L'ANONIMO DEL SUBLIME Il caso ha voluto che del trattato Del sublime (Περὶ Ὕψους), uno degli scritti più rilevanti della critica antica, non ci sia pervenuto il nome dell’autore: esso infatti risulta attribuito a "Dionisio o Longino", a dimostrazione del fatto che già nel X secolo, epoca alla quale risale il codice più antico che ci ha restituito il trattato (il Parisinus Graecus 2036), si era persa la memoria dell'autore. Il trattato è stato di recente assegnato ad Ermagora (A. Rostagni) o a Teone (I. Lana), retori del I secolo d.C., ma i nomi più ricorrenti sono quelli di Dionigi di Alicarnasso e Cassio Longino, eminenti retori di età imperiale, ragion per cui, talvolta, l'autore viene indicato come Pseudo-Longino. Tuttavia tutte queste attribuzioni sono per varie ragioni insostenibili, e le ultime due in particolare, perché Dionigi era su posizioni inconciliabili con quelle espresse nel trattato, mentre per Longino la difficoltà è di carattere cronologico: infatti nell'opera è ravvisabile un chiaro intento polemico nei confronti di Cecilio di Calatte, di indirizzo apollodoreo ed atticista (1), autore anch'egli di un trattato Del sublime, vissuto verso la fine del I secolo a.C.; e poiché Cassio Longino visse nel III secolo d.C., è difficile pensare ad una polemica a distanza di due secoli. Chiunque egli fosse, l’anonimo autore, che al contrario di Cecilio era teodoreo e di indirizzo asiano (1), deve essere vissuto a Roma nella prima metà del I sec. d.C., come si deduce dalla dedica a Postumio Terenziano ed anche dal riferimento finale alla crisi dell’eloquenza, caratteristico di questo periodo. Jean Lecomte du Nouÿ (1842-1923), Demostene che si esercita sulla spiaggia Il trattato, che ci è conservato per circa due terzi, si propone di indicare le strade che conducono al sublime, definito come «l'eco di una grande anima», μεγαλοφροσύνης ἀπήχημα: memorabile definizione, che già di per sé esclude che alla sublimità si possa pervenire con i soli mezzi della tecnica. L'Anonimo ritiene non solo che per un'anima elevata e nobile sia possibile infondersi completamente in un'opera d'arte, ma anche che la letteratura sia in grado di modellare l'anima del fruitore: una concezione, come si vede, dinamica della fruizione estetica, che si distanzia nettamente dalla concezione statica del bello. Scrive l'Anonimo: «il Sublime trascina gli ascoltatori non alla persuasione, ma all'estasi: perché ciò che è meraviglioso s'accompagna sempre a un senso di smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque ascoltatore.» (Del Sublime cap. 1; trad.: G. Guidorizzi) Perfettamente coerenti con questa concezione i suoi giudizi sugli autori del passato: «Certamente, Apollonio nelle Argonautiche è poeta impeccabile, e così è felicissimo Teocrito nelle Bucoliche, tranne pochi carmi trascurabili; ma dunque, vorresti essere Omero o Apollonio? Ebbene? Eratostene nell'Erigone - poemetto in tutto irreprensibile - forse è maggior poeta di Archiloco, che si porta dietro molte cose grezze di quello spirito divino difficile da sottomettere ad una regola? Nella lirica sceglieresti di essere Bacchilide o Pindaro, e nella tragedia Ione di Chio o Sofocle, per Zeus? Poiché gli uni sono infallibili e, nella raffinatezza, totalmente calligrafici, mentre Pindaro e Sofocle certe volte bruciano di fervore, ma spesso si spengono senza motivo e cadono inaspettatamente. Eppure nessuno sano di mente darebbe in cambio una sola tragedia, l'Edipo re, con tutti i drammi insieme di Ione. » (Del Sublime cap. 33) L'originalità e la sicurezza dei giudizi estetici dell'Anonimo emergono chiaramente anche dal fatto di indicare, come esempio perfetto di sublimità, la celebre Ode II di Saffo ("Pari agli dèi mi sembra..."). Le fonti del sublime sono per l'autore 5: - l’altezza del pensiero - il pathos violento ed entusiastico - l’impiego delle figure retoriche - l’espressione nobile - la "compositione dignitosa ed elevata". Mentre le prime due fonti sono frutto di doti innate, e, quindi, come sosterrà anche Kant, non si possono imparare, le altre tre si conquistano attraverso lo studio e l'apprendimento della tecnica. Il sublime si presenta quindi come una combinazione di genio innato e studio dei precetti tecnici, ma nel privilegiare il primo rispetto ai secondi l'Anonimo si contrappone nettamente alle posizioni espresse da Aristotele nella Poetica, riallacciandosi piuttosto alla concezione platonica dell'arte come θεία μανία ed anticipando posizioni che saranno proprie dell'estetica romantica. (1) ASIANESIMO ED ATTICISMO, ANALOGIA E ANOMALIA, APOLLODOREI E TEODOREI Nei secoli III-I a.C. si delineano in campo retorico-stilistico due movimenti distinti, l'asianesimo e l'atticismo. Per quanto paradossale possa sembrare, entrambi hanno come punto di riferimento la figura di Lisia (V sec. a.C.). L'asianesimo nacque all'inizio dell'ellenismo (III a.C.) per opera di Egesia di Magnesia in Africa, prendendo appunto come modello lo stile di Lisia (denso, schematico, non indulgente a costruzioni artificiose). Nei due secoli successivi si venne però a creare un ribaltamento totale all'interno dell'asianesimo (anche per il fatto che fu adottato in prevalenza dai retori dell'Asia Minore, che introdussero nel dialetto attico termini ionici): si venne a creare uno stile opposto al precedente, ricercato, pieno di ornamenti retorici, ampolloso, "bombastico". Noi intendiamo per asianesimo questo stile, di cui peraltro esistono due varianti: quella esemplificata dal nipote di Seneca, Lucano, pienamente aderente ai canoni appena descritti, e quella rappresentata dallo stile di Seneca stesso, basato sull'utilizzo di frasi brevi e ad effetto e su una sintassi disarticolata (il cosiddetto asianesimo imperiale). Essi, pur così diversi, hanno in comune la ricerca del pathos e dell'effetto, ossia il fatto di far leva sull'emotività. Frattanto (I a.C.) si venne a creare una nuova corrente di retorica basata su Lisia, ossia sulla stringatezza della frase e sull'essenzialità del costrutto. Questa corrente di retorica è detta atticismo, e la sua caratteristica principale è quella di far leva sulla razionalità. Per assurdo, l'atticismo nacque a Roma, capitale della ricerca di un nuovo indirizzo letterario, e si diffuse subito nel mondo greco. Il suo massimo rappresentante è Giulio Cesare. Peraltro, bisogna ricordare che in Grecia per "atticismo" s'intende un fenomeno alquanto diverso, di tipo strettamente linguistico, consistente nell'adozione di un lessico attico puro, non inquinato da forme dialettali come la koinè, modellato sui grandi "classici" come Tucidide e Lisia; il massimo rappresentante di questo indirizzo purista è Luciano di Samòsata (II sec. d.C.). E' bene ricordare che lo stile di Cicerone non appartiene a nessuna di queste due correnti: esso è infatti detto rodiese (dal nome di Apollonio Molone di Rodi, maestro di Cicerone, che ne fu il fondatore), e si trova a metà strada tra asianesimo ed atticismo a livello di costruzione, ma non a livello cronologico. Lo stile rodiese infatti nacque nel II a.C. per mitigare gli eccessi dell'asianesimo di prima maniera, quando l'atticismo non era ancora nato. Nel I secolo a.C. si precisarono a questo riguardo due posizioni opposte: la prima fece capo al retore Apollodoro di Pergamo, la seconda a Teodoro di Gàdara, vissuto nella generazione successiva: • Apollodoro concepisce la retorica come una scienza esatta, dotata di canoni ben precisi. In campo linguistico Apollodoro è un seguace dell’analogia, teoria secondo la quale l'origine del linguaggio è convenzionale (deriva cioè dal nòmos) ed evolve secondo delle regole precise. • Teodoro invece concepisce la retorica come un'arte, una capacità insita nell'uomo, il quale può comporre la propria opera a seconda del proprio gusto personale. Scopo essenziale è suscitare pathos, emozione. I teodorei fanno ampio ricorso alla fantasia, intesa come forza irrazionale che possiede l'anima e che esce dai canoni del logos. In campo linguistico Teodoro è un seguace dell’anomalia, teoria che postula che il linguaggio sia un prodotto di natura (physis) ed evolva secondo l'uso dei parlanti. Sintetizzando, nel I secolo a.C. si crearono due filoni retorici ben distinti e contrapposti tra loro: • quello degli apollodorei-atticisti-analogisti (orazione impostata secondo uno schema rigido e prestabilito, stile stringato ed asciutto, convinzione che la lingua segua delle regole, rifiuto della lingua corrente, rifiuto di parole nuove e di hapax); • quello dei teodorei-asiani-anomalisti (orazione come prodotto d'arte, non soggetta a schemi e regole, obbediente solo alle leggi della fantasia, convinzione che il linguaggio evolva secondo l’uso dei parlanti).