Ora, è normale che due persone vadano a letto insieme, non è
normale che lo facciano dopo due minuti, e non succede! Quindi se il modello è quello, quando il bambino sarà diventato adolescente, tenterà di mettere in atto quel modello, e non ci riuscirà, si sentirà ancora più inadeguato e insicuro di
quanto non siano stati tutti gli adolescenti alla sua età.”
Anche qui vediamo, quindi, che le differenze fra la vita in Tivi e la vita reale sono tante, e non sono facili da stravolgere,
perché nei rapporti fra amici, o fra un ragazzo e una ragazza, ci sono cose che non possono cambiare.
Come in “Room Raiders” il programma in cui la ragazza ispeziona la camera dei suoi tre pretendenti sconosciuti per scoprirne il carattere, e viceversa.
In questo programma sono tanti gli elementi che ci fanno pensare che sia tutto finto, specialmente perché le camere contengono quasi sempre le stesse cose, le ragazze hanno tutte qualche completino sexy per fare sghignazzare i ragazzi e i
maschietti hanno quasi sempre qualche videocasetta o rivista porno sotto il letto, che le ragazze guardano con disgusto.
A parte il dubbio che quelle cose vengano messe lì a posta, penso che se provaste a perquisire la camera della vostra amata, quello che otterreste sarebbe solo un sonoro ceffone.
Pensiamo ad un altro aspetto orribile che Mtv ha importato di recente non solo nel nostro Paese, ma in tutta Europa: il concetto di “Winner e Looser”.
Dobbiamo tenere presente che l’America, il paese nel quale è nato Mtv, ha basato la sua crescita sulla libera iniziativa personale, mentre noi in Europa abbiamo avuto un approccio diverso alle cose, forse più di collaborazione gli uni con gli altri.
Dai tempi del Far West invece, negli USA vige la regola del più forte, dello scalare la vetta, coi muscoli, gli artigli, e una pistola
nel cassetto.
Pe questo a loro viene così normale darsi del vincitore o del perdente.
Noi però non siamo così, e questo modello che arriva direttamente da oltreoceano può creare un pò di problemi, specie all’insicurezza dei ragazzi che crescono, e che a certe cose danno importanza, e molta.
In più questa brutta abitudine viene usata per unire chi è uguale, e mettere da parte chi è diverso.
Se sei anche tu “IN”, se sei al passo con la moda e ascolti la nostra musica, sei cool, sei un winner, ma se la pensi in
maniera diversa da noi, e se non hai la forza di esporre le tue idee, perché magari sei timido, o non hai le cose che hanno
tutti, perché magari non te le puoi permettere, allora sei un looser, un perdente, un emarginato.
Questa stupida moda può creare un sacco di guai, stiamo attenti a non cascarci.
Senza fare i buoni a tutti i costi, dobbiamo invece sostenere che siamo tutti Winners, perché siamo tutti diversi,
e tutti meritiamo riconoscimenti nelle cose in cui riusciamo meglio.
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Così, dalla divisione che fa Mtv
fra vincitori e perdenti, possiamo renderci conto anche di tutte le altre divisioni, o
meglio raggruppamenti, che crea fra i giovani.
Sì, perché attraverso i suoi programmi Mtv crea, con lo stampo, le nuove generazioni pop, rock, hip hop e metal.
Anche i più alternativi fra i giovani ragazzi, ascoltano tutti gli stessi gruppi, ovvero quelli che vedono su Mtv, vestono
alla stessa maniera e frequentano gli stessi posti.
Anche nel punk, nato come genere in contro tendenza da tutto, specie dal “sistema”, oramai è tutto standard, fuso nel
punk-rock californiano, dove basta un pò di matita nera attorno agli occhi a creare dei “veri alternativi”.
Il sabato pomeriggio le città si popolano di ragazzi che durante la settimana vestono normalmente, e che per l’uscita
pomeridiana del fine settimana si agghindano secondo gli usi del gruppo: così impermeabili di pelle nera e calze a rete per
i metallari, jeans strappati e borsa militare per i rockers, strisce colorate per i freakettoni e magliettine rosa molto glamour
per i ragazzi pop. Però indossiamo tutti l’ultimo modello Puma o Nike.
È sbagliato pensare che questo derivi dagli effetti della globalizzazione, parola che tanti usano ma attorno alla quale c’è
ancora tanta ignoranza. La globalizzazione ci da la possibilità di scambiare informazioni, ricevere prodotti di paese che prima non conoscevamo, ad esempio.
In questo caso invece l’unica cosa ad essere globale è l’effetto della televisione, che elimina tutte le differenze che ci sono
fra i giovani. Le differenze invece sono un aspetto positivo, perché conoscerle ci permette di creare cose sempre nuove. Se
invece siamo fatti tutti con uno stampino, diventiamo tutti uguali, come robot.
Ne è la prova il programma “dillo a Elvis” del pomeriggio di Mtv, in cui i ragazzi possono inviare SMS che vengono mandati
in onda assieme ai video musicali, scelti appunto dal Dj Elvis.
Se fate attenzione, tutti quelli che mandano un messaggino salutano Elvis, i compagni di classe o l’amica del cuore, e alla
fine scrivono sempre “W i Green Day”, o “Evanescence siete forti” o “Sempre Britney”, insomma, lodano i loro cantanti
preferiti. I nomi che girano sono sempre gli stessi, questo per colpa dell’omologazione di cui parlavamo prima.
Nella risposta ad una mia domanda, Luca Bagetto mette in luce una questione molto importante circa la nostra capacità di
renderci unici, e di non cadere negli standard creati dagli altri: “Sarebbe importante diffondere la fiducia che i giochi non
sono già sempre fatti da altri, e sempre sopra le nostre teste, ma che è possibile essere liberi e attivi, e cambiare le cose.
La complessità ci rende schiavi, perché ci costringe a stare in un luogo senza comprenderlo. E l’estrema schiavitù consiste nel convincersi che le nostre esistenze sono decise da meccanismi economici che sono al di là del nostro potere di
comprensione, di controllo e di decisione.” La diversità è una cosa importante, e tutti noi sentiamo il bisogno di sentirci unici.
Per questo motivo non dobbiamo cadere nella rete di chi ci vuole tutti uguali, e che ci spinge ad avere tutti gli stessi gusti e gli
stessi interessi. Scopriamo sempre cose nuove, cerchiamo e sperimentiamo, condividendo le nostre esperienze con
gli altri per crescere insieme.
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LA PUBBLICITA TI FA STAR BENE
È tanta, è bella, è affascinante: è la Pubblicità. Ma come tutte le donne intriganti, riserva tante sorprese, e
non sono tutte piacevoli.
Se negli altri capitoli abbiamo accennato a come funziona la pubblicità, adesso vedremo come ci parla, e con che
tecniche ci spinge a comperare, in maniera sempre più raffinata e silenziosa.
La pubblicità è l’arte di vendere. Quando siamo piccoli ci sembra solamente una cosa che serve a riempire le strade
con foto colorate, e in televisione diventa una amica, che incontriamo in mezzo ai nostri programmi preferiti, e impariamo a conoscerla e ad amarla, rivediamo i suoi protagonisti tante volte ogni giorno, impariamo le sue canzoncine, e
quando siamo con gli amichetti le cantiamo tutti insieme. A distanza di tanti anni tutti ricordiamo le sigle più simpatiche
della pubblicità.
Però al tempo stesso, ci dicono gli esperti, si abbassa la nostra capacità di mantenere l’attenzione sulle cose. Già, perché
essendoci abituati ai 15 secondi di spot che si rincorrono veloci, la nostra mente negli anni ha iniziato a scandire il tempo
da dedicare alle cose molto più velocemente, causando un sacco di problemi, ad esempio a scuola , dove i ragazzi devono essere in grado di mantenere la concentrazione per molte ore. Sembra quasi che il cervello chieda -”Quando arriva la
pubblicità?!?”Questo ci deve fare riflettere su quanto è potente questo mezzo, e che va trattato con delicatezza, non va preso sottogamba,
come una cosa che non ci influenza per niente. Perché se comperi le cose che hai in casa in questo momento, stai sicuro
che in moltissimi casi è grazie alla pubblicità che tu hai comperato quella marca, e non un’altra.
Ma come fa a vendere le cose?
All’inizio ( parliamo di tanti secoli fa ), la pubblicità rappresentava il prodotto e basta, non usava strane tecniche per convincerti, diceva semplicemente che cosa era il prodotto e dove lo trovavi.
Possiamo dire che funzionava come i cartelli stradali di oggi, forniva semplici informazioni.
Ma col passare del tempo, con l’aumento delle attività economiche, è nata anche la concorrenza, che ha fatto stare tutti
più stretti, come in una stanza affollata.
E allora la pubblicità è dovuta cambiare, ed è diventata come un megafono, per fare sentire la voce del suo padrone in
mezzo ad una massa enorme di altri padroni e altre pubblicità.
I prodotti hanno iniziato ad essere ricoperti di aggettivi, coccolati e illustrati da fotografie impeccabili, confezioni fantasiose e variopinte ( prima i prodotti venivano venduti sfusi ), in radio e in televisione le voci degli spot si sono fatte più
simpatiche, più affascinanti, più attrici.
E così un pacco di pasta ha smesso di essere solo un pacco di pasta, ma è diventato un mondo, che racchiude tutti
i sapori del mediterraneo, i raggi del sole e la saggezza dei secoli, il piacere di stare a tavola e, perché no, anche
un amico per conquistare. Per conquistare?!?
LA PUBBLICITA TI FA STAR BENE
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Si, perché oramai da troppo
tempo, tantissime pubblicità fanno presa sull’attrazione, sull’essere sexy. Dalla
lavatrice alle lasagne, tutti hanno utilizzato in pubblicità l’immagine di una bella ragazza, o l’allusione al sesso. Perché è l’amore che fa girare il mondo, e fa girare anche l’economia.
Un esempio per tutti, recentissimo e che tutti abbiamo in mente, l’ultima serie di spot Amica Chips.
Rocco Siffredi, famoso attore hard italiano ormai in pensione, gira per la sua villa piena di ragazze in costume, e distribuisce patatine alle sue numerose amiche. Cosa c’entra col prodotto?
“ La patatina tira.” Dice la pubblicità. Capito il giochino?
Dubito che offrendo patatine fritte in giro possiate crearvi un harem come quello del nostro protagonista, ma questo
esempio vi spiega perfettamente perché pubblicità e sesso vanno da sempre a braccetto.
Del caso Amica Chips aveva già parlato Daniela Brancati nel suo libro “Il pubblicitario è maschio ma la pubblicità è femmina”, facendo delle interessanti considerazioni sulla prima versione di questa campagna pubblicitaria, in cui Maria Teresa
Ruta mostrava la sua abbondante scollatura accanto alla solita frase “La patatina tira”. E di Daniela Brancati leggeremo
delle considerazioni sulla pubblicità attuale fra qualche riga.
Prima però finiamo la nostra panoramica sull’evoluzione dello scintillante mondo pubblicitario.
Tutti noi abbiamo sentito parlare, poco tempo fa, di un modo di reclamizzare i prodotti usato da tempo in America, ma nuovo
per il nostro paese: la pubblicità comparativa. Questo sistema si basa sul potere mettere a confronto il prodotto da pubblicizzare con quello uguale della concorrenza, comparandone, appunto, pregi e difetti. Col risultato di avere spot in cui si dice
“Compra questo, perché è meglio di quell’altro”. Prima questo non era permesso dalla legge, per tutelare i produttori, ma
forse man mano che la concorrenza diventa sempre di più, le armi da usare contro il nemico-concorrente devono diventare
più efficaci e spietate.
Oggi stiamo assistendo ad un nuovo cambiamento, e se è vero che la Pubblicità è nata vendendo il prodotto, creandogli un
mondo attorno, e poi insultando il concorrente, adesso l’imperativo è: un mondo di benessere per i clienti.
I nuovi spot vendono il prodotto, ma anche il piacere che proverai nel comperarlo, nell’indossarlo o nel mangiarlo, quanto
ti farà stare bene potere dire - Ce l’ho anche io!-.
Prendiamo, ad esempio, le tante pubblicità di prodotti con vitamine e fibre, che integrano le tue difese immunitarie e ti
ricaricano di energie.
Mettiamo da parte le considerazioni se questi prodotti sono efficaci o meno, e guardiamo come ci parlano. Alessia Marcuzzi, nello spot Activia, dice che prima si sentiva gonfia, ma anche stanca e provata, ma Actvia le ha ridato vitalità.
Facciamo attenzione a questo: uno yogurt che “stimola la tua regolarità” diventa invece un amico fidato che combatte
la tua depressione.
Actimel mette il casco a tutti quelli che lo usano, dal manager alla mamma col bambino, tutti stanchi e debilitati.
Ma è uno yogurt o una campagna sulla sicurezza stradale? Questo spot gioca sulle
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preoccupazioni che tanti provano, e sul fatto che ci sono sempre più persone stressate dai ritmi della vita. Non ti
dice che Actimel è un buono yogurt, ma che aumenta il tuo senso di sicurezza, per farti andare in giro a testa
alta, e non ingobbito sotto il peso dei tuoi pensieri.
Leggiamo cosa mi ha detto la Brancati durante la nostra intervista: “Penso però ci siano dei fenomeni a cui fare attenzione: viviamo in una società in cui il bisogno primario è la necessità di sicurezza, da quello che vedo, perché la vostra
generazione è in una condizione di precarietà totale, non solo lavorativa, ma anche affettiva.[...] I bisogni più importanti
che vedo emergere oggi sono quelli di tipo psicologico-relazionale. A questo bisogno, paradossalmente, risponde molto
bene la pubblicità, la quale non risponde più al bisogno “se hai sete bevi l’acqua”, ma risponde ad un bisogno di rassicurazione, “bella dentro, pulita fuori”, e questo per me è un dato importante.”
Troppo lavoro, troppi pensieri, troppi gli impegni da mantenere, in una società che ci chiede di essere sempre più compe-ti-ti-vi, agili e scattanti. Ed ecco che la pubblicità diventa la mamma che ci aspetta a casa quando torniamo dopo una
giornata pesante di lavoro, o dopo una brutta mattina a scuola, e ci dice “tranquillo, ci sono io, ti rassicuro e ti rafforzo, così
domani sarai ancora più forte, basta che tu comperi i miei prodotti”.
È stupefacente vedere in quanti frigoriferi sono comparse bottigliette di Actimel, Activia e simili, al posto dei vasetti di yogurt
che c’erano prima, solo che sono più piccole, e pensi che ti facciano stare meglio.
Questo nuovo modo di fare pubblicità ha ormai invaso tutti i campi, dalla macchina al McDonald, tutti ti promettono che ti
faranno stare bene.
Ma perché la pubblicità ha iniziato a parlarci così? Perché abbiamo bisogno di essere rincuorati dal teleschermo?
Forse è colpa del teleschermo stesso, e non tanto dello stress della vita moderna.
Facciamo un esempio per tutti.
Il TG di Canale 5 come ultima notizia parla di un incidente aereo (loro usano la parola “Disastro aereo” perché fa più paura)
successo nell’oceano indiano. Ci sono morti e ci sono feriti, e potrebbero aumentare.
Poi il giornalista con un grande sorriso ci saluta, e finisce il TG, mentre ancora noi pensiamo a quei poverini che sono morti
durante il volo.
Il film della prima serata, dopo Striscia la notizia, è “Boing 667, il terrore nel cielo!”.
Bhe, il sospeto che non sia un caso viene, eccome! Da quando ci sono i conflitti in medio oriente, sono comparsi i film sui
terroristi, nei periodi in cui c’è qualche terribile serial killer, ecco che ritornano i film sui mostri spietati. E poi? Buonanotte
a tutti! Certo che dopo abbiamo bisogno di sicurezze!
C’è qualcuno che è riuscito, con un programma radiofonico, ad esprimere molto bene l’angoscia che il mercato e il
mondo della pubblicità ci causano: sono Gaetano Kappa e Marco Drago, che hanno creato “Razione K”, in onda fino
a qualche tempo fa su RadioTre. Le puntate adesso sono ascoltabili sul sito:
http://www.radio.rai.it/radio3/razione_k/puntate.cfm.
LA PUBBLICITA TI FA STAR BENE
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Razione K parla di un mondo
post-guerra mondiale, dove gli ultimi sopravvissuti-zombi vivono rinchiusi in un
unico supermercato “Supermercato ACME, il supermercato alla fine del mondo!”.
Questo posto, in cui si svolgono tutte le puntate, rappresenta la società nella quale viviamo oggi.
Al suo interno, i sopravvissuti-zombi sono costretti a riempire i carrelli e comperare di tutto, ma soprattutto le grandi
offerte ACME, come “Carapax ACME”, una armatura rigida nella quale ripararsi durante i bomberdamenti che avvengono all’interno del supermercato stesso, o il “Paraocchi ACME” che permette di guardare solo le corsie del supermercato, per non distrarsi e pensare solo a comperare.
Attraverso questa favola a puntate, i due geniali protagonisti e ideatori del programma sono riusciti a mettere in luce tanti
aspetti preoccupanti della nostra società, in un programma che fonde comicità e critica, dando tanti spunti di riflessione.
E c’è davvero tanto da interrogarsi, su dove stiamo andando attraverso questi modelli di comunicazione e di commercio, perché se prima ci volevano vendere solo il prodotto, e ora ci vendono la nostra serenità, che cosa vorranno venderci fra un pò?
Questo è un quesito ancora aperto, e speriamo che la situazioni non peggiori.
Se ci impegnamo tutti a non sottostare ai “consigli per gli acquisti” che ci puliscono la coscienza e ci rassicurano, ma viviamo in tranquillità e sicurezza, nonostante la - lo posso dire?- Politica del Terrore che viene portata avanti silenziosamente
dalla Tivi e i suoi amici, allora anche i sistemi di vendita cambieranno, e magari si tornerà ad una pubblicità più genuina, che
ti inviti ad acquistare un prodotto perché buono, utile e fatto bene, e non perché comperarlo ci da sicurezza.
Stiamo quindi attenti agli spot, spesso così divertenti e nuovi, colorati e facili da ricordare. Non tutto è oro quel che luccica.
E la pubblicità, è noto, è ricoperta di brillantini scintillanti.
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I SEMAFORI TELEVISIVI
Negli anni la Tivi è cresciuta, e i suoi canali si sono moltiplicati di anno in anno. E i contenuti sono diventati
tantissimi e vari, ma molto spesso hanno creato qualche problema, con dei programmi non del tutto adatti al pubblico che li segue, per il linguaggio usato, o per le immagini che vengono presentate. Il problema si è posto soprattutto nei confronti dei bambini, che sono, come abbiamo già sottolineato tante volte, i più influenzabili spettatori, e al
tempo stesso quelli che guardano più televisione.
Per questo motivo le associazioni dei consumatori spesso si sono lamentate, ed hanno chiesto ai i canali televisivi di
controllare i propri contenuti.
RAI, Mediaset, Mtv, la7 ed ogni altra emittente si sono allora impegnate a creare i “semafori televisivi”, un buon modo secondo loro - di notificare allo spettatore che tipo di programma viene trasmesso e da chi può essere visto.
Quando il semaforo è Verde allora è un programma che possono vedere tutti. Quando invece il semaforo è giallo si parla
di programmi che i bambini possono vedere solo se hanno un adulto accanto, in grado di spiegargli le cose che non comprendono. Quando il semaforo è rosso, si tratta di programmi dedicati solo agli adulti, che i bambini non devono vedere.
In generale questa divisione è basata esclusivamente sulla quantità di violenza o di sesso che c’è in un programma o di un
film, ma come vedremo non serve praticamente a nulla.
Il caso più evidente è quello di Mtv, amica di tutti i ragazzi, che dice di prendere molto sul serio le fasce orarie e i contenuti
della sua programmazione: di tanto in tanto manda in onda uno spot in cui spiega come vengono distribuiti i programmi sulle
varie fasce orarie, e che c’è un garante per i minori a cui vanno segnalati i casi di contenuti scorretti negli orari protetti.
Mtv considera la fascia oraria più delicata quella che va da dopo pranzo fino all’orario prima di cena, ovvero dalle 14.00 circa
alle 19.00. Questa è totale ipocrisia, e loro lo sanno bene.
È vero che i ragazzi durante quelle ore sono davanti allo schermo, ma è vero anche che lo sono fino a molto più tardi.
E proprio sul canale giovane per eccellenza alle 8 e 30 cominciano le serie di cartoni animati giapponesi dedicati al pubblico “adulto”, ma che in realtà vengono mandate in onda a quell’ora proprio perché i più piccoli le possano vedere. Se non
le volessero fare vedere, se volessero davvero proteggere i bambini, le farebbero vedere a mezzanotte, almeno, tanto i
ragazzi del liceo sono comunque in piedi.
Ma sappiamo tutti benissimo che il gusto del proibito è un piacere per tutti, e se ci dicono - Non fare quella cosa! -, per
noi è una irresistibile tentazione.
Pensiamo poi ai programmi che popolano il pomeriggio di Mtv, di cui abbiamo parlato due capitoli fa, in “Pimp my life”.
Come abbiamo già detto, ci sono tantissimi elementi che non vanno bene per dei ragazzi in quei giochi a quiz amorosi,
perché sono creati su modelli che non rispecchiano la realtà. Però a Mtv sembra normalissimo farli vedere ai ragazzini delle scuole medie mentre fanno i compiti, o quelli delle elementari.
Ma non pensiamo che la Music Television sia l’unica a sgarrare, in quasi ogni canale
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ci sono programmi in fascia
protetta che i bambini non dovrebbero vedere. Siamo tutti appassionati, e dispiace
anche dirlo, ma i Simpson e i Griffin, serie animate di successo mondiale, non sono assolutamente adatti al
pubblico dei più piccoli.
Pensate infatti che, come South Park oggi, una volta i Simpson andavano in onda a mezzanotte, perché anche chi
fa’ televisione riconosceva che non erano adeguati ai bambini, troppo volgari, cinici e adulti, con molti riferimenti al
mondo del sesso e della violenza, che i bambini sembrano non percepire.
Ma il mercato non si ferma davanti a nessuno, e se un programma piace anche ai ragazzi, anche se non glielo si potrebbe fare vedere, viene messo subito dopo pranzo, perché più occhi guardano, più soldi arrivano. E chi se ne frega se
i nostri giovani diventeranno tanti Homer Simpson ottusi e rissosi, o delle piccole canaglie come Bart.
Tutti noi li conosciamo, e moltissimi -me compreso- li adorano, ma ci dobbiamo rendere conto che i personaggi di queste
due serie rappresentano dei modelli negativi, delle persone da non copiare, nei modi e nella parlata. Gli adulti molto spesso
se ne rendono conto, ma i bambini non hanno gli strumenti adatti per fare differenze, e imparano a parlare e comportarsi
come loro.
Mettiamo momentaneamente da parte Simpson e Griffin, e diamo un’occhiata al mondo del cartone in generale.
Da sempre, all’interno delle serie animate dei nostri personaggi preferiti c’è violenza. Pensiamo ai simpaticissimi Beep Beep
e Willy il coyote di Road Runner. Tutti noi conosciamo le puntate a memoria, perché negli anni le abbiamo viste e straviste
a qualsiasi orario.
È vero, il povero coyote non muore mai, ma in tutte le puntate è stato affettato, schiacciato, grigliato, esploso, avvelenato,
buttato giù dal burrone mille volte, sconfitto, frustrato, affamato, deriso e poi ancora sparato in orbita o preso a fucilate, e mai
una volta ha vinto sull’odioso struzzo.
A noi queste cose fanno morire dal ridere, perché la violenza fatta sugli altri è sempre divertente, ma se pensiamo che come
Road Runner ci sono tantissimi cartoni animati (tutti i Warner Bros, i Disney e gli Hanna e Barbera, fino alle recentissime serie
di Cartoon Network), possiamo farci un’idea di tutta la violenza a cui abbiamo assistito fin dalla più tenera età.
Per non parlare delle serie giapponesi, che oramai rappresentano un culto per tanti anche nel nostro paese, e che hanno abituato i nostri piccoli telespettatori agli scontri intergalattici e al sangue, ci basti pensare a due serie amatissime come L’uomo
Tigre e Ken il Gueriero, dove gli zampilli di sangue e il rumore di ossa rotte sembrano quasi la colonna sonora. Sono tutti di sicuro delle belle serie, con storie avvincenti ed emozionanti, ma non vanno bene per i bambini, che non hanno il senso del limite.
Ed è così che ogni tanto succedono disgrazie, come il bambino che si è buttato dalla finestra urlando “Sono un Power
Ranger!”. Tragedie a parte, la visione continua di violenza porta i nostri piccoli a non darle importanza nel tempo, a perdere
sensibilità. Un pò quello che poi continuano a fare i telegiornali con i grandi.
Perché se la violenza non ti fa più stare male, ti sembra che le cose vadano meglio di quanto in realtà non sia. Chi
fa televisione si è reso conto che è molto più facile spiattellare davanti agli occhi degli
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spettatori la violenza finché non
fa più alcun effetto, piuttosto che non farla vedere, come una sorta di paraocchi
al contrario. Ritorniamo ai Simpson, che sono un cartone animato che critica la televisione, e in merito alla
violenza in tv ha creato un esempio perfetto: Grattachecca e Fichetto.
Questi due personaggi rappresentano i protagonisti classici del cartone animato, possono essere Topolino e Gamba di
Legno, Tom & Jerry, Paperino e Cip e Ciop, etc...
Nelle gag che fanno ridere a crepapelle Bart e Lisa Simpson ci sono solo due elementi che li differenziano dai loro modelli
dei classici cartoni animati: il sangue e la morte.
Se infatti aggiungessimo il sangue ai cartoni animati classici ogni volta che uno picchia l’altro, o vedessimo morire i nostri
personaggi preferiti al posto di rialzarsi sempre, otterremo il peggiore dei film splatter.
E a questo ci hanno pensato i creatori di un nuovo cartone animato di grande successo: gli “Happy Tree Friends”(i Felici Amici
dell’Albero) che andava in onda, indovinate un pò? su Mtv.
Al momento in Italia sono visibili solo sul loro sito, e anche qui senza nessuna limitazione.
In questa seria a dire poco truculenta ci sono tenerissimi coniglietti e orsacchiotti, tutti dolci e con gli occhioni luccicanti, ma
a ciascuno di loro succedono le cose più indicibili, in un bagno di sangue e organi. Il cartone piace molto agli adulti perché è
paradossale, e fa il verso alle vecchie serie, ma se li vede un bambino piccolo, può anche convincersi che il suo piccolo Winnie
the Pooh di peluche seduto sul letto in realtà e pieno di frattaglie, ed è normalissimo sventrarlo per controllare.
Insomma, questo aspetto della Tivi, che può sembrare un pò morboso, e anche un pò deludente, perché tutti noi abbiamo i
nostri cartoons preferiti, in realtà fa parte di un preciso piano economico.
Per capirlo bene vi rimando al sito degli Psyop ( www.psyop.tv ).
Sono un gruppo di animatori americani bravissimi, che fanno spot per i più grandi clienti al mondo ( Coca Cola, Nike, Ford e
tantissimi altri ). Hanno una tecnica stupenda, e le loro animazioni fanno sognare realmente, per quanto sono belle. Ma attenzione! Nel loro sito, nella sezione “Propaganda”, ci sono una serie di animazioni in cui loro parlano del loro lavoro, e in “Psyop
Anthem”, attraverso un divertentissimo cartone animato ricco di colori e personaggi, ci dicono chiaramente che il loro lavoro è
plagiare la nostra mente, e che noi non possiamo fare altro che abboccare, davanti alle cose stupende che ci mettono davanti
gli occhi. Pensate solo che il loro marchio è una mano umana che dà da mangiare ad un pulcino con un contagocce, a voler
significare che loro sfamano la nostra sete di intrattenimento, e i pulcini siamo noi. Una cosa davvero sconvolgente è quanto
quel marchio assomigli a quello Nestlè, con la mamma uccello che da il verme da mangiare ai suoi piccoli...
Ritornando al problema della programmazione e degli orari, pensiamo anche ai telefilm, trasmessi a tutte le ore, e nei quali
troviamo sempre storie contorte e intrighi amorosi impossibili, polizia e pistole come se piovesse, e di recente anche autopsie e serial killer. Ma di questo parleremo nel prossimo capitolo, perché se i cartoni animati hanno un grande potere
sulla mente dei giovani, i telefilm sono forse i campioni assoluti nel fregare gli adolescenti.
Ma la Tivi, queste cose non le sa? Certo che le sa, ma per ragioni di soldi preferisce
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coprirsi dietro delle pallide
scuse, come i semafori per i programmi, oppure mettendo i programmi “caldi” un
pò più tardi nella giornata. Ma abbiamo visto molto bene che i ragazzi e anche i bambini guardano tutto quello
che vogliono, e spostare nel dopocena o in seconda serata qualcosa non risolve assolutamente nulla, anzi, fa stare in
piedi i piccoli che il giorno dopo devono andare a scuola, e che guardano di nascosto la Tivi in cameretta, anche quando
mamma e papà sono a dormire -io ero uno di quelli-.
Purtroppo anche la scusa del semaforo giallo, il “guardare solo con un adulto vicino”, non è abbastanza per proteggere i
ragazzi dai programmi sbagliati, perché molto spesso, troppo spesso, i genitori non hanno gli strumenti adatti per sapere
scegliere cose è bene e cosa è male in televisione. Per quanto passiamo tantissime ore ogni anno davanti la Tivi, lei ci conosce perfettamente, ma noi non la conosciamo mai a fondo, perché abbagliati da tutte le sue lucine colorate, non abbiamo
neanche il tempo di farci delle domande. Ma una volta che si comincia a guardare la televisione con occhio interrogativo, a
chiedersi perché ci fa vedere certe cose, si capiscono tante cose che non avremmo mai pensato.
Verde, giallo e rosso. Sembra quasi che funzionino al contrario: il rosso accende la nostra curiosità irrefrenabile, il giallo è un
piccolo piacere da vedere quando i parenti sono distratti, e il verde è un lasciapassare per tutto, perché se lo dice la Tivi, allora
è un buon programma, e non stiamo neanche a pensarci su. L’impressione che ho, è che qualcuno hai invertito i fili, e neanche
troppo accidentalemente.
Se pensiamo ad un semaforo stradale che non funziona, causa un sacco di problemi, incidenti e feriti. Ma i meccanici ci guadagnano. Guidate piano!
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Salutiamo gli amici e torniamo a casa prima, scappiamo dalla tavola se abbiamo mangiato troppo tardi, o
ci portiamo il piatto davanti lo schermo, impariamo a programmare videoregistratori, e spendiamo fior di quattrini
per loro: le serie-Tivi.
Questo tipo di programma, da sempre presente in televisione, colpisce un pò tutti, e a quanto pare non ci sono anticorpi che bastino. E non pensiamo che a subirne il fascino irresistibile siano solo i più giovani! Per serie-Tivi parliamo
anche e soprattutto di soap-opera, genere che appassiona milioni di signore e signorine di tutte le età, e sul quale tutti
ci facciamo grosse risate. Ma non ci fa altrettanto ridere se pensiamo che le nostre serie preferite non sono da meno.
Ma perché ci affezioniamo così tanto a questi programmi? Sicuramente perché ci assomigliano, oppure perché assomigliano alla vita che ci piacerebbe fare. Tutti noi avremmo voluto essere fichi come Fonzie di Happy Days o Dawson di
Dawson’s Creek, o misteriose come le tre sorelle di Streghe, o Buffy.
Ci siamo affezionati così tanto che molti di loro sono diventati attori famosissimi, che vediamo da così tanto tempo sui nostri
teleschermi da sembrarci familiari, come dei parenti.
Pensiamo a Friends, la serie-Tivi per eccellenza. Quante risate con questi simpatici ragazzi! E noi, a chi assomigliamo? Al
timido Ross o allo sciupafemmine Joy, siamo stralunate come Phoebe, o perfette e graziose come Rachael?
L’immedesimazione è la chiave del loro successo, per noi diventa come vivere un’altra vita per mezz’ora al giorno, racchiusi
nel corpo del nostro protagonista preferito. Ed è per questo motivo che poi ci capita durante la giornata di pensare se i nostri
affezionati riusciranno a superare il loro problema d’amore, o faranno pace col loro migliore amico.
Poi, fuori di casa, ne parliamo con i nostri conoscenti, ci aggiorniamo e ci raccontiamo gli avvenimenti del telefilm,come se
li avessimo vissuti noi stessi -...ti ricordi quella volta che...?-; così abbiamo un argomento di più in comune, qualcosa che ci
unisce, come la squadra per cui tenere.
I personaggi delle serie ci assomigliano così tanto perché vengono studiati per questo, in base al pubblico che si vuole
accalappiare. I produttori prima decidono che quel telefilm dovrà essere visto solo da giovani dai 12 ai 18 anni bianchi;
assoldano una schiera di sceneggiatori -quelli che scrivono i testi- e li fanno lavorare assieme a degli psicologi che conoscono i comportamenti dei ragazzi, per creare dei personaggi che siano il prototipo perfetto, lo Stereotipo, del giovane
bianco dai 12 ai 18 anni. Ma serve davvero tutto questo per creare qualcosa di divertente, che ci faccia passare solo una
mezz’ora in compagnia senza pensieri? No, per quello basterebbero degli sceneggiatori bravi, e la voglia di creare cose
divertenti e spensierate. Le serie-Tivi invece sono solo delle macchine per fare soldi, non hanno niente a che fare col
puro intrattenimento.
Tanto che per farci ridere non hanno bisogno di trovare sempre nuove battute divertenti. hanno trovato un sistema
irresistibile: le risate registrate! È capitato a tutti di metterci a ridere solo perché siamo in un gruppo di gente che
sta ridendo. Gli psicologi della Tivi lo hanno studiato, ed hanno scoperto che se ci
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mettono il suono delle risate in
un momento preciso della puntata, noi ridiamo, o almeno, sappiamo che dovevamo ridere. Questo serve anche ad attirare l’attenzione. Molto spesso quando guardiamo la televisione siamo
distratti, stiamo facendo altro. Le mamme a casa cucinano o stirano, e i figli fanno i compiti, mentre lo schermo è
acceso. Per catturare i loro occhi, fanno partire le risate. Il cervello allora deduce che sta succedendo qualcosa di
divertente, e sposta il suo interesse sulla televisione. Una tecnica simile viene utilizzata durante gli stacchi pubblicitari,
durante i quali alzano il volume per farceli guardare con più attenzione, anche se non ne abbiamo voglia.
Quali sono gli effetti collaterali di un modo come questo di fare televisione? Di sicuro ci assuefanno, cioè ci abituano a
vedere una puntata al giorno tutti i giorni, a costo di rinunciare ai nostri impegni. Ci sono addirittura serie-Tivi che, per
allungare il brodo e fare ancora più puntate, mettono all’inizio di ogni episodio un riassunto di quelli passati, e alla fine una
piccola anticipazione di quello che succederà nel prossimo. In questo modo hanno un doppio risultato: ci tengono con il
fiato sospeso fino fino al giorno dopo, e su una puntata che dura venti minuti, devono creare solo dieci-quindici minuti di
contenuti nuovi. Per non parlare poi delle puntate composte da spezzoni di vecchi episodi! Attraverso semplici espedienti,
ad esempio far ricordare ai protagonisti eventi passati, ci rifilano un sacco di sequenze già fatte, praticamente a costo zero.
Ma noi non battiamo ciglio, e le guardiamo col sorriso, perché per l’affetto che ormai proviamo per quei personaggi, è come
sentire parlare i nostri nonni di quando eravamo piccoli, un dolce tuffo nel passato.
È vero, abbiamo detto, che le serie colpiscono tutti, genitori e figli. E non solo perché ci creano dipendenza, ma anche perché provocano in noi stessi dei “buchi” emotivi.
Prendiamo l’esempio di una mamma che fa la casalinga, e non conduce una vita particolarmente varia. Ogni giorno segue
“Desperate HouseWives” la serie-Tivi che parla di intrighi e delitti in un piccola cittadina, con protagoniste donne della sua
età, quindi simili a lei.
Dobbiamo considerare che questo telefilm è fatto molto bene, i dialoghi sono ricchi e le scene molto avvincenti, perché
dietro ci sono tanti bravi registi, ma anche bravi sceneggiatori e tecnici, come se fosse un film hollywoodiano.
La nostra casalinga, presa dalle vicende misteriose e oscure che succedono in ogni puntata, nelle sue giornate un pò noiose potrebbe pensare che qualcosa di strano possa succedere anche dietro la porta del vicino, o che la dirimpettaia la spii.
Viene così a nascere dentro di lei il sospetto, come per le protagoniste della sua serie preferita. Oppure può avere effetti contrari, e
deprimersi perché la sua vita non è ricca come la serie-Tivi, perché non succedono avvenimenti importanti ogni giorno.
La realtà è sempre diversa dalla Tivi, lo abbiamo visto anche nel caso dei programmi per ragazzi nel capitolo “Pimp my Life”.
Facciamo invece un esempio attraverso un telefilm famosissimo fra i ragazzi, “Dawson’s Creek”.
Il giovane, biondo protagonista e il suo gruppo di amici trascorrono le loro giornate persi nelle angosce giovanili, la
passione li travolge e li fa soffrire, le loro amicizie si sciolgono e si fanno più forti ogni giorno.
Questa serie rappresenta il periodo critico di ogni ragazzo, l’adolescenza, e una schiera molto folta di psicologi
sono serviti per scrivere dei testi che catturassero i giovani in maniera vera.
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Gli attori protagonisti però non
sono più così giovani, ed avevano tutti almeno venticinque anni, quando hanno
girato la serie. Questo perché in America i ragazzi minorenni non possono lavorare per il cinema o la televisione in programmi che trattino di sesso, e, per quanto fosse molto velato e solo accennato, in Dawson’s Creek era
uno degli argomenti principali.
E bene, questa serie ha tenuto incollati allo schermo milioni di ragazzi dopo pranzo ogni giorno, che sapevano vita
morte e miracoli di tutti i personaggi. Al liceo io studiavo in una classe tutta al femminile, e il giorno dopo ogni puntata
c’erano dibattiti e dispute su quello che era successo.
Ma non erano solo queste le conseguenze! A distanza di tempo ho scoperto che questa serie causava un sacco di problemi emotivi, perché vedendo ogni giorno i protagonisti dibattersi fra i dilemmi esistenziali, diventava automatico sentire
le stesse frustrazioni nella vita di tutti i giorni, anche se non ce n’era nessun motivo.
Questo tipo di reazioni aumenta le insicurezze e le preoccupazioni, in persone che attraversano un periodo difficile come
è l’adolescenza.
Naturalmente io parlo attraverso esempi eccessivi, ma i rischi di cui abbiamo parlato sono reali, e molto spesso avvengono
dentro di noi a nostra insaputa, inconsciamente. La Tivi ha il grande potere di farci stare bene e divertirci, e allo stesso modo
può scuoterci.
Un altro aspetto importante di cui dobbiamo parlare è la divisione razziale che avviene in questi programmi.
Sembra infatti che le serie vengano fatte solo per famiglie bianche, o solo per famiglie nere.
Questo è sicuramente vero, perché in America, patria della maggior parte delle serie-Tivi, i bianchi e i neri sono le etnie più
diffuse. Quello che è difficile capire è il perché si vedono solo famiglie composte da bianchi, che al massimo hanno l’amico nero
che di tanto in tanto li va a trovare, e viceversa, naturalmente. Possiamo fare mille esempi in questo senso: “La Tata”, “Beverly Hills
90-210”, “Buffy”, “Seventh Heven” ( tutti bianchi ); o “Willie il principe di Bell Air”, “i Robinsons”, “8 sotto un tetto” ( tutti neri ).
Questo non avviene per caso, ma per accaparrarsi solo l’attenzione di determinate fasce della popolazione. “La Tata” per
esempio è maggiormente apprezzata dai bianchi abbastanza ricchi, perché rappresenta quel tipo di gente, come “Willie il
principe di Bell Air” è apprezzato dai neri benestanti; “Seventh Heven” viene seguito soprattutto da famiglie bianche cattoliche, o “Dharma e Greg” dai giovani adulti “un pò alternativi”.
Come possiamo osservare nei produttori di serie-Tivi non c’è nessuna voglia di mandare un messaggio di unione e di fratellanza fra le etnie, cosa invece che dovrebbe diventare un obbligo morale per tutti, visto che andiamo verso un mondo
in cui tutte le razze devono convivere in armonia le une con le altre.
E i messaggi distorti che ci arrivano osservando le serie non sono solo questi: ad esempio, in ogni serie-Tivi non vediamo mai qualcuno al lavoro, o preparare da mangiare. Le cose si materializzano pronte in cucina e i soldi per tutta
la famiglia non mancano mai, ma come fanno? Agli occhi di un bambino, questi fatti possono corrompere l’idea
della realtà che si crea, e possono contribuire al disagio.
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Un telefilm fuori dal coro in questo senso, che sta avendo molto successo a livello mondiale, è Scrubs, serie in
onda su Mtv che parla della vita in un ospedale, dove i protagonisti sono giovani dottori e infermiere di tutte
le razze, che lavorano collaborando gli uni con gli altri.
Di certo anche qui ci sono scelte dettate dal mercato, ma almeno gli spettatori ricevono un messaggio più costruttivo.
Possiamo solo sperare che aumentino i telefilm con messaggi positivi, dato che non possiamo assolutamente credere
che questo genere di programmi diminuisca.
Del resto, i programmi di intrattenimento non sono un male di per se, la televisione ha soprattutto questa funzione.
Per secoli l’uomo ha trovato formule di divertimento, ha raccontato storie, attraverso il teatro, e anche lì erano presenti
personaggi e drammi, vicende avvincenti e risvolti psicologici. Ma in nessun caso questi risultavano controproducenti o
dannosi per gli spettatori.
Quello che non va bene è creare delle macchine per soldi, dei programmi che tengono gli spettatori legati allo schermo attraverso
sistemi subdoli, come la creazione di telefilm basati sulla psicologia, che intrappolano gli spettatori in una rete che gli ruba tempo
e attenzione, e soldi, attraverso la vendita dei cofanetti delle puntate, delle magliette con i protagonisti, dei poster, etc..
L’unica cosa che noi spettatori possiamo fare è guardare le serie-Tivi con occhio critico. Sono sempre più belle, è vero, ma
se riusciamo a capire dov’è il trucco, possiamo goderci solo le cose positive e scartare il resto, sempre che qualcosa di
buono ci sia.
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TIVI, MI VUOI BENE O NO?
Nostra compagna di vita, molto e troppo spesso maestra di vita, tanto che alcuni illustri l’hanno definita “cattiva maestra”. Ma la Tivi, è buona o cattiva, o forse sarebbe meglio dire, lavora per noi o contro di noi?
Rispondere a questa domanda, specie dopo tutti gli elementi che abbiamo analizzato, sembra abbastanza facile, e
la risposta tutt’altro che positiva.
Ci fa crescere male, pensando solo al guadagno dei suoi padroni, e ci usa per ripetere i messaggi pubblicitari ai nostri
simili, sfrutta la voglia di interattività che ormai tutti abbiamo per farci cadere in servizi a trabocchetto che ci succhiano
i soldi a nostra insaputa.
E ancora ci vuole tutti simili, con programmi che tirano su i ragazzini con lo stampo, in modo da fargli comperare la stessa musica e gli stessi vestiti, avere le stesse esigenze. Sempre ai ragazzi crea non poche difficoltà, con pubblicità che ti
urlano venti volte al giorno che “la felicità è comprare!”. Dice di prendersi cura dei più piccoli, e poi gli rifila programmi e
cartoni animati ripieni di violenza, e serie-Tivi che minano la nostra serenità e ci causano dipendenza.
Riguardo questo problema, la dipendenza, è molto interessante il parere di Enrico Bellone, un fisico e scrittore italiano che ha tenuto
recentemente un interessantissimo programma radiofonico su Radio Due, “Lo specchio della mente”, ascoltabile in podcast.
All’interno di una puntata Bellone ha dimostrato come la Tivi genera, negli spettatori, una dipendenza forte tanto quanto
quella che generano le droghe chimiche. In media uno spettatore dedica alla televisione tre ore del suo tempo libero. La cosa
preoccupante che hanno osservato alcuni scienziati, è che durante le tre ore il nostro cervello lavora molto più lentamente,
come se andasse in dormiveglia.
Un altro fattore grave è che chi è abituato a vedere così tanta televisione, soffre quando ne vede di meno. Bellone conclude
dicendo che dobbiamo stare attenti, quindi, specialmente per i nostri bimbi, dato che guardano tantissima televisione, perché potrebbe intorpidire il loro cervello.
Vista così, la Tivi sembra proprio un mostro.
Ma la televisione, la Tivi, è solo uno schermo, uno strumento, che trasmette delle immagini, che possono essere buone e
costruttive, o inutili e dannose. Come nella vita, dove possiamo fare scelte giuste o sbagliate. Sta a noi sapere come muoverci, decidere cosa guardare chiedendoci - Ne vale la pena?- -Questo programma di cosa mi sta’ parlando?-. E ai più
piccoli, che sono sempre i più indifesi, è giusto dare una mano in questa scelta, facendogli capire che non tutto va bene,
e di certi programmi bisogna avere paura, come lo sconosciuto dal quale non dobbiamo accettare caramelle.
La Tivi ce ne offre a manciate ogni giorno, di caramelle, ma molte sono indigeste.
E se sembra impossibile scegliere, non ci preoccupiamo: con un pò di intuito e di buon senso diventerà facile capire cosa
va e cosa no, e col passare del tempo sapere trovare le cose giuste da vedere diventerà sempre più facile.
Nella realtà capire la televisione non è difficile, se smettiamo di ascoltarla. Facciamo Zapping, osserviamo le
immagini senza ascoltare le sue simpatiche musichette, concentriamoci sulle facce
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di chi ci vuole vendere le cose, e
su come ci parla, e impariamo a non cascarci, ricordiamoci che quello che guardiamo non è mai gratis, e che lo paghiamo con la nostra attenzione.
Quando finisce il programma che abbiamo visto, cambiamo canale ed evitiamo di sorbirci tutta la pubblicità per
sapere cosa ci sarà dopo, per poi scoprire che non ci interessa. La programmazione televisiva è come un fiume, un
morbido torrente sul quale è facile e dolce scivolare, lasciandosi trasportare dai programmi che corrono uno dietro
l’altro. Un torrente che però spegne il nostro cervello, e molto spesso sfocia in una palude.
Impariamo anche ad essere critici riguardo le cose che vediamo. Se una cosa non ci piace, non ci fa ridere l’ultima puntata di Zelig, ad esempio, evitiamo di guardarla solo perché abbiamo già visto le altre trecento e non vogliamo spezzare
la routine.
I tormentoni che ci fanno imparare ogni inverno rovinano la comicità, abbassando il livello del nostro divertimento. Certo,
chi fa Tivi ha, in questo modo, di meno da lavorare, ma abituiamoci a non ripeterli come pappagalli, se vogliamo che i
programmi ci offrano cose nuove, e non la solita zuppa riscaldata.
È giusto invece parlare dei programmi con gli amici e con i parenti, a casa con mamma e papà, capire insieme quali sono
le cose belle, e non stare davanti lo schermo in silenzio, subendo tutto quello che ci passa e non commentando. Parlarne
insieme è un modo per scoprire come funziona un programma, analizzarlo e comprenderlo, e al tempo stesso comprendere
anche se ci piace, o se lo guardiamo solo per pigrizia, perché non abbiamo di meglio da fare.
Quando parliamo con qualcuno anche se non lo conosciamo, riusciamo a comprendere che tipo di persona è, e che cosa
vuole da noi, anche se le sue intenzioni sono diverse dalle sue parole.
Questo perché abbiamo degli strumenti, sappiamo leggere le espressioni dei volti, sappiamo riconoscere il tono della voce.
Lo impariamo a casa e a scuola, fra gli amici, oppure parlando con i genitori.
Pensiamo ai programmi televisivi come persone, con una loro personalità e un loro carattere.
Quello che ci raccontano è quello che vediamo con gli occhi, in superficie, ma corrisponde solo alle parole. Perché, allora,
non siamo capaci di riconoscere le reali intenzioni di un programma, molto spesso?
Solo perché ci mancano gli strumenti, nessuno ci ha insegnato a leggere le espressioni della televisione, capire il tono in
cui ci parla.
Ma imparare è facile, basta un pò di attenzione e spirito critico, e poi saremo in grado di non cascare più nei suoi tranelli.
Come abbiamo detto all’inizio del capitolo, la televisione è uno strumento, e dobbiamo essere critici nei confronti dei
suoi programmi, non di tutto quello che viene trasmesso.
Per una Tivi migliore, più pulita, più divertente e costruttiva, bisognerebbe educare chi fa televisione.
Karl Popper era un grande osservatore della televisione, e, seppur molto anziano, aveva capito che per una televisione migliore bisognava avere della gente preparata per farla, dal conduttore
al regista, al produttore ( colui che investe i capitali per creare i programmi). Perché i tec-
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nici televisivi hanno una grande
responsabilità sulle spalle, da loro dipende buona parte dell’educazione e delle conoscenze di tutti noi. Come per un guidatore di autobus c’è bisogno di una patente, Popper aveva pensato ad una
patente per i tecnici televisivi.
Anche Daniela Brancati ha espresso un idea simile: “Se noi fossimo tutti in grado fin dalla primissima età di decifrare
quelli che sono i guasti possibili derivanti da una programmazione televisiva e/o pubblicitaria, che poi è la stessa cosa,
arrivati in posti di responsabilità, come può essere il direttore marketing di un programma o una campagna pubblicitaria, o il
direttore di una emittente televisiva, forse un minimo di responsabilità in più la potremmo anche sentire. Se non siamo neanche consapevoli di quello che può comportare la nostra azione, certo è un guaio. Voglio affrontare un secondo argomento.
Si parla di abolire gli ordini professionali, ed io sono abbastanza d’accordo. C’è però un punto delicato: ma come è possibile che per affrontare mestieri molto meno coinvolgenti e che implichino molta meno responsabilità di questi, chiunque
deve affrontare esami di stato e licenze, e invece per fare il programmatore televisivo non bisogna avere nessuna qualifica.
Questo è dannoso, o no?[...]non sò se una patente o no, che si cerchino delle formule. Insomma, se io voglio fare l’avvocato, che alla fin della fiera è un signore che deve applicare delle procedure, ed è un mestiere privato che coinvolge lui e
il cliente che lo ha scelto, bisogna superare in pratica un esame di stato, mentre per fare il direttore di una televisione non
deve affrontare nulla.”
Luca Bagetto esprime, in maniera tanto concisa quanto forte, la sua posizione riguardo questo grosso quesito:”Non sono i
media a corrompere la società. È la volontà di dominio non tenuta a freno.”
E allora tocca a noi spettatori chiedere una televisione più educata, a partire da chi la fa’, per non lasciarci sottomettere da
programmazioni sempre più scialbe e banali, che giocano a stupirci con mezzucci meschini, solo per non farci intravedere,
dietro le righe dello schermo, che tutto questo circo è sorretto dagli interessi di pochi. Di coloro, appunto, che ricercano il
dominio, dentro il quale non dobbiamo più permettere di farci mettere.
Il cambiamento è possibile solo reclamando i nostri diritti, e diventa, oramai, un dovere.
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INTERVISTE
DANIELA BRANCATI
È giornalista professionista, imprenditrice e dirigente d’azienda nel settore della comunicazione. Prima
donna direttore di un telegiornale nazionale, nel 1994 ha diretto il Tg3, e ancora prima il tg di Videomusic. Ha
creato e diretto anche una webtelevision, Videoportal.news. Attualmente è free lance, commentatrice, autrice di trasmissioni radiofoniche (la più recente “Tutta una vita” per Radiotre Rai, che prende il nome dal suo romanzo). Fra le
sue pubblicazioni numerosi saggi sui mass media, come La pubblicità è femmina ma il pubblicitario è maschio e Spot
a doppio taglio, Pubblicità comparativa e Oltre il tetto di cristallo. La sua biografia figura nell’Enciclopedia Garzanti
della televisione e nel Who’s who in Italy. È stata insignita dell’onorificenza di Commendatore della Repubblica Italiana.
Ha avuto numerosi premi, fra cui: Penne Pulite, il Premiolino come Giornalista del Mese, Mela d’Oro della Fondazione
Bellisario, Donna leader.
Un breve giudizio sulla attuale televisione “per i giovani” in Italia.
Innanzitutto, non mi sembra di vedere una televisione dedicata ai giovani, nel senso che se noi parliamo dei canali in
chiaro, che sono poi quelli accessibili a tutti attraverso il canone che và comunque pagato, o attraverso la pubblicità, mi
sembra che la televisione abbia una programmazione per anziani, poco acculturati, e molto bisognosi di evasione a buon
mercato; non vedo se non rarissime forme che possono essere di interesse per i giovani - per giovani intendo individuo
che siano fra i 18 e i 30 anni, 35 nell’accezione più attuale - dove immagino che la caratteristica principale di un giovane
sia la curiosità per il mondo che lo circonda, quello vicino e quello lontano, dove si ha necessità di indagine, non nel senso
di giornalismo di inchiesta, ma di indagine in generale, perché si può indagare sulle idee, sui concetti, sui fatti etc etc.
Ecco, di tutto questo io non vedo traccia nella televisione attuale, o meglio vedo delle tracce, vale a dire dei piccoli segnali non percepibili ad occhio nudo, e che non soddisfano sicuramente tutte queste curiosità di cui parlavo.
Se invece poi parliamo di “giovani” nell’accezione peggiore che si è andata delineando negli ultimi anni, cioè di “giovanilismo”, allora siamo strapieni, ma io non insulterei mai un giovane definendolo con quelle caratteristiche. Un giovane non
è un giovanile, è un giovane, appunto.
Allora il giovanilismo, che vuol dire vestirsi in un certo modo, parlare in modo gergale, la grande, grandissima velocità
dei montaggi e delle espressioni, che deriva soltanto dal sopperire col ritmo fasullo alla mancanza del ritmo vero, che è
quello dettato dall’interesse delle notizie, degli argomenti che vengono affrontati.
Ecco, considero questo una cosa ancora peggiore rispetto alla mancanza, perché si suggeriscono ai giovani dei modelli di gioventù che non corrispondono a quello che la gioventù è sempre stata e sempre sarà. Non è che i giovani
di oggi siano diversi da quelli della mia generazione o dagli altri giovani di generazioni precedenti. Sono diversi
nella parte apparente, nel vestirsi piuttosto che nel camminare o nel tipo di musica che si
INTERVISTA A DANIELA BRANCATI
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ascolta, ma le esigenze di una
giovane mente sono sempre le stesse esigenze, non vedo differenze di sentimenti; le incertezze, la necessità di essere rassicurati, di trovare un equilibrio, sono caratteristiche comuni a
tutte le persone, in tutte le epoche. Ciò che può cambiare è il leggero spostamento in avanti perché la vita dura di
più, quindi anche l’età giovane dura di più, ma in realtà il giovane è insicuro ieri come è insicuro oggi.
In questo ambito, è d’accordo con questa osservazione: mentre c’è la tendenza ad espandere il periodo “giovane” o,
come lei suggerisce, “giovanilistico”, è anche vero che stiamo assistendo ad una “adultizzazione” eccessiva dei giovanissimi?
No, io non penso ci sia una “adultizzazione” - per altro parola che la inviterei a non utilizzare perché orrenda -.
Io penso ci sia una precocizzazione da moltissimi studiata, psicologi sociali e non sociali, ed è la precocizzazione dei
bambini, un fenomeno molto grave e molto diffuso al quale bisogna stare molto attenti, che deriva prevalentemente dai
modelli televisivi e pubblicitari, ma non si può attribuire come è logico soltanto a quello.
Facciamo alcuni esempi: un tempo, anche per tutta la mia generazione, di certe cose davanti ai bambini non si parlava,
certe cose i bambini non dovevano vederle, etc etc. Era frutto del bigottismo? Questa è una domanda che può restare
aperta, di certo per contro possiamo osservare alcune cose: prima cosa, il fatto di non mettere mai limiti è considerato
da ogni psicologo degno di questo nome un fattore molto grave, perché inibisce la crescita, inquanto essa deve avvenire
all’interno di certi parametri, una cornice ben definita che gli adulti creano per il bambino stesso. Il fatto di non porre dei
limiti crea insicurezza e confusione, perché i limiti sono quella cosa con cui il bambino si misura per misurare anche la
propria forza, la propria capacità, come l’autorità paterna, l’autorità parentale o degli educatori, è qualcosa con cui ti devi
misurare. Quindi, io non reputo sia un bene la mancanza di limiti, e questo è un primo argomento.
Secondo discorso, il bambino, essendo tale, con la mente di un bambino, e che non ha avuto ancora la quantità di esperienze che gli consentono una crescita equilibrata, quindi ha la testa di un bambino, le emozioni di un bambino, i sentimenti di un bambino. Attraverso la televisione, viene a contatto con una serie di realtà in cui non sà distinguere quando
è finzione e quando è presa diretta, perché le immagini che corrono sullo schermo sono per lui sempre uguali, che sia
un telefilm dove c’è qualcuno che si uccide per droga, o che sia un telegiornale dove c’è qualcuno che uccide qualcun’altro per un pezzo di territorio, per il bambino è tutto uguale, è difficile per lui distinguere realtà e finzione, spesso è
difficile anche per gli adulti.
Terzo, attraverso la televisione non passano solo situazioni equivoche come queste, ma passano anche situazioni di
fronte le quali noi non faremmo mai trovare nostro figlio. Facciamo un esempio: chi di noi farebbe l’amore nudo su
un letto, in modo palese, davanti il proprio figlio? Pochi depravati,
per il resto nessuno, giusto?
INTERVISTA A DANIELA BRANCATI
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chi di noi si drogherebbe
davanti il proprio figlio? Non di certo il drogato della domenica, al massimo il
tossico all’ultimo stadio. Chi di noi farebbe assistere il proprio figlio a una scena di violenza terribile nella
reltà? Nessuno, perché cercheremmo di allontanare il nostro figlio, nipote, etc etc.
Invece il bambino assiste spesso da solo -ma anche in compagnia la situazione non cambia- a scene di questo tipo
molte molte volte al giorno; quindi un bambino, che ancora ha la testa di un bambino, forma le proprie esperienze
nel mondo virtuale che è quello della televisione, e non nel mondo reale, come invece è giusto che si formi, perché
l’esperienza nel mondo reale ci porta a contatto con tutta una serie di relazioni con la comunità dei pari, con quella
degli adulti, l’esperienza reale ha, cioè,un altro tipo di valore. Nell’esperienza virtuale il bambino assorbe certi modelli
che vengono indotti da comportamenti che vengono ripetuti molte molte molte volte, assorbe questi modelli senza
poter confrontarli con nessuno. Ripeto, nessuno andrebbe mai a compiere atti sessuali davanti ad un bambino, a meno
che non sia un depravato; ma proprio un bambino assiste ad atti sessuali in televisione molte molte volte al giorno. il
bambino capisce che dopo tot minuti dall’essersi conosciuti in un bar è normale che due persone vadano a letto insieme.
Ora, è normale che due persone vadano a letto insieme, non è normale che lo facciano dopo due minuti, e non succede!
Quindi se il modello è quello, quando il bambino sarà diventato adolescente, tenterà di mettere in atto quel modello, e non
ci riuscirà, si sentirà ancora più inadeguato e insicuro di quanto non siano stati tutti gli adolescenti alla sua età.
Ora, io stò estremizzando un concetto per esser chiara e spero di esserlo, ma è molto grave questo tipo di cose che accade. E’ grave e dico io, è gratuito, perché il fatto di dare rappresentazione continua di sesso violenza e droga in televisione
non aggiunge nulla, anzi toglie qualcosa, non aggiunge perché la realtà è molto più complessa, e per riuscire ad affrontare
la realtà che molti bambini, e purtroppo un sempre maggior numero di adulti, non è in grado di compiere.
In ambito di bambini e messaggi che la televisione gli invia, vorrei sottoporle questo quesito: Dal pensiero mchluaniano
diamo ormai per assunto che “il media è il messaggio”. Possiamo oggi aggiungere che “il media crea messaggi”, nel senso che genera spettatori che veicolano e moltiplicano il messaggio ai loro simili?
Non so se sia giusto porre la domanda in questi termini. il fatto che il media è il messaggio in parte è vero, nel senso
che è vero che il media modifica il messaggio, quindi anche il contenuto del messaggio. Pensiamo al telefonino. Io non
posso col telefonino scrivere l’equivalente di una lettera, perché sarebbe un affare talmente lungo e complicato che
non varrebbe la pena. Certamente una e-mail però me lo consente; certamente una trasmissione radiofonica mi consente una soglia dell’attenzione che sarà intorno al minuto, certamente una trasmissione televisiva mi consente una
soglia dell’attenzione che sarà intorno a due, tre minuti; quindi è vero che l’interazione fra il mezzo è il messaggio
è fortissima, e credo che lo sarà sempre di più via via che i media saranno specializzati. Il media che consente
l’interattività consente di utilizzare un linguaggio diverso, perché permette di otte-
INTERVISTA A DANIELA BRANCATI
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nere una reazione immediata,
quindi è sempre vero secondo me che il mezzo determina anche gran parte del
contenuto del messaggio. È anche vero che sempre più si diffonde quello che viene chiamato marketing
virale, nel senso che un “opinion leader” farà poi da moltiplicatore rispetto alla quantità di persone che sono
influenzate da questa persona.
Ora però, la cosa su cui vorrei richiamare l’attenzione è l’interattività. Perché ci sono dei mezzi che, non solo nella
prassi giovanile, ma anche nella prassi generale, hanno tanto preso piede, pensiamo all’e-mail: ha caratteristiche
straordinarie perché come le lettere di tipo tradizionale permette una narrazione a tutto tondo, come la lettera consente di comunicare emozioni, sentimenti, sorprese, affetto, etc. etc. Al contrario della lettera tradizionale ha la stessa
velocità del massmedia, anzi forse perfino di più, consente una interazione immediata, e consente - e questo in parte
ne fa un mezzo affine al massmedia - la circolarità del messaggio in tempo reale. Se io ho una lista di persone con cui
corrispondo posso mandare a tutti lo stesso messaggio e far circolare la risposta a questo messaggio di nuovo a tutti
i membri della lista. Questo indubbiamente crea una nuova forma di comunicazione, non tanto la mail in se, ma questo tipo di utilizzo che è quello che sempre più si è affermato: è ormai difficile ricevere una mail da indirizzario chiuso, si
ricevono mail in un indirizzario di 30,50,100 persone. Questo tipo di uso è una cosa che sta a metà fra la comunicazione
interpersonale e la comunicazione di massa, ed è la comunicazione di gruppo: in realtà si sedimenta così una comunicazione riuscendo ad arrivare solo ai diretti interessati, laddove gli strumenti di comunicazione di massa agiscono in modo
abbastanza indiscriminato, anche quando sono molto specifici.
Proprio a proposito di interattività, parliamo di spot da votare e SMS da inviare, rispondere alle domande sul sito del prodotto nella speranza di vincere. Come si può definire questa azione di marketing, una enorme raccolta dati sugli utenti, o il
tentativo di instaurare una finta “democrazia televisiva”?
La prima, cioè un’enorme raccolta dati sugli utenti, da questi autorizzata, quindi superando tutti i vincoli della privacy, dei
diritti etc etc, che consente una seria di altre azioni di fidelizzazione intensa che rappresentano per i direttori marketing
una vera manna dal cielo.
Per tutelare i ragazzi nell’ambito della comunicazione fornendogli più strumenti, lei pensa che, in linea col pensiero di
Popper, sarebbe efficace insegnare “teoria dei media” nelle scuole, fin dalla più tenera età?
Soprattutto ai docenti. Nel senso che i docenti sono oggi mediamente impreparati a questo, molto più impreparati dei
bambini, i quali, per essere nati in una società come questa, hanno anche intuitivamente un certo tipo di armi.
Io ho visto, con grande interesse, che le lezioni che ho fatto sono cominciate
INTERVISTA A DANIELA BRANCATI
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talvolta con un certo scetticismo,
e sono andate avanti con un numero studenti che era più alto che all’inizio,
con gente che mi ha ringraziata e si è tenuta in corrispondenza, segnalandomi altri libri e notizie sul tema,
proprio perché decriptare il mondo dei media e il suo funzionamento è importante.
Quello che è del tutto da evitare è demonizzare i media. Fermo restando che da giornalista penso tutto il male
possibile di come il giornalismo viene praticato oggi, ma non per colpa dei giornalisti, bensì proprio perché il sistema
è in una condizione imperante in questo momento. Io penso che non si tratta di demonizzare, ma di capire, inquanto
capire ci può aiutare a reagire e dunque a far capire ai programmatori televisivi le nostre esigenze, che sono di tipo
differente. La tivù deve essere educativa? No, la tivù deve essere educata,che è un concetto diverso, perché la tivù può
essere anche semplicemente di intrattenimento, ma non proporre modelli sbagliati, che è un altra cosa.
Se noi fossimo tutti in grado fin dalla primissima età di decifrare quelli che sono i guasti possibili derivanti da una programmazione televisiva e/o pubblicitaria, che poi è la stessa cosa, arrivati in posti di responsabilità, come può essere
il direttore marketing di un programma o una campagna pubblicitaria, o il direttore di una emittente televisiva, forse un
minimo di responsabilità in più la potremmo anche sentire. Se non siamo neanche consapevoli di quello che può comportare la nostra azione, certo è un guaio. Voglio affrontare un secondo argomento.
Si parla di abolire gli ordini professionali, ed io sono abbastanza d’accordo. C’è però un punto delicato: ma come è possibile che per affrontare mestieri molto meno coinvolgenti e che implichino molta meno responsabilità di questi, chiunque
deve affrontare esami di stato e licenze, e invece per fare il programmatore televisivo non bisogna avere nessuna qualifica.
Questo è dannoso, o no?
la “patente” per i tecnici dei media di cui Popper era un accanito sostenitore...
ma, non so se una patente o no, che si cerchino delle formule. Insomma, se io voglio fare l’avvocato, che alla fin della fiera
è un signore che deve applicare delle procedure, ed è un mestiere privato che coinvolge lui e il cliente che lo ha scelto,
bisogna superare in pratica un esame di stato, mentre per fare il direttore di una televisione non deve affrontare nulla.
C’è la volontà di non dare al pubblico di massa gli strumenti per capire i media, o questa mancanza è dovuta da semplice
noncuranza?
Mha, la questione è complessa e non credo si possa affrontare con una semplice risposta. io credo che da un lato ci
siano delle cose studiate a tavolino. Il ragionamento della tivù commerciale -lei ha letto i miei libri?quali?Sì, “la pubblicità e femmina ma il pubblicitario è maschio “ e “Spot a doppio taglio”...
Nel primo è ampiamente descritta la nascita della televisione commerciale, una grande intuizione, un disegno
preordinato, nella quale però non c’è nulla che rispetti lo spettatore, perché lo spettatore è una testa, e sono
tante quelle che necessitano alla pubblicità, quindi viene considerato solo in
INTERVISTA A DANIELA BRANCATI
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quanto consumatore. Allora, è
un modello, dal punto di vista imprenditoriale ineccepibile, tant’è che ha portato
alla fortuna una serie di persone in tutto il mondo. Ma dal punto di vista delle esigenze dello spettatore io
sostengo che un servizio pubblico non è male che ci sia, purché sostenga un modello differente di televisione.
Quante volte a me capita di andare a teatro, o ad un buon concerto, e di pensare “Ma perché io, seppur pago
il canone, non posso vedere queste cose in televisione?”. Non è possibile, perché dal punto di vista del modello
imprenditoriale si è ormai affermato il modello che il mondo dei media vive con la pubblicità; dunque se la pubblicità è
sovrana non c’è altro da discutere. Questo per quanto riguarda la parte più generale. Poi c’è di sicuro un altro aspetto,
tutto italiano, per cui da parte di chi gestisce le infrastrutture pubbliche c’è sempre stata la volontà di controllo, mai nell’interesse del pubblico, vediamo ad esempio i partiti politici. Dal punto di vista del cittadino, il rapporto con chi gestisce
la cosa pubblica è sempre stato vissuto come sottomissione nei confronti di chi ha il potere per grazia divina, cosa che
vediamo ancora quando andiamo ad uno sportello pubblico, dove chi lo gestisce sembra lì per farti un piacere, e non per
un tuo diritto, per il quale per altro quello viene anche pagato.
allo stesso modo la televisione italiana è stata così gestita per quaranta anni, non per diritto al cittadino, ma per diritto
concesso.
In merito al rapporto che il media ha con lo spettatore le chiedo: lo “ pseudo protagonismo” che oggi impera nei programmi dedicati ai giovanissimi, che ripercussioni sociologiche può portare, o sta portando?
Beh, di questo io penso tutto il male possibile, veramente tutto il male possibile. Io credo che il fatto di aver dato l’illusione del protagonismo, in realtà faccia diventare l’individuo oggetto dello scherno altrui. È un pò quello che succedeva un
tempo con lo scemo del villaggio, o con l’ubriacone che andava all’osteria: certo che era il centro dell’attenzione, ma solo
perché altri potessero ridere di lui. Questo finto protagonismo ha avuto grandi responsabilità: la prima è che come tutti
gli strumenti, lo accennavo prima, la mediazione professionale in questo campo sia fondamentale, quindi non è vero che
la presa diretta sul pubblico, il “ti metto il microfono davanti, dì ciò che vuoi” sia un fatto positivo rispetto alla programmazione; secondo me la cosa positiva sarebbe un’assunzione di responsabilità da parte di chi deve fare il programma,
nel mettere a disposizione tutta la sua capacità professionale, cosa che qui non c’è; in quanto l’unica professionalità in
questo sistema sta nell’ inquadrare le facce e i caratteri più interessanti.
Tanto è vero che quando non trovano questi caratteri, inventano; trovano degli attori e gli dicono -“Tu fai finta di essere il marito tradito”, “tu fai finta di essere la figlia ribelle”-. Quindi, quando parlo di “finto protagonismo”, lo considero
un fenomeno a tutto tondo. Dall’altro lato, mancando la mediazione professionale, viene a mancare anche un filtro,
per cui dal caso particolare si va al caso generale, che è importante. Quando faccio una indagine giornalistica,
è logico che io non posso intervistare milioni di persone, però andrò ad intervistare
INTERVISTA A DANIELA BRANCATI
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chi mi sembrerà più rappresentativo del fenomeno generale. In televisione, l’operazione che viene fatta è l’opposto, ovvero io attingo al singolo caso in modo che tutto sfugga all’attenzione in modo programmatico.
Guardando un certo tipo di trasmissione, io non è che percepisco la condizione “padre-figlio” o “madre-figlia”,
ma percepisco la condizione di quel singolo caso; che viene per altro giudicato da persone non preparate. Questa
rappresentazione dei casi singoli non può essere relegata ai casi singoli, perché è un grave errore, ci vuole qualcuno
che riconduca ad una unità.
Sempre a proposito di personalità: nella moltitudine delle comunicazioni dedicate ai teenagers, nasce in alcuni la necessità di creare un proprio canale comunicativo (ad esempio la street art, i graffiti). Fenomeno costruttivo o ghettizzazione?
Da un lato la tentazione dei giovani a creare gruppo e separarsi dal mondo degli adulti c’è sempre stata, e non mi pare
una novità. La novità è nelle modalità di espressione, a partire dal mezzo spray che prima non esisteva.
Io credo che esercitarsi ad esprimersi con certe modalità sia sempre un fenomeno costruttivo. Pensiamo per esempio alla
grande stagione dei centri sociali, dalla quale sono usciti grandi registi e grandi attori teatrali. Certo la selezione in qualche
modo deve avvenire, se ci fossero più luoghi in cui queste sperimentazioni potessero esserci, anche la sperimentazione
potrebbe darci qualcosa in più.
Le pongo una domanda che tocca argomenti che ha già accennato rispondendomi precedentemente: È ancora ammissibile la definizione della televisione come “specchio della società”, o i nuovi media la stanno relegando ad essere uno
“specchietto per allodole sociali”?
Beh sì, sicuramente la seconda.
La “società del bisogno indotto” può arrivare a saturarsi?
Certo, non siamo più da molto tempo, per nostra fortuna, una società del bisogno primario. Siamo senz’altro un società
del bisogno indotto in che senso: avendo la base della sopravvivenza garantita, ci sono una serie di bisogni che vengo
indotti: pensiamo ai bisogni di un giovane, per esempio quello non solo di lavorare, ma anche di trovare un lavoro che
gli piaccia, un tempo questa necessità non c’ era, se uno era fortunatissimo e veniva da una famiglia che lo poteva
sostenere, riusciva anche a scegliere, senno faceva quello che gli capitava. Da questo punto di vista non so quanto
si possa distinguere fra bisogni indotti oppure no, perché ciò che induce un bisogno inizialmente secondario
è il benessere, ed sempre augurabile che il benessere ci sia, in quanto tornare
INTERVISTA A DANIELA BRANCATI
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indietro non è mai produttivo.
Penso però ci siano dei fenomeni a cui fare attenzione: viviamo in una società
in cui il bisogno primario è la necessità di sicurezza, da quello che vedo, perché la vostra generazione è in
una condizione di precarietà totale, non solo lavorativa, ma anche affettiva: ragazzi che riescono a costruirsi un
rapporto stabile a trantacinque anni, quando per la mia generazione non eri più un ragazzo, mentre oggi vieni considerato tale, fatto che reputo stravagante, anche perché per le aziende a quarant’anni vieni reputato vecchio. Anziché
soffermarmi sui bisogni tipo il nuovo telefonino, il nuovo computer, la nuova marca, che personalmente considero
sciocchezze, nel senso che è chiaro che le aziende hanno la necessità di indurre sempre nuovi bisogni, già dagli anni
‘50. I bisogni più importanti che vedo emergere oggi sono quelli di tipo psicologico-relazionale. A questo bisogno, paradossalmente, risponde molto bene la pubblicità, la quale nono risponde più al bisogno “se hai sete bevi l’acqua”, ma
risponde ad un bisogno di rassicurazione, “bella dentro, pulita fuori”, e questo per me è un dato importante.
Restando in ambito di pubblicità di acqua, stamane arrivando a Roma ho trovato su Leggo un trafiletto (“Lo spot abbassa
il volume”) che citava la pubblicità Rocchetta in merito ad una protesta del ministro Gentiloni, secondo il quale bisogna trovare un livello sonoro oltre il quale lo spot non deve andare. Io mi trovo perfettamente d’accordo, alche le chiedo: a parte
l’ espediente tecnico dell’impennata di volume per attirare l’ attenzione, potrebbe essere riconducibile ad una italianità, il
modo di fare comunicazione “ad alta voce”?
Beh, prendiamo ad esempio la pubblicità inglese , che non ha bisogno di alzare il volume perché si nota, nonostante
essere diretta e spesso aggressiva; mentre le pubblicità italiana si basa sulla storiella, sullo sketch.In oltre c’è un altro problema, che è l’affollamento pubblicitario, che è IL problema, che percepiamo in televisione, ma anche in strada e su molti
giornali. Ci sono certi inserti con alcuni quotidiani che io non compero, li pago in quanto obbligatori, ma li lascio direttamente all’edicola perché non è umano che io debba passare quindici pagine di pubblicità prima di trovare un articolo.
Non mi interessa, voglio essere trattata non come un consumatore, ma come un lettore. Per questo l’affollamento è un
grande problema. E’ ovvio che più tu sei in una grande folla di persone, più devi urlare per farti sentire, ma questo penso
che sia legata più allo stile che non al volume, seppur sia di sicuro eccessivo.
Un’ultima domanda: è oggi ipotizzabile una televisione slegata dalle meccaniche economiche, che punti ad una comunicazione costruttiva?
Una televisione no, è ipotizzabile un radicale e speriamo futuro cambiamento del sistema televisivo, in quanto una
persona, una azienda, un individuo non ce la fa, ci vuole un sistema che favorisca una comunicazione costruttiva, altrimenti non è possibile.•
INTERVISTA A DANIELA BRANCATI
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LUCA BAGETTO
Luca Bagetto è nato nel 1963 a Torino, dove si è laureato nel 1988 in Filosofia teoretica sotto la guida di
Gianni Vattimo, con una tesi sulla teologia di Dietrich Bonhoeffer. Si è addottorato in Estetica nel 1996 all’Università di Bologna. Ha studiato presso il Philosophisches Seminar di Heidelberg. Nel 2000 ha conseguito l’idoneità
in Filosofia teoretica e dallo stesso anno è professore associato presso la Facoltà di Musicologia dell’Università di
Pavia (Cremona).Fra le sue ultime pubblicazioni: La figura della parola. Visione e comunicazione nella Fenomenologia dello spirito, Storia della rappresentazione, La possibilità dell’altro. La filosofia politica della scuola torinese. Ha
collaborato come opinionista per il programma Razione K, di Kappa e Drago, i quali lo definiscono “il filosofo pop che
dispensa pillole di saggezza direttamente dagli scaffali, sforzandosi di colmare l’assenza di senso che si cela dietro ogni
atto di compravendita.”
C’è la volontà di non dare al pubblico di massa gli strumenti per capire i media, o questa mancanza è dovuta da semplice
noncuranza?
No, su questo – come su altro – bisogna puntare sulla libertà individuale: ciascuno è chiamato a esercitare la propria libertà e a liberarsi dalle catene. La conoscenza è questa possibilità di libertà. È la possibilità di fare ingresso nel mondo per
comprenderne i meccanismi. E liberarsi così dall’oppressione nella quale gl’interessi dominanti vogliono mantenerci.
In linea col pensiero di Popper, sarebbe efficace insegnare “teoria dei media” nelle scuole, fin dalla più tenera età?
Sarebbe efficace insegnare lo spirito critico, cioè la filosofia. Insegnare a comprendere la complessità del mondo. Insegnare a orientarsi, a capire dove ci si trova, dov’è il centro e dove la periferia. Sarebbe importante diffondere la fiducia
che i giochi non sono già sempre fatti da altri, e sempre sopra le nostre teste, ma che è possibile essere liberi e attivi, e
cambiare le cose. La complessità ci rende schiavi, perché ci costringe a stare in un luogo senza comprenderlo. E l’estrema schiavitù consiste nel convincersi che le nostre esistenze sono decise da meccanismi economici che sono al di là
del nostro potere di comprensione, di controllo e di decisione. L’unica forza che può opporsi allo strapotere delle grandi
imprese economiche, delle grandi multinazionali, è la fiducia di poter agire con libertà nello spazio comune. Questa fiducia è la politica, come ce la racconta la filosofia . Se perdiamo questa fiducia nella politica, che cosa ci salverà dagli
interessi delle grandi multinazionali?
Lo “pseudoprotagonismo” che oggi impera nei programmi giovanili, che ripercussioni sociologiche può portare, o sta
portando?
INTERVISTA A LUCA BAGETTO
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Il problema dei reality è che, pur introducendo il tema molto importante del
rapporto tra realtà e rappresentazione, non hanno né gli strumenti né l’interesse per tematizzarlo. L’intera
iniziativa dei reality non è altro che una variazione sul tema del virtuale, dell’immaginazione di una vita che vuole
vivere sempre altrove, che si chiama fuori da ogni confronto con la realtà effettiva del nostro essere, da ogni decisione autentica. In una società col mito dell’adolescenza, cioè della possibilità sempre risorgente e mai realizzata, il
reality è l’immaginazione fittizia di un protagonismo che nella realtà vera è sempre più conculcato. Meno si è chiamati
a essere protagonisti della propria libertà, più si è resi protagonisti di una vita di cartapesta, interamente funzionale agli
interessi del mercato.
È oggi ipotizzabile una televisione slegata dalle meccaniche economiche, che punti ad una comunicazione costruttiva?
Sì, è la televisione del servizio pubblico. Che è altra cosa dal servizio partitico.
Nella moltitudine delle comunicazioni dedicate ai teenagers, nasce in alcuni la necessità di creare un proprio canale comunicativo (ad esempio la street art, i graffiti). Fenomeno costruttivo o ghettizzazione?
Baudrillard negli anni ’70 aveva individuato nei graffiti sui muri e nella street art l’unica possibile espressione che si
sottraesse ai codici comunicativi controllati dal sistema. Perché non era possibile, secondo lui, una riappropriazione dei
mezzi di produzione dei segni, come invece aveva teorizzato Enzensberger. Non ci si poteva riappropriare dei mezzi di
produzione dei segni, dal basso. Bisognava uscire dai codici, che sono sempre dominanti e dispotici. Io ho più fiducia di
Baudrillard nella possibilità di usare i codici culturali senza esserne schiavi, e di modificarli. È ancora una volta una questione di fiducia nella libertà, forse quella che si chiama la libertà di spirito, la parresìa. Non c’è solo la strada, l’invettiva
e il graffito, per esprimersi liberamente. Gli adolescenti lo sanno, e le vie della politica del futuro passeranno dai nuovi
canali comunicativi.
La “società del bisogno indotto” può arrivare a saturarsi?
Il dominio dell’economico è senza fondo e senza limiti. È il dominio dell’informe.
È ancora ammissibile la definizione della televisione come “specchio della società”, o i nuovi media la stanno
relegando ad essere uno “specchietto per allodole sociali”?
INTERVISTA A LUCA BAGETTO
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Non sono i media a corrompere la società. È la volontà di dominio non tenuta a freno.
Spot da votare e SMS da inviare, rispondere alle domande sul sito del prodotto nella speranza di vincere. Come
si può definire questa azione di marketing, una enorme raccolta dati sugli utenti, o il tentativo di instaurare una finta
“democrazia televisiva”?
Come dicevo, a differenza di Baudrillard e di Foucault la possibilità di rispondere ai messaggi dei media,e in qualche
modo di interagire con essi, non mi sembra una farsa ipocrita. Può essere una prima, embrionale, educazione alla
partecipazione attiva.•
INTERVISTA A LUCA BAGETTO
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BIBLIO, AUDIO E WEBGRAFIA
Daniela Brancati, “Il pubblicitario è maschio ma la pubblicità è femmina”
edizione Sperling & Kupfer, 2002, Milano
Daniela Brancati, “Spot a doppio taglio”
edizione Franco Angeli/Le Comete, 2005, Milano
Marshal McLuhan, “La sposa meccanica”
edizione Sugarco Edizioni, 1996, Milano
Karl Popper, a cura di Giancarlo Bosetti, “Cattiva Maestra televisione”
edizione Marsilio, 2002, Venezia
di Kappa e Drago - Istituto Barlumen, “Razione K”
http://www.radio.rai.it/radio3/razione_k/puntate.cfm
Rai Radiotre, 2002/2005, Milano
di Kappa e Drago - Istituto Barlumen, “Podcast Barlumen”
http://podcast.barlumen.com/
2006, Milano
di Daniele Luttazzi, “Daniele Luttazzi Podcast”
http://www.danieleluttazzi.it/?q=flexilist/1/361
2005, Firenze
di Enrico Bellone, “Lo specchio della mente”
Radio due podcast, puntata 16 di 20
http://www.radio.rai.it/radio2/alleotto/specchiodellamente/
Rai Radiodue, 2006, Roma
http://www.psyop.tv/main.php
BIBLIO, AUDIO E WEBGRAFIA
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UN RINGRAZIAMENTO SPECIALE A:
Cì, per il costante aiuto, l’amore e l’infinita pazienza; la professoressa Melli, per i consigli; Daniela Brancati e Luca
Bagetto, perché senza di loro le mie idee non avrebbero preso forma; la NABA, per avermi fornito gli strumenti con
i quali oggi lavoro; i miei genitori e tutti i parenti, per avermi fornito gli strumenti per potere fare della mia vita ciò che
voglio; gli amici e coinquilini, per il costante confronto di idee e tutti i bei momenti; Milano, perché il suo grigiore porta
alla riflessione; l’Italia, perché è un paese dove si guarda troppa Tivi; la Tivi, perché credo che sia ancora possibile
cambiarla; il lavoro, perché ti fa gustare i risultati; la nullafacenza, che è così gustosa; i giovanissimi, perché forse loro
ci riusciranno; gli anziani, perché è grazie a loro se ci riusciranno; le cose sbagliate, perché mi danno qualcosa da non
sopportare; le idee giuste, perché ce n’è sempre bisogno; gli incontri casuali e la collaborazione fra la gente; a Uillis; ai
nemici, perché ce ne siano sempre meno; i computer, perché ancora non ci parlano; i lettori, perché se sono arrivati fino
a qui...; i tram che passano in tempo, gli stampatori disponibili, la pubblicità, perché mi disgusta molto spesso; i programmi domenicali, perché non ne vedo uno da secoli; la radio, perché ti lascia gli occhi liberi; la musica e il canto, perché non
parlano solo alle orecchie; i biglietti dei mezzi pluriobliterati; i biglietti dei treni; gli scompartimenti vuoti e quelli pieni; le
mille facce che vedo ogni giorno senza saperne il nome; i sorrisi che vorrei vedere; grazie al male, che mi fa capire quanto
sto bene; grazie alla guerra, perché ci spoglia di quel pò di umanità che ci resta; grazie alla Natura, perché tutto ritornerà
sotto il suo controllo, prima o poi; le giornate più belle, gli incontri più imbarazzanti; grazie a me, che qualche soddisfazione me la dò, grazie alla scuola dell’obbligo, perché in mezzo a tanta inutilità qualcosa rimane; grazie a tutti i professori
che ho incontrato nella mia vita, anche i supplenti; grazie alle cose che non si possono insegnare; grazie all’opensource,
perché ci renderà tutti migliori; grazie al capitalismo, perché qualcosa da voler demolire ci vuole; grazie alle cose che non
si possono comprare; tutti i registi del mondo; tutti gli artisti del mondo; grazie alle utopie; alle diotrie, nella speranza che
non mi abbandonino; grazie al caffè; alle strade affollate; ai passeggeri che scendono; grazie alle moltitudini, anche se
ancora insieme non arriviamo a farne uno; di nuovo grazie ai lettori, perché se sono arrivati fino qui sono troppo buoni;
grazie alle pareti azzurre, ai riflessi del sole sull’acqua; ai disegni fatti male mentre siamo al telefono; ai colleghi, per lo
scambio di conoscenze; grazie al freesbee; grazie a tutti i giochi che si possono fare; grazie ai libri che ho letto; grazie
alle notizie sentite a metà; grazie ai funghi; alle casse di legno del vino; grazie a Zazà, grazie al diritto d’autore, quando
non ci sarà più; alla libera condivisione del sapere, anche se adesso cercano di chiamarla “pirateria”, grazie a Don
Paolo; al locale; ai posti mai visti, perché mi danno qualcosa da sognare, e ai posti conosciuti, perché in ognuno c’è
un pezzettino di me; grazie alla bicicletta; grazie alle espressioni schifate; grazie ai ringraziamenti inutili, grazie al
divertimento, grazie all’impegno, grazie ai cappelli; grazie alle cravatte, ma solo quelle finte, grazie a questa tesi,
che mi rimarrà come il ricordo che conclude quattro anni stupendi.
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